Come riconoscono i trattati internazionali vigenti, e come
si rintraccia nello sviluppo storico del tema in occidente sin dal tempo del Trattato di Augusta del 1555[1], e
poi consolidato dalla Dichiarazione dei
Diritti Umani[2], all’Articolo 13[3] ogni
cittadino ha diritto ad uscire, se lo vuole, dal paese nel quale è nato, ma
nessuna nazione sovrana, che ha obblighi costitutivi verso i propri cittadini,
è obbligata ad accogliere un flusso indiscriminato di immigrati, fuori dei casi
previsti dall’Articolo 14[4]. Il
combinato di tali articoli recita che ognuno ha il diritto di circolare entro
la propria nazione, di uscirvi, e, se
perseguitato, di trovare asilo.
Ma i diritti civili riconosciuti dalla Dichiarazione
non si limitano a codificare la libertà di uscire da un paese, essi, all’art.
22[5]
scolpiscono un diritto di ogni individuo “in
quanto membro della società”, alla sicurezza sociale, ed alla realizzazione,
attraverso lo sforzo nazionale e la cooperazione internazionale, in rapporto
con le risorse di ogni Stato, ai diritti economici, sociali e culturali che
sono “indispensabili alla sua dignità ed
al libero sviluppo della sua personalità”. Inoltre, e ancora più precisamente,
all’art 23[6],
ogni individuo “ha diritto al lavoro”, secondo una libera scelta e quindi,
specificamente, “a giuste e soddisfacenti
condizioni di lavoro ed alla protezione contro la disoccupazione”. Inoltre,
“a eguale retribuzione per eguale lavoro”, e ad una remunerazione equa e
soddisfacente, che assicuri “una esistenza conforme alla dignità umana”. Articoli
ulteriormente specificati e rafforzati dall’art. 25[7], sul
diritto alla salute ed al benessere, all’abitazione, ai servizi sociali, alle
cure per l’infanzia, e art 26[8],
sull’istruzione.
Dunque una lettura non parziale e non “alla carta”,
dei diritti riconosciuti, per unanime consuetudine, indica con assoluta chiarezza
che l’accoglienza, per essere davvero
tale, deve essere sempre condotta in reali condizioni di possibilità e
senza tradursi direttamente in una pressione allo sfruttamento degli immigrati
e/o dei cittadini più deboli per opera del mercato lasciato a se stesso. Il pacchetto
di diritti da applicare include, infatti, la sicurezza sociale, giuste
condizioni di lavoro, la protezione contro la disoccupazione, l’eguale
retribuzione, il diritto alla salute, alla casa, ai servizi sociali, alle cure
ed all’istruzione.
In conseguenza, il criterio che guida le politiche deve
essere intransigente:
a livello
nazionale le condizioni del welfare devono essere garantite indiscriminatamente
a tutti, italiani e non, su un piano di assoluta parità corrispondente alla
pari dignità umana.
Ne segue però, se non devono essere solo parole, una
semplice conseguenza pratica, che è anche un obbligo morale e giuridico: le
condizioni dell’effettiva capacità di integrazione economica, sociale e
culturale, sono la precondizione per
accogliere nuovi cittadini, senza distinguere tra questi e ‘meteci’ di classe
b, come alcune destre propongono, non solo in Italia[9].
Il problema delle migrazioni va compreso come un caso
particolare, per quanto severo, di una generale crisi di scopo della nostra
intera civiltà. Dobbiamo comprendere che non può essere la concorrenza di tutti contro tutti ad essere il principio e la
pratica che genera l’ordine sociale e decide chi è, come chi non è
(cittadino, inserito, oggetto di dignità). La vera questione posta dalle
migrazioni è quindi l’emancipazione ed il
riscatto dai meccanismi stritolanti del mercato che non può passare, in
ogni paese di destinazione, se non per un potenziamento, radicale, dell’offerta
di servizi pubblici, di welfare, di case dignitose, e per la creazione di un
territorio nel quale sia presente e disponibile il lavoro.
Per questo l’indiscriminata accoglienza, se resta sostanzialmente
affidata alle sole capacità di socializzazione del mercato, in particolare
nelle condizioni odierne di grande e diffusa sofferenza, si tramuta
immediatamente in un fattore di aggravamento, in particolare nelle nostre tante
periferie e nelle aree di abbandono. Il mercato attrarrà infatti flussi secondo il proprio principio, che è la
massimizzazione del rendimento e quindi dello sfruttamento[10],
garantendo la costante compressione della quota di ricchezza sociale che resta
al lavoro (e determina domanda aggregata) a vantaggio di quella che viene
appropriata dalla capacità di comando del capitale (e nelle condizioni della
finanziarizzazione tende a trasferirsi).
