Luigi
Einaudi è una grande e cruciale figura della nostra storia nazionale, non
perché sia stato un grande economista, ma per la sua duratura influenza sul
clima politico e culturale del paese. Nato nel 1874, e dunque più anziano di
Mussolini che nasce nove anni dopo, e di Hitler, che addirittura è di
venticinque anni più giovane, quasi coetaneo di Stalin (1878), e di soli
quattro anni più giovane di Lenin (1870), di Roosevelt più anziano di otto
anni, esattamente coetaneo di Churchill, muore nel 1961, quindi sopravvive a Mussolini
e Hitler (ovviamente), ma anche a Lenin (1924), Roosevelt (1945), a Stalin (1953).
Tra gli economisti è molto più giovane di Alfred Marshall (1842-1924) e
Wilfredo Pareto (1848-1923) e della sua generazione, quindi di Walras
(1834-1910), Menger (1840-1921), Jevons (1835-1882), che fondano la scuola
marginalista, coetaneo di Arthur Cecil Pigou (1877-1959) quasi contemporaneo di
Keynes (1883-1946) e Schumpeter (1883-1950), e più anziano di una generazione dei
fondatori della scuola ordoliberale come Walter Euchen (1891-1950), Wilhelm
Röpke (1899-1966), Franz Böhm (1895-1977), Ludwig Erhard (1897-1977).
Rispetto alla scuola austriaca, seguace del Lassaiz-faire e poi allineatasi con
la linea neoliberale, fu anche più anziano di Ludwig von Mises (1881-1973) e di
Hayek (1899-1992). Una generazione ancora dopo arriva Milton Friedman (1912-2006),
e, tanto più, il suo allievo Rothbard (1926-1995).
Per
fare un esempio quando nasce Einaudi John Stuart Mill (1806-1873) era morto da
un anno, e Marx (1818-1883) era ancora vivo, Max Weber (1864-1920) aveva dieci
anni.
Nella
sua lunga vita fece il docente universitario a Torino, avendo come allievi tra
gli altri Gramsci e Togliatti, il giornalista, il politico (prima del fascismo
è Senatore del Regno, fu ministro economico con il primo governo De Gasperi, e il
secondo Presidente della Repubblica Italiana), il funzionario pubblico (dal
1945 al 48 Governatore della Banca d’Italia). I Presidenti del Consiglio cui,
come Presidente della Repubblica conferì incarico sono quelli che avviano la
democrazia italiana sulla strada che prese nel dopoguerra e che per quaranta
anni la tenne fermamente ancorata alla lealtà Atlantica e saldamente bloccata
sulla Democrazia Cristiana (furono, Alcide De Gasperi, 1948-53, Giuseppe Pella,
1953-54, Amintore Fanfani, 1954, Mario Scelba, 1954-55).
Sono
anche quelli che, nel contesto di una sovranità molto limitata, avviano l’Italia
nella direzione del progetto federalista europeo[1].
Dopo
una primissima fase socialista, quando collabora a “Critica Sociale”, rivista di Turati nella fase riformista[2], ma abbastanza presto si sposta
nel primo decennio del novecento su posizioni liberiste e inizia ad insegnare a
Torino e Milano[3].
Nel 1919, a 45 anni, viene nominato Senatore del Regno su proposta di Nitti, e
firma il Manifesto del “Gruppo Nazionale
Liberale”, insieme a Giovanni Gentile e Gioacchino Volpe, che si propone
uno stato forte capace di combattere il “radicalismo democratico”. Già nel 1920
scrive in favore del programma di unificazione europeo sul Corriere della Sera.
Nel
1921 si avvicina al programma economico del Partito Fascista, anche se dopo il
delitto Matteotti si schierò in difesa dello Stato Liberale pre-fascista. Tenendo
una posizione di critica elitista al fascismo[4] interruppe l’attività
accademica e, come Benedetto Croce, restò in posizione critica (l’eccezione fu
la conservazione della cattedra a Torino, “per continuare il filo dell’insegnamento
secondo l’idea di libertà”, anche se comportava il giuramento).
Restando
nel Senato del Regno votò contro le leggi razziali nel 1938 e contro la Guerra
d’Etiopia.
Il
31 agosto 1943 venne nominato Rettore dell’Università di Torino,
ma dopo l’8 settembre, quando il fascismo era già caduto improvvisamente dopo il voto del
Gran Consiglio del 25 luglio, si rifugia in Svizzera, dove tiene una fitta corrispondenza con
Altiero Spinelli e Ernesto Rossi (suo ex allievo) tra gli altri, aderendo al Movimento Federalista Europeo.
Tornato
in Italia e nominato Governatore della Banca d’Italia, si dichiara per la
monarchia al referendum e viene eletto nelle file della Unione Democratica Nazionale[5]
all’Assemblea Costituente.
