Nel mondo
globalizzato che un sistema di azione
altamente complesso[1] ha costruito a partire dai
primi anni settanta, non c’è alcuno
spazio per la democrazia dei nostri padri e nonni.
Non c’è alcuno spazio, cioè, per la democrazia
inclusiva e popolare che muoveva, certo sempre in modo incompiuto e come
progetto da rinnovare, dall’eguaglianza dei ‘cittadini’[2] in
quanto ‘persone’ e non per le loro capacità (siano esse economiche o cognitive),
quanto per il loro diritto di formarsi norma a se stessi. Certo una forma, quella
democratica, che è sempre cambiata nel tempo, passando dal parlamentarismo
delle origini alla democrazia a suffragio universale e di massa ‘dei partiti’
novecentesca, ed alla trasformazione di questa in una ‘democrazia del pubblico’[3],
centrata su pratiche di sorveglianza e discredito per le forme della politica.
Il vuoto che anche l’autore diagnostica viene però riempito
dall’espressione di una diversa ‘sovranità’: la vecchia definizione del ‘controllo’, ovvero della potenza. Si torna
in questo modo alla ‘sovranità’ del discorso politico seicentesco[4]. A
ben vedere il discorso di Draghi, nel momento in cui retoricamente difende la
pace, è quindi un discorso di guerra, è
esattamente il contrario di quel che dice di essere. Quel che accusa ad
altri di essere lui è.
Come dice, infatti:
“La vera sovranità si
riflette non nel potere di fare le leggi, come vuole una definizione giuridica
di essa, ma nel migliore controllo degli eventi in maniera da rispondere ai
bisogni fondamentali dei cittadini: ‘la pace, la sicurezza e il pubblico bene
del popolo’, secondo la definizione che John Locke ne dette nel 1690[3]. La
possibilità di agire in maniera indipendente non garantisce questo controllo:
in altre parole, l’indipendenza non garantisce la sovranità.”
Qui il soggetto di potenza deve ‘controllare gli eventi’ per ‘rispondere’ a bisogni, che sono oggettivati, di cittadini che diventano destinatari passivi. E i ‘bisogni’ stessi sono ristretti a quelli ‘fondamentali’ (ovviamente scelti oggettivamente, dall’alto di un sapere tecnico, e non scelti politicamente, infatti l’intero discorso a questo punta: a neutralizzare la scelta politica nel solo luogo in cui ancora si dà).
Bisogna infatti notare quel che è lo snodo del
dispositivo analitico proposto: un’intenzionale traslitterazione del desiderio
di sovranità popolare dall’autogoverno
(che ne è il principio autentico[5])
alla ‘indipendenza’ (che è solo un
obiettivo eventuale e impolitico). Si costruisce un facile bersaglio per
dimenticare la vera questione in campo. Fatto ciò Draghi può dire, quindi, con
qualche plausibilità che “l’indipendenza
non garantisce la sovranità”, una frase che ruota tutta nella definizione
che dà dei termini.
Sono qui all’opera gli interessi di alcuni contro quelli
di altri; quando nomina ‘i cittadini’, Draghi intende coloro i quali hanno
capacità economica indipendente e capitale, come, del resto, li intendeva Locke[6].
Si può dire in un modo diverso: per i capitali
europei, e per chi li detiene, è meglio la proiezione di potenza che può
garantire la Ue, anche se il prezzo da pagare (per gli altri) è che la
sovranità si sposti dalla democrazia (‘fare le leggi’) alla mera capacità di dominare.
Ed anche se dominare implica che i cittadini non mettano parola, ma si facciano
servire ‘per i loro bisogni fondamentali’ (ovvero quelli che le élite
tecnocratiche, di cui Draghi è l'esponente idealtipico, definiscono come tali).
Certo Mario Draghi non è né un letterato né,
tantomeno, un filosofo, ma questa frase seminale nel suo discorso a Bologna è davvero
un abisso:
“Al cuore del dibattito
sui meriti della cooperazione europea sta una percezione che appare in
superficie inevitabile: da un lato l’integrazione genera indubbi benefici;
dall’altro, perché questi si materializzino è necessaria una cooperazione
talvolta politicamente difficile da conseguire o da spiegare. Questa tensione
tra i benefici dell’integrazione e i costi associati con la perdita di
sovranità nazionale è per molti aspetti e specialmente nel caso dei paesi europei,
solo apparente. In realtà in molte aree l’Unione europea restituisce ai suoi
paesi la sovranità nazionale che avrebbero oggi altrimenti perso.”
