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domenica 13 gennaio 2019

Uscendo dall’ipocrisia dei rispettivi muri: cosa significa accogliere.




Come riconoscono i trattati internazionali vigenti, e come si rintraccia nello sviluppo storico del tema in occidente sin dal tempo del Trattato di Augusta del 1555[1], e poi consolidato dalla Dichiarazione dei Diritti Umani[2], all’Articolo 13[3] ogni cittadino ha diritto ad uscire, se lo vuole, dal paese nel quale è nato, ma nessuna nazione sovrana, che ha obblighi costitutivi verso i propri cittadini, è obbligata ad accogliere un flusso indiscriminato di immigrati, fuori dei casi previsti dall’Articolo 14[4]. Il combinato di tali articoli recita che ognuno ha il diritto di circolare entro la propria nazione, di uscirvi, e, se perseguitato, di trovare asilo.
Ma i diritti civili riconosciuti dalla Dichiarazione non si limitano a codificare la libertà di uscire da un paese, essi, all’art. 22[5] scolpiscono un diritto di ogni individuo “in quanto membro della società”, alla sicurezza sociale, ed alla realizzazione, attraverso lo sforzo nazionale e la cooperazione internazionale, in rapporto con le risorse di ogni Stato, ai diritti economici, sociali e culturali che sono “indispensabili alla sua dignità ed al libero sviluppo della sua personalità”. Inoltre, e ancora più precisamente, all’art 23[6], ogni individuo “ha diritto al lavoro”, secondo una libera scelta e quindi, specificamente, “a giuste e soddisfacenti condizioni di lavoro ed alla protezione contro la disoccupazione”. Inoltre, “a eguale retribuzione per eguale lavoro”, e ad una remunerazione equa e soddisfacente, che assicuri “una esistenza conforme alla dignità umana”. Articoli ulteriormente specificati e rafforzati dall’art. 25[7], sul diritto alla salute ed al benessere, all’abitazione, ai servizi sociali, alle cure per l’infanzia, e art 26[8], sull’istruzione.

Dunque una lettura non parziale e non “alla carta”, dei diritti riconosciuti, per unanime consuetudine, indica con assoluta chiarezza che l’accoglienza, per essere davvero tale, deve essere sempre condotta in reali condizioni di possibilità e senza tradursi direttamente in una pressione allo sfruttamento degli immigrati e/o dei cittadini più deboli per opera del mercato lasciato a se stesso. Il pacchetto di diritti da applicare include, infatti, la sicurezza sociale, giuste condizioni di lavoro, la protezione contro la disoccupazione, l’eguale retribuzione, il diritto alla salute, alla casa, ai servizi sociali, alle cure ed all’istruzione.



In conseguenza, il criterio che guida le politiche deve essere intransigente:
a livello nazionale le condizioni del welfare devono essere garantite indiscriminatamente a tutti, italiani e non, su un piano di assoluta parità corrispondente alla pari dignità umana.

Ne segue però, se non devono essere solo parole, una semplice conseguenza pratica, che è anche un obbligo morale e giuridico: le condizioni dell’effettiva capacità di integrazione economica, sociale e culturale, sono la precondizione per accogliere nuovi cittadini, senza distinguere tra questi e ‘meteci’ di classe b, come alcune destre propongono, non solo in Italia[9].


Il problema delle migrazioni va compreso come un caso particolare, per quanto severo, di una generale crisi di scopo della nostra intera civiltà. Dobbiamo comprendere che non può essere la concorrenza di tutti contro tutti ad essere il principio e la pratica che genera l’ordine sociale e decide chi è, come chi non è (cittadino, inserito, oggetto di dignità). La vera questione posta dalle migrazioni è quindi l’emancipazione ed il riscatto dai meccanismi stritolanti del mercato che non può passare, in ogni paese di destinazione, se non per un potenziamento, radicale, dell’offerta di servizi pubblici, di welfare, di case dignitose, e per la creazione di un territorio nel quale sia presente e disponibile il lavoro.