Questa struttura polarizzante, che si ribalta su scala
internazionale come divisione del lavoro ordinata da sistemi gerarchici di
egemonia[11], è la forma del
sottosviluppo che costringe il sistema Italia, come parte di una catena[12],
nell’attuale crisi.
Il diritto allo
sviluppo integrale, secondo la
propria determinazione, se viene preso sul serio è invece un processo
autorafforzante, che determina riparazione di una società malata e squilibrata,
e, alla scala internazionale deve riguardare ogni nazione.
Dunque l’obiettivo che deve porsi la cooperazione
internazionale, indispensabile caposaldo di ogni possibile politica sulle
migrazioni, è di evitare qualsiasi reciproco sfruttamento e l’imposizione di
modelli economici o sociali esterni, garantendo ad ogni paese il diritto di
determinarsi e di graduare la propria connessione ed equilibrio sociale.
E l’obiettivo che
deve porsi la politica di accoglienza è di prendersi sul serio.
[1]
- Nel settembre 1555, sovrani ed ambasciatori convocati ad Augusta determinano
una prima versione dell’assetto europeo a seguito della riforma protestante. Il
compromesso riconosce ai sovrani il diritto di intervenire con uno jus riformandi sulle teste dei sudditi,
ma al contempo per bilanciarlo un diritto (ad un potere un diritto) alla
propria coscienza. Dunque chi non voleva essere “riformato”, aveva il diritto
di muoversi verso nuove terre. Nasce lo jus
emigrandi. Dopo la Guerra dei trent’anni il successivo Trattato di
Osnabruck, del 1648, ratifica definitivamente entrambi gli jus, il diritto del
sovrano di regolare il suo spazio pubblico e quello delle minoranze di emigrare
(o di restare in silenzio). Il diritto di uscire doveva disciplinare il potere
del sovrano di riformare. Ma la pace di Westfalia (con i suoi tanti Trattati
singoli) non codifica nessuno jus immigrandi.
I principi, insomma, non erano tenuti ad accettare i sudditi che abbandonavano
un’altra terra.
[2]
- La Dichiarazione
Universale dei Diritti Umani è stata promulgata dall’Assemblea Generale
delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948 a Parigi, Risoluzione 217A. Dei cinquant’otto
paesi presenti otto si astennero (Urss, Bielorussia, Cecoslovacchia,
Jugoslavia, Arabia Saudita, Polonia, Sudafrica, Ucraina), due non votarono (Jemen,
Honduras) e gli altri furono favorevoli. L’Italia non ne faceva parte (entrà
nell’Onu nel 1955).
[3]
- Articolo 13 - 1. Ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento e di
residenza entro i confini di ogni Stato.
2. Ogni individuo ha diritto di lasciare
qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese.
[4]
- Articolo 14 - 1. Ogni individuo ha il diritto di cercare e di godere in altri
paesi asilo dalle persecuzioni. 2.
Questo diritto non potrà essere invocato qualora l'individuo sia realmente
ricercato per reati non politici o per azioni contrarie ai fini e ai principi
delle Nazioni Unite.
[5]
- Articolo 22 - Ogni individuo, in quanto membro della società, ha diritto alla
sicurezza sociale, nonché alla realizzazione attraverso lo sforzo nazionale e
la cooperazione internazionale ed in rapporto con l'organizzazione e le risorse
di ogni Stato, dei diritti economici, sociali e culturali indispensabili alla
sua dignità ed al libero sviluppo della sua personalità.
[6]
- Articolo 23 - 1. Ogni individuo ha
diritto al lavoro, alla libera scelta dell'impiego, a giuste e soddisfacenti
condizioni di lavoro ed alla protezione contro la disoccupazione. 2. Ogni
individuo, senza discriminazione, ha diritto ad eguale retribuzione per eguale
lavoro. 3. Ogni individuo che lavora ha diritto ad una rimunerazione equa e
soddisfacente che assicuri a lui stesso e alla sua famiglia una esistenza
conforme alla dignità umana ed integrata, se necessario, da altri mezzi di
protezione sociale. 4. Ogni individuo ha diritto di fondare dei sindacati e di
aderirvi per la difesa dei propri interessi.