Muore a Roma il 30 ottobre del 1961.
In
questo piccolo libro, che include una
raccolta di saggi di datazione varia, ma antecedenti alla guerra[6], e posteriori al 1924, l’anno
del delitto Matteotti, vengono trattati molti temi importanti e vi si trova una
importante recezione dell’opera di Wilhelm Röpke.
Tra
i temi rilevanti per la lettura quello del federalismo, avviato già nel 1918-19,
con una serie di articoli scritti per il Corriere
della Sera sotto lo pseudonimo di Junus. Ad esempio, il 28 dicembre 1918, l’anno
primo della rivoluzione russa, e della rivolta spartachista, Einaudi scrive sul
Corriere “Il
dogma della sovranità e l’idea della Società delle nazioni”, che rilancia
la retorica wilsoniana avvertendo della necessità di rinunciare al “dogma della
sovranità assoluta dello stato imperiale, democratico o proletario”. Vi viene
censurata la posizione della “Politica”
di Treitschke[7]
che postula una sovranità, appunto, assoluta, come quella di quella formazione
politica indipendente e perfetta in se stessa. Una idea che è posta alla radice
della guerra e quindi “massimamente malefica”. Estendendosi dalla indipendenza
economica di List, all’idea di Europa Centrale di Naumann, e quindi ai sogni
concentrici di dominio dello spazio vitale, il sogno di dominazione, ricorda Einaudi,
logicamente si dovrebbe estendere fino al dominio intero del mondo e nulla di
meno.
Dunque
ne deriva un obbligo:
“Il
sogno di dominazione dei tedeschi è caduto; ma potrebbe risorgere sott'altra
forma, inaspettata e mascherata, ove noi non distruggessimo nei cuori degli
uomini le idee ed i sentimenti da cui esso trasse origine. Che altro è lo
spirito di propaganda dei comunisti frenetici russi e dei socialisti tedeschi
se non la novella forma dell'idea che nessuno stato possa vivere se la sua
potenza - ieri potenza di armi, domani dittatura del proletariato - non sia
perfetta e non si estenda perciò a tutto l'orbe terraqueo? Bisogna distruggere
e bandire per sempre il dogma della sovranità perfetta, se si vuole che la
società delle nazioni nasca vitale. Lo si può e lo si deve, perché esso è
falso, irreale, parto della ragion ragionante”.
L’attacco
al dogma della “sovranità perfetta” (si noti, sia dei socialdemocratici di
Weimar, sia dei bolscevichi russi) deriva anche essa da una “ragione”:
“La verità è il vincolo,
non la sovranità degli stati. La verità è la
interdipendenza dei popoli liberi, non la loro indipendenza assoluta. Per mille
segni manifestasi la verità che i popoli sono gli uni dagli altri dipendenti, che
essi non sono sovrani assoluti ed arbitri, senza limite, delle proprie sorti,
che essi non possono far prevalere la loro volontà senza riguardo alla volontà
degli altri. Alla verità dell'idea nazionale: «noi apparteniamo a noi stessi»
bisogna accompagnare la verità della comunanza delle nazioni: «noi apparteniamo
anche agli altri». Il motto «Deutschland uber alles», divenuto mortifero per
l'interpretazione che ne diedero non i poeti che lo crearono, ma i filosofi che
lo teorizzarono, conduce all'autocrazia universale; ma il motto «Sinn fein» -
noi soli - che gli irlandesi hanno innalzato come grido di guerra contro la
comunità britannica delle nazioni è l'antesignano dell'anarchia; ed i suoi
frutti si vedono nello sminuzzamento della sovranità dei soviet russi, preda
immancabile al cesarismo dell'avvenire. Lo stato isolato e sovrano perché
bastevole a se stesso è una finzione dell'immaginazione; non può essere una
realtà”.
Estremizzando
il concetto ben oltre il sensato (che nessuno stato ha mai, democratico o non,
pensato di isolarsi completamente, se non costretto), e riportando una proiezione
indicativa dell’antropologia negativa liberale sulla forma collettiva statuale,
Einaudi continua:
“Come
l'individuo isolato non visse mai, salvoché nei quadri idillici di una poetica età
dell'oro, come l'uomo primitivo buono e pervertito dalla società fu un parto
della fantasia di Rousseau; mentre invece vivono soltanto uomini uniti in
società con altri uomini; e soltanto l'uomo legato con vincoli strettissimi
agli uomini può aspirare ad una vita veramente umana, solo l'uomo-servo può
diventare l'uomo-Dio; così non esistono stati perfettamente sovrani, ma
unicamente stati servi gli uni degli altri; uguali ed indipendenti perché
consapevoli che la loro vita medesima, che il loro perfezionamento sarebbe
impossibile se essi non fossero pronti a prestarsi l'un l'altro servigio. Come
potrebbero gli uomini, come potrebbero gli stati vivere, senza retrocedere di
millenni, senza ritornare a condizioni di miserabile barbarie, se ognuno di
essi non chiedesse agli altri derrate alimentari, materie prime, servigi
postali, telegrafici, telefonici, pronto a dare in cambio merci e servigi
equivalenti? Come, in tanto fervore di progressi scientifici, si può immaginare
per un istante una nazione concentrata unicamente nel perfezionare un suo
esclusivo «genio nazionale» senza che ben presto quella nazione vegga le altre,
le quali serbarono i mutui rapporti di scambi intellettuali, precederla di gran
tratto sulla via delle conoscenze?”