Qui si unisce in un solo enunciato:
-
La percezione di
una superficie;
-
‘indubbi’ benefici, che, però, contemporaneamente
e contraddittoriamente non sono (perché
si devono “materializzare” grazie ad una cosa che non c'è);
-
la cooperazione
difficile, sia da fare sia da ‘spiegare’ (a chi? e cosa, esattamente?);
-
Tutto questo che
diventa, improvvisamente, un trade off, una ‘tensione tra benefici’ [quelli che
non ci sono perché manca una loro condizione necessaria] e costi derivanti
dalla ‘perdita di sovranità nazionale’ [che, invece c'è].
-
Ma questa è ‘solo
apparente’, tuttavia non per tutto e sempre, lo è solo ‘per molti aspetti’.
-
Perché “in molte
aree” [ovvero non in tutte] è l'Unione che “restituisce ai suoi paesi la
sovranità che avrebbero oggi perso”.
Al cuore del dibattito sta dunque una percezione alla
superficie inevitabile, ma in profondità componibile: l’integrazione dà benefici, ma perché ci siano davvero è necessaria più
cooperazione. E la cooperazione, come vedremo, garantisce anche la
sovranità, insieme ai benefici. Sembrerebbe una quadratura del cerchio, ma è
ottenuta da un trucco: chiamare ‘sovranità’
ciò che è solo la potenza.
Qui la vera ‘sovranità’, ovvero il potere del sovrano,
la demo-crazia, è dimenticata, scompare sullo sfondo di questo discorso
compiutamente neo-imperiale[7]
che interamente si muove nella logica della potenza. Una logica che, però, è un
frattale scalare: se la macchina da guerra della Ue agisce contro i nemici
esterni (gli Usa e la Cina-Russia), questa, identicamente, si manifesta all’interno
nella grammatica del forte/debole. Lungi dalla retorica della cooperazione la
verità dello schema di competizione esteroflesso europeo è che questa: la
competizione, si esercita in primo luogo entro l’Unione. Si esercita precisamente
come competizione tra capitali diversamente centrali, tra ‘metropoli’ e
periferie, quando non verso colonie interne. Si esercita nella lotta
distributiva interna e trasversale alle diverse componenti sociali ed i diversi
sistemi produttivi specializzati.
schiavi |
Ma veniamo al discorso
di Mario Draghi: dopo l’avvio retorico, la cui funzione è di incorniciare in
esempi alti quel che dirà, viene la frase sopra ricordata sul ‘cuore del dibattito europeo’. Immediatamente
dopo è nominato ciò che considera di essenziale nel progetto europeo, e ciò che
‘i cittadini europei apprezzano’ (non proprio tutti, a dir la verità): “i
benefici dell’integrazione economica”, ovvero “la libera circolazione delle persone, dei beni e dei servizi, cioè il
mercato unico”. In altre parole, l’essenziale
è la messa in competizione dei sistemi-paese a vantaggio degli individui
capaci di prodursi come capitale[8],
ovvero di spostarsi portando con sé il proprio ‘capitale umano’[9],
di produrre merci dove i fattori produttivi sono più convenienti e venderle
dove il loro prezzo è più alto, massimizzando l’estrazione di profitto; di
spostare i capitali (il principale ‘servizio’) seguendo i minimi differenziali
di profittabilità.
Ha ragione Mario Draghi, questa è l’essenza del progetto europeo, e il motore potentissimo
della dinamica di impoverimento relativo delle classi medie e lavoratrici nei
confronti delle classi capaci di fare buon uso della mobilità, in quanto in
possesso del capitale sociale, culturale e monetario necessario[10].
Ma, come sottolinea subito dopo, se il 70% degli
europei è ancora a favore della politica commerciale e del mercato comune
(spesso perché non collega questo con i problemi crescenti che incontra nella
vita quotidiana), solo il 40% degli europei ha fiducia nelle istituzioni
europee, con un impressionante calo di 15 punti in dieci anni. Se poi si
vedesse meglio probabilmente ci sarebbero anche differenze regionali. Chi non ha questa fiducia avrebbe per Draghi
il desiderio di “riappropriarsi della sovranità nazionale” e riacquistare,
secondo Draghi, la “indipendenza”. Partendo da questa opinione che reputo
errata, ma funge da snodo centrale si sviluppa l’intero argomento: non è la non-dipendenza ad essere il punto,
quanto la auto-nomia, ovvero l’essere
capaci di determinarsi, di auto-determinarsi.