Per questo l’indiscriminata accoglienza, se resta sostanzialmente affidata alle sole capacità di socializzazione del mercato, in particolare nelle condizioni odierne di grande e diffusa sofferenza, si tramuta immediatamente in un fattore di aggravamento, in particolare nelle nostre tante periferie e nelle aree di abbandono. Il mercato attrarrà infatti flussi secondo il proprio principio, che è la massimizzazione del rendimento e quindi dello sfruttamento[10], garantendo la costante compressione della quota di ricchezza sociale che resta al lavoro (e determina domanda aggregata) a vantaggio di quella che viene appropriata dalla capacità di comando del capitale (e nelle condizioni della finanziarizzazione tende a trasferirsi).

Questa struttura polarizzante, che si ribalta su scala internazionale come divisione del lavoro ordinata da sistemi gerarchici di egemonia[11], è la forma del sottosviluppo che costringe il sistema Italia, come parte di una catena[12], nell’attuale crisi.

Il diritto allo sviluppo integrale, secondo la propria determinazione, se viene preso sul serio è invece un processo autorafforzante, che determina riparazione di una società malata e squilibrata, e, alla scala internazionale deve riguardare ogni nazione.

Dunque l’obiettivo che deve porsi la cooperazione internazionale, indispensabile caposaldo di ogni possibile politica sulle migrazioni, è di evitare qualsiasi reciproco sfruttamento e l’imposizione di modelli economici o sociali esterni, garantendo ad ogni paese il diritto di determinarsi e di graduare la propria connessione ed equilibrio sociale.

E l’obiettivo che deve porsi la politica di accoglienza è di prendersi sul serio.


[1] - Nel settembre 1555, sovrani ed ambasciatori convocati ad Augusta determinano una prima versione dell’assetto europeo a seguito della riforma protestante. Il compromesso riconosce ai sovrani il diritto di intervenire con uno jus riformandi sulle teste dei sudditi, ma al contempo per bilanciarlo un diritto (ad un potere un diritto) alla propria coscienza. Dunque chi non voleva essere “riformato”, aveva il diritto di muoversi verso nuove terre. Nasce lo jus emigrandi. Dopo la Guerra dei trent’anni il successivo Trattato di Osnabruck, del 1648, ratifica definitivamente entrambi gli jus, il diritto del sovrano di regolare il suo spazio pubblico e quello delle minoranze di emigrare (o di restare in silenzio). Il diritto di uscire doveva disciplinare il potere del sovrano di riformare. Ma la pace di Westfalia (con i suoi tanti Trattati singoli) non codifica nessuno jus immigrandi. I principi, insomma, non erano tenuti ad accettare i sudditi che abbandonavano un’altra terra.
[2] - La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani è stata promulgata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948 a Parigi, Risoluzione 217A. Dei cinquant’otto paesi presenti otto si astennero (Urss, Bielorussia, Cecoslovacchia, Jugoslavia, Arabia Saudita, Polonia, Sudafrica, Ucraina), due non votarono (Jemen, Honduras) e gli altri furono favorevoli. L’Italia non ne faceva parte (entrà nell’Onu nel 1955).
[3] - Articolo 13 - 1. Ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato. 2. Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese.
[4] - Articolo 14 - 1. Ogni individuo ha il diritto di cercare e di godere in altri paesi asilo dalle persecuzioni. 2. Questo diritto non potrà essere invocato qualora l'individuo sia realmente ricercato per reati non politici o per azioni contrarie ai fini e ai principi delle Nazioni Unite.
[5] - Articolo 22 - Ogni individuo, in quanto membro della società, ha diritto alla sicurezza sociale, nonché alla realizzazione attraverso lo sforzo nazionale e la cooperazione internazionale ed in rapporto con l'organizzazione e le risorse di ogni Stato, dei diritti economici, sociali e culturali indispensabili alla sua dignità ed al libero sviluppo della sua personalità.
[6] - Articolo 23 -  1. Ogni individuo ha diritto al lavoro, alla libera scelta dell'impiego, a giuste e soddisfacenti condizioni di lavoro ed alla protezione contro la disoccupazione. 2. Ogni individuo, senza discriminazione, ha diritto ad eguale retribuzione per eguale lavoro. 3. Ogni individuo che lavora ha diritto ad una rimunerazione equa e soddisfacente che assicuri a lui stesso e alla sua famiglia una esistenza conforme alla dignità umana ed integrata, se necessario, da altri mezzi di protezione sociale. 4. Ogni individuo ha diritto di fondare dei sindacati e di aderirvi per la difesa dei propri interessi.
[7] - Articolo 25 - 1. Ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all'alimentazione, al vestiario, all'abitazione, e alle cure mediche e ai servizi sociali necessari; ed ha diritto alla sicurezza in caso di disoccupazione, malattia, invalidità, vedovanza, vecchiaia o in altro caso di perdita di mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà. 2. La maternità e l'infanzia hanno diritto a speciali cure ed assistenza. Tutti i bambini, nati nel matrimonio o fuori di esso, devono godere della stessa protezione sociale.
[8] - Articolo 26 - 1. Ogni individuo ha diritto all'istruzione. L'istruzione deve essere gratuita almeno per quanto riguarda le classi elementari e fondamentali. L'istruzione elementare deve essere obbligatoria. L'istruzione tecnica e professionale deve essere messa alla portata di tutti e l'istruzione superiore deve essere egualmente accessibile a tutti sulla base del merito. 2. L'istruzione deve essere indirizzata al pieno sviluppo della personalità umana ed al rafforzamento del rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Essa deve promuovere la comprensione, la tolleranza, l'amicizia fra tutte le Nazioni, i gruppi razziali e religiosi, e deve favorire l'opera delle Nazioni Unite per il mantenimento della pace. 3. I genitori hanno diritto di priorità nella scelta del genere di istruzione da impartire ai loro figli.
[9] - Branko Milanovic nel suo libro del 2016 sulla ineguaglianza mondiale riconduce l’immigrazione all’ineguaglianza tra nazioni, ovvero al “premio di cittadinanza” che il differenziale di composizione organica del capitale e delle istituzioni crea nei paesi ricchi. Questa letteratura dichiara in sostanza che il sacrificio delle classi medie inferiori occidentali è più che compensato, in una contabilità edonica implicita, dal vantaggio delle classi medie emergenti che migrerebbero a servizio delle classi alte occidentali. Minimizzando la redistribuzione, in altre parole, si avrebbe il maggiore saldo di felicità (calcolato nella metrica del denaro erogato). Ma allargare ulteriormente l’immigrazione, rende necessario “la soppressione di alcuni diritti civili” (p.144) ed un sistema di quote. E questo è necessario proprio per rendere accettabile il sacrificio per le classi medie inferiori con le quali gli immigrati entrano in oggettiva competizione. Per Milanovic questa creazione di una società duale è comunque meglio dell’unica alternativa possibile, che è la restrizione della globalizzazione, ovvero la riduzione dell’Apertura da parte di quello che chiama “il populismo nativista”.
Piuttosto simile, anche se da altra linea politica è una influente proposta di Hans Werner Sinn, che nel luglio del 2016 propone di reagire ai rischi politici e sociali del troppo rapido arrivo di rifugiati, chiudendo le frontiere, e di immigrati comunitari dai paesi periferici con una moratoria a tempo dei diritti civili. Propone in sostanza una soluzione ‘spartana’: al nucleo degli ‘spartiati’ (che sono i nativi tedeschi) affiancare una popolazione di ‘iloti’ in posizione semiservile fino a che non abbiano conquistato il diritto di accesso al welfare (pagandolo). Tenendo ferma la natura ferocemente competitiva determinata dalle tre libertà di movimento (capitali, merci e servizi) europea, Sinn propone quindi di depotenziare alla carta la quarta senza rimettere in questione l’equilibrio delle altre.
[10] - L’economia della migrazione è un tutto interconnesso che partecipa e definisce gli equilibri generali del mondo, ma sul piano analitico si potrebbe distinguere tra due economie politiche:
-        da una parte l'economia politica della immigrazione è messa in moto dai nostri settori produttivi (ma anche la piccola e media borghesia, con la sua domanda di servizi di cura a basso costo), che creano una costante domanda di “forza lavoro” debole e disciplinata che riadatti verso il basso la struttura dei costi, e la remunerano a dei livelli che sono bassi rispetto al contesto locale, ma alti rispetto a quello di provenienza; creando le condizioni per una trasmissione di surplus che alimenta indirettamente (e forse anche direttamente) la seconda. Ciò induce quindi nella prima, ovvero in una economia lontana dal pieno impiego (con buona pace del ‘tasso naturale di disoccupazione’ inventato da Milton Friedman), effetti di aggiustamento regressivi, abbassamento degli investimenti, creazione di settori a bassi salari altamente inefficienti, freno all'innovazione.
-        Dall’altra l'economia politica dell’emigrazione determina, sulla base di un flusso derivante dal surplus sopra ricordato (per via di anticipazione o per via di trasferimento), un’intera  catena di agenti con caratteristiche relazioni economiche e politico-sociali tra di essi. Ovvero la creazione di lunghi network che si diramano dalle coste nord verso l'Africa profonda, o il medio oriente, specializzati nell'estrazione di valore dai migranti stessi e indirettamente dagli Stati di destinazione. Alla fine, questo che può apparire come un effetto, finisce per divenire esso stesso una delle cause del fenomeno. Come lo schiavismo nel settecento era alimentato da un'autentica destrutturazione della società locale, causata dall'esistenza di una domanda di uomini. I centri specializzati nel commercio sulla costa erano il terminale, come oggi, di una capillare rete di agenti di commercio, ai primi anelli occidentali e poi africani, che acquistava uomini da chiunque. L'effetto fu che il padre vendeva il figlio, il re conduceva guerre di saccheggio in cerca di uomini e non più di terra o rispetto. Gli effetti furono immani, a quanto sembra lo stiamo riguardando.
Si sta creando, insomma, e spinta da molteplici fattori come le ineguaglianze, le tecnologie di comunicazione, le guerre ed i cambiamenti climatici, lo stesso sviluppo ineguale e subalterno che determina mercatizzazione e sradicamento, una ‘economia della migrazione’ che corrompe in basso, gestisce in mezzo e sfrutta in alto.
D’altra parte è vero che la lotta di classe ha anche a che fare con la lotta tra i poveri, perché questa è uno strumento nelle mani del capitale. Ma riconoscere questo non può neppure voler dire negare che la creazione e conservazione di un settore a bassi salari impedisce di fatto al movimento complessivo del lavoro di riequilibrare i rapporti di forza. La concentrazione complessiva delle ricchezze che si osserva è l'effetto congiunto di tutti questi funzionamenti, non cade dal cielo della tecnologia. O meglio, questa è inscritta dentro questi funzionamenti sociali.
[11] - Il riferimento, per questo concetto è alla grande tradizione analitica della “Economia-mondo”, di Wallersterin e Arrighi, ed alla indimenticabile lezione di Samir Amin, di cui abbiamo lungamente parlato, si veda   Lo sviluppo ineguale”, 1973; “Oltre la mondializzazione”, 1999; “Il virus liberale”, 2004; “Per un mondo multipolare”, 2006; “La crisi”, 2009. In riferimento a questo tema quel che bisognerebbe provare è di impegnare un grande campo di battaglia, se si vuole ottenere qualche risultato:
·            Regolare il commercio in modo che dal “free trade”, si passi al “fair trade”, come propone Dani Rodrik in questo altro articolo, nel quale chiarisce che il commercio internazionale non è un rapporto di mercato, ma una ‘istituzione globale’ che riconfigura i rapporti complessivi accordi incorporati negli assetti istituzionali e sociali.
·            Ostacolare la mobilità dei capitali, per ridurre brutalità e complessità delle catene produttive transnazionali che aspirano sempre più lavoro subalterno come effetto indiretto della loro costitutiva spinta agli “iperprofitti” (cioè a profitti a qualsiasi costo e senza freni, nel tempo corto o istantaneo, senza sostenibilità, della finanza e dei servizi ad essa funzionali) e della logica organizzativa che questa determina, inducendo una continua espansione del campo di ciò che può essere “finanziarizzato”, che di fatto smembrano la realtà sociale, promuovendo una estrema disuguaglianza.
·            Revocare le politiche predatorie ed imperiali, che supportano sistematicamente l’insediamento di catene lunghe di sfruttamento e la valorizzazione del capitale mobile.
[12] - Catena che vede centinaia di migliaia di connazionali, sfiduciati e convinti di non trovare nel paese le condizioni per una esistenza dignitosa ed all’altezza delle proprie legittime aspirazioni, emigrare ogni anno.

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