Se
la sovranità assoluta è un male, del resto è anche una finzione, che la guerra
ha interrotto, tuttavia occorre “procedere oltre sulla strada dell’abdicazione
di sovranità”, e, superando i Parlamenti, “trasformati in camere di
registrazione”, si devono formare “stati più ampi, organi di governo diversi da
quelli normali”. Organi spinti dalla necessità di coordinamento della guerra:
“Già
nel 1913 ben 135 convegni internazionali avevano discusso e taluno di essi,
avendo carattere ufficiale, aveva regolato, con la riserva puramente formale
della sanzione dei poteri deliberanti dei singoli stati cosidetti sovrani,
materie internazionali. Ma quanto son cresciute quelle materie durante la
guerra! Coloro che, invasati della mania ragionante della sovranità nazionale,
avevano nei primi istanti della guerra farneticato di un inabissamento di tutti
gli ideali rapporti fra nazioni, di un ritorno allo stato chiuso, ben dovettero
ricredersi, poiché subito si vide che la nostra vita medesima, la nostra
resistenza alla schiavitù straniera, le nostre vittorie dipendevano
esclusivamente dalla nostra capacità a mantenere quei vincoli e quei rapporti
con i paesi di là dal mare”.
I
Trattati e la cessione della sovranità che ne deriva sono dunque indispensabili,
perché “solo le nazioni integrate, consapevoli di se stesse, potranno fare rinunce
volontarie che siano innalzamenti e non atti costretti di servitù. Soltanto le
nazioni libere potranno vincolarsi mutuamente per garantire a se stesse, come
parti di un superiore organo statale, la vera sicurezza contro i tentativi di
egemonia a cui, nella presente anarchia internazionale, lo stato più forte è
invincibilmente tratto dal dogma funesto della sovranità assoluta”.
Immediatamente
dopo, il 5 gennaio 1918, scriverà ancora:
“Leggesi
in tutte le storie come gli Stati uniti siano vissuti sotto due costituzioni:
la prima disposta dal congresso del 1776 ed approvata dagli stati nel febbraio
1781, la seconda approvata dalla convenzione nazionale il 17 settembre 1787 ed
entrata in vigore nel 1788. Sotto la prima, l'unione nuovissima minacciò ben
presto di dissolversi; sotto la seconda gli Stati Uniti divennero giganti. Ma
la prima parlava appunto di ‘confederazione ed unione’ dei 13 stati, come oggi
si parla di ‘società delle nazioni’ e dichiarava che ogni stato «conservava la
sua sovranità, la sua libertà ed indipendenza ed ogni potere, giurisdizione e
diritto non espressamente delegati al governo federale». La seconda invece non
parlava più di «unione fra stati sovrani», non era più un accordo fra governi
indipendenti; ma derivava da un atto di volontà dell'intero popolo, il quale
creava un nuovo stato diverso e superiore agli antichi stati. «Noi - così dice
lapidariamente il preambolo della vigente costituzione federale - noi, popolo
degli Stati Uniti, allo scopo di fondare una unione più perfetta, stabilire la
giustizia, assicurare la tranquillità interna, provvedere per la comune difesa,
promuovere il benessere generale e garantire le benedizioni della libertà per
noi e per i posteri nostri, decretiamo e fondiamo la presente costituzione per
gli Stati Uniti d'America». Ecco sostituito al ‘contratto’, all'’accordo’ fra
stati sovrani per regolare ‘alcune’ materie d'interesse comune, l'’atto di
sovranità del popolo americano tutto intero’, il quale crea un nuovo stato e
gli dà una costituzione e lo sovrappone, in una sfera più ampia, agli stati
antichi, serbati in vita in una sfera più ristretta. Ve n'era urgente bisogno.