Ovvero è questo a rappresentare la sovranità[11].
Invece Draghi usa la riduzione alla non-dipendenza per
dire che si confonde con la sovranità. E qui viene il passaggio sopra
ricordato, e straordinario, sulla “vera sovranità”. Non è il potere di farsi da sé le proprie leggi,
come per secoli abbiamo ritenuto, a renderci democraticamente sovrani, no, è il
‘controllo’ degli eventi. Ovvero è il potere a determinare la sovranità;
si tratta a ben vedere di cancellare il novecento, con l’espansione della
democrazia popolare, e di slancio anche ottocento e settecento per tornare a
Hobbes ed a Locke (solo il secondo è citato, ma avrebbe meglio servito il
primo). È solo così che può dire che la non dipendenza da altri non garantisce
la sovranità.
È evidente che Draghi non è un filosofo politico, che
altrimenti questa frase gli avrebbe fatto tremare la penna: la non dipendenza non garantisce la
sovranità. Ma lui pensa da economista, e dunque intende, malgrado le
auliche citazioni, qualcosa di più semplice: essere giuridicamente indipendenti
non significa di avere la potenza necessaria (finanziaria, economica e militare),
per essere capaci di difendere il proprio spazio vitale. Infatti fa uno strano
esempio con paesi “totalmente al di fuori dell’economia globale” (chi? Forse la
Corea del Nord?) che avrebbero bisogno dell’aiuto alimentare per i cittadini.
Uno strano esempio per uno dei rappresentanti di un continente in costante
deficit alimentare.
Ma qui, a questo punto, l’ospite irrompe nella stanza:
“La globalizzazione
aumenta la vulnerabilità dei singoli paesi in molte direzioni: li espone
maggiormente ai movimenti finanziari internazionali, a possibili politiche
commerciali aggressive da parte di altri Stati e, aumentando la concorrenza,
rende più difficile il coordinamento tra paesi nello stabilire regole e
standard necessari per il conseguimento al proprio interno degli obiettivi di
carattere sociale. Il controllo sulle condizioni economiche interne ne risulta
indebolito.
In un mondo
globalizzato tutti i paesi per essere sovrani devono cooperare. E ciò è ancor
più necessario per i paesi appartenenti all’Unione europea.
La cooperazione,
proteggendo gli Stati nazionali dalle pressioni esterne, rende più efficaci le
sue politiche interne”.
Una ben strana logica, perché se il problema, come
dice, è la globalizzazione, allora sembrerebbe che la soluzione debba essere
ridurla[12],
ma questo è un secolare tabù dei liberali[13]. Anche
se a ben leggere Draghi qui dice che l’interconnessione aumenta, e non
diminuisce, l’aggressività[14],
e la concorrenza, rendendo più difficile il coordinamento. La strana logica
nasce di qui, la globalizzazione è il
male, ma la soluzione è creare una isola grande di cooperazione, la
soluzione è diventare un grande attore per spostare ai propri confini
aggressività, concorrenza, ed al suo interno lasciare pace, cooperazione.
Ciò che è male fuori crea la necessità del bene dentro;
un concetto teologico interessante.
Ma Draghi non è neppure un teologo, anche se gli va vicino[15],
e quindi a questo punto va ai suoi cari numeri e ci dice che “la
globalizzazione ha profondamente cambiato la natura del processo produttivo” (una
cosa che un filosofo scriverebbe con prudenza), e “l’intensità dei legami tra i
paesi”, (questo più pacifico). Ma in che
senso? Scopriamo che la “proprietà transnazionale di attività finanziarie”
è cresciuta dal 70% del Pil nel ’95 al 200% di oggi (dimenticando di dire di
quante volte è raddoppiata in generale[16]);
ma anche che il commercio con l’estero è aumentato dal 43 al 70% del Pil (dimenticando
di togliere quello che è solo commercio entro lo stesso soggetto economico tra
basi diversamente localizzate, ovvero la gran parte di questo totale); che il
30% del valore aggiunto è prodotto attraverso catene del valore (dimenticando
di connettere questo fenomeno con l’elusione fiscale, che spesso è l’unica
motivazione di ‘catene del valore’ così lunghe). Ma tutto questo da cosa
dipende? Forse dalle regole del Wto, imposte dall’egemone americano per
rispondere ad una esigenza di valorizzazione del capitale e specificamente rispondere
alle potenti lobbies interne? No, per
Draghi è solo effetto della tecnologia. E questa è indipendente dai
processi di formazione del valore[17]? Ovvero
da ciò che serve?
