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venerdì 14 dicembre 2018

Marc Saxter: la guerra civile per il discorso politico corretto tra nomadi e stanziali.



In un interessante articolo Marc Saxter, Direttore del Friedrich Ebert Stiftung India Office, sezione indiana della più antica fondazione politica tedesca[1], si chiede quali valori siano effettivamente difesi, e da chi, nella resistenza che da molte parti si chiama contro il populismo di destra. In quello che, per la fonte appare come l’inizio di una variazione di rotta tardivo, ma indispensabile, della socialdemocrazia tedesca, il punto proposto è che il dibattito si svolge intorno alle “questioni morali e di identità” perché si sta aprendo una spaccatura che attraversa gruppi della classe media. Nella forma di indignate difese[2] di pratiche linguistiche opposte, in una sorta di guerra di classe culturale, ed ha gli strumenti e la voglia per interagire con essa.
Non è un caso che la discussione sulle questioni materiali retroceda sullo sfondo di un’aspra contesa sul ‘politicamente corretto’ che sembra prioritaria.



Da una parte dello scontro abbiamo quei ceti sensibili agli stili di vita che in questi ultimi anni sono stati propagandati e si sono affermati come vincenti, moderni, attraenti e fonte di carisma, glamour, inserimento sociale e prestigio: il cosmopolitismo, l’apertura, la diversità. Valori che guadagnano centralità nel contesto di un narcisistico ripiegamento su di sé e sui propri bisogni. Si tratta di figure impegnate in una giornaliera e spietata lotta per la visibilità, il rispetto ed il successo personale.
Dall’altra chi non tiene il passo, e richiede per questo più protezione, ma pretende anche il riconoscimento e rivendica il diritto di appartenere ad una comunità. Si tratta, in questo caso, della parte centrale della classe media tradizionale, che finisce per rigettare i valori dei ‘vincenti’ e diventa sensibile al fascino di una società più omogenea, più calda e rassicurante. Una società nella quale sono reintegrati valori ormai persi della solidarietà e del senso del dovere[3].



L’identificazione fisiognomica dei due gruppi è moderni vs conservatori o egoisti vs responsabili, secondo ci si identifichi nella prima o nella seconda coppia si sceglie il campo.

La questione è, secondo l’autore, che la seconda pressione tende ad essere portata da diversi strati sociali rispetto alla prima, e reagisce agli effetti dell’agenda neoliberale, aspirando in sostanza a chiusure delle frontiere[4].

Se questo è il quadro, secondo Saxter non può stupire che i populisti di destra, con la loro abituale spregiudicatezza, siano stati più pronti e più efficaci nell’intestarsi questa ribellione contro il liberalismo, ma è palese che al sinistra non può farsi confinare nel primo terreno[5].

La frattura che segnala l’autore attraversa quindi interamente le classi medie borghesi, dividendole tra quelle vincenti, flessibili e dedite ‘all’economia della conoscenza’, e le ‘vecchie’ e perdenti, prigioniere di nicchie in contrazione, in settori poco aperti per lo più rivolti a servizi interni e settori produttivi a bassa produttività. Le prime, orgogliose, sono rivolte alla competizione, al futuro, alle dinamiche promesse della tecnologia; le seconde, umiliate e spaventate, sono concentrate sugli inutili che ricevono e sull’insicurezza.



È dunque una sorta di guerra civile ma entro la medesima classe, in parte spiazzata dall’azione corrosiva del neoliberismo. Una guerra civile la cui posta è l’egemonia culturale, e per questo infuria con violenza principalmente intorno a segnalatori simbolici che identificano le “persone per bene”, quelle che tengono ad uno stile di vita cosmopolita e per questo sono più colti, più creativi, e più di successo.

È per questo che lo scontro per il “politicamente corretto”[6] è il centro di questa guerra civile.


Questa guerra, secondo l’autore, deciderà qualcosa di davvero molto importante: chi sarà qualificato per dare il tono alla politica del prossimo decennio, quindi anche ai media, all’arte, al mondo accademico. E quindi porre le condizioni per l’attivazione di un effetto egemonico sulle classi popolari: se sarà la nuova destra populista o se la sinistra democratica[7].



[1] - Fondata più di novanta anni fa, alla morte, nel 1925, di Friedrich Ebert, figura a dir poco controversa della storia del socialismo europeo. Alla sua morte l’Unità titolerà “La morte del social-traditore Ebert”, per il suo appoggio alla guerra e le posizioni successive, tra le quali spicca il contrasto alla rivolta degli spartachisti che costò la vita a Rosa Luxemburg.
[2] - Per lo più attraverso battaglie combattute in quella metà del mondo che accede alla rete, e avendo a posta quel 20% circa che su questa determina il suo orientamento primario.
[3] - Cosa è un dovere? Sosterrei che i tanti doveri che assumiamo su di noi, nelle nostra vita privata o pubblica, persino quelli che ci sono imposti, per amore, per necessità, rappresentano la forma interiore di un riconoscimento. Del riconoscimento di un fuori di sé di cui non disponiamo. Essere divenuti adulti, uscendo dalle forme del narcisismo (per chi c'è riuscito, in una società interamente tale), significa avere un sé fatto di relazione, e quindi di doveri. Il dovere in un certo senso riempie la vita. Ma qui c'è, mi pare, un profondo paradosso (dentro la nostra tradizione bisognerebbe tornare a meditare Mazzini, in particolare gli scritti politici sul liberalesimo): ciò che libera dissolve, ciò che assume la relazione con un fuori, e il relativo amore, definisce. Il fuori di noi, ciò che da noi non dipende, è l'ancora verso la quale ci definiamo, creiamo il sé come altro, come relazione con l'altro. E' questo concreto che forma la solidità della nostra esistenza, mentre lo spazio astratto di movimento 'libero' definito da soli 'diritti' la dissolve. Molto di quel che ci accade intorno testimonia questo dissolversi, e molta della sofferenza, della rabbia, del senso di tradimento, che determina il politico contemporaneo. A me pare che siano, insomma, al fondo i doveri che creano lo spazio della vita e la vera libertà. Mentre i diritti, presi da soli, incorporano il movimento verso il vuoto. Il paradosso è insomma che ciò che limita costituisce, mentre ciò che libera dissolve.
[4] - La questione non è facilissima da aggirare, le frontiere del tutto porose, nelle quali l’attrazione è di fatto guidata dal mercato e questo dalle esigenze di disciplinamento del lavoro delle imprese, sono un potentissimo ostacolo pratico all’implementazione di politiche pubbliche di spesa sostenute, direttamente o indirettamente, sull’estrazione di risorse fiscali. Per fare un esempio storico il “New Deal”, ovvero l’insieme di politiche di espansione della domanda interna portate avanti da Roosevelt e dai suoi collaboratori negli anni trenta, si consolida in un clima nativista che preesiste e si forma, o meglio diventa egemone, nel contesto della crisi aperta dalle rotture del sistema monetario, degli enormi squilibri indotti dalla guerra, dalla dinamica competitiva e dal crollo di Wall Street. Come dice Kiran Klaus Patel, “c’era un nesso palese tra l’irrigidimento del confine meridionale degli Stati Uniti [dato che quello esterno era stato già chiuso da Hoover] e il programma di politica interna dei new dealers: l’isolamento attraverso il restrizionismo e l’intervento dello stato in casa propria si completavano a vicenda” (Kiran Klaus Patel, “Il New Deal”, p.229).
[5] - Ma da più parti si sta aggregando una versione di sinistra di questa spinta all’autodifesa della società di fronte alla capacità della tecnica e del modernismo capitalista di dissolvere ogni legame sociale e lasciare gli individui da soli a far fronte alla competizione di tutti contro tutti che paradossalmente si ripresenta come guerra civile molecolare (mentre il liberalismo nasce storicamente come reazione alle guerre civili comunitarie). Si tratta di movimenti come “Aufstehen” di Sahra Wagenknecht in Germania, di “France Insoumise” in Francia, anche se le recenti evoluzioni, con l’espulsione di Kuzmanovic, possono mostrare qualche smagliatura e la non piena comprensione della lotta tra borghesie, alcune componenti di “Podemos”, alcuni toni di Corbyn in Inghilterra, e in Italia l’aggregazione di movimenti e sigle intorno a Patria e Costituzione (Rinascita!, Senso Comune, FSI, Sollevazione, Marx XXI, ed altri) ma anche di Risorgimento Socialista, che fa parte del direttivo di Potere al Popolo.
[6] - Identifico con questo termine una forma di categorizzazione e quindi di comunicazione caratterizzata dalla ‘logica associativa’ (se dici una cosa, allora devi essere in quella data identità preclassificata), e che fa prevalere la ‘valenza indessicale’ (cioè il contesto della comunicazione) sul contenuto semantico (il significato)” (cfr. Jonathan Friedman, “Politicamente corretto”). Rifiutandosi all’argomentazione l’effetto sociale, e di potere, che si produce è che inquadrare un’affermazione come “politicamente corretta” (o s-corretta) consente di neutralizzarla; essa non può più essere localmente vera, perché è semplicemente troppo terribile. Al contrario diventa vero ciò che è buono, e perché lo è. Insomma, “il terribile e il meraviglioso sono autoevidenti”. Dunque si ha un utilizzo politico della morale per controllare la comunicazione e censurarla ab origine in tempi di incertezza. Il “politicamente corretto” è coevo all’insorgere di una nuova élite transnazionale (ben vista da autori chiave come Rorty, Lasch e Dahrendorf) che cerca di neutralizzare l’opposizione moralizzando l’universo sociale e dunque mobilitando, a fini di controllo, la vergogna. La simmetria essenziale è con la politica mondiale a taglia unica (il “Washington Consensus”) ed i suoi TINA e passa per la riclassificazione del liberale come progressista e del socialista come reazionario. Ciò che è progressista è l’olistico, il nomade/rizomatico, il diffuso e l’orizzontale. Ciò che è reazionario è il moderno, razionale, astratto, verticale.
La ‘vecchia’ classe lavoratrice diventa, da soggetto storico del progresso, ‘deplorabile’ e nazionalista, egoista e meschina. Mentre il migrante, rifugiato, le minoranze colorate, le identità plurali, diventano i nuovi eroi.
Questa è una cultura fondata sul narcisismo (Lasch) che egemonizza una forma di controllo basata sulla classificazione creando un controllo operativo (“matriarcale”) basato sulla vergogna. Le varie versioni del “politicamente corretto” sono l’ideologia funzionale allo stato della tecnica e ad un modo di produzione che da lungo tempo ha dismesso i ferri vecchi della triade Dio-Stato-Famiglia, inseguendo la forma ‘liquida’ della merce e costruendo un ‘umano non sociale’ abbandonato a tutte quelle forme di autoritarismo nascoste nell’apparenza di pienezza di diritti la cui piena espressione è il mercato autoregolato.
[7] - Nomino in questo modo, anziché secondo il termine corroso “sovranista”, o il complessivamente fuorviante “patriottica”, perché il punto per una ripresa da sinistra del tema della responsabilità sociale, che dovrebbe passare per una difesa degli elementi socialisti delle costituzioni del novecento, passa ed è motivato dalla rivendicazione della piena democratizzazione della società, in frontale opposizione alla post-democrazia neoliberale. In questo frame poi possono esservi diverse accentuazioni e sensibilità, da quelle riferibili a impostazione ‘democratico radicali’ (al modo di Chantal Mouffe, ad esempio), a impostazioni socialiste democratiche, o impostazioni di ‘sinistra di classe’ in base ad una sensibilità di fase, o ad una ‘analisi concreta di situazione concreta’, che vede il conflitto per la ridefinizione della globalizzazione come centrale.

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