[7]
- Articolo 25 - 1. Ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a
garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare
riguardo all'alimentazione, al vestiario, all'abitazione, e alle cure mediche e
ai servizi sociali necessari; ed ha diritto alla sicurezza in caso di
disoccupazione, malattia, invalidità, vedovanza, vecchiaia o in altro caso di
perdita di mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà.
2. La maternità e l'infanzia hanno diritto a speciali cure ed assistenza. Tutti
i bambini, nati nel matrimonio o fuori di esso, devono godere della stessa
protezione sociale.
[8]
- Articolo 26 - 1. Ogni individuo ha diritto all'istruzione. L'istruzione deve
essere gratuita almeno per quanto riguarda le classi elementari e fondamentali.
L'istruzione elementare deve essere obbligatoria. L'istruzione tecnica e
professionale deve essere messa alla portata di tutti e l'istruzione superiore
deve essere egualmente accessibile a tutti sulla base del merito. 2.
L'istruzione deve essere indirizzata al pieno sviluppo della personalità umana
ed al rafforzamento del rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali.
Essa deve promuovere la comprensione, la tolleranza, l'amicizia fra tutte le
Nazioni, i gruppi razziali e religiosi, e deve favorire l'opera delle Nazioni
Unite per il mantenimento della pace. 3. I genitori hanno diritto di priorità
nella scelta del genere di istruzione da impartire ai loro figli.
[9] - Branko
Milanovic nel suo libro del 2016 sulla ineguaglianza mondiale riconduce l’immigrazione
all’ineguaglianza tra nazioni, ovvero al “premio di cittadinanza” che il
differenziale di composizione organica del capitale e delle istituzioni crea
nei paesi ricchi. Questa letteratura dichiara in sostanza che il
sacrificio delle classi medie inferiori occidentali è più che compensato, in
una contabilità edonica implicita, dal vantaggio delle classi medie emergenti
che migrerebbero a servizio delle classi alte occidentali. Minimizzando la
redistribuzione, in altre parole, si avrebbe il maggiore saldo di felicità
(calcolato nella metrica del denaro erogato). Ma allargare
ulteriormente l’immigrazione, rende necessario “la soppressione di alcuni
diritti civili” (p.144) ed un sistema di quote. E questo è necessario proprio
per rendere accettabile il sacrificio per le classi medie inferiori con le
quali gli immigrati entrano in oggettiva competizione. Per
Milanovic questa creazione di una società duale è comunque meglio dell’unica
alternativa possibile, che è la restrizione della globalizzazione, ovvero la
riduzione dell’Apertura da parte di quello che chiama “il populismo nativista”.
Piuttosto simile, anche se da altra linea
politica è una influente proposta di Hans Werner Sinn, che nel luglio del 2016 propone di reagire ai rischi politici e sociali del troppo
rapido arrivo di rifugiati, chiudendo le frontiere, e di immigrati comunitari
dai paesi periferici con una moratoria a tempo dei diritti civili. Propone in sostanza una soluzione ‘spartana’: al nucleo
degli ‘spartiati’ (che sono i nativi tedeschi) affiancare una popolazione di
‘iloti’ in posizione semiservile fino a che non abbiano conquistato il diritto
di accesso al welfare (pagandolo). Tenendo ferma la natura ferocemente
competitiva determinata dalle tre libertà di movimento (capitali, merci e
servizi) europea, Sinn propone quindi di depotenziare alla carta la quarta
senza rimettere in questione l’equilibrio delle altre.
[10] - L’economia della migrazione è un tutto interconnesso che partecipa e
definisce gli equilibri generali del mondo, ma sul piano analitico si potrebbe
distinguere tra due economie politiche:
- da una parte l'economia
politica della immigrazione è messa in moto dai nostri settori
produttivi (ma anche la piccola e media borghesia, con la sua domanda di
servizi di cura a basso costo), che creano una costante domanda di “forza
lavoro” debole e disciplinata che riadatti verso il basso la struttura dei
costi, e la remunerano a dei livelli che sono bassi rispetto al contesto
locale, ma alti rispetto a quello di provenienza; creando le condizioni per una
trasmissione di surplus che alimenta indirettamente (e forse anche
direttamente) la seconda. Ciò induce quindi nella prima, ovvero in una economia
lontana dal pieno impiego (con buona pace del ‘tasso naturale di
disoccupazione’ inventato da Milton Friedman), effetti di aggiustamento
regressivi, abbassamento degli investimenti, creazione di settori a bassi
salari altamente inefficienti, freno all'innovazione.