Draghi ha le sue certezze, la globalizzazione è natura ed è progresso. Anche se è cattiva e
bisogna proteggersi da essa, alzando delle frontiere, creando addirittura un
superstato che sia all’altezza dei concorrenti.
Infatti si arriva subito, in questo discorso
abbastanza scopertamente neo-imperiale (e quindi anche neo-coloniale), a
definire “i blocchi”: Nafta da una parte
e Asia dall’altra.
Nella testa di Draghi, insomma, c’è una guerra
mondiale (“a pezzi”, come disse il Papa) in corso. E quindi bisogna vincerla.
La Unione Europea è l’arma di questa guerra.
Se si fa caso alla natura in fondo teologica del
discorso, ed alla mobilitazioni di guerra, si capisce che andremo incontro a tre
mesi davvero complicati, nei quali chi non si arruola sarà oggetto delle più
aspre pressioni.
Di seguito, senza temere il ridicolo, cita gli studi
dei famosi modelli econometrici della BCE (quelli che hanno fino ad ora
sbagliato il 100% delle previsioni a breve e medio termine[18]),
per dire che il mercato unico (non la moneta unica, si badi) ha contribuito a
incrementare del 9% il Pil europeo complessivo, anzi, che “il mercato unico
contribuisca ad un livello del Pil per l’Unione Europea che è più alto del 9%
circa”[19],
che potrebbe non essere la stessa cosa. Di seguito, ovviamente, ‘calcola’ che
il Pil dell’Italia si abbasserebbe del 7% in caso di barriere commerciali e
quello della Germania del 8%[20].
“Ma quanto più i vari
paesi sono tra loro collegati, tanto più esposti essi sono alla volatilità dei
flussi di capitale, alla concorrenza sleale e ad azioni discriminatorie, quindi
ancor più necessaria diviene la protezione dei cittadini. Una protezione,
costruita insieme, che ha permesso di realizzare i guadagni dell’integrazione,
contenendone in una certa misura i costi. Una protezione che attraverso
strutture e istituzioni comunitarie limita gli spillover, assicura un uguale
livello di concorrenza, protegge da comportamenti illegali, in altre parole,
una protezione che risponde ai bisogni dei cittadini, e quindi permette ai
paesi di essere sovrani”.
Se si concorda con questa descrizione fortemente
controfattuale, allora la Ue è una buona cosa (pur essendo nella sua essenza
una macchina di guerra), peccato che la prima parte sia vera e la seconda
falsa.
L’argomento prodotto, e davvero classico nel suo
sviluppo, è che nelle relazioni tra l’Unione Europea, come soggetto unitario,
ed il “resto del mondo” la dimensione
determina la forza della voce, tale da poter “essere ascoltata nei negoziati mondiali”.
Infatti “pochi paesi europei” da soli hanno voce, “ma insieme la loro voce è
ben più grande”. Sembrerebbe un argomento forte, ma ha alcuni presupposti
nascosti: in primo luogo, che la “voce”
comune europea vada nella stessa direzione della “voce” dei paesi presi
isolatamente, ovvero che i paesi europei, almeno i maggiori, abbiano lo stesso
interesse rispetto al “resto del mondo”. L’estrema complessità del gioco geopolitico
è qui ridotta, in altre parole, ad una sorta di giochino da bambini, nel quale
la banda più grossa vince. Peccato che le cose siano molto meno semplici e
molto meno omogenee, e che gli interessi della Germania sullo scacchiere
orientale, ad esempio, siano diversi da quelli dell’Italia in quello
mediterraneo, e della Francia sullo stesso. Faccio questo esempio a tre paesi,
perché se, come dice Draghi, solo “pochi” paesi sarebbero in grado di avere una
politica internazionale (secondo una datata logica, che tanto assomiglia a quella
di Treitschke[21]) è ovvio che almeno il
terzo paese europeo, con un Pil molto vicino a quello del secondo ed una
posizione geostrategica di grandissima rilevanza dovrà essere tra questi.
La conclusione è che porsi fuori può aumentare l’indipendenza, ma non la sovranità.
