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lunedì 14 gennaio 2019

Luigi Einaudi, “Il paradosso della concorrenza”





Luigi Einaudi è una grande e cruciale figura della nostra storia nazionale, non perché sia stato un grande economista, ma per la sua duratura influenza sul clima politico e culturale del paese. Nato nel 1874, e dunque più anziano di Mussolini che nasce nove anni dopo, e di Hitler, che addirittura è di venticinque anni più giovane, quasi coetaneo di Stalin (1878), e di soli quattro anni più giovane di Lenin (1870), di Roosevelt più anziano di otto anni, esattamente coetaneo di Churchill, muore nel 1961, quindi sopravvive a Mussolini e Hitler (ovviamente), ma anche a Lenin (1924), Roosevelt (1945), a Stalin (1953). Tra gli economisti è molto più giovane di Alfred Marshall (1842-1924) e Wilfredo Pareto (1848-1923) e della sua generazione, quindi di Walras (1834-1910), Menger (1840-1921), Jevons (1835-1882), che fondano la scuola marginalista, coetaneo di Arthur Cecil Pigou (1877-1959) quasi contemporaneo di Keynes (1883-1946) e Schumpeter (1883-1950), e più anziano di una generazione dei fondatori della scuola ordoliberale come Walter Euchen (1891-1950), Wilhelm Röpke (1899-1966), Franz Böhm (1895-1977), Ludwig Erhard (1897-1977). Rispetto alla scuola austriaca, seguace del Lassaiz-faire e poi allineatasi con la linea neoliberale, fu anche più anziano di Ludwig von Mises (1881-1973) e di Hayek (1899-1992). Una generazione ancora dopo arriva Milton Friedman (1912-2006), e, tanto più, il suo allievo Rothbard (1926-1995).
Per fare un esempio quando nasce Einaudi John Stuart Mill (1806-1873) era morto da un anno, e Marx (1818-1883) era ancora vivo, Max Weber (1864-1920) aveva dieci anni.

Nella sua lunga vita fece il docente universitario a Torino, avendo come allievi tra gli altri Gramsci e Togliatti, il giornalista, il politico (prima del fascismo è Senatore del Regno, fu ministro economico con il primo governo De Gasperi, e il secondo Presidente della Repubblica Italiana), il funzionario pubblico (dal 1945 al 48 Governatore della Banca d’Italia). I Presidenti del Consiglio cui, come Presidente della Repubblica conferì incarico sono quelli che avviano la democrazia italiana sulla strada che prese nel dopoguerra e che per quaranta anni la tenne fermamente ancorata alla lealtà Atlantica e saldamente bloccata sulla Democrazia Cristiana (furono, Alcide De Gasperi, 1948-53, Giuseppe Pella, 1953-54, Amintore Fanfani, 1954, Mario Scelba, 1954-55).
Sono anche quelli che, nel contesto di una sovranità molto limitata, avviano l’Italia nella direzione del progetto federalista europeo[1].
Dopo una primissima fase socialista, quando collabora a “Critica Sociale”, rivista di Turati nella fase riformista[2], ma abbastanza presto si sposta nel primo decennio del novecento su posizioni liberiste e inizia ad insegnare a Torino e Milano[3]. Nel 1919, a 45 anni, viene nominato Senatore del Regno su proposta di Nitti, e firma il Manifesto del “Gruppo Nazionale Liberale”, insieme a Giovanni Gentile e Gioacchino Volpe, che si propone uno stato forte capace di combattere il “radicalismo democratico”. Già nel 1920 scrive in favore del programma di unificazione europeo sul Corriere della Sera.
Nel 1921 si avvicina al programma economico del Partito Fascista, anche se dopo il delitto Matteotti si schierò in difesa dello Stato Liberale pre-fascista. Tenendo una posizione di critica elitista al fascismo[4] interruppe l’attività accademica e, come Benedetto Croce, restò in posizione critica (l’eccezione fu la conservazione della cattedra a Torino, “per continuare il filo dell’insegnamento secondo l’idea di libertà”, anche se comportava il giuramento).
Restando nel Senato del Regno votò contro le leggi razziali nel 1938 e contro la Guerra d’Etiopia.
Il 31 agosto 1943 venne nominato Rettore dell’Università di Torino, ma dopo l’8 settembre, quando il fascismo era già caduto improvvisamente dopo il voto del Gran Consiglio del 25 luglio, si rifugia in Svizzera, dove tiene una fitta corrispondenza con Altiero Spinelli e Ernesto Rossi (suo ex allievo) tra gli altri, aderendo al Movimento Federalista Europeo.
Tornato in Italia e nominato Governatore della Banca d’Italia, si dichiara per la monarchia al referendum e viene eletto nelle file della Unione Democratica Nazionale[5] all’Assemblea Costituente.  