- Dall’altra l'economia
politica dell’emigrazione determina, sulla base di un flusso derivante
dal surplus sopra ricordato (per via di anticipazione o per via di
trasferimento), un’intera catena di agenti con caratteristiche relazioni
economiche e politico-sociali tra di essi. Ovvero la creazione di lunghi
network che si diramano dalle coste nord verso l'Africa profonda, o il medio
oriente, specializzati nell'estrazione di valore dai migranti stessi e
indirettamente dagli Stati di destinazione. Alla fine, questo che può
apparire come un effetto, finisce per divenire esso stesso una delle cause del
fenomeno. Come lo schiavismo nel settecento era alimentato da un'autentica
destrutturazione della società locale, causata dall'esistenza di una domanda di
uomini. I centri specializzati nel commercio sulla costa erano il terminale,
come oggi, di una capillare rete di agenti di commercio, ai primi anelli
occidentali e poi africani, che acquistava uomini da chiunque. L'effetto fu che
il padre vendeva il figlio, il re conduceva guerre di saccheggio in cerca di
uomini e non più di terra o rispetto. Gli effetti furono immani, a quanto
sembra lo stiamo riguardando.
Si sta creando, insomma, e spinta da molteplici fattori come le
ineguaglianze, le tecnologie di comunicazione, le guerre ed i cambiamenti
climatici, lo stesso sviluppo ineguale e subalterno che determina
mercatizzazione e sradicamento, una ‘economia della migrazione’ che
corrompe in basso, gestisce in mezzo e sfrutta in alto.
D’altra parte è vero che la lotta di classe ha anche a che fare con la
lotta tra i poveri, perché questa è uno strumento nelle mani del
capitale. Ma riconoscere questo non può neppure voler dire negare che
la creazione e conservazione di un settore a bassi salari impedisce di fatto al
movimento complessivo del lavoro di riequilibrare i rapporti di forza. La
concentrazione complessiva delle ricchezze che si osserva è l'effetto congiunto
di tutti questi funzionamenti, non cade dal cielo della tecnologia. O meglio,
questa è inscritta dentro questi funzionamenti sociali.
[11] - Il riferimento, per questo
concetto è alla grande tradizione analitica della “Economia-mondo”, di
Wallersterin e Arrighi, ed alla indimenticabile lezione di Samir Amin, di cui
abbiamo lungamente parlato, si veda “Lo sviluppo ineguale”, 1973; “Oltre la
mondializzazione”, 1999; “Il virus liberale”, 2004; “Per un mondo
multipolare”, 2006; “La crisi”, 2009. In riferimento a questo tema quel che bisognerebbe provare è di impegnare un grande
campo di battaglia, se si vuole ottenere qualche risultato:
· Regolare
il commercio in modo che dal “free trade”, si passi al “fair trade”,
come propone Dani Rodrik in questo altro articolo,
nel quale chiarisce che il commercio internazionale non è un rapporto di
mercato, ma una ‘istituzione globale’ che riconfigura i rapporti complessivi
accordi incorporati negli assetti istituzionali e sociali.
· Ostacolare
la mobilità dei capitali, per ridurre brutalità e complessità delle
catene produttive transnazionali che aspirano sempre più lavoro subalterno come
effetto indiretto della loro costitutiva spinta agli “iperprofitti” (cioè a
profitti a qualsiasi costo e senza freni, nel tempo corto o istantaneo, senza
sostenibilità, della finanza e dei servizi ad essa funzionali) e della logica
organizzativa che questa determina, inducendo una continua espansione del
campo di ciò che può essere “finanziarizzato”, che di fatto smembrano la realtà
sociale, promuovendo una estrema disuguaglianza.
· Revocare
le politiche predatorie ed imperiali, che supportano sistematicamente
l’insediamento di catene lunghe di sfruttamento e la valorizzazione del
capitale mobile.
[12]
- Catena che vede centinaia di migliaia di connazionali,
sfiduciati e convinti di non trovare nel paese le condizioni per una esistenza
dignitosa ed all’altezza delle proprie legittime aspirazioni, emigrare ogni
anno.
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