Di seguito Draghi estende il discorso al commercio
internazionale, mostrando come anche questo soggiaccia a logiche di forza[22]
che spingono all’erosione del welfare e alla competizione al ribasso. Cosa che
avverrebbe, però, solo “quando i paesi non sono grandi abbastanza”; dunque è “difficile
che ciò avvenga con l’Unione Europea”. Strano,
in tutti questi anni abbiamo visto che è proprio
l’Unione Europea che attiva la competizione, che impedisce di opporre
politiche industriali, ovvero di regolare i flussi di capitale, e di trattenere
le imprese. La sovranità potenziale europea nei campi della tassazione, della
protezione del consumatore, e degli standard del lavoro, la deve aver visto
solo lui; noi abbiamo visto la sistematica svalutazione del lavoro, la
competizione al ribasso tra i paesi
europei per la tassazione più ‘market free’ (ovvero più elusiva e più
dannosa per il welfare), e di erosione costante di questo e della base fiscale.
Credo che in questi ultimi dieci anni abbiamo vissuto
in un altro paese, ed in effetti è
proprio così. Il paese che frequenta Draghi, e da decenni, non è lo stesso
che frequentiamo noi.
Non che tutte le cose elencate nel discorso di Draghi
siano false, alcune sono effettivamente degli avanzamenti, proprio perché il
mondo procede sempre in modo complesso e in ogni grande organizzazione ci sono
forze che spingono in direzioni divergenti; capita quindi, a volte che una di
queste riesca ad ottenere qualcosa. Ma la direzione generale del programma
europeo è chiara: essere strumento per
far valere la capacità competitiva del grande capitale nordico, e dei capitali
nazionali subalterni e/o sinergici, sia nella forma mobile e finanziaria, sia
fissa ed industriale. Tutte le cose che gli stati membri in teorie “possono” fare, di fatto non lo fanno. E non
lo fanno perché sarebbe a detrimento dello Stato egemone, cosa che da qualche
anno è ben visibile. Ma non è questione tanto di “Stato”, si tratta, a ben
vedere, delle forze sociali ed economiche egemoni, che intendono,
semplicemente, continuare ad accumulare capitale, aumentando l’ineguaglianza
che lo rende possibile. Alcuni di questi “possono”, sono davvero ironici, sotto
questo profilo: “Inoltre gli Stati membri possono, attraverso l’Unione europea,
coordinarsi per difendere la propria rete di protezione sociale senza dover
imporre restrizioni al commercio”.
Qui l’aspirante teologo e filosofo ripiega sull’aspirante
umorista.
Di seguito l’impressione di un discorso surreale si
accentua, l’Unione Europea è descritta come una sorta di organismo di
cooperazione che ‘conferisce’ un potere dall’alto verso il basso, come se ne fosse la fonte. La narrazione
qui è straordinaria: “si ritenne” che la politica economica fosse troppo
specifica per affidarla ad una tecnocrazia sovranazionale (come la Commissione
o la Bce). Non ‘restò’ al livello degli Stati nazionali democratici, in quanto
questi, fonte della sovranità che viene dal popolo, non ritennero che fosse da
devolvere, ma, al contrario, fu lasciata da un non precisato vero sovrano (che
è il “noi” dal quale, a ben vedere, Draghi parla).
“Nella sua storia
l’Unione europea ha seguito due metodi di cooperazione. In taluni casi, sono
state create istituzioni comunitarie a cui è stato conferito un potere
esecutivo, come ad esempio, nel caso della Commissione per ciò che riguarda le
politiche commerciali o la BCE per la politica monetaria. In altri casi, quali
la politica di bilancio o le riforme strutturali, sono i governi nazionali a
detenere il potere esecutivo, legati però tra loro da regole comuni.
Questi settori della
politica economica furono considerati troppo specifici della storia dei singoli
paesi per poter essere affidati a una organizzazione comune. Si ritenne cioè
che l’esercizio di una sovranità nazionale che mantenesse questa specificità
fosse l’unica forma di governo possibile in questi settori: la scelta di
affidarsi a regole per disegnare la cooperazione in queste aree fu vista come
la sola coerente con questa visione. Occorre però chiedersi quale successo
abbia avuto questa scelta”.
Quindi ci sono due modelli possibili: uno è la devoluzione di poteri e il secondo la conservazione a livello
nazionale. Per Draghi, nel primo caso “a parere di molti il risultato fu
positivo” (di altri no), e quindi quella che chiama “la cooperazione affidata
ad istituzioni” (non democraticamente responsabili) è da considerare superiore.
Ciò per due ragioni: le istituzioni indipendenti sono più flessibili verso gli
obiettivi, e più credibili. Si tratta del set di argomenti proposto alcuni anni
da La Spina e Majone nel difendere lo “Stato regolatore”[23].
Quel che chiede dunque Draghi, la ragione del suo
discorso, e lo sforzo condotto in uno dall’egