In un interessante articolo Marc
Saxter, Direttore del Friedrich Ebert
Stiftung India Office, sezione indiana della più antica fondazione politica
tedesca[1],
si chiede quali valori siano
effettivamente difesi, e da chi,
nella resistenza che da molte parti si chiama contro il populismo di destra. In
quello che, per la fonte appare come l’inizio di una variazione di rotta
tardivo, ma indispensabile, della socialdemocrazia tedesca, il punto proposto è
che il dibattito si svolge intorno alle “questioni morali e di identità” perché
si sta aprendo una spaccatura che attraversa
gruppi della classe media. Nella forma di indignate difese[2] di
pratiche linguistiche opposte, in una sorta di guerra di classe culturale, ed
ha gli strumenti e la voglia per interagire con essa.
Non è un caso che la discussione sulle questioni
materiali retroceda sullo sfondo di un’aspra contesa sul ‘politicamente
corretto’ che sembra prioritaria.
Da una parte dello scontro abbiamo quei ceti sensibili agli stili
di vita che in questi ultimi anni sono stati propagandati e si sono affermati
come vincenti, moderni, attraenti e fonte di carisma, glamour, inserimento
sociale e prestigio: il cosmopolitismo,
l’apertura, la diversità. Valori che guadagnano centralità nel contesto di
un narcisistico ripiegamento su di sé e sui propri bisogni. Si tratta di figure
impegnate in una giornaliera e spietata lotta per la visibilità, il rispetto ed
il successo personale.
Dall’altra chi non tiene il passo, e richiede per questo più
protezione, ma pretende anche il riconoscimento e rivendica il diritto di
appartenere ad una comunità. Si tratta, in questo caso, della parte centrale
della classe media tradizionale, che finisce per rigettare i valori dei
‘vincenti’ e diventa sensibile al fascino di una società più omogenea, più
calda e rassicurante. Una società nella quale sono reintegrati valori ormai
persi della solidarietà e del senso del dovere[3].
L’identificazione fisiognomica dei due gruppi è moderni vs conservatori o egoisti vs responsabili, secondo ci si identifichi
nella prima o nella seconda coppia si sceglie il campo.
La questione è, secondo l’autore, che la seconda
pressione tende ad essere portata da diversi strati sociali rispetto alla prima,
e reagisce agli effetti dell’agenda neoliberale, aspirando in sostanza a chiusure
delle frontiere[4].
Se questo è il quadro, secondo Saxter non può stupire
che i populisti di destra, con la loro abituale spregiudicatezza, siano stati
più pronti e più efficaci nell’intestarsi questa ribellione contro il
liberalismo, ma è palese che al sinistra non può farsi confinare nel primo
terreno[5].
La frattura che segnala l’autore attraversa quindi interamente
le classi medie borghesi, dividendole tra quelle vincenti, flessibili e dedite ‘all’economia della conoscenza’, e le
‘vecchie’ e perdenti, prigioniere di
nicchie in contrazione, in settori poco aperti per lo più rivolti a servizi
interni e settori produttivi a bassa produttività. Le prime, orgogliose, sono
rivolte alla competizione, al futuro, alle dinamiche promesse della tecnologia;
le seconde, umiliate e spaventate, sono concentrate sugli inutili che ricevono
e sull’insicurezza.
È dunque una
sorta di guerra civile ma entro la
medesima classe, in parte spiazzata dall’azione corrosiva del neoliberismo.
Una guerra civile la cui posta è l’egemonia culturale, e per questo infuria con
violenza principalmente intorno a segnalatori simbolici che identificano le
“persone per bene”, quelle che tengono ad uno stile di vita cosmopolita e per
questo sono più colti, più creativi, e più di successo.
È per questo che lo
scontro per il “politicamente corretto”[6] è il centro di questa
guerra civile.
Questa guerra, secondo l’autore, deciderà qualcosa di
davvero molto importante: chi sarà
qualificato per dare il tono alla politica del prossimo decennio, quindi
anche ai media, all’arte, al mondo accademico. E quindi porre le condizioni per
l’attivazione di un effetto egemonico sulle classi popolari: se sarà la nuova destra populista o se la sinistra democratica[7].
[1]
- Fondata più di novanta anni fa, alla morte, nel 1925, di Friedrich Ebert,
figura a dir poco controversa della storia del socialismo europeo. Alla sua
morte l’Unità titolerà “La morte del social-traditore Ebert”, per il suo
appoggio alla guerra e le posizioni successive, tra le quali spicca il
contrasto alla rivolta degli spartachisti che costò la vita a Rosa Luxemburg.
[2]
- Per lo più attraverso battaglie combattute in quella metà del mondo che
accede alla rete, e avendo a posta quel 20% circa che su questa determina il
suo orientamento primario.
[3] - Cosa è un dovere? Sosterrei che i tanti doveri che assumiamo su di noi, nelle
nostra vita privata o pubblica, persino quelli che ci sono imposti, per amore,
per necessità, rappresentano la forma interiore di
un riconoscimento. Del riconoscimento di un fuori
di sé di cui non disponiamo. Essere divenuti adulti, uscendo dalle forme
del narcisismo (per chi c'è riuscito, in una società interamente tale),
significa avere un sé fatto di relazione, e quindi di doveri. Il dovere in
un certo senso riempie la vita. Ma qui c'è, mi pare, un profondo paradosso
(dentro la nostra tradizione bisognerebbe tornare a meditare Mazzini, in
particolare gli scritti politici sul liberalesimo): ciò che libera dissolve,
ciò che assume la relazione con un fuori, e il relativo amore, definisce. Il
fuori di noi, ciò che da noi non dipende, è l'ancora verso la quale ci
definiamo, creiamo il sé come altro,
come relazione con l'altro. E' questo concreto che forma la solidità della
nostra esistenza, mentre lo spazio astratto di movimento 'libero' definito da
soli 'diritti' la dissolve. Molto di quel che ci accade intorno testimonia
questo dissolversi, e molta della sofferenza, della rabbia, del senso di
tradimento, che determina il politico contemporaneo. A me pare che siano,
insomma, al fondo i doveri che creano lo spazio della vita e la vera libertà.
Mentre i diritti, presi da soli, incorporano il movimento verso il vuoto. Il paradosso è insomma che ciò che limita
costituisce, mentre ciò che libera dissolve.
[4]
- La questione non è facilissima da aggirare, le frontiere del tutto porose,
nelle quali l’attrazione è di fatto guidata dal mercato e questo dalle esigenze
di disciplinamento del lavoro delle imprese, sono un potentissimo ostacolo
pratico all’implementazione di politiche pubbliche di spesa sostenute,
direttamente o indirettamente, sull’estrazione di risorse fiscali. Per fare un
esempio storico il “New Deal”, ovvero l’insieme di politiche di espansione della
domanda interna portate avanti da Roosevelt e dai suoi collaboratori negli anni
trenta, si consolida in un clima nativista che preesiste e si forma, o meglio
diventa egemone, nel contesto della crisi aperta dalle rotture del sistema
monetario, degli enormi squilibri indotti dalla guerra, dalla dinamica
competitiva e dal crollo di Wall Street. Come dice Kiran Klaus Patel, “c’era un
nesso palese tra l’irrigidimento del confine meridionale degli Stati Uniti
[dato che quello esterno era stato già chiuso da Hoover] e il programma di
politica interna dei new dealers: l’isolamento attraverso il restrizionismo e l’intervento
dello stato in casa propria si completavano a vicenda” (Kiran Klaus Patel, “Il New
Deal”, p.229).
