Noi non siamo
europei. Nessun travestimento
del nazionalismo, espressione appena domesticata del vecchio, storico, spirito
imperialista delle borghesie del continente, ci riguarda.
Del Manifesto
per la costituzione di una lista unica, di Calenda, come del precedente[1],
non ci convince questo spirito di potenza, questa evocazione di destino che a un orecchio storicamente consapevole
rimanda a tempi che devono trascorrere. Tempi da confinare nei libri di storia.
L’Italia è certamente un grande paese, ma non lo è
perché ‘protagonista’, non lo è perché vuole avere un “ruolo nel mondo”, non
perché vuole imporsi (sotto la foglia di fico della “sicurezza”).
Non va bene iniziare così:
“Siamo europei. Il destino dell’Europa è il destino
dell’Italia. Il nostro è
un grande paese fondatore dell’Unione Europea, protagonista dell’evoluzione di
questo progetto nell’arco di più di 60 anni. E protagonisti dobbiamo rimanere
fino al conseguimento degli Stati Uniti d’Europa, per quanto distante questo
traguardo possa oggi apparire. Il nostro ruolo nel mondo, la nostra sicurezza –
economica e politica – dipendono dall’esito di questo processo”.
L’Italia è un
grande paese perché nella sua storia,
ed in particolare nella storia popolare di liberazione, delle lotte di popolo,
ha saputo trovare sintesi alte ed originali di passione per la libertà, la
fratellanza e il reciproco sostegno.
È un grande paese per la capacità di risollevarsi, grazie alle
straordinarie riserve di energia e intelligenza, dai suoi punti più bassi e di riscattarsi
generosamente.
L’Italia è un
paese che ha saputo trovare
una delle sintesi politiche più alte ed efficaci nella sua Costituzione del ’48,
e che negli anni seguenti ha saputo diventare un esempio per tutti.
L’Italia che a noi
piace non è quella che piace a Calenda.
Non è l’Italia che esporta nel mondo, sacrificando i
suoi lavoratori e importando milioni di persone in condizioni di
sottoccupazione, mentre altri milioni di connazionali vengono accompagnati alle
porte da imprese insensibili e incapaci da decenni di investire su di loro[2].
Va anche peggio come continua:
“L’Unione Europea è il risultato della consapevolezza storica
e della volontà dei popoli europei. Un continente attraversato dalle guerre è
oggi uno spazio pacifico e comune di scambi culturali, politici, economici,
governato da regole ispirate a valori di libertà, tolleranza e rispetto dei
diritti. L’Unione Europea è la seconda economia e il secondo esportatore del
mondo. Un mercato unico di cinquecento milioni di persone, regolato dai più
alti standard di sicurezza e qualità, che assorbe ogni anno duecentocinquanta
miliardi di esportazioni italiane. Il nostro attivo manifatturiero è oggi
doppio rispetto a quello che avevamo prima dell’euro e la nostra manifattura,
seconda solo a quella tedesca, è legata da una inscindibile e strategica rete
di investimenti, collaborazioni industriali, tecnologiche e commerciali con le
altre economie europee. In Europa si concentra la metà della spesa sociale
globale a fronte del 6,5% della popolazione mondiale”
I successi che
Calenda elenca sono in realtà tragici insuccessi. La pace è un fatto, ma ovviamente determinato da cose
molto più forti e pratiche delle organizzazioni sovranazionali che un vento può
spazzare via in una mattina, come la storia
insegna. La pace si è avuta in tutto il mondo, dal ‘45 ad oggi nessuna
grande potenza, nessuna nazione tra le prime dieci, si è mai scontrata, e per
un buon motivo: fino al ’91 c’era la diarchia Usa-Urss e poi c’è stato l’impero
americano a garantirla.
Ma, soprattutto e più seriamente, gli scambi che
Calenda vanta sono praticamente solo economici; sul piano politico si
registrano, casomai, scontri crescenti, e questi sono ispirati solo alla
competizione. Certo la competizione è ‘libertà’ ed è rispetto dei ‘diritti’, ma
visti con gli occhi di chi questi se li può permettere. Chi non fa parte dei
confortevoli salotti resta fuori al freddo, al freddo della crescente e
spietata competizione. La libertà del mercato, è evidente, è per i ricchi.
Poi, certo, l’Unione Europea è il secondo esportatore
al mondo. E’ potenzialmente una grande potenza economica, è un grande mercato,
e, certo, il nostro attivo manifatturiero è cresciuto.
