Leggeremo il recentissimo nuovo libro
del famosissimo politologo inglese Colin Crouch, reso letteralmente una star
dal suo libro del 2000, “Postdemocrazia”
quando era direttore dell’Istituto di
Governance e Public Management alla Business School dell’Università di
Warwick. Il libro del 2000 ha avuto un indubbio merito, e per questo è
inevitabilmente presente in ogni opera successiva: quello di aver sollevato la
questione dell’erosione della democrazia ad opera dell’estremismo liberale
quando ancora poche voci[1] si
erano alzate ad avvertire del rischio. Successivamente sarà una valanga[2], e
poi dal 2008 una eruzione[3]. Lo
stesso Crouch fa peraltro seguire al suo primo libro di grande successo altri
due libri significativi[4].
Ma se nel 2000 Crouch, che in fondo insegnava in
scuole di economia, parla di cercare di ‘conservare il dinamismo e lo spirito
intraprendente del capitalismo’[5] (scendendo a patti con il capitalismo finanziario), ma vede come “chiedere la
luna” l’ipotesi di “porre tale richiesta a livello globale” oggi sembra aver cambiato completamente idea; allora le
grandi organizzazioni sovranazionali[6] “sta[va]no
andando nella direzione opposta”, per cui intravedeva ed indicava “spazio per
contrattaccare a livello nazionale sul piano economico” (p.121), riducendo la
confusione di funzioni e competenze tra governo ed imprese, adesso più o meno gli stessi fatti conducono a conclusioni opposte. Nella battaglia, cui ha deciso di partecipare da
una parte specifica, tra globalismo e resistenze nazionali (preferirei dire,
anche nei termini del libro del 2000 del nostro ‘tra globalismo e democrazia’)
oggi Crouch ritiene che “possiamo avere un qualche controllo su un mondo
caratterizzato da un’interdipendenza sempre maggiore solo attraverso lo
sviluppo di identità e istituzioni democratiche e di governo in grado di
spingersi oltre la dimensione dello Stato-nazione” (p.5).
Cosa è cambiato in questi intensissimi diciotto anni? Naturalmente
c’è stata quella che chiamerà la “quarta
fase” del processo di mondializzazione, seguito agli accordi del Wto e alla
espansione imperiale[7] che
è conseguenza della ritirata del contropotere del blocco socialista. Abbiamo assistito
alla irresistibile ascesa, prima e dopo il crac del 2007-8, di un modello di
accumulazione finanziario che è capace di mettere a valore (anche se fragile e “fittizio”[8])
ogni aspettativa di flusso, e che per crescere, pena l’immediato crollo, deve “invadere
e usare altri settori” in modo compulsivo, espandendo “il margine sistemico”, il
quale, come sostiene Saskia Sassen, è il luogo in cui “si
estrinseca la dinamica chiave dell’espulsione”. Dunque anche “il rapporto fra
l’odierno capitalismo avanzato e le forme più tradizionali di capitalismo di
mercato”, assomiglia sempre più ad una forma di “accumulazione sempre più
primitiva”, una “bruta semplicità”[9],
di predazione. Nel “margine sistemico”
sono stati presi anche i sistemi di welfare per la stessa, semplice,
motivazione di “bruta semplicità” per la quale il capitale nazionale (quello
non dedito alle esportazioni, non “innovativo e competitivo”, quello
concentrato sul servizio di bisogni locali, nazionali) è abbandonato alla
contrazione: non è più necessario a chi è passato per la fucina
delle innovazioni tecniche, organizzative e finanziarie degli anni ottanta e
novanta. Per come la metteva Sassen, in altre parole, se gli elementi
costitutivi del sistema, quelli che vengono
incorporati come obiettivi naturali delle politiche, non riguardano più
produzione e consumo di massa, quel che accade è semplice: lo spazio degli
espulsi si espande e diventa anche sempre più differenziato.
Qualche numero
per capire quanto si espande lo spazio degli espulsi e quanto si fortifica
quello degli inclusi: secondo una recente ricostruzione[10]
di Salvatore Biasco l'80% dei profitti nel mondo è prodotto dal 10% delle
società, il 2% delle multinazionali (su una base di oltre 40.000) possiede
l'80% del controllo delle stesse, un nucleo ancora più piccolo di 147 multinazionali,
ne possiede il 40%, di queste 100 sono finanziarie. A grandi linee 100
multinazionali finanziarie controllano qualcosa come il 30% dei profitti nel
mondo. Profitti che dipendono in parte molto rilevante dall'appropriazione
della proprietà intellettuale. Con la stessa tendenza alla concentrazione
bisogna ricordare che il 70% del commercio mondiale dipende dalle
multinazionali (e che, dunque, circa 400 multinazionali, per lo più americane,
generano più di metà del commercio mondiale).
Lo stesso
Colin Crouch, nel 2011, riteneva[11]
che fosse necessario “tenere sotto pressione” la grande impresa e che non si
potesse giudicare l’incremento globale di efficienza senza aver cura di
prestare attenzione alla sua distribuzione[12].
Inoltre richiamava e discuteva le tesi della “Public Choise”[13],
secondo la quale tutte le attività statali sono espressione di un egoismo che
trova i suoi canali di espressione attraverso l’azione delle lobbies politiche
(come Partiti, Sindacati e via dicendo). Certo, già nel 2011, mentre definiva
la democrazia come presidio principale dell’agenda pubblica e collettiva, invitava
le forze del “centrosinistra” a guardare oltre lo Stato centralizzato e temeva
il rischio di scivolare in un “nazionalismo irrazionale” che potrebbe rivolgersi
contro migranti e minoranze etniche. All’epoca la sua diagnosi era la seguente:
“man mano che in molti paesi la competizione formale tra i partiti si svuota di
contenuti – anche perché tutti i partiti fanno sostanzialmente proprio un
ordine del giorno stabilito dalle imprese -, i movimenti xenofobi emergono come
uniche fonti autentiche di novità e di scelta: essi non fanno altro che
estremizzare quell’esaltazione competitiva dell’identità nazionale accettata da
quasi tutte le sfumature dell’opinione politica.”[14]
Il dilemma
in cui porta il suo pensiero, tra convinzione che la riduzione di scambi e
commerci porti necessariamente una riduzione di ricchezza[15]
e il fatto che i diritti nazionali di cittadinanza sono “l’unica arma per
difenderci dal potere delle Tnc [imprese transnazionali] di stravolgerci la
vita”, lo conduce già allora ad appoggiare la sua speranza alla “società civile postnazionale”[16],
o, per essere più precisi, sulla tensione nel quadrilatero Stato – mercato –
grandi imprese transnazionali – società civile (anche transnazionale).
Dunque Crouch
era da tempo su questa strada cui perviene oggi.
“Il dilemma Kuzmanovic-Autain”
Però cosa fa andare ben oltre queste posizioni, come
vedremo, Crouch, passati sette anni? Io credo che abbia ormai preso una
decisione definitiva lungo quello che vorrei chiamare “il dilemma Kuzmanovic-Autain”[17],
ovvero tra l’aspirazione alla riconquista dei ceti popolari, contendendo l’egemonia
alla destra sul campo largo, e la difesa delle aree di consenso residue che
alla fine possono essere conservate solo su temi morali, data la divergenza
degli interessi. Di fatto uno scontro tra ‘nuvole verbali’[18] e
scelte difficili.
Crouch, di fronte alla necessità di riconoscere il
danno che i processi di globalizzazione, appoggiati e promossi anche dalla
sinistra della ‘terza via’[19], producono
tuttavia si sofferma su l’impatto positivo per paura delle conseguenze di una
posizione coerente.
Leggiamo:
“osservare
la questione da questo punto di vista rivela il danno prodotto dalla
globalizzazione, ma anche l’impatto positivo dell’innovazione, della ricchezza
crescente e della diversità culturale in altre località e settori. Questi sono
in genere luoghi cosmopolitici che hanno attratto immigrati da tutto il mondo,
che hanno offerto il loro contributo all’innovazione e alla diversità. Cercare di
tornare indietro nel tempo significa voler porre fine a questo dinamismo” (p.47).