Quei sette anni di vita, dal 1781 al 1787, della ‘società’ delle 13 nazioni
americane erano stati anni di disordine, di anarchia, di egoismo tali da far
rimpiangere a molti patrioti il dominio inglese e da far desiderare a non pochi
l'avvento di una monarchia forte, che fu invero offerta a Washington e da
questi respinta con parole dolorose, le quali tradivano il timore che l'opera
faticosa sua di tanti anni non dovesse andare perduta. La radice del male stava
appunto nella sovranità e nell'indipendenza dei 13 stati. La confederazione,
appunto perché era una semplice ‘società’ di nazioni, non aveva una propria
indipendente sovranità, non poteva prelevare direttamente imposte sui
cittadini. Dipendeva quindi, per il soldo dell'esercito e per il pagamento dei
debiti contratti durante la guerra della indipendenza, dal beneplacito dei 13
stati sovrani. Il congresso nazionale votava spese, impegnava la parola della
confederazione e per avere i mezzi necessari indirizzava richieste di denaro ai
singoli stati. Ma questi o negligevano di rispondere o non volevano, nessuno
tra essi, essere i primi a versare le contribuzioni nella cassa comune. Dopo
brevi sforzi, - così scrive il giudice Marshall nella sua classica Vita di
Washington, riassumendo le disperate ripetute invocazioni e lagnanze che a
centinaia sono sparse nelle lettere del grande generale e uomo di stato, - dopo
brevi sforzi compiuti per rendere il sistema federale atto a raggiungere i
grandi scopi per cui era stato istituito, ogni tentativo apparve disperato e
gli affari americani si avviarono rapidamente ad una crisi, da cui dipendeva la
esistenza degli Stati uniti come nazione... Un governo autorizzato a dichiarare
guerra, ma dipendente da stati sovrani quanto ai mezzi di condurla, capace di
contrarre debiti e di impegnare la fede pubblica al loro pagamento, ma
dipendente da tredici separate legislature sovrane per la preservazione di
questa fede, poteva soltanto salvarsi dall'ignominia e dal disprezzo qualora
tutti questi governi sovrani fossero stati amministrati da persone
assolutamente libere e superiori alle umane passioni.
Era
un pretendere l'impossibile. Gli uomini forniti di potere non amano delegare
questo potere ad altri; ed è perciò quasi impossibile, conchiude il biografo, ‘compiere
qualsiasi cosa, sebbene importantissima, la quale dipenda dal consenso di molti
distinti governi sovrani’. Ed un altro grande scrittore e uomo di stato, uno
degli autori della costituzione del 1787, Alessandro Hamilton, così riassumeva
in una frase scultoria la ragione dell'insuccesso della prima società delle
nazioni americane: ‘Il potere, senza il diritto di stabilire imposte, nelle
società politiche è un puro nome’».
Ecco
dunque indicato il bivio: una Confederazione
di stati sovrani e democratici, o una Federazione nella quale il potere sia
raccolto al sicuro dalla democrazia (che questo, come abbiamo visto diffusamente
nella lettura di Alan Taylor[8], era il vero intento dei
Federalisti di cui Hamilton fu leader).
Un
concetto, questo sul quale tornerà dopo l’altra grande guerra in un articolo su
“Risorgimento liberale”, del 3
gennaio 1945[9].
In
questo straordinario documento storico, il teorico liberista, chiama direttamente
in causa la redazione del Manifesto di
Ventotene, con queste precise e chiarissime parole:
“Oggi,
vi è in Italia un gruppo di giovani, temprati alla dura scuola della galera e
del confino nelle isole, il quale è deliberato a mettere il problema della
federazione in testa a tutti quelli i quali debbono essere discussi nel nostro
paese. Non senza viva commozione ricevetti, durante i lunghi trascorsi anni
oscuri, una lettera scrittami dal carcere da Ernesto Rossi, nella quale mi si
ricordava l'antica lettera e mi si diceva il suo deliberato proposito di volere
operare per tradurre in realtà l'idea federalistica. L'opera sinora si è
forzatamente limitata, dentro e fuor del confino, in Italia ed all'estero, a
convegni, ad opuscoli, fogli tiposcritti e giornaletti a stampa”.
Ed
aggiunge:
“Sia
consentito all'antico oppugnatore dell'idea societaria, di aggiungere, agli
opuscoli già divulgati in materia, una professione di fede.
Noi
federalisti non difendiamo una tesi la quale sia a vantaggio di alcun paese
egemonico, né dell'Inghilterra, né degli Stati Uniti, né della Russia. Vogliamo
porre il problema nei suoi nudi termini essenziali, affinché l'opinione
pubblica conosca esattamente quali condizioni debbano essere necessariamente
osservate affinché l'idea federale possa contribuire, invece di porre ostacoli,
al mantenimento della pace. Se si vuole fra venticinque anni una nuova guerra
la quale segni la fine d'Europa, si scelga la via della società delle nazioni;
se si vuole tentare seriamente di allontanare da noi lo spettro della
distruzione totale, si vada verso l'idea federale. La via sarà tribolata e irta
di spine; né la meta potrà essere raggiunta d'un tratto. Quel che importa è che
la meta finale sia veduta chiaramente e si intenda strenuamente raggiungerla.
Perché
l'idea della società delle nazioni è infeconda e distruttiva? Perché essa è
fondata sul principio dello stato ‘sovrano’. Questo è oggi il nemico numero uno
della civiltà umana, il fomentatore pericoloso dei nazionalismi e delle
conquiste. Il concetto dello stato sovrano, dello stato che, entro i suoi
limiti territoriali, può fare leggi, senza badare a quel che accade fuor di
quei limiti, è oggi anacronistico ed è falso”.
Si
tratta dell’argomento-mondializzazione, nella forma più chiara, inclusa la sua
filosofia della storia e l’apparenza di una necessità fisico-tecnica:
“Quel
concetto è un idolo della mente giuridica formale e non corrisponde ad alcuna
realtà. In un mondo percorso da ferrovie, da rapide navi, da aeroplani, nel quale
le distanze sono state annullate da telegrafi e telefoni con o senza fili, gli
stati, che un giorno parevano grandi, come l'Italia, la Francia, la Germania,
l'Inghilterra, a tacer di quelli minori, sono diventati piccoli come nel
quattrocento eransi rimpiccioliti i liberi comuni medievali, e Firenze e
Bologna e Milano e Genova e Venezia avevano dovuto dar luogo a più ampie
signorie e queste poi nel 500 e nel 600 dovettero cedere il passo dinnanzi ai
grandi stati moderni. Pensare che uno stato, sol perché si dice sovrano, possa
dare a se stesso leggi a suo libito, è pensare l'assurdo. Mille e mille vincoli
legano gli uomini di uno stato agli uomini di ogni altro stato. La pretesa alla
sovranità assoluta non può attuarsi entro i limiti dello stato sedicente
sovrano”.
Ed
economica, che riprende l’antica idea del progresso come divisione del lavoro e
del commercio come produttore di ricchezza (grazie alla tesi ricardiana):
“Gli
uomini, nella vita moderna signoreggiata dalla divisione del lavoro, dalle grandi
officine meccanizzate, dalle rapide comunicazioni internazionali, dalla
tendenza ad un elevato tenore di vita, non possono vivere, se la loro vita è
ridotta ai limiti dello stato. Autarchia vuol dire miseria; e necessariamente
spinge gli uomini alla conquista. Gli uomini viventi entro uno stato sovrano
debbono, sono dalla necessità del vivere costretti ad assicurarsi fuor di
quello stato i mezzi di esistenza, le materie prime per le proprie industrie e
gli sbocchi per i prodotti del loro lavoro”.
Senza
dimenticare l’evocazione dell’incubo hitleriano:
“Qualunque
sia il regime sociale che gli stati si sono dato, essi sono costretti alla
conquista dello spazio vitale. L'idea dello spazio vitale non è frutto di
torbide immaginazioni germaniche od hitleriane; è una logica fatale conseguenza
del principio dello stato sovrano. Quella idea non ha limiti. Necessariamente
porta al tentativo di conquista nel mondo. Andrebbe al di là, se fosse
fisicamente possibile. Non esiste uno spazio vitale autosufficiente. Quanto più
uno stato si ingrandisce, tanto più le sue industrie ingigantiscono e diventano
voraci assorbitrici di materie prime e bisognose di mercati sempre più ampi.
Quando pare di essere giunti alla fine, sempre fa difetto una materia
essenziale, senza di cui il meccanismo economico, divenuto colossale, si
incanta. La necessità del dominio mondiale è carne viva e sangue rosso
indispensabile alla vita del mito dello stato sovrano”.
E
la prospettiva della guerra:
“Ossia,
poiché tutti gli stati sovrani vantano il medesimo e giusto diritto allo spazio
vitale, al dominio mondiale, perché senza di esso non possono vivere o
vivrebbero solo se si rassegnassero ad una vita miserabile economicamente ed
oscura spiritualmente, indegna della società umana, il mito dello stato sovrano
significa, è sinonimo di ‘guerra’. La guerra del 1914-18, quella presente e
l'orrenda maggiore carneficina che si prepara per l'avvenire furono sono e
saranno il risultato necessario del falso idolo dello stato sovrano. Uomini più
ossessionati degli altri hanno assunto la responsabilità di scatenare gli
eccidi. Ma la causa profonda era la falsa idea della quale essi si fecero
apostoli”.
Come
si respinge quindi questa idea tragica, nella sua stringente logica? Con quella
esattamente contraria:
“Fa
d'uopo che tutti ci facciamo apostoli dell'idea contraria. Quella della società
delle nazioni non solo è monca, ma va contro il fine che si vuol raggiungere.