Ma la spesa sociale, che Calenda ipocritamente vanta,
è costantemente ridotta dall’Unione Europea che, sotto la guida inflessibile
del modello neo-mercatilista terdesco, vuole essere essenzialmente una grande
potenza di esportazione: tra le due cose c’è un nesso evidente e necessario.
Quel che non vuole dire Calenda è che questi “successi”, questa rinnovata
volontà di prevalere nel mondo, sono costruiti proprio a spese del modello
sociale europeo, e proprio a spese del suo straordinario popolo.
Il “grande conseguimento della storia” non è dunque l’Unione
Europea, ma è, casomai, l’Europa come era prima
della Unione.
Quel che, come cittadino del mondo, dell’Europa e
italiano, io penso di essere chiamato quindi non è affatto difendere e far
progredire il progetto neoliberale e neoimperialista europeo. Il progetto di
guerra, economica per ora, che le élite industriali e finanziarie (ma anche
buona parte di quelle politiche) da trenta anni portano ostinatamente avanti,
al prezzo di qualsiasi sacrificio, purché sia di altri.
Quel che come cittadino del mondo, dell’Europa e
italiano, io penso di essere chiamato a difendere è il modello sociale e costituzionale
dei paesi che sono usciti dal nazi-fascismo e con la forza della loro energia e
l’amore per la vera libertà hanno portato avanti per gli anni di vera crescita,
civile e sociale dei nostri paesi. Anni di vera crescita umana e sociale che l’Unione
Europea, uscita dalla crisi degli anni ’90, ha intenzionalmente interrotto.
Il rischio per la democrazia, e per la coesione
sociale, ha ragione Calenda c’è[3].
Ma bisogna guardare dietro le sue spalle, perché
sono quelli che lui difende a incarnarlo.
Per conservare l’Europa e rifondarla[4],
nei valori dell’umanesimo democratico, bisogna andare quindi esattamente nella
direzione opposta: bisogna mobilitare le forze del lavoro, del solidarismo e
del volontariato, della funzione pubblica che deve ritrovare il suo orgoglio e
la sua ineliminabile funzione prioritaria, della socialità diffusa, della
politica democratica.
Bisogna riprendere la lotta, non c’è più molto tempo.
[1]
- Si veda “Del
manifesto politico di Carlo Calenda”.
[2]
- Si veda, ad esempio, Rodolfo Ricci, “Quelli
che se ne vanno”
[3] - Scrive: “L’Unione è
dunque un grande conseguimento della storia, ma come ogni costruzione umana è
reversibile se non si è pronti a combattere per difenderla e farla progredire.
I cittadini europei sono oggi chiamati a questo compito.
L’Europa è infatti investita in pieno da una crisi
profonda dell’intero Occidente. La velocità del cambiamento innescato
dalla globalizzazione e dall’innovazione tecnologica, e parallelamente gli
scarsi investimenti in capitale umano e sociale – che avrebbero dovuto
ricomporre le lacerazioni tra progresso e società, tra tecnica e uomo – hanno
determinato l’aumento delle diseguaglianze e l’impoverimento relativo della
classe media. Ciò ha scosso profondamente la fiducia dei cittadini nel futuro.
L’incapacità di gestire i flussi migratori provenienti dalle aree di prossimità
colpite da guerre e sottosviluppo ha messo in crisi l’idea di società aperta.
La convergenza tra queste turbolente correnti della storia ha minato la fiducia
di una parte dei cittadini nelle istituzioni e nei valori delle democrazie
liberali. Per la prima volta dal dopoguerra esiste il rischio
concreto di un’involuzione democratica nel cuore dell’Occidente. La battaglia
per la democrazia è iniziata, si giocherà in Europa, e gli esiti non sono
affatto scontati”.
[4] - Scrive ancora Calenda: “L’obiettivo
non è conservare l’Europa che c’è, ma rifondarla per riaffermare i valori
dell’umanesimo democratico in un mondo profondamente diverso rispetto a quello
che abbiamo vissuto negli ultimi trent’anni.
Un
mondo che affronta tre sfide cruciali: il radicale cambiamento del lavoro, e
dunque dei rapporti economici e sociali, a causa di un’ulteriore accelerazione
dell’innovazione tecnologica; il rischio ambientale e la necessaria costruzione
di un modello di sviluppo legato alla sostenibilità; uno scenario
internazionale più pericoloso e conflittuale. Le forze da mobilitare per la costruzione della
nuova Europa sono quelle del progresso, delle competenze, della cultura, della
scienza, del volontariato, del lavoro e della produzione”.
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