[5] - Ma da più parti si
sta aggregando una versione di sinistra di questa spinta all’autodifesa della
società di fronte alla capacità della tecnica e del modernismo capitalista di
dissolvere ogni legame sociale e lasciare gli individui da soli a far fronte
alla competizione di tutti contro tutti che paradossalmente si ripresenta come
guerra civile molecolare (mentre il liberalismo nasce storicamente come
reazione alle guerre civili comunitarie). Si tratta di movimenti come “Aufstehen”
di Sahra Wagenknecht in Germania, di “France
Insoumise” in Francia, anche se le recenti evoluzioni, con l’espulsione di Kuzmanovic,
possono mostrare qualche smagliatura e la non piena comprensione della lotta
tra borghesie, alcune componenti di “Podemos”,
alcuni toni di Corbyn in Inghilterra, e in Italia l’aggregazione di movimenti e
sigle intorno a Patria e Costituzione (Rinascita!, Senso Comune, FSI, Sollevazione, Marx XXI, ed altri) ma anche di Risorgimento Socialista, che
fa parte del direttivo di Potere al
Popolo.
[6] - Identifico con questo termine una
forma di categorizzazione e quindi di comunicazione caratterizzata dalla
‘logica associativa’ (se dici una cosa, allora devi essere in quella data identità preclassificata), e che fa prevalere
la ‘valenza indessicale’ (cioè il contesto della comunicazione) sul contenuto
semantico (il significato)” (cfr. Jonathan Friedman, “Politicamente
corretto”). Rifiutandosi all’argomentazione l’effetto sociale, e di
potere, che si produce è che inquadrare un’affermazione come “politicamente
corretta” (o s-corretta) consente di
neutralizzarla; essa non può più essere localmente vera, perché è
semplicemente troppo terribile.
Al contrario diventa vero ciò che è buono, e perché lo è. Insomma, “il terribile e il meraviglioso sono
autoevidenti”. Dunque si ha un utilizzo politico della morale per controllare
la comunicazione e censurarla ab
origine in tempi di incertezza. Il “politicamente corretto” è coevo all’insorgere di una nuova élite
transnazionale (ben vista da autori chiave come Rorty,
Lasch
e Dahrendorf)
che cerca di neutralizzare l’opposizione moralizzando l’universo sociale e
dunque mobilitando, a fini di controllo, la
vergogna. La simmetria essenziale è con la politica mondiale a taglia unica
(il “Washington Consensus”) ed i suoi
TINA e passa per la riclassificazione del liberale come progressista e del
socialista come reazionario. Ciò che è progressista è l’olistico, il
nomade/rizomatico, il diffuso e l’orizzontale. Ciò che è reazionario è il
moderno, razionale, astratto, verticale.
La
‘vecchia’ classe lavoratrice diventa, da soggetto storico del progresso,
‘deplorabile’ e nazionalista, egoista e meschina. Mentre il migrante,
rifugiato, le minoranze colorate, le identità plurali, diventano i nuovi eroi.
Questa è una cultura fondata sul
narcisismo (Lasch) che egemonizza una forma di controllo basata sulla
classificazione creando un controllo operativo (“matriarcale”) basato sulla
vergogna. Le varie
versioni del “politicamente corretto” sono l’ideologia funzionale allo stato
della tecnica e ad un modo di produzione che da lungo tempo ha dismesso i ferri
vecchi della triade Dio-Stato-Famiglia, inseguendo la forma ‘liquida’ della
merce e costruendo un ‘umano non sociale’ abbandonato a tutte quelle forme di
autoritarismo nascoste nell’apparenza di pienezza di diritti la cui piena
espressione è il mercato autoregolato.
[7]
- Nomino
in questo modo, anziché secondo il termine corroso “sovranista”, o il complessivamente fuorviante “patriottica”, perché il punto per una ripresa da sinistra del tema
della responsabilità sociale, che dovrebbe passare per una difesa degli
elementi socialisti delle costituzioni del novecento, passa ed è motivato dalla
rivendicazione della piena
democratizzazione della società, in frontale opposizione alla
post-democrazia neoliberale. In questo frame poi possono esservi diverse
accentuazioni e sensibilità, da quelle riferibili a impostazione ‘democratico
radicali’ (al modo di Chantal Mouffe, ad esempio), a impostazioni socialiste
democratiche, o impostazioni di ‘sinistra di classe’ in base ad una sensibilità
di fase, o ad una ‘analisi concreta di situazione concreta’, che vede il
conflitto per la ridefinizione della globalizzazione come centrale.
Nessun commento:
Posta un commento