Muore a Roma il 30 ottobre del 1961.




In questo piccolo libro, che include una raccolta di saggi di datazione varia, ma antecedenti alla guerra[6], e posteriori al 1924, l’anno del delitto Matteotti, vengono trattati molti temi importanti e vi si trova una importante recezione dell’opera di Wilhelm Röpke.  


Tra i temi rilevanti per la lettura quello del federalismo, avviato già nel 1918-19, con una serie di articoli scritti per il Corriere della Sera sotto lo pseudonimo di Junus. Ad esempio, il 28 dicembre 1918, l’anno primo della rivoluzione russa, e della rivolta spartachista, Einaudi scrive sul CorriereIl dogma della sovranità e l’idea della Società delle nazioni”, che rilancia la retorica wilsoniana avvertendo della necessità di rinunciare al “dogma della sovranità assoluta dello stato imperiale, democratico o proletario”. Vi viene censurata la posizione della “Politica” di  Treitschke[7] che postula una sovranità, appunto, assoluta, come quella di quella formazione politica indipendente e perfetta in se stessa. Una idea che è posta alla radice della guerra e quindi “massimamente malefica”. Estendendosi dalla indipendenza economica di List, all’idea di Europa Centrale di Naumann, e quindi ai sogni concentrici di dominio dello spazio vitale, il sogno di dominazione, ricorda Einaudi, logicamente si dovrebbe estendere fino al dominio intero del mondo e nulla di meno.

Dunque ne deriva un obbligo:

Il sogno di dominazione dei tedeschi è caduto; ma potrebbe risorgere sott'altra forma, inaspettata e mascherata, ove noi non distruggessimo nei cuori degli uomini le idee ed i sentimenti da cui esso trasse origine. Che altro è lo spirito di propaganda dei comunisti frenetici russi e dei socialisti tedeschi se non la novella forma dell'idea che nessuno stato possa vivere se la sua potenza - ieri potenza di armi, domani dittatura del proletariato - non sia perfetta e non si estenda perciò a tutto l'orbe terraqueo? Bisogna distruggere e bandire per sempre il dogma della sovranità perfetta, se si vuole che la società delle nazioni nasca vitale. Lo si può e lo si deve, perché esso è falso, irreale, parto della ragion ragionante”.

L’attacco al dogma della “sovranità perfetta” (si noti, sia dei socialdemocratici di Weimar, sia dei bolscevichi russi) deriva anche essa da una “ragione”:

La verità è il vincolo, non la sovranità degli stati. La verità è la interdipendenza dei popoli liberi, non la loro indipendenza assoluta. Per mille segni manifestasi la verità che i popoli sono gli uni dagli altri dipendenti, che essi non sono sovrani assoluti ed arbitri, senza limite, delle proprie sorti, che essi non possono far prevalere la loro volontà senza riguardo alla volontà degli altri. Alla verità dell'idea nazionale: «noi apparteniamo a noi stessi» bisogna accompagnare la verità della comunanza delle nazioni: «noi apparteniamo anche agli altri». Il motto «Deutschland uber alles», divenuto mortifero per l'interpretazione che ne diedero non i poeti che lo crearono, ma i filosofi che lo teorizzarono, conduce all'autocrazia universale; ma il motto «Sinn fein» - noi soli - che gli irlandesi hanno innalzato come grido di guerra contro la comunità britannica delle nazioni è l'antesignano dell'anarchia; ed i suoi frutti si vedono nello sminuzzamento della sovranità dei soviet russi, preda immancabile al cesarismo dell'avvenire. Lo stato isolato e sovrano perché bastevole a se stesso è una finzione dell'immaginazione; non può essere una realtà”.

Estremizzando il concetto ben oltre il sensato (che nessuno stato ha mai, democratico o non, pensato di isolarsi completamente, se non costretto), e riportando una proiezione indicativa dell’antropologia negativa liberale sulla forma collettiva statuale, Einaudi continua:

Come l'individuo isolato non visse mai, salvoché nei quadri idillici di una poetica età dell'oro, come l'uomo primitivo buono e pervertito dalla società fu un parto della fantasia di Rousseau; mentre invece vivono soltanto uomini uniti in società con altri uomini; e soltanto l'uomo legato con vincoli strettissimi agli uomini può aspirare ad una vita veramente umana, solo l'uomo-servo può diventare l'uomo-Dio; così non esistono stati perfettamente sovrani, ma unicamente stati servi gli uni degli altri; uguali ed indipendenti perché consapevoli che la loro vita medesima, che il loro perfezionamento sarebbe impossibile se essi non fossero pronti a prestarsi l'un l'altro servigio. Come potrebbero gli uomini, come potrebbero gli stati vivere, senza retrocedere di millenni, senza ritornare a condizioni di miserabile barbarie, se ognuno di essi non chiedesse agli altri derrate alimentari, materie prime, servigi postali, telegrafici, telefonici, pronto a dare in cambio merci e servigi equivalenti? Come, in tanto fervore di progressi scientifici, si può immaginare per un istante una nazione concentrata unicamente nel perfezionare un suo esclusivo «genio nazionale» senza che ben presto quella nazione vegga le altre, le quali serbarono i mutui rapporti di scambi intellettuali, precederla di gran tratto sulla via delle conoscenze?”

Se la sovranità assoluta è un male, del resto è anche una finzione, che la guerra ha interrotto, tuttavia occorre “procedere oltre sulla strada dell’abdicazione di sovranità”, e, superando i Parlamenti, “trasformati in camere di registrazione”, si devono formare “stati più ampi, organi di governo diversi da quelli normali”. Organi spinti dalla necessità di coordinamento della guerra:

Già nel 1913 ben 135 convegni internazionali avevano discusso e taluno di essi, avendo carattere ufficiale, aveva regolato, con la riserva puramente formale della sanzione dei poteri deliberanti dei singoli stati cosidetti sovrani, materie internazionali. Ma quanto son cresciute quelle materie durante la guerra! Coloro che, invasati della mania ragionante della sovranità nazionale, avevano nei primi istanti della guerra farneticato di un inabissamento di tutti gli ideali rapporti fra nazioni, di un ritorno allo stato chiuso, ben dovettero ricredersi, poiché subito si vide che la nostra vita medesima, la nostra resistenza alla schiavitù straniera, le nostre vittorie dipendevano esclusivamente dalla nostra capacità a mantenere quei vincoli e quei rapporti con i paesi di là dal mare”.

I Trattati e la cessione della sovranità che ne deriva sono dunque indispensabili, perché “solo le nazioni integrate, consapevoli di se stesse, potranno fare rinunce volontarie che siano innalzamenti e non atti costretti di servitù. Soltanto le nazioni libere potranno vincolarsi mutuamente per garantire a se stesse, come parti di un superiore organo statale, la vera sicurezza contro i tentativi di egemonia a cui, nella presente anarchia internazionale, lo stato più forte è invincibilmente tratto dal dogma funesto della sovranità assoluta”. 

Immediatamente dopo, il 5 gennaio 1918, scriverà ancora:

“Leggesi in tutte le storie come gli Stati uniti siano vissuti sotto due costituzioni: la prima disposta dal congresso del 1776 ed approvata dagli stati nel febbraio 1781, la seconda approvata dalla convenzione nazionale il 17 settembre 1787 ed entrata in vigore nel 1788. Sotto la prima, l'unione nuovissima minacciò ben presto di dissolversi; sotto la seconda gli Stati Uniti divennero giganti. Ma la prima parlava appunto di ‘confederazione ed unione’ dei 13 stati, come oggi si parla di ‘società delle nazioni’ e dichiarava che ogni stato «conservava la sua sovranità, la sua libertà ed indipendenza ed ogni potere, giurisdizione e diritto non espressamente delegati al governo federale». La seconda invece non parlava più di «unione fra stati sovrani», non era più un accordo fra governi indipendenti; ma derivava da un atto di volontà dell'intero popolo, il quale creava un nuovo stato diverso e superiore agli antichi stati. «Noi - così dice lapidariamente il preambolo della vigente costituzione federale - noi, popolo degli Stati Uniti, allo scopo di fondare una unione più perfetta, stabilire la giustizia, assicurare la tranquillità interna, provvedere per la comune difesa, promuovere il benessere generale e garantire le benedizioni della libertà per noi e per i posteri nostri, decretiamo e fondiamo la presente costituzione per gli Stati Uniti d'America». Ecco sostituito al ‘contratto’, all'’accordo’ fra stati sovrani per regolare ‘alcune’ materie d'interesse comune, l'’atto di sovranità del popolo americano tutto intero’, il quale crea un nuovo stato e gli dà una costituzione e lo sovrappone, in una sfera più ampia, agli stati antichi, serbati in vita in una sfera più ristretta. Ve n'era urgente bisogno. Quei sette anni di vita, dal 1781 al 1787, della ‘società’ delle 13 nazioni americane erano stati anni di disordine, di anarchia, di egoismo tali da far rimpiangere a molti patrioti il dominio inglese e da far desiderare a non pochi l'avvento di una monarchia forte, che fu invero offerta a Washington e da questi respinta con parole dolorose, le quali tradivano il timore che l'opera faticosa sua di tanti anni non dovesse andare perduta. La radice del male stava appunto nella sovranità e nell'indipendenza dei 13 stati. La confederazione, appunto perché era una semplice ‘società’ di nazioni, non aveva una propria indipendente sovranità, non poteva prelevare direttamente imposte sui cittadini. Dipendeva quindi, per il soldo dell'esercito e per il pagamento dei debiti contratti durante la guerra della indipendenza, dal beneplacito dei 13 stati sovrani. Il congresso nazionale votava spese, impegnava la parola della confederazione e per avere i mezzi necessari indirizzava richieste di denaro ai singoli stati. Ma questi o negligevano di rispondere o non volevano, nessuno tra essi, essere i primi a versare le contribuzioni nella cassa comune. Dopo brevi sforzi, - così scrive il giudice Marshall nella sua classica Vita di Washington, riassumendo le disperate ripetute invocazioni e lagnanze che a centinaia sono sparse nelle lettere del grande generale e uomo di stato, - dopo brevi sforzi compiuti per rendere il sistema federale atto a raggiungere i grandi scopi per cui era stato istituito, ogni tentativo apparve disperato e gli affari americani si avviarono rapidamente ad una crisi, da cui dipendeva la esistenza degli Stati uniti come nazione... Un governo autorizzato a dichiarare guerra, ma dipendente da stati sovrani quanto ai mezzi di condurla, capace di contrarre debiti e di impegnare la fede pubblica al loro pagamento, ma dipendente da tredici separate legislature sovrane per la preservazione di questa fede, poteva soltanto salvarsi dall'ignominia e dal disprezzo qualora tutti questi governi sovrani fossero stati amministrati da persone assolutamente libere e superiori alle umane passioni.
Era un pretendere l'impossibile. Gli uomini forniti di potere non amano delegare questo potere ad altri; ed è perciò quasi impossibile, conchiude il biografo, ‘compiere qualsiasi cosa, sebbene importantissima, la quale dipenda dal consenso di molti distinti governi sovrani’. Ed un altro grande scrittore e uomo di stato, uno degli autori della costituzione del 1787, Alessandro Hamilton, così riassumeva in una frase scultoria la ragione dell'insuccesso della prima società delle nazioni americane: ‘Il potere, senza il diritto di stabilire imposte, nelle società politiche è un puro nome’».

Ecco dunque indicato il bivio: una Confederazione di stati sovrani e democratici, o una Federazione nella quale il potere sia raccolto al sicuro dalla democrazia (che questo, come abbiamo visto diffusamente nella lettura di Alan Taylor[8], era il vero intento dei Federalisti di cui Hamilton fu leader).


Un concetto, questo sul quale tornerà dopo l’altra grande guerra in un articolo su “Risorgimento liberale”, del 3 gennaio 1945[9].

In questo straordinario documento storico, il teorico liberista, chiama direttamente in causa la redazione del Manifesto di Ventotene, con queste precise e chiarissime parole:

“Oggi, vi è in Italia un gruppo di giovani, temprati alla dura scuola della galera e del confino nelle isole, il quale è deliberato a mettere il problema della federazione in testa a tutti quelli i quali debbono essere discussi nel nostro paese. Non senza viva commozione ricevetti, durante i lunghi trascorsi anni oscuri, una lettera scrittami dal carcere da Ernesto Rossi, nella quale mi si ricordava l'antica lettera e mi si diceva il suo deliberato proposito di volere operare per tradurre in realtà l'idea federalistica. L'opera sinora si è forzatamente limitata, dentro e fuor del confino, in Italia ed all'estero, a convegni, ad opuscoli, fogli tiposcritti e giornaletti a stampa”.

Ed aggiunge:

“Sia consentito all'antico oppugnatore dell'idea societaria, di aggiungere, agli opuscoli già divulgati in materia, una professione di fede.
Noi federalisti non difendiamo una tesi la quale sia a vantaggio di alcun paese egemonico, né dell'Inghilterra, né degli Stati Uniti, né della Russia. Vogliamo porre il problema nei suoi nudi termini essenziali, affinché l'opinione pubblica conosca esattamente quali condizioni debbano essere necessariamente osservate affinché l'idea federale possa contribuire, invece di porre ostacoli, al mantenimento della pace. Se si vuole fra venticinque anni una nuova guerra la quale segni la fine d'Europa, si scelga la via della società delle nazioni; se si vuole tentare seriamente di allontanare da noi lo spettro della distruzione totale, si vada verso l'idea federale. La via sarà tribolata e irta di spine; né la meta potrà essere raggiunta d'un tratto. Quel che importa è che la meta finale sia veduta chiaramente e si intenda strenuamente raggiungerla.
Perché l'idea della società delle nazioni è infeconda e distruttiva? Perché essa è fondata sul principio dello stato ‘sovrano’. Questo è oggi il nemico numero uno della civiltà umana, il fomentatore pericoloso dei nazionalismi e delle conquiste. Il concetto dello stato sovrano, dello stato che, entro i suoi limiti territoriali, può fare leggi, senza badare a quel che accade fuor di quei limiti, è oggi anacronistico ed è falso”.

Si tratta dell’argomento-mondializzazione, nella forma più chiara, inclusa la sua filosofia della storia e l’apparenza di una necessità fisico-tecnica:

“Quel concetto è un idolo della mente giuridica formale e non corrisponde ad alcuna realtà. In un mondo percorso da ferrovie, da rapide navi, da aeroplani, nel quale le distanze sono state annullate da telegrafi e telefoni con o senza fili, gli stati, che un giorno parevano grandi, come l'Italia, la Francia, la Germania, l'Inghilterra, a tacer di quelli minori, sono diventati piccoli come nel quattrocento eransi rimpiccioliti i liberi comuni medievali, e Firenze e Bologna e Milano e Genova e Venezia avevano dovuto dar luogo a più ampie signorie e queste poi nel 500 e nel 600 dovettero cedere il passo dinnanzi ai grandi stati moderni. Pensare che uno stato, sol perché si dice sovrano, possa dare a se stesso leggi a suo libito, è pensare l'assurdo. Mille e mille vincoli legano gli uomini di uno stato agli uomini di ogni altro stato. La pretesa alla sovranità assoluta non può attuarsi entro i limiti dello stato sedicente sovrano”.

Ed economica, che riprende l’antica idea del progresso come divisione del lavoro e del commercio come produttore di ricchezza (grazie alla tesi ricardiana):

“Gli uomini, nella vita moderna signoreggiata dalla divisione del lavoro, dalle grandi officine meccanizzate, dalle rapide comunicazioni internazionali, dalla tendenza ad un elevato tenore di vita, non possono vivere, se la loro vita è ridotta ai limiti dello stato. Autarchia vuol dire miseria; e necessariamente spinge gli uomini alla conquista. Gli uomini viventi entro uno stato sovrano debbono, sono dalla necessità del vivere costretti ad assicurarsi fuor di quello stato i mezzi di esistenza, le materie prime per le proprie industrie e gli sbocchi per i prodotti del loro lavoro”.

Senza dimenticare l’evocazione dell’incubo hitleriano:

“Qualunque sia il regime sociale che gli stati si sono dato, essi sono costretti alla conquista dello spazio vitale. L'idea dello spazio vitale non è frutto di torbide immaginazioni germaniche od hitleriane; è una logica fatale conseguenza del principio dello stato sovrano. Quella idea non ha limiti. Necessariamente porta al tentativo di conquista nel mondo. Andrebbe al di là, se fosse fisicamente possibile. Non esiste uno spazio vitale autosufficiente. Quanto più uno stato si ingrandisce, tanto più le sue industrie ingigantiscono e diventano voraci assorbitrici di materie prime e bisognose di mercati sempre più ampi. Quando pare di essere giunti alla fine, sempre fa difetto una materia essenziale, senza di cui il meccanismo economico, divenuto colossale, si incanta. La necessità del dominio mondiale è carne viva e sangue rosso indispensabile alla vita del mito dello stato sovrano”.

E la prospettiva della guerra:

“Ossia, poiché tutti gli stati sovrani vantano il medesimo e giusto diritto allo spazio vitale, al dominio mondiale, perché senza di esso non possono vivere o vivrebbero solo se si rassegnassero ad una vita miserabile economicamente ed oscura spiritualmente, indegna della società umana, il mito dello stato sovrano significa, è sinonimo di ‘guerra’. La guerra del 1914-18, quella presente e l'orrenda maggiore carneficina che si prepara per l'avvenire furono sono e saranno il risultato necessario del falso idolo dello stato sovrano. Uomini più ossessionati degli altri hanno assunto la responsabilità di scatenare gli eccidi. Ma la causa profonda era la falsa idea della quale essi si fecero apostoli”.

Come si respinge quindi questa idea tragica, nella sua stringente logica? Con quella esattamente contraria:

“Fa d'uopo che tutti ci facciamo apostoli dell'idea contraria. Quella della società delle nazioni non solo è monca, ma va contro il fine che si vuol raggiungere. Poiché essa è ancora una lega fra stati ‘sovrani’, essa rinnega il principio dal quale muove. Ponendoli gli uni accanto agli altri, acuisce gli attriti fra stati, li moltiplica, proclama al mondo la volontà degli uni a non volere adattarsi all'uguale volontà degli altri, epperciò cresce le occasioni di guerra.
Altra via d'uscita non v'è, fuor di quella di mettere accanto agli stati attuali un altro stato. Il quale abbia compiti suoi propri ed abbia un popolo ‘suo’. Invece di una società di stati sovrani, dobbiamo mirare all'ideale di una vera federazione di popoli, costituita come gli Stati Uniti d'America o la Confederazione elvetica. Gli organi supremi, parlamento e governo, della confederazione non possono essere scelti dai singoli stati sovrani ma debbono essere eletti dai cittadini della confederazione. Esercito unico e confine doganale unico sono le caratteristiche fondamentali del sistema. Gli stati restano sovrani per tutte le materie che non siano delegate espressamente alla federazione; ma questa sola dispone delle forze armate, ed entro i suoi confini vi è una cittadinanza unica ed il commercio è pienamente libero. Fermiamoci a questi punti che sono gli essenziali e da cui si deducono altre numerose norme. Entro i limiti della federazione la guerra diventa un assurdo, come sono divenute da secoli un assurdo le guerre private, le faide di comune e sono represse dalla polizia ordinaria le vendette, gli omicidi ed i latrocini privati. La guerra non scomparirà, ma sarà spinta lontano, ai limiti della federazione. Divenute gigantesche le forze in contrasto, anche le guerre diventeranno più rare; finché esse non scompaiano del tutto, nel giorno in cui sia per sempre fugato dal cuore e dalla mente degli uomini l'idolo immondo dello stato sovrano”.


Ma guardiamo un poco meglio dentro questo dispositivo potente, negli stessi anni, ovvero nel 1939, promosso anche da Friedrich Hayek in “Le condizioni economiche del federalismo tra stati[10].



Per comprendere davvero questo discorso apparentemente così di buon senso, che da oltre un secolo è ripetuto praticamente senza variazioni di rilievo, bisogna, infatti, andare a capire in quale quadro, economico, politico ed anche antropologico, esso è pensato.

Commentando nel 1942, l'anno dopo la scrittura da parte del suo vecchio corrispondente Ernesto Rossi (1897-1967) del Manifesto di Ventotene, il libro “La crisi sociale del nostro tempo” di Wilhelm Ropke, uscita in tedesco lo stesso anno, individua la radice dell'ordoliberalismo fuori dell’economico e quindi della vecchia “Scuola Manchesteriana” del laissez faire ottocentesca. L’ordoliberalismo non presume che l'uomo sia tutto calcolo. Il figlio di un pastore luterano, padre dell'ordoliberalismo tedesco, cerca per Einaudi un'altra via tra 'cambridgismo', 'corporativismo', 'social-nazionalismo', 'new-dealismo' (è la lista delle dottrine economiche alternative che fa Einaudi).

Il discorso è essenzialmente morale, o secondo il loro linguaggio ‘spirituale’. La ragione di fondo per “sottrarre l'economia alla politica” (obiettivo ‘più alto’ dell'economia di mercato, e il vero scopo specifico del federalismo, sin dall’esempio principe americano) è la difesa dalla democrazia, da una parte, e dal collettivismo (nella quale questa, se vuole essere conseguente, alla fine precipita), dall'altra. Einaudi nel 1942 lo vede e lo dice chiaramente: “la democrazia ed il collettivismo sono propri di una società ridotta dal livellamento completo degli uomini a una massa amorfa, priva di vita spirituale e morale” (p.92).  



Ma cosa sta dentro questa critica del “livellamento”? Io direi che c'è un residuo dell'etica dell'onore, che vede l'uomo ‘moralmente libero’ solo quando si staglia sopra la massa, quando ha “la stoffa del comando, il bisogno di rischiare, il desiderio dell'alea, la attitudine o la voglia di organizzare”.
Quando conduce una vita “disordinata, affannosa, antiunitaria, antidisciplinata” e anche rischiosa, coraggiosa, “diversa”. L'uomo deve, per essere tale, “elevarsi da sé” e non ricercare il benessere che “viene da fuori”. 

La società che Ropke ed Einaudi amano è fatta, quindi, da “uomini liberi, liberi perché economicamente indipendenti”, uomini capaci di creare un ordine fatto di rispetto “per coloro che meritano di stare in alto”. Dunque non è affatto, come dirà, la società della rivoluzione del 1789, ma quella americana, quella della costituzione del 1776. Quella che salva la democrazia, perché, come scriverà: “erige attorno ad essa baluardi che la limitano e la costringono a fare i conti con istituzioni antidemocratiche”. 

Ecco, dunque, cosa è, al fine, il federalismo promosso da Einaudi, come da Hayek (con significative differenze tra i due), nello stesso modo con il quale funzionò e funziona il federalismo americano: un dispositivo potente contro la democrazia e la sovranità popolare.



In modo apparentemente paradossale, però, nella versione ordoliberale che si affermerà questa critica elitaria e reazionaria sbocca in una ricetta radicale: l'economia della concorrenza vive solo se non è universale.

Con le sue parole: “La sostanza vera dell'economia di concorrenza, al pari di quella del liberalismo politico, non sta nella concorrenza ma nei vincoli posti alla concorrenza”.

Dunque non si tratta di lasseiz-faire, proprio tutt'altro; si tratta di essere molto interventisti, perché alcuni uomini, eroici, vogliono il rischio ed il comando, ma altri, pavidi, vogliono le oasi ed un posto tranquillo. Altri, ma grande maggioranza, “non vogliono durare tutta la vita nell'incessante fatica dell'emulazione; gli uomini non vogliono, per vivere, fare appello ogni giorno al bullettino di voto del consumatore”. Essi, dunque, si “adattano volentieri ad ubbidire e ad eseguire gli ordini altrui: il soldato nato, il manovale, l'operaio, l'impiegato perfetto”.
La struttura gerarchica della società si conserva allora mettendo limiti, alla democrazia da una parte ed all'economia della ‘mano invisibile’ dall'altra. La soluzione è che “il legislatore deve intervenire per abbattere quotidianamente le trincee entro le quali i gruppi dei produttori si asserragliano per conquistare privilegi dannosi agli altri produttori ed ai consumatori”; bisogna impedire, cioè, accordi per rialzare prezzi, profitti, rendite e salari (soprattutto salari, evidentemente).

Come dice Einaudi: “la pianta della concorrenza non nasce da sé [dunque non è naturale frutto del commercio, come riteneva una influente tradizione] e non cresce da sola; non è un albero secolare che la tempesta furiosa non riesce a scuotere; è un arboscello delicato il quale deve essere difeso con affetto contro le malattie dell'egoismo e degli interessi particolari e sostenuto attentamente contro i pericoli che d'ogni parte del firmamento economico lo minacciano”. Se l'economia di mercato, dunque, non “riposa in se stessa, come una condizione di natura che non ha bisogno di nessun sussidio in appoggio e difesa”, ed è quindi “posta al di fuori del perimetro dello stato”, allora, “è decisiva l'importanza di un ambiente etico-giuridico-istituzionale adatto ai principi dell'economia medesima”.

E con ciò si torna, a ben vedere, alle “istituzioni antidemocratiche”.

Quelle che con grande fatica e decenni di lavoro hanno perfezionato.



[1] - Inizialmente viene istituita, nel 1951, la Ceca, ma fallisce la Ced, quindi nel 1957 viene firmato il Trattato di Roma, la cui discussione di ratifica abbiamo descritto qui, che resta in vigore fino al Trattato di Maastricht (descritto qui).
[2] - In questa fase collaborano con la rivista Gabriele de Rosa, Corso Bovio, Giovanni Merloni, Giovanni Montemarini, Claudio Treves, Leonida Bissolati, Carlo Rosselli, Alessandro Levi, Giacomo Matteotti.
[3] - A Torino insegna Scienza delle Finanze, e Legislazione industriale ed Economica, a Milano, alla Bocconi, Scienza delle Finanze.
[4] - Come ricorda Gianpasquale Santomassimo “L'antifascismo è stato un fenomeno storico composito, nel quale sono confluite culture e sensibilità molto diverse. Il senso complessivo che ha assunto nella storia italiana è stato quello di garantire un assetto costituzionale avanzato, che puntava al superamento delle diseguaglianze fra i cittadini e alla garanzia dei loro diritti. Non si può dimenticare però che c'era stato negli anni del regime anche un antifascismo elitario e aristocratico, che criticava ‘da destra’ il fascismo, come regime plebeo e popolaresco, colpevole di volgarità demagogiche, e che rischiava immettendo linfa plebea nelle strutture del potere di insidiare la naturale disposizione al comando delle oligarchie tradizionali”.
[5] - Una coalizione elettorale liberale che prende i 6% dei suffragi ed elegge 41 costituenti. Tra questi Benedetto Croce (1866-1952), Francesco Saverio Nitti (1868-1953), Arturo Labriola (1873-1959).
[6] - Sono: “La bellezza della lotta”, 1924; “Economia di concorrenza e capitalismo storico”, 1942; “Dell’uomo, fine o mezzo, e dei beni d’ozio”, 1942; “La dottrina liberale”, 1925. Tutti articoli o saggi contenuti in testi più meditati scritti in Italia durante il periodo fascista.
[7] - Violentemente censurata anche da Emile Durkheim nel suo opuscolo “La Germania al di sopra di tutto”, del 1914.
[8] - Alan Taylor, “Rivoluzioni americane”, 2016. Nel complesso scontro sociale e costituzionale che agita la Confederazione nel primo decennio di vita, dopo la sorprendente vittoria sugli inglesi, si manifesta la frattura tra chi, come i conservatori, vedeva la società come composita e complessa, e quindi prediligevano la divisione dei poteri e l’equilibrio preordinato alla garanzia dell’assetto economico e sociale vigente, e chi, come i democratici, vedevano invece l’autorità come derivante direttamente dal popolo e bisognosa di meno mediazioni possibili. Esponente dei primi, John Adams vedeva la Costituzione come necessaria per gestire il conflitto di classe tra i ricchi, nel quale si annoverava, ed i molti del volgo, essenzialmente invidiosi. Nel 1780 la Costituzione del Massachussetts esemplifica il concetto, mentre la Costituzione della Pennsylvania esemplifica quello democratico, con la sua unica Camera e l’esteso demos. Come la mette Taylor: “i conservatori, accusati di costituire un’aristocrazia, dovettero imparare a mascherare il loro elitarismo nella retorica repubblicana; atteggiandosi a paladini del popolo, esortarono l’elettorato a diffidare dei legislatori, in quanto corrotti demagoghi, e con un colpo di genio politico fecero passare la separazione dei poteri come l’essenza del vero repubblicanesimo” (p.363). Segue una lunga fase di conflitto economico e di alternanza tra politiche deflazionarie (volute dalle élite finanziarie) e inflazionarie (volute dalla base), che prevalgono dopo una fase ‘austeriana’ a seguito della crisi derivante dalla rivolta di Shays nel 1786, repressa nel sangue e dalla diffusa resistenza armata nelle campagne. Ma a loro volta le misure di alleggerimento del debito, come un’altalena, produssero la riduzione del valore dei Titoli di Stato del 30% e la riduzione delle imposte dirette; sette stati ricominciarono ad emettere moneta cartacea e crollò il valore delle grandi proprietà. Il contrappasso provocò il consueto lamento sulla gente licenziosa e l’avidità egoistica dei poveri e dei lavoratori, e quindi l’emergere del tema della follia di istituire un governo popolare e democratico. Il timore per “l’anarchia” provocò la ripresa della consapevolezza che solo la protezione di un re poteva garantire i grandi possedimenti e patrimoni. Dunque della possibilità che si dovesse ritornare alla monarchia, comunque a qualcosa che “indebolisse i molti per dare il potere ai pochi”. Come ebbe a dire Benjamin Lincoln: “gli uomini che hanno delle proprietà hanno il diritto a una fetta maggiore di potere politico di quelli che ne sono privi” (p.374), e l’ineffabile Robert Morris, l’uomo più ricco d’America, definì l’obiettivo di “imporre il controllo del governo su un popolo insofferente all’autorità”, ovvero di impedire che mettessero le mani nelle sue tasche, al contempo consentendogli senz’altro di mettere le sue nelle loro. L’escamotage che prese piede fu di allontanare il potere dal popolo concentrandolo nel livello del governo sovra-nazionale. Era, in altre parole, il governo federale che avrebbe risolto tutti i problemi. L’idea di superare la crisi molteplice nella quale si stava impantanando il progetto fece uso delle idee di James Madison, che diventerà il quarto Presidente, e che era figlio di un grande possidente e laureato in filosofia morale. La sua proposta era di considerare le maggioranze popolari come potenzialmente tiranniche nel senso che per loro natura esse “sacrificano i pochi ai molti in maniera del tutto ingiustificata”. Nasce qui l’idea-chiave secondo la quale la repubblica dovrebbe in sostanza “proteggere la minoranza dei ricchi contro la maggioranza”.
Questo essenziale effetto si ottiene semplicemente allargando la scala del territorio; infatti in tal modo si riduce, a parere di Madison, la possibilità stessa che “interessi o passioni condivise” possano “coalizzarsi” in modo da raggruppare la maggioranza verso “un obiettivo iniquo” (ovvero redistributivo).
[9] - “Contro il mito dello Stato Sovrano”, 3 gennaio 1945.

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