Qui il conflitto
di classe è nominato con precisione.
Ci sono aree sociali e settori economici, oltre che distretti territoriali, che
hanno subito un danno, non si nega, ma altri si sono arricchiti, sia in termini
economici che sociali e culturali. Questi vincenti della globalizzazione sono
quelli a cui guarda il “corno-Autain”
del dilemma sopra citato, e sono cosmopoliti, dinamici, ottimisti e sicuri di
sé. I perdenti della globalizzazione, invece, cui guarda il “corno-Kuzmanovic”, sono all’opposto.
Guardare, anche se in modo parzialmente inconsapevole,
all’enormemente complesso intreccio di questioni sollevato dalla tarda
globalizzazione in corso, dal solo punto di vista degli integrati e vincenti,
porta però ad una lunga serie di accettazioni di costrutti teorici mainstream e
neoliberali da parte di Colin Crouch, e, in alcuni casi, ad arretramenti
rispetto alle posizioni assunte nei libri precedenti. Già all’avvio nel
definire la situazione in corso “scontro epico tra globalizzazione e un
risuscitato nazionalismo” attiva lo schema portante avanti/dietro che Charles Taylor individua come costitutivo di una “topografia
morale” necessaria al controllo di sé[20]. La
questione che pone Crouch, nella sua frase di avvio è quella che definisce il
testo: chiamare a raccolta.
In modo non dissimile dalla Autain il politologo inglese
cerca di indicare un modo di stare, di avere una posizione e quindi un sé, nello spazio confuso del presente. Come
diversamente mostra anche Jonathan Friedman[21]
le classi medie che si sentono élite sono confuse e spaventate, sentono di non
capire più il mondo e di perdere i riferimenti in esso. Dunque sviluppano un
più rigido “spazio di questioni”, che includa e fissi “come si deve essere”,
come ci si prospetta davanti al buono, al giusto, al moralmente degno. Uno spazio
nel quale ci si possa comprendere come esseri capaci di azione morale e nel
quale individuare devianti e non.
La questione centrale, che definisce questo posizionamento
morale, è quella del moderno e della tradizione, alla fine il discorso è
attratto irresistibilmente da uno schema storico: illuminismo vs tradizionalismo e quindi ragione verso emozione ed oscurantismo[22]. La globalizzazione,
pur conoscendo tutte le sue problematiche e lati oscuri, è “in primo luogo -scrive Crouch- lo sviluppo
in buona parte del pianeta di relazioni economiche relativamente senza
restrizioni”. Ovvero è, alla fine, uno spazio di libertà.
Una volta che si sceglie di credere a questa posizione,
evidentemente parziale, se non direttamente falsa[23],
ogni “implicazione sociale e politica più ampia” che questa possa comportare, è
secondaria, o è pericolosa.
Infatti Crouch nega che la questione sia di classe,
che ci siano dei problemi di distribuzione, di spinta alla ineguaglianza, o
meglio, li riconosce, ma opera attentamente per porli in angolo, per definirli
come eccezioni e questioni relative, comunque come ‘danni collaterali’ necessari.
Certo, da ridurre, ma non sufficienti per mettere in questione quello che è il
centro del sé del “corno-Autain” che
ha scelto, ormai, di sposare.
La minaccia,
casomai, è identitaria. Come scrive, “la
globalizzazione è, per molti, un attentato alla loro voglia di sentirsi orgogliosi
nei vari ambiti di vita: nel loro lavoro, nella loro identità culturale, nella
loro comunità, nelle città e nei paesi in cui vivono, quell’ampio fascio di
idee che costituiscono la nozione tedesca di heimat” (p.4).
Moderni e non
Non è questione di classe, perché si tratta,
piuttosto, di tipo di lavoro. Questa è la soluzione trovata, sul piano
analitico, per individuare una differenza antropologica che non implichi una questione
di sfruttamento: lavorare in settori favoriti dalla globalizzazione, ovvero da
quel set di tecnologie, modi di comunicazione e stili di relazione della
modernità, porta secondo le fonti di Crouch ad essere tranquilli ed orgogliosi
di sé; lavorare nei settori meno dinamici, “anche se conducono una vita agiata”,
al contrario spaventati e bisognosi di protezione, essi vogliono certezze
perché sono sconcertati e le cercano nel “mondo del passato”.
I primi
progrediscono, i secondi arretrano.
Tutto il libro ripete continuamente questa sorta di
favola morale e reiteratamente afferma, senza vere e proprie argomentazioni,
che “possiamo ottenere qualche controllo sul mondo che è caratterizzato da un’interdipendenza
sempre maggiore solo attraverso uno sviluppo di identità e istituzioni
democratiche e di governo in grado di spingersi oltre la dimensione dello
Stato-nazione”.
È dunque evidente, passando sul piano politico, che “la sinistra socialdemocratica deve porsi
dalla parte della globalizzazione contro i nuovi nazionalismi”[24].
Nel farlo deve mettere in connessione diversi
radicamenti identitari, sovrapponendoli l’uno dentro l’altro “come una
Matrioska”[25]. Questa immagine, per la
quale ognuno può considerarsi, senza alcuna contraddizione e/o conflitto interiore,
abitante del mio quartiere a Napoli, ma anche campano, italiano e quindi cittadino
parimenti europeo e del mondo intero, sembra tranquilla ed ovvia. Vi si oppone,
secondo la visione proposta, una identità che ad un certo punto trova un
confine invalicabile e si oppone a chi sia altrove rispetto ad esso. Una identità
che pensa di “stare in piedi da sola”, anziché puntare alla cooperazione.
È in questo contesto, ripresa dello schema ragione vs oscurantismo, modernità vs conservazione, che trova
spazio l’attacco diretto a quella che nel libro del 2013 chiamava “la
socialdemocrazia conservatrice”, e ora identifica più precisamente con la
sinistra che si oppone alla globalizzazione. Ma prima ricostruisce gli
argomenti che a suo parere il nazionalismo di sinistra propone:
1-
La globalizzazione
ha esteso l’impatto del capitalismo, consentendogli di distruggere i meccanismi
di governo democratico e di trascurare i bisogni collettivi,
2-
Di fatto il
livello più alto di governance democratica fin ora raggiunto è nello
Stato-nazione,
3-
Lo Stato-nazione è
anche un centro di identificazione e di affidamento,
4-
Il welfare state è
una costruzione nazionale che attinge ad una solidarietà concreta non estendibile
all’infinito,
5-
Le forme più forti
di welfare state si sono sviluppate in condizioni di omogeneità etnica e culturale,
sembra dunque “esserci una relazione inversa tra un forte Stato sociale e un
multiculturalismo liberale”,
6-
È quindi necessaria
una svolta che preveda tutela economica e controlli sui capitali e restrizioni
all’immigrazione e, in Europa, un freno all’integrazione.
Questa descrizione, che ripercorre al punto 5 una
classica tesi neoliberale[26],
non infondata ma certo rudimentale, riceve una confutazione altamente
istruttiva: “ogni passaggio nella
progressione di questo ragionamento è del tutto logico, ma a partire dal punto
5 il discorso inizia a sfociare, anche se con motivazioni differenti, nelle
posizioni della destra xenofoba”.
Uniformati in questo attacco dalla logica
profondamente identitaria, quella che Friedman chiama “logica associativa”[27], che
si rifiuta all’argomentazione neutralizzando la controparte grazie alla mossa
di attribuirgli l’autoevidenza della colpa sono France Insoumise, Corbyn ed il
Labour relativo, autori come Wolfgang Streeck e David Goodhart. In questo modo,
secondo la tecnica ‘politicamente corretta’, si ha un utilizzo politico della
morale per controllare la comunicazione e censurarla ab origine in tempi di incertezza[28].
Il timore è che ragionamenti pur sensati portino ad una
sorta di resistenza conservatrice nei confronti del cambiamento, in particolare
nei confronti di quelle posizioni che “cercano di spostare la politica
democratica e i sentimenti di solidarietà umana al di fuori dello stato nazione”,
rischiando di restare “congelata nel tempo”.
Dunque ricapitoliamo a questo punto:
-
la sinistra “conservatrice”, che cerca di recuperare le capacità dello Stato
nazionale contro gli effetti deleteri della globalizzazione e del processo ad
essa subalterno della unificazione guidata dal mercato europea, rischia per
Crouch di retrocedere a fasi storiche superate e di essere subalterna della
destra,
-
la destra radicale
è invece determinata a continuare le politiche di classe che fondano il potere della
sua base sociale[29], ma al contempo è consapevole
degli effetti distruttivi di queste politiche sui marginali[30]
che cerca di mobilitare come base di massa[31],
e cerca di risolvere l’equazione politica deviando la tensione e il rancore sui
più deboli ed i non cittadini, in base ad un classico effetto “capponi di Renzo”[32],
il caso ungherese è esemplare in tal senso[33],
come quello italiano[34],
-
la posizione frontista, cui tende, per espressa ammissione, l’autore, di “alleanza
tra le forze moderate di sinistra e destra contro le forze xenofobe per una
globalizzazione regolamentata”, che in Italia vede in campo la proposta
avanzata da Calenda[35],
ha in sé il pericolo del continuismo con l’assetto delle ‘grandi coalizioni’
che ha condotto a questo punto la situazione[36].
La ritirata sulla “terza
via”
Come si vede Crouch, malgrado la sua decennale critica
della posizione della “terza via”
blairiana, di fronte al rischio di una critica radicale della globalizzazione,
e del mutamento di posizione che richiede, ripiega espressamente sulle posizioni
che criticava. Consapevole che l’alleanza al centro, il “centro radicale” di Schroder
e Blair, ha condotto la politica europea all’attuale disastro elettorale[37],
purtuttavia vi si rifugia. Aiuta a comprendere questa apparentemente strana
mossa il concetto di “estremo centro”
di Alain Deneault[38]:
l’abolizione della pertinenza dell’asse sinistra-destra avviene a partire da un
discorso che è sia esclusivo (ovvero
per ‘ceti riflessivi’, colti e razionali) sia escludente (ovvero unico giusto, con la conseguenza che si può
essere solo a favore oppure contro). L’estremismo di questo centro non è
politico o sociale, ma è morale, e si
autorappresenta come discorso centrale, dotato di tutti gli attributi positivi
(meditato, pragmatico, vero, normale, giusto, equilibrato, razionale, ragionevole)
e quindi è anche l’unico legittimo.
Naturalmente la costruzione di questo discorso
equilibrato e razionale passa per una narrazione storica che cerca di allineare
i fatti recenti su un percorso di logico sviluppo e progressivo. A tal fine
divide, sulla base di una lettura sincretica di testi anche molto diversi gli
uni dagli altri[39], la globalizzazione in
quattro fasi successive:
1-
l’imperialismo europeo (o “prima mondializzazione”, tema toccato nel libro
di Rodrik in chiave critica) che negli anni tra le due guerre ha un deciso
ripiegamento (durante il quale, come non ricorda l’autore, prende forma il New
Deal[40]);
2-
la riduzione tariffaria guidata dagli Usa nel dopoguerra ed il processo di integrazione europea
durante il quale cresce il welfare state in quanto il commercio vi viene
subordinato e il controllo dei capitali e dei flussi di persone resta forte
come nel periodo di interludio;
3-
la fase di deregolamentazione neoliberale, che segue alla crisi del modello temperato
precedente secondo l’autore causata essenzialmente dall’incremento del costo
delle materie prime e dall’inflazione, in questa fase si ha un aumento dei
tassi di disoccupazione e danni ai settori industriali consolidati, ed ai
relativi territori, la deregolamentazione finanziaria assume un ruolo centrale,
4-
la fase di accelerazione della globalizzazione, nel quale in Europa si costituisce il Mercato Unico
e crolla il comunismo ed il suo sistema di potere imperiale, al contempo dal
2000 accelera l’ascesa dell’estremo oriente, attori giudicati centrali sono l’Omc
e le Ue.
Il giudizio complessivo di questa evoluzione, in modo
non inaspettato date le premesse, è che si è trattato di “un gioco a somma
positiva”. Insomma, “la globalizzazione per
molti versi ha seguito le classiche aspettative degli economisti sul fatto che
ci sarebbero stati vantaggi reciproci derivanti dall’espansione del libero
commercio”[41].
Certo, è anche vero che “la globalizzazione provoca un
aumento delle migrazioni”, e queste hanno effetti culturali rilevanti, dunque
Crouch è costretto a guardarla più da vicino. Lo fa appoggiandosi sull’argomentazione
dell’ultimo Milanovic[42]:
tra gli utili della fase c’è l’enorme crescita della Cina[43],
e tra i danni collaterali l’aumento dell’ineguaglianza nella maggior parte dei
paesi. Il paradosso è che l’ineguaglianza tra
Stati è calata (con importanti eccezioni in due continenti, Africa e America
del Sud) ma quella entro gli Stati è
cresciuta. Un paradosso che è naturalmente solo apparente, perché è causato dal
vero agente della globalizzazione, i
capitali mobili, e dai suoi veicoli, le
grandi società transnazionali. Sono infatti essenzialmente le grandi
società che mobilitano ed utilizzano immani flussi di capitale libero e irresponsabile
(ovvero disponibile a spostarsi improvvisamente, e quindi potentissimo) per
ricercare localmente le condizioni di massimo sfruttamento dei fattori locali,
in primis il lavoro. Dunque la stessa
forza trascina in alto i pochi (in senso relativo) connessi con la
meccanica di valorizzazione in posizione dominante (azionisti, manager apicali,
lavoratori strategici), e in basso i ‘sostituibili’, ovunque essi siano. L’effetto
di riduzione dell’ineguaglianza tra Stati è, alla fine, solo un effetto di
rappresentazione, dipende dall’indicatore usato (il Pil aggregato), ma è la
somma di pochi, qui e lì, che si arricchiscono e moltissimi, anche essi ovunque,
che si impoveriscono. Anche il guadagno di reddito per i lavoratori che si
registra nei paesi di destinazione dei flussi di capitale e di provenienza
delle merci, è inferiore alla perdita di reddito di quelli che restano nelle
aree di provenienza dei capitali e di destinazione delle merci. Se non lo fosse
la globalizzazione mancherebbe il suo scopo.
Crouch, invece, in un capitolo particolarmente povero
di riferimenti, nel quale non è possibile dunque comprendere con precisione la
fonte delle sue convinzioni, a dimostrazione dell’ineluttabilità e utilità
della globalizzazione produce una serie di affermazioni del tutto prive di
argomentazione, a tutta evidenza per lui autoevidenti:
1-
anche se la Cina
ha una grande produzione di acciaio (otto volte quella giapponese, e sette
volte quella europea, oltre dieci volte quella americana) di cui solo un ottavo
è rivolta alle esportazioni (tab. 1, p.32) la perdita della globalizzazione provocherebbe
un danno decisivo a causa della perdita delle pur modeste importazioni di acciaio
(13 mt, ovvero un quindicesimo della produzione europea); questo danno non
sarebbe compensato dal recupero dei posti di lavoro, dato che la loro perdita non
dipende dal fatto che quasi tutto l’acciaio mondiale è prodotto in Cina e
India, ma dalle innovazioni tecnologiche. Un argomento davvero rudimentale per
un enorme dibattito[44],
con conclusioni che vanno direttamente contro quella che Rodrik chiama “la
teoria standard del commercio internazionale” (e per verificare la quale basta
prendere in mano un manuale). Si può, ad esempio, leggere una ricerca di Autor,
Dorn e Hanson del 2016[45]. Ora, secondo
l’argomento proposto da Rodrik, al contrario di quanto presume implicitamente
Crouch, anche il commercio incorpora, attraverso il lavoro contenuto
nei prodotti, effetti di dumping sociale (come si vede dalla ricerca
di Autor, non ancora riassorbiti dopo quindici anni). Oggettivamente, per
dinamica propria della situazione, i lavoratori sono stati posti davanti al
ricatto di accettare minori condizioni o di perdere il lavoro. La competizione
ineguale ha svuotato così le condizioni normative consolidate della
distribuzione ammessa nel sistema politico-sociale del paese bersaglio. Non
è affatto una circostanza teorica, tutta la perdita di potere contrattuale,
salari e condizioni di lavoro che rendono i lavoratori occidentali oggi molto
meno tutelati dei loro padri o nonni viene da qui. Detto in altro modo, la
circostanza per la quale oggi due persone giovani che lavorano normalmente non
guadagnano abbastanza da potersi permettere una casa decente e condizioni
dignitose di vita, per non parlare di figli, mentre i loro padri mantenevano la
famiglia nella quale sono cresciuti lavorando da soli, dipende in grande misura
da questo. In altre parole la “porta sul retro” dei commerci internazionali
deregolati erode sostanzialmente gli standard di lavoro nazionali, ed è per
questo, precisamente, che sono stati promossi.
2- Da questa limitatissima e parziale presentazione,
invece, l’autore deriva che “è possibile che senza la globalizzazione l’automazione
sarebbe stata più lenta, poiché le piccole imprese concorrenti, non si
sarebbero prese la briga di migliorare la produttività, ma avrebbero continuato
a utilizzare metodi meno efficienti a scapito dei loro clienti. Con una ridotta
automazione ci sarebbe stata una carenza di manodopera, circostanza positiva
per i lavoratori salariati nei settori interessati, ma che avrebbe provocato
una lievitazione dei prezzi con probabilità di rallentare l’innovazione dei
processi produttivi, in quanto vecchi settori he usavano metodi superati si
sarebbero aggrappati alle risorse umane e di capitale” (p.34). Una notevole applicazione
di modelli neoclassici inconsapevoli; si presume che l’innovazione tecnologica
sia guidata dalle grandi imprese in condizioni di monopolio, trascurando il
ruolo cruciale della ricerca pubblica e dei relativi incentivi[46],
e il nesso tra alti salari ed efficientamento dei cicli produttivi che lavora
nella direzione esattamente opposta a quanto qui ipotizzato; inoltre per Crouch
se “ci sarebbe stata carenza di manodopera” (ovvero bassa disoccupazione) ne
seguirebbe che la domanda interna sarebbe spinta. Ciò è riconosciuto in chiave
negativa (“carenza di manodopera” invece che “buona occupazione” e “lievitazione
dei prezzi” invece che spinta alla domanda), e ne deriva una curiosa spinta a
rallentare l’innovazione. Tutta questa parte sembra ripresa parimente, incluso
esempio sovietico, dalla letteratura della “Scuola
di Chicago” che qualche anno fa criticava direttamente.
Nel seguito, nella foga di accumulare argomenti, l’autore
dimentica di aver scritto che la globalizzazione ha ridotto l’occupazione in
occidente e qualifica come “marginale” il fenomeno (in effetti quello maschile
è calato in modo molto significativo, ma è stato compensato da quello femminile
che è cresciuto), appena mezza pagina dopo dichiara che “i tassi d’occupazione
nella maggior parte dei paesi sviluppati sono cresciuti in modo florido”, ma al
prezzo di maggiore precarietà. Anche qui la logica economica pencola, perché se
i tassi salgono ci sono meno disoccupati, e questo rafforza le condizioni
contrattuali dei lavoratori e dovrebbe ostacolare la precarizzazione. Ma se
tutto ciò fosse vero non si comprenderebbe il motivo per il quale tanti sono
arrabbiati.
Infatti Crouch è costretto, nell’eroico tentativo di
negare l’evidenza e disinnescare l’impressione che questa sia una questione di
classe e di distribuzione (cosa che porterebbe l’agenda verso la “socialdemocrazia
conservatrice”), a cercare motivazioni esclusivamente culturali. Le troverà,
come detto, nelle forme di lavoro che determinerebbero specifiche formazioni
culturali ed orientamenti psicologici.
Il resto del paragrafo si dilunga sul progresso
tecnologico ed il suo impatto (p.39), sugli effetti delle rilocalizzazioni
industriali e la competizione dei governi per l’attrazione (p.40), sulla
relazione tra globalizzazione e migrazioni. Su questo tema ammette che c’è una
relazione diretta, ma nega che questa possa provocare in generale impatto sui
salari.
Con una struttura argomentativa che sembra mutuata
dalla tecnica di Milton Friedman[47]
(allargare i casi particolari, mal descritti, e la confusione fino a poter
concludere che sono tutti casi particolari e dunque non si può decidere),
conclude che l’impatto dipende dai casi specifici. Qui si trovano due pagine con
una serie vertiginosa di no-sense, ad esempio, “un aumento della manodopera
disponibile [se fosse occupata allo stesso salario dei presenti e senza
sostituzione, ovvero in condizioni di piena occupazione] significa un aumento nel
numero di consumatori e quindi un aumento della domanda”. Non specificare la
condizione di validità di questa affermazione, la piena occupazione e la sua
permanenza, inficia completamente la conclusione. Di seguito postula una
perfetta elasticità (classico postulato neoclassico) e quindi un impatto positivo sui salari.
Naturalmente se così fosse la globalizzazione, la cui
principale ratio è ridurre i salari per ripristinare i profitti sfidati dalla
conflittualità sociale e dalle altre condizioni degli anni settanta, non
incentiverebbe affatto l’immigrazione, e le varie associazioni degli
imprenditori avrebbero esattamente l’atteggiamento opposto a quello che hanno
(ad esempio in Inghilterra, in Germania, in Ungheria ed in Italia).
Subito dopo, in un paragrafo straordinariamente
confuso, ammette che in altre condizioni (ovvero in quelle che si danno) “se
non ci fosse disponibilità di lavoratori immigrati disponibili i datori di
lavoro sarebbero forse costretti ad aumentare i salari per assumere il
personale locale”. Ma ora la domanda non dipende più dagli occupati, e dai relativi
salari, e quindi “la domanda dei consumatori potrebbe essere insufficiente per
sostenere un aumento dei salari”, con danni ai servizi.
Infine, per uscire dalle contraddizioni in cui si è
avvolto, Crouch finisce per produrre un argomentum
a contrario particolarmente scheletrico e fallace che termina in un dogma: “l’economia
di mercato è un gioco a somma positiva”, purtroppo crea anche problemi locali e
insicurezze nelle vite delle persone che si possono risolvere con opportune
politiche compensative.
Stabilito definitivamente che qui non si sta parlando
affatto di lotta di classe, Crouch può rubricare tutta la faccenda sotto il
tema “insicurezza”, “shock culturale”, “patriarcato”.
È questo il contesto nel quale è richiamata la frase
prima ricordata sul dinamismo della globalizzazione ed i suoi beneficiari.
La sovranità
nazionale
Da tutto ciò deriva che “l’idea di sovranità all’interno
dell’economia moderna non è più applicabile” (p.52), perché danneggerebbe la prosperità
ottenuta e il dinamismo (di alcuni). Ormai “il processo decisionale economico è
fondamentalmente sovranazionale”.
Per cui è impossibile invertire la globalizzazione e “tornare”
a una visione delle nazioni come entità sovrane. Ma questa, riconosce, “è l’idea
più dinamica che nuove gran parte del mondo”.
Per comprenderla si improvvisa storico e, con l’usuale
mancanza di riferimenti riconoscibili, si lancia in una ventina di vertiginose
pagine di ricostruzione dell’emergenza dello Stato-nazione, nella fase pre-illuminista
e poi a seguito della rivoluzione francese, inquadrate in una scheletrica
ricostruzione morale della lotta tra bene /male incarnata nella lotta tra
secolarizzazione e razionalizzazione, da una parte, ed oscurantismo dall’altra.
Il fine è di collegare il razionalismo con la volontà di cambiamento e di
innovazione, e queste con la “scienza dell’economia classica”.
Si arriva a queste definizioni strutturanti, ed
altamente significative, del conflitto politico moderno:
“se
intendiamo per ‘destra’ gli interessi del potere costituito e chi difende la
sicurezza che questo offre e utilizziamo ‘sinistra’ per indicare chi è
insoddisfatto di come stanno le cose e cerca di sfidare lo status quo notiamo
che i conservatori rappresentano sempre la destra, per definizione” (p.69).
Una definizione
imbarazzante, ma che presa sul serio porterebbe a definire ‘destra’ proprio la
sua posizione; infatti il potere
costituito è certamente quello insediato nella globalizzazione (basti pensare
alla finanza ed al sistema della grandi imprese transnazionali), e questo offre
sicurezza ai ceti che Crouch difende, i quali infatti ne sono più che
soddisfatti. Gli insoddisfatti (eufemismo in questo caso) sono tutti dall’altra
parte, come la sfida allo status quo.
Ma l’autore si sente dalla parte del coraggioso che
sfida il potere, e rigetta la sicurezza, e vede chi cerca di conservare il
progresso sociale e la democrazia come ‘destra’. A questo fine ha speso l’intero
excursus economico.
A questo punto non suona più strano che, come ricorda
in seguito, “i ceti popolari siano andati con la destra e la borghesia con la
sinistra”. I primi lo hanno fatto perché sono di destra e vogliono difendere le
sicurezze e i secondi perché sono di sinistra e coraggiosi, ottimisti, aperti
al futuro ed all’innovazione[48]. Lo
schema è antico, se ne possono trovare tracce persino nei dialoghi platonici, e
in linea diretta in tutte le posizioni che gli ottimati nella storia hanno
preso per respingere la plebe che irragionevolmente voleva una parte[49].
Ma a questo punto gli serve un altro, ultimo ingrediente:
la ricerca di Daniel Oesch gli fornisce una spiegazione alternativa alla
posizione relativa nella distribuzione delle risorse economiche, per l’opposizione
di alcuni, anzi dei più. In realtà chi è occupato in compiti organizzativi,
indipendentemente dalla ricchezza e reddito, tende ad essere autoritario, mentre
chi è impegnato nei lavori cognitivi e relazionali tende ad essere liberale[50].
Naturalmente ciò significa che le identità di classe
sono tramontate (p.84), e residuano forme identitarie difensive tra le quali la
nazione. La tesi è, insomma, costruita sulla scorta delle posizioni degli anni novanta
di autori come Castells e Bauman (messe in campo quando la risposta alla
globalizzazione non era emersa e la crisi non aveva prodotto gli enormi
smottamenti di senso attualmente in campo).
Alla fine per
queste ragioni “sarebbe disastroso” se il nazionalismo che si diffonde
riuscisse ad “invertire la globalizzazione”.
La sinistra
sovranista
Dopo questi lunghi preamboli, infine, conduce
direttamente l’attacco alle posizioni emergenti nel campo della sinistra contro
la globalizzazione:
1-
alla posizione di Thomas
Fazi e Bill Mitchell, che qualifica come “i maggiori esponenti” della tesi
dello stato interventista e quindi sovrano, citando il libro “Sovranità
o barbarie”, del quale contesta le tesi keynesiane sulla base di
semplici falsi[51], ricostruzione storiche
mainstream ma non corrette né accurate[52],
con repentini cambi di soggetto non esplicitati, e controfattuali arditi[53]. Una
delle cose più significative della confutazione è quando si oppone alla spesa
pubblica con un argomento pienamente preso dalla cassetta degli attrezzi della “Scuola della Virginia” che aveva in
precedenza aspramente criticato. Quindi si impegna nel seguente argomento: se uno
stato, comunque, si ritirasse dagli accordi dell’Omc, ne seguirebbe che “i
costi per l’importazione delle merci straniere sarebbero molto alti mentre le
esportazioni diventerebbero più complesse”, in questo argomento si mettono
insieme cose diverse e si abbrevia una complessa catena causale, per la quale
sarebbe appropriato rispondere, come lui fa altrove, che “dipende”. Infine nega
che se si riacquistasse sovranità democratica, e quindi economica, si
potrebbero stringere nuovi accordi con l’argomento che la spinta alla
distruzione della globalizzazione è egemonizzata dalla destra (ma la destra
perché non dovrebbe volere la cooperazione economica a vantaggio reciproco,
ovvero bilaterale, questa è, ad esempio, la politica sbandierata da Trump?). Ne
segue, che “Mitchell e Fazi, e chiunque altro sostenga una simile distruzione
delle istituzioni internazionali, devono accettare che, almeno per il medio
periodo, si ritroverebbero in un mondo contraddistinto da un commercio
internazionale limitato e da un antagonismo tra nazioni più intenso” (p.101)[54].
2-
Il secondo sistema
di obiezioni è raggruppato sotto l’etichetta “Welfare State nazionale”, ed è ricondotto alla “scuola di Colonia”
di Wolfgang Streeck[55],
Martin Hopner, e Fritz Scharpf. La tesi principale è riassunta abbastanza
brutalmente con la tesi che la missione della UE conduce al neoliberismo, anche
attraverso le decisioni della Corte di giustizia contro gli Stati[56]. A
queste tesi che qualifica come “autorevoli”, risponde con una pura petizione di
principio: “si tratta di tesi autorevoli, ma resta vero che un mondo in cui la
politica democratica rimane intrappolata
a livello nazionale è un mondo in cui l’ordine neoliberista al di là della
portata della democrazia continuerà a dominare il piano economico
sovranazionale”. La parola chiave di questa risposta è “intrappolata”, la politica democratica è qualcosa che esiste in sé
e, come fosse un animale, può essere intrappolata o essere libera, non sfiora l’attenzione
la natura costruita (da sfere pubbliche,
società civili ricettive, culture politiche condivise, istituzioni, regole e
prassi) della “politica democratica”. Come comincia ad essere evidente, se si
eleva, salendo di un piano, questa non si trasferisce ma si dissolve[57]. Segue
un solito e mal costruito argomentum a
contrario fondato sulla Brexit e sulla speranza di poter rovesciare l’andamento
delle politiche neoliberali (delle quali non è chiaro il carattere di dispositivo
di potere, nel contesto competitivo europeo).
Cosa fare
La speranza di Colin Crouch è dunque di risolvere i
molti problemi presenti recuperando l’agenda di Delors e riducendo ulteriormente
la discrezionalità dei governi nazionali, che si piegano alle esigenze delle
lobbies locali. Come scrive “nelle mani dei governi nazionali è stata lasciata
troppa e non troppo poca discrezionalità” (p.108).
Per cui alla fine ci sono solo tre scelte possibili:
1-
rafforzare la Ue,
2-
accettare la
globalizzazione e restringere le scelte nazionali a dimensioni marginali,
3-
rompere l’economia
globale,
Davanti a questa scelta “nessuna persona di sinistra dovrebbe distogliersi dalla prima opinione,
dall’opportunità di costruire una solidarietà transnazionale, per saltare sul
carrozzone xenofobo e reclamare un’impossibile sovranità economica nazionale”.
Insomma, siamo sempre al Tina[58],
unita ad una chiamata identitaria che ricorda molto da vicino il “corno-Autain” del dilemma
Kuzmanovic-Autain con il quale siamo partiti. Le “persone di sinistra” alle
quali fa riferimento Crouch sono simili a lui: abbienti, colte, cosmopolite,
legate a valori liberali, ottimiste.
Poi, come spesso accade nei libri di Colin Crouch, le
ultime dieci pagine sono spese per proporre qualche adattamento secondario (il
più rilevante è il “fair trade”, che,
però se portato alle sue conseguenze, come propone Rodrik[59]
indurrebbe proprio di uscire dalla globalizzazione, e una non molto chiara “sussidiarietà verticale”).
L’autore si trova davanti, insomma, ad un problema
insolubile, considera esistenzialmente inaccettabile l’unica soluzione
razionale, e sulla spinta di un irresistibile richiamo identitario cerca quindi
di ridurne la complessità cantando nuovamente, e sempre, ossessivamente, i
vecchi e familiari ritornelli.
Alla fine, rassicurato, su concentra su piccoli
problemi ai margini.
Che tristezza.
[1]
- Tra queste si può ricordare Ralf Dahrendorf, con il suo “Quadrare
il cerchio”, del 1995, ma anche il precoce “1989.
Riflessioni sulla rivoluzione in Europa”, del 1990; Richard Rorty,
nelle conferenze del 1996-7 raccolte in “Una
sinistra per il prossimo secolo”, Jurgen Habermas con “La costellazione postnazionale”, del 1999
e “L’occidente
diviso”, del 2004; Robert Dahl, ad esempio “Sulla democrazia” del 1998; Bernard Manin, “Principi
del governo rappresentativo”, del 1997, Robert Putnam in “Capitale sociale e individualismo”, del
2000, o il seminale “La società del rischio”
del 1986 di Ulrich Beck; e i primi tre volumi di Castels, “La nascita della società di rete”, del 1996, “Il potere delle identità”, del 1997, “Volgere di millennio”, del 2000. Nella bibliografia citata si
ritrovano, invece, Bagnasco (1999), Castells (1996), Dahl (1989), Dore (2000),
Giddens (1998), Putnam (1993, 2000), Pizzorno (1977, 1993, 2000), Reich (1991).
[2]
- Solo per fare qualche esempio: dal 2006 al 2008, esce la trilogia di
Rosanvallon, il primo “La
politica nell’età della sfiducia”, è del 2006, il secondo “la
legittimità democratica”, è del 2008, ed il terzo “L’età
dell’uguaglianza” del 2011; nel 2002 Joseph Stiglitz inizia la sua conversione
con “La
globalizzazione e i suoi oppositori”, parzialmente precisato e rettificato
nei toni (nel 2002 era appena uscito sbattendo la porta dalla BM), in “La
globalizzazione che funziona”, del 2006; nel 2003 Raghuram Rajan e
Zingales, pubblicano una moderata critica in “Salvare
il capitalismo dai capitalisti”, e nel 2005 Branko Milanovic, ex BM,
irrompe nel dibattito sulla ineguaglianza, dopo alcuni paper, con “Mondi
divisi”; nel 2006 Amartya Sen pubblica il suo pluricitato “Identità
e violenza”, nel 2008 esce anche “Territorio,
autorità, diritti”, di Saskia Sassen; vengono pubblicati “Potere e contropotere nell’età globale”,
del 2002, e “Conditio Humana”, nel
2007, di Ulrich Beck.
[3]
- Restando dalle parti degli stessi autori, Branko Milanovic nel 2011 pubblica “Chi
ha e chi non ha”, Dani Rodrik irrompe nel dibattito con “La
globalizzazione intelligente” ed il suo famoso ‘trilemma’, Stiglitz
completa la conversione (che, però, non lo porta fuori del paradigma
neoclassico, ma dalle parti dei suoi confini) con “Il
prezzo della disuguaglianza”, del 2012, preceduto da “Bancarotta”,
del 2010; Raghuram Rajan, “Terremoti
finanziari”, del 2010, Wolfgang Streeck, “Tempo
guadagnato”, del 2013, Jan-Werner Muller “L’enigma
democrazia”, del 2011; Jurgen Habermas pubblica nel 2011, “Questa
Europa è in crisi”, e nel 2013, “Nella
spirale tecnocratica”, Peter Mair affonda il coltello della sua critica
postuma con “Governare
il vuoto”, nel 2013, e Castells completa il suo lavoro con “Comunicazione e potere”, del 2009 e “Reti di indignazione e speranza”, del 2012.
[4]
- Sono “Il
potere dei giganti”, del 2011, e “Quanto
capitalismo può sopportare la società”, del 2013.
[5]
- “Controdemocrazia”, cit., p.118.
[6] -
Nomina, all’epoca, WTO, il FMI, la UE, e l’Ocse.
[7] - Chiaramente uso questo termine
in un’accezione più tradizionale rispetto a quella messa in campo da Negri e
Hardt nel loro libro di grande successo “Impero”,
del 2000, in cui questo, che sorge “al crepuscolo della sovranità europea”, ma
è “il contrario dell’imperialismo”, in quanto non ha “un centro di potere e non
poggia su confini e barriere fisse”, ma è “un apparato di potere decentrato e
deterritorializzante che progressivamente incorpora l’intero spazio mondiale
all’interno delle sue frontiere aperte e in continua espansione”. Un simile “impero”,
amministra “identità ibride”, crea “gerarchie flessibili”, determina “scambi
plurali”, e modula “reti di comando”. Mescola i singoli colori nazionali in un arcobaleno
globale ed imperiale. L’ottimismo dei nostri li porta a far derivare dall’osservazione
che si è determinata una trasformazione dei processi produttivi (a danno del lavoro
meramente industriale in favore di lavoro cognitivo, ovvero “basato sulla comunicazione,
la cooperazione e l’affettività”), generando valore attraverso la produzione
della stessa vita sociale, la conclusione che “non ci sarà un leader mondiale”,
l’imperialismo è finito. A me pare che abbia molto più ragione Samir Amin,
quando più o meno negli stessi anni parla di “triade” (Usa-Giappone-UE) come
dominus della nova fase imperiale (in particolare si può leggere “La crisi”,
del 2009) e riconosce una intrinseca capacità del capitalismo di schiacciare le periferie, creandole come
tali. Creandole, cioè, in quanto periferie, rispetto ai
centri dominanti nei quali il capitale si concentra e dalle quali domina,
accade che la logica intrinseca della macchina produttiva (di valore) tende
quindi continuamente a fare della natura (e degli uomini) risorse e per questo ad estrarle,
ad alienarle. Per contrastare questa tendenza, dice Amin, non bisogna aspettare
che una qualche contromeccanica automatica intervenga a salvarci, come vorrebbe
Negri: bisogna prendere il potere.
Occorre, cioè, lottare per il potere. Costringerlo a fare i conti con le forze
popolari, schiacciate, ma che vogliono rivendicare il proprio, dunque porre,
intanto, la questione della democrazia dove è e dove si può rivendicare. In altro
linguaggio
[8] -
Si veda, ad esempio Ernst Lohoff, Norbert Trenkle, “Crisi,
nella discarica del capitale” e “Terremoto
nel mercato mondiale”, Robert Kurz “Le
crepe del capitalismo”, o, in una del tutto diversa prospettiva
keynesiana Massimo Amato, Luca Fantacci “Fine
della finanza”.
[9]
- Saskia Sassen, “Espulsioni”,
p.232. Quando i più potenti “meccanismi di accumulazione dei profitti si
spostano dall’espansione della produzione di massa e dallo sviluppo
dell’infrastruttura verso innovazioni finanziarie e il modello di impresa [a
rete lunga] post-anni Ottanta, vengono meno le ragioni per chiedere il
riconoscimento dei diritti, e il terreno su cui se ne facevano valere le
rivendicazioni si disarticola, si tramuta a sua volta in un margine sistemico”.
[10]
- Salvatore Biasco “Il
futuro dell’ordine mondiale neoliberista tra trasformazione e resilienza”,
Sinistrainrete, 2018.
[11]
- Si veda, Colin Crouch, “Il
potere dei giganti”.
[12]
- Ivi, p.65, in questo contesto, criticando le tesi della “Scuola di Chicago”, smontava le tesi che la concorrenza tra ‘imprese
giganti’ fosse della stessa natura di quelle tra i droghieri sotto casa, la
quale nasconde semplicemente, come abbiamo
visto, quella che occorre prevenire l’azione regolativa dello Stato la
quale fa sempre peggio, e quella che l’aumento generale della ricchezza di una
economia massimizza il benessere dei consumatori, “dato che la sua riduzione
non può accrescerlo” (p.73). Infine la tesi che la distribuzione in ultima
analisi è questione che non interessa l’economico.
[13]
- Ovvero della “Scuola della Virginia”,
ed in particolare Ronald Coase.
[14]
- Ivi. p. 204
[15]
- Una idea classicamente istituita nel pensiero economico e quasi dogma fondativo,
almeno dall’epoca in cui la convenienza indusse autorevoli teorici come
Ricardo, rinforzati da potenti lobbies industriali, ad individuarla.
[16]
- Titolo del libro del 2006 di Debora Spini, “La società civile postnazionale”,
di cui ho, peraltro, un bel ricordo come di giovane studiosa entusiasta e
intelligente (espatriata alla corte di Amarthya Sen). Nel libro di Debra,
tuttavia, il gatekeeper primario resta lo Stato nazionale, ed il Partito
Politico quello secondario.
[17]
- Kuzmanovic e Autain sono due noti esponenti di France Insoumise, che
incarnano una radicale differenza di linea e di prospettiva politica. Da tempo
tra la linea popolare, rivolta a tentare di ricostruire un rapporto affettivo e
di sostegno reciproco con i ceti popolari da decenni abbandonati dalla sinistra,
e la linea intersezionale e multiculturalista, basata sull’insediamento sociale
residuale della sinistra, ovvero parte dei ceti “riflessivi” provenienti dalle
medie borghesie professional e renditiere urbane, si era aperto un conflitto. All’avvicinarsi
delle elezioni europee, e in concomitanza con la ricerca, da parte della
direzione del movimento, di un accordo con i residui organizzati dell’area
socialista (il movimento di Chenènement e quello di Mauriel), ad inizio di
settembre alcuni articoli sull’immigrazione e sulla posizione di svolta della
Wagenknecht in Germania, hanno determinato l’avvio della rottura. Come
ricostruivo in questo
post, Kuzmanovic ha dichiarato che temi, anche importanti, come il femminismo,
i migranti ed i diritti LGBT, non hanno a che fare specificamente con la ‘sinistra’,
ma sono temi di lotta tipicamente liberali. Il punto è che la sinistra o è
popolare o non è, e dunque ha quale suo specifico “la difesa delle classi
popolari e la lotta contro il capitale”. Parte di questa lotta è la necessità
di ridurre l’esposizione di queste agli effetti negativi collaterali implicati
dalle immigrazioni, se eccessive in termini di ritmo e caratteristiche.
Clémentine Autain, deputata di Parigi, oppone a questi argomenti un punto di
vista identitario che teme di perdere “anima ed immagine”. Kuzmanovic ha finito
per doversi dimettere.
[18]
- Il riferimento è al giudizio da parte di Karl Marx di parte del programma
della sinistra socialista francese di Guesde.
[19]
- Verso la quale in passato non sono mancate critiche da parte sua.
[20]
- Si veda Charles Taylor “La
topografia morale del sé”, 1988.
[21]
- Jonathan Friedman, “Politicamente
corretto”,
[22]
- Si tratta, insomma, di “una nuova fase del conflitto tra ancienne regime e
illuminismo. Da un lato la sicurezza dell’autorità conservatrice e della
tradizione familiare, e dall’altro la libertà della ragione, dell’innovazione e
del cambiamento”.
[23]
-
[24]
- Ivi, p.6. Già in “Quanto capitalismo può sopportare la società”, del 2013,
del resto, aveva posto una distinzione di base tra due “socialdemocrazie”:
quella “difensiva” e quella “assertiva”.
[25]
- Il riferimento qui è al libro di Amartya Sen “Identità
e violenza”.
[26]
- Utilizzata come argomento contro il welfare, e/o a favore del
multiculturalismo e l’apertura delle frontiere, da autori come Hayek e Milton
Friedman, ma anche da Alesina e Glaeser in “Un
mondo di differenze”, 2004.
[27]
- Se dici una cosa, allora devi essere in quella data identità
preclassificata, e che fa prevalere la ‘valenza indessicale’ (cioè il contesto
della comunicazione) sul contenuto semantico (il significato)” (cfr. Jonathan
Friedman, “Politicamente corretto”).
[28] - Il “politicamente corretto” è coevo all’insorgere di una nuova élite
transnazionale (ben vista da autori chiave come Rorty, Lasch e Dahrendorf) che cerca di
neutralizzare l’opposizione moralizzando l’universo sociale e dunque
mobilitando, a fini di controllo, la vergogna. La simmetria essenziale è
con la politica mondiale a taglia unica (il “Washington Consensus”) ed i suoi TINA e passa per la
riclassificazione del liberale come progressista e del socialista come
reazionario. Ciò che è progressista è l’olistico, il nomade/rizomatico, il
diffuso e l’orizzontale. Ciò che è reazionario è il moderno, razionale,
astratto, verticale.
La
‘vecchia’ classe lavoratrice diventa, da soggetto storico del progresso,
‘deplorabile’ e nazionalista, egoista e meschina. Mentre il migrante,
rifugiato, le minoranze colorate, le identità plurali, diventano i nuovi eroi.
Questa
è una cultura fondata sul narcisismo (Lasch) che egemonizza una forma di
controllo basata sulla classificazione creando un controllo operativo
(“matriarcale”) basato sulla vergogna. Le varie versioni del “politicamente
corretto” sono l’ideologia funzionale allo stato della tecnica e ad un modo di
produzione che da lungo tempo ha dismesso i ferri vecchi della triade
Dio-Stato-Famiglia, inseguendo la forma ‘liquida’ della merce e costruendo un
‘umano non sociale’ abbandonato a tutte quelle forme di autoritarismo nascoste
nell’apparenza di pienezza di diritti la cui piena espressione è il mercato
autoregolato.
[29]
- Si intende per “base sociale” i ceti, o frazione di questi, che forniscono il
consenso di base, l’identificazione a due vie, il supporto economico e la base
di reclutamento principale, di un movimento politico. Un esempio di analisi che
fa uso di questa concettualizzazione in riferimento a politiche della destra
italiana sono in questo
post.
[30]
- Ovvero degli effetti di marginalizzazione ed erosione, sia economica sia
identitaria, della globalizzazione sulle classi medie inferiori e i ceti popolari.
[31]
- Si intende per “base di massa” l’area di più largo consenso di massa, che si
manifesta in occasione del voto o dei momenti di mobilitazione allargata.
[32] - “Agnese, superba d'averlo dato, levò, a una a una,
le povere bestie dalla stìa, riunì le loro otto gambe, come se facesse un
mazzetto di fiori, le avvolse e le strinse con uno spago, e le consegnò in mano
a Renzo; il quale, date e ricevute parole di speranza, uscì dalla parte
dell'orto, per non esser veduto da' ragazzi, che gli correrebber dietro,
gridando: lo sposo! lo sposo! Così, attraversando i campi o, come dicon colà, i
luoghi, se n'andò per viottole, fremendo, ripensando alla sua disgrazia, e
ruminando il discorso da fare al dottor Azzecca-garbugli. Lascio poi pensare al
lettore, come dovessero stare in viaggio quelle povere bestie, così legate e
tenute per le zampe, a capo all'in giù, nella mano d'un uomo il quale, agitato
da tante passioni, accompagnava col gesto i pensieri che gli passavan a tumulto
per la mente. Ora stendeva il braccio per collera, ora l'alzava per
disperazione, ora lo dibatteva in aria, come per minaccia, e, in tutti i modi,
dava loro di fiere scosse, e faceva balzare quelle quattro teste spenzolate; le
quali intanto s'ingegnavano a beccarsi l'una con l'altra, come accade troppo
sovente tra compagni di sventura”.