Poiché essa è ancora una lega fra stati ‘sovrani’, essa rinnega il principio
dal quale muove. Ponendoli gli uni accanto agli altri, acuisce gli attriti fra
stati, li moltiplica, proclama al mondo la volontà degli uni a non volere
adattarsi all'uguale volontà degli altri, epperciò cresce le occasioni di
guerra.
Altra
via d'uscita non v'è, fuor di quella di mettere accanto agli stati attuali un
altro stato. Il quale abbia compiti suoi propri ed abbia un popolo ‘suo’. Invece di una società di stati sovrani,
dobbiamo mirare all'ideale di una vera federazione di popoli, costituita come
gli Stati Uniti d'America o la Confederazione elvetica. Gli organi supremi, parlamento e governo, della confederazione non
possono essere scelti dai singoli stati sovrani ma debbono essere eletti dai
cittadini della confederazione. Esercito unico e confine doganale unico
sono le caratteristiche fondamentali del sistema. Gli stati restano sovrani per
tutte le materie che non siano delegate espressamente alla federazione; ma
questa sola dispone delle forze armate, ed entro i suoi confini vi è una
cittadinanza unica ed il commercio è pienamente libero. Fermiamoci a questi
punti che sono gli essenziali e da cui si deducono altre numerose norme. Entro
i limiti della federazione la guerra diventa un assurdo, come sono divenute da
secoli un assurdo le guerre private, le faide di comune e sono represse dalla
polizia ordinaria le vendette, gli omicidi ed i latrocini privati. La guerra
non scomparirà, ma sarà spinta lontano, ai limiti della federazione. Divenute
gigantesche le forze in contrasto, anche le guerre diventeranno più rare;
finché esse non scompaiano del tutto, nel giorno in cui sia per sempre fugato
dal cuore e dalla mente degli uomini l'idolo immondo dello stato sovrano”.
Ma
guardiamo un poco meglio dentro questo dispositivo potente, negli stessi anni,
ovvero nel 1939, promosso anche da Friedrich Hayek in “Le condizioni economiche del federalismo tra stati”[10].
Per
comprendere davvero questo discorso apparentemente così di buon senso, che da
oltre un secolo è ripetuto praticamente senza variazioni di rilievo, bisogna,
infatti, andare a capire in quale quadro, economico, politico ed anche
antropologico, esso è pensato.
Commentando
nel 1942, l'anno dopo la scrittura da parte del suo vecchio corrispondente
Ernesto Rossi (1897-1967) del Manifesto
di Ventotene, il libro “La crisi
sociale del nostro tempo” di Wilhelm Ropke, uscita in tedesco lo stesso
anno, individua la radice dell'ordoliberalismo fuori dell’economico e quindi
della vecchia “Scuola Manchesteriana” del laissez faire ottocentesca. L’ordoliberalismo
non presume che l'uomo sia tutto calcolo. Il figlio di un pastore luterano,
padre dell'ordoliberalismo tedesco, cerca per Einaudi un'altra via tra 'cambridgismo', 'corporativismo',
'social-nazionalismo', 'new-dealismo' (è la lista delle dottrine economiche
alternative che fa Einaudi).
Il
discorso è essenzialmente morale, o secondo il loro linguaggio ‘spirituale’. La ragione di fondo per “sottrarre l'economia alla politica”
(obiettivo ‘più alto’ dell'economia di mercato, e il vero scopo specifico del
federalismo, sin dall’esempio principe americano) è la difesa dalla democrazia, da una parte, e dal collettivismo (nella quale questa,
se vuole essere conseguente, alla fine precipita), dall'altra. Einaudi nel 1942
lo vede e lo dice chiaramente: “la democrazia ed il collettivismo sono propri
di una società ridotta dal livellamento completo degli uomini a una massa
amorfa, priva di vita spirituale e morale” (p.92).
Ma
cosa sta dentro questa critica del “livellamento”? Io direi che c'è un residuo
dell'etica dell'onore, che vede l'uomo ‘moralmente libero’ solo quando si
staglia sopra la massa, quando ha “la stoffa del comando, il bisogno di
rischiare, il desiderio dell'alea, la attitudine o la voglia di organizzare”.
Quando
conduce una vita “disordinata, affannosa, antiunitaria, antidisciplinata” e
anche rischiosa, coraggiosa, “diversa”. L'uomo deve, per essere tale, “elevarsi
da sé” e non ricercare il benessere che “viene da fuori”.
La società che Ropke ed Einaudi amano è fatta, quindi, da “uomini liberi, liberi perché economicamente indipendenti”, uomini capaci di creare un ordine fatto di rispetto “per coloro che meritano di stare in alto”. Dunque non è affatto, come dirà, la società della rivoluzione del 1789, ma quella americana, quella della costituzione del 1776. Quella che salva la democrazia, perché, come scriverà: “erige attorno ad essa baluardi che la limitano e la costringono a fare i conti con istituzioni antidemocratiche”.
Ecco,
dunque, cosa è, al fine, il federalismo promosso da Einaudi, come da Hayek (con
significative differenze tra i due), nello stesso modo con il quale funzionò e
funziona il federalismo americano: un
dispositivo potente contro la democrazia e la sovranità popolare.
In modo apparentemente paradossale, però, nella versione ordoliberale che si affermerà questa critica elitaria e reazionaria sbocca in una ricetta radicale: l'economia della concorrenza vive solo se non è universale.
Con
le sue parole: “La sostanza vera dell'economia di concorrenza, al pari di
quella del liberalismo politico, non sta nella concorrenza ma nei vincoli posti
alla concorrenza”.
Dunque
non si tratta di lasseiz-faire, proprio tutt'altro; si tratta di essere molto
interventisti, perché alcuni uomini, eroici, vogliono il rischio ed il comando,
ma altri, pavidi, vogliono le oasi ed un posto tranquillo. Altri, ma grande
maggioranza, “non vogliono durare tutta la vita nell'incessante fatica
dell'emulazione; gli uomini non vogliono, per vivere, fare appello ogni giorno
al bullettino di voto del consumatore”. Essi, dunque, si “adattano volentieri
ad ubbidire e ad eseguire gli ordini altrui: il soldato nato, il manovale,
l'operaio, l'impiegato perfetto”.
La
struttura gerarchica della società si
conserva allora mettendo limiti, alla democrazia da una parte ed
all'economia della ‘mano invisibile’ dall'altra. La soluzione è che “il
legislatore deve intervenire per abbattere quotidianamente le trincee entro le
quali i gruppi dei produttori si asserragliano per conquistare privilegi
dannosi agli altri produttori ed ai consumatori”; bisogna impedire, cioè,
accordi per rialzare prezzi, profitti, rendite e salari (soprattutto salari,
evidentemente).
Come
dice Einaudi: “la pianta della concorrenza non nasce da sé [dunque non è
naturale frutto del commercio, come riteneva una influente tradizione] e non
cresce da sola; non è un albero secolare che la tempesta furiosa non riesce a
scuotere; è un arboscello delicato il quale deve essere difeso con affetto
contro le malattie dell'egoismo e degli interessi particolari e sostenuto attentamente
contro i pericoli che d'ogni parte del firmamento economico lo minacciano”. Se
l'economia di mercato, dunque, non “riposa in se stessa, come una condizione di
natura che non ha bisogno di nessun sussidio in appoggio e difesa”, ed è quindi
“posta al di fuori del perimetro dello stato”, allora, “è decisiva l'importanza
di un ambiente etico-giuridico-istituzionale adatto ai principi dell'economia
medesima”.
E con ciò si torna, a ben vedere,
alle “istituzioni antidemocratiche”.
Quelle
che con grande fatica e decenni di lavoro hanno perfezionato.
[2]
- In questa fase collaborano con la rivista Gabriele de Rosa, Corso Bovio,
Giovanni Merloni, Giovanni Montemarini, Claudio Treves, Leonida Bissolati,
Carlo Rosselli, Alessandro Levi, Giacomo Matteotti.
[3]
- A Torino insegna Scienza delle Finanze, e Legislazione industriale ed Economica,
a Milano, alla Bocconi, Scienza delle Finanze.
[4]
- Come ricorda Gianpasquale Santomassimo “L'antifascismo è stato un fenomeno
storico composito, nel quale sono confluite culture e sensibilità molto diverse.
Il senso complessivo che ha assunto nella storia italiana è stato quello di
garantire un assetto costituzionale avanzato, che puntava al superamento delle
diseguaglianze fra i cittadini e alla garanzia dei loro diritti. Non si
può dimenticare però che c'era stato negli anni del regime anche un
antifascismo elitario e aristocratico, che criticava ‘da destra’ il fascismo, come regime plebeo e
popolaresco, colpevole di volgarità demagogiche, e che rischiava immettendo
linfa plebea nelle strutture del potere di insidiare la naturale disposizione
al comando delle oligarchie tradizionali”.
[5]
- Una coalizione elettorale liberale che prende i 6% dei suffragi ed elegge 41
costituenti. Tra questi Benedetto Croce (1866-1952), Francesco Saverio Nitti
(1868-1953), Arturo Labriola (1873-1959).
[6]
- Sono: “La bellezza della lotta”, 1924; “Economia di concorrenza e capitalismo
storico”, 1942; “Dell’uomo, fine o mezzo, e dei beni d’ozio”, 1942; “La
dottrina liberale”, 1925. Tutti articoli o saggi contenuti in testi più
meditati scritti in Italia durante il periodo fascista.
[7]
- Violentemente censurata anche da Emile Durkheim nel suo opuscolo “La
Germania al di sopra di tutto”, del 1914.
[8] - Alan Taylor, “Rivoluzioni
americane”, 2016. Nel complesso scontro sociale e costituzionale che
agita la Confederazione nel primo decennio di vita, dopo la sorprendente vittoria
sugli inglesi, si manifesta la frattura tra chi,
come i conservatori, vedeva la società
come composita e complessa, e quindi prediligevano la divisione dei poteri e
l’equilibrio preordinato alla garanzia dell’assetto economico e sociale
vigente, e chi, come i democratici, vedevano invece
l’autorità come derivante direttamente dal popolo e bisognosa di meno
mediazioni possibili. Esponente dei primi, John Adams vedeva la
Costituzione come necessaria per gestire il conflitto di classe tra i ricchi,
nel quale si annoverava, ed i molti del volgo, essenzialmente invidiosi. Nel
1780 la Costituzione del Massachussetts esemplifica il concetto, mentre la Costituzione della Pennsylvania esemplifica
quello democratico, con la sua unica Camera e l’esteso demos. Come la mette
Taylor: “i conservatori, accusati di costituire un’aristocrazia, dovettero
imparare a mascherare il loro elitarismo nella retorica repubblicana;
atteggiandosi a paladini del popolo, esortarono l’elettorato a diffidare dei
legislatori, in quanto corrotti demagoghi, e con un colpo di genio
politico fecero passare la separazione dei poteri come l’essenza del vero
repubblicanesimo” (p.363). Segue
una lunga fase di conflitto economico e di alternanza tra politiche
deflazionarie (volute dalle élite finanziarie) e inflazionarie (volute dalla
base), che prevalgono dopo una fase ‘austeriana’ a seguito della crisi
derivante dalla rivolta di Shays nel 1786, repressa nel sangue e dalla
diffusa resistenza armata nelle campagne. Ma a loro volta le misure di
alleggerimento del debito, come un’altalena, produssero la riduzione del valore
dei Titoli di Stato del 30% e la riduzione delle imposte dirette; sette stati
ricominciarono ad emettere moneta cartacea e crollò il valore delle grandi
proprietà. Il contrappasso provocò il consueto lamento sulla gente licenziosa e
l’avidità egoistica dei poveri e dei lavoratori, e quindi l’emergere del tema
della follia di istituire un governo popolare e democratico. Il timore per
“l’anarchia” provocò la ripresa della consapevolezza che solo la
protezione di un re poteva garantire i grandi possedimenti e patrimoni. Dunque
della possibilità che si dovesse ritornare alla monarchia, comunque a qualcosa
che “indebolisse i molti per dare il potere ai pochi”. Come ebbe a dire
Benjamin Lincoln: “gli uomini che hanno delle proprietà hanno il diritto a una
fetta maggiore di potere politico di quelli che ne sono privi” (p.374), e
l’ineffabile Robert Morris, l’uomo più ricco d’America, definì l’obiettivo di
“imporre il controllo del governo su un popolo insofferente all’autorità”,
ovvero di impedire che mettessero le mani nelle sue tasche, al contempo
consentendogli senz’altro di mettere le sue nelle loro. L’escamotage che prese
piede fu di allontanare il potere dal popolo concentrandolo nel livello del
governo sovra-nazionale. Era, in altre parole, il governo federale che avrebbe
risolto tutti i problemi. L’idea di superare la crisi molteplice nella quale si
stava impantanando il progetto fece uso delle idee di James Madison, che
diventerà il quarto Presidente, e che era figlio di un grande possidente e
laureato in filosofia morale. La sua proposta era di considerare le maggioranze
popolari come potenzialmente tiranniche nel senso che per loro natura esse
“sacrificano i pochi ai molti in maniera del tutto ingiustificata”. Nasce qui
l’idea-chiave secondo la quale la repubblica dovrebbe in sostanza “proteggere
la minoranza dei ricchi contro la maggioranza”.
Questo essenziale effetto si
ottiene semplicemente allargando la scala del territorio; infatti in tal
modo si riduce, a parere di Madison, la possibilità stessa che “interessi o
passioni condivise” possano “coalizzarsi” in modo da raggruppare la maggioranza
verso “un obiettivo iniquo” (ovvero redistributivo).
[9]
- “Contro
il mito dello Stato Sovrano”, 3 gennaio 1945.
[10]
- Friedrich Hayek, Le
condizioni economiche del federalismo tra stati, 1939,
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