Alessandro Manzoni, I promessi sposi, cap. 3
[33]
- In Ungheria il governo Orban in una prima fase, che dura tutt’ora, ha chiuso
del tutto le frontiere all’immigrazione per inseguire e mobilitare la base di
massa del movimento, ma questo ha portato gradualmente a condizioni di pieno
impiego e queste, come dice la teoria economica (a meno non la si mascheri con
ipotesi ad hoc), ha indotto ad una tendenza all’aumento dei salari che, però,
va contro gli interessi della base sociale del regime (imprenditori dediti all’esportazione
ed altri segmenti sociali connessi. Di fronte a questo dilemma per ora il
regime ha risposto restringendo drasticamente i diritti dei lavoratori, in modo
da contenerne il costo.
[34]
- In Italia la componente della Lega del governo in essere, per molteplici
ragioni, ha cercato di dirigere la rabbia della base di massa e di parte della
base sociale su terzi ancora più deboli, scelti ovviamente negli immigrati. La
manovra per ora sta avendo successo, non solo verso il consenso di massa, ma
anche verso le opposizioni di sinistra che sono catturate come una falena dalla
luce dalla retorica messa in campo e non riescono a far altro che reagire opponendone
una uguale e contraria che sconta al massimo grado l’impopolarità.
[36]
- Lo stesso Crouch descrive questo rischio sotto due profili: tendenza a soffocare
il dibattito pubblico, impedire il superamento delle posizioni acritiche degli
anni passati.
[37]
- Per un efficace riassunto si può vedere il libro di Andrew Spannaus “La
rivolta degli elettori” del 2017.
[38] -
Si veda Alain Denault, “Mediocrazia”, e “Governance”.
[39]
- Viene citato Francois Bourguignon, “The
globalization of inequality”, Branko Milanovic, “Ingiustizia
globale”, Joseph Stiglitz “La
globalizzazione e i suoi oppositori”, Dani Rodrik “La
globalizzazione intelligente”.
[40]
- Si veda Kiran Patel, “Il
New Deal”
[41]
- Crouch, 2019, p.26. Qui si evidenzia tra l’altro l’uso parziale delle fonti,
perché se avesse letto con attenzione Dani Rodrik un simile giudizio sarebbe
impossibile (ma anche leggendo il libro citato di Stiglitz). Il punto è che
questo è un dogma centrale nella narrazione imperiale globalista (a partire da
quella inglese che fondava la posizione di Ricardo), e quindi non è possibile metterla
in questione, altrimenti bisognerebbe concludere che le “sinistre conservatrici”
hanno ragione.
[43]
- Peccato che sia un esempio esattamente dell’opposto, ovvero di chiusura selettiva
e di direzione dall’alto.
[44]
- Per restare ad un autore riconosciuto e citato da Crouch, ad esempio, Dani
Rodrik contesta direttamente in questo paper,
di cui ho fatto una approfondita lettura in questo
post, la tesi che la crescita cinese, tra le altre, non abbia prodotto effetti
sulla distribuzione interna della ricchezza nell’asse lavoro/capitale in
occidente. Per Rodrik, che fa uso di recenti ed autorevoli ricerche, il commercio
internazionale ha subito un massivo “shock cinese” che ha intensificato la
disuguaglianza economica. L’importazione di prodotti ad alta intensità di
lavoro (cioè prodotti a bassa sofisticazione), quindi, “ha colpito gli addetti
alla produzione nelle economie ricche in modo particolarmente duro”, proprio
come la teoria standard del commercio internazionale prevedeva (immaginando
compensazioni che ovviamente non sono mai arrivate, anzi, sono state ridotte).
Ma la teoria standard immagina anche che i mercati del lavoro e gli equilibri
macroeconomici, disturbati dallo shock commerciale, siano flessibili e in un
tempo ragionevolmente corto possano riassorbire i lavoratori (in altre parole,
che un impiegato tessile si riconverta in una industria metalmeccanica che fa
treni venduti in Cina). Non è successo, “e [dunque] lo shock cinese ha prodotto
grandi deficit commerciali e innalzato la disoccupazione nei mercati del lavoro
locali. La creazione di lavoro in altri settori orientati alle esportazioni
sembra essere stata disattivata”.
[45]
- Il paper
sostiene che “L'emergere della Cina come
grande potenza economica ha indotto un cambiamento epocale nei modelli del
commercio mondiale. Nello stesso momento, ha messo in discussione gran parte
della saggezza empirica accumulata sul modo in cui il mercato del lavoro reagisce
agli shock commerciali. Accanto ai vantaggi annunciati dell'espansione del
commercio per i consumatori ci sono notevoli costi di aggiustamento e
conseguenze distributive. Tali impatti sono stati più visibili nei mercati
locali del lavoro in cui si concentrano le industrie esposte alla concorrenza
estera. La regolazione dei mercati locali del lavoro è stata notevolmente
lenta, con i salari e i tassi di partecipazione alla forza lavoro che sono
rimasti depressi e i tassi di disoccupazione elevati per almeno un decennio dopo
che ha avuto inizio lo shock commerciale della Cina. I lavoratori esposti hanno
sperimentato un reddito vitale ridotto e una maggiore turbolenza del lavoro. A
livello nazionale, l'occupazione è diminuita nelle industrie degli Stati Uniti
più esposte alla concorrenza delle importazioni, come previsto, ma l'aumento in
compensazione dell'occupazione in altri settori si deve ancora materializzare.
Una migliore comprensione circa quando e dove il commercio è costoso, e come e
perché può essere utile, è un elemento chiave dell'agenda di ricerca per gli
economisti del commercio e del lavoro”.
[46]
- Su questo tema le classiche ricerca di Marianna Mazzucato, Michael Jacobs, “Ripensare
il capitalismo”.
[47]
- Crf Milton e Rose Friedman, “Liberi
di scegliere”, Milton Friedman “Capitalismo
e libertà”.
[48]
- Li descrive in questo modo: “una popolazione generalmente più giovane, più
sicura di sé, più incline a vedere gli orizzonti aperti e il multiculturalismo
come un’opportunità più che una minaccia” (p.95).
[50] - D. Oesch, “Redrawing the class map”, e Kirschelt,
Rehm, “Occupation as a site of political
preference formation”, in “Comparative Political Studies”, 2014
[51]
- L’affermazione che “le politiche keynesiane non erano indirizzate a governi
con debiti cronici”, quando il debito pubblico inglese all’epoca era molto più
alto di quello italiano di adesso e lo è restato a lungo.
[52]
- Quella che il debito dei paesi del sud, Italia in primis, derivino da
gestioni allegre, mentre derivano dalla fine della repressione finanziaria post
Bretton Woods.
[53]
- Quello che la speculazione avrebbe piegato le monete nazionali in assenza del
vincolo esterno, ovviamente è possibile, ma non necessario (dato che abbondano
controesempi).
[54]
- Due osservazioni in merito: queste sono le condizioni nelle quali si trovarono
la maggior parte delle nazioni nella fase di smontaggio della globalizzazione
imperiale inglese e del laissez-faire finanziarizzato che l’accompagnò nel periodo
terminale, ma questa fase vide sia le soluzioni autoritarie italiana e tedesca,
e giapponese, sia la soluzione del New Deal (questo
il punto raccontato da Rodrik, e questo
da Patel); lo schema ‘commercio vs guerra’ è tra i più antichi ma anche tra i
più consumati. In effetti non si confligge quando si commercia, ma lo si fa
normalmente un attimo dopo, se i commerci sono particolarmente squilibrati e
quindi sono essi stessi una politica di potenza invasiva.
[55]
- Del quale si può leggere “L’ascesa
dello stato di consolidamento europeo”, “Perché
l’euro divide l’Europa”, “Che
dire del capitalismo?”, “Come
finirà il capitalismo”
[56]
- Si veda Fritz Scharpf “La
doppia asimmetria dell’integrazione europea”.
[57]
- Un esempio di questa sensibilità, in un politologo che inizialmente era su
posizioni simili a quelle di Crouch, è in questo libro postumo di Peter Mair, “Governare
il vuoto”.
[58]
- Ovvero alla posizione presa e propagandata dalla Thatcher, e poi rilanciata
da Blair che è il porto sicuro di ogni spaventato vascello.
[59]
- Si veda “Dani Rodrik “E’
tempo di pensare in proprio al libero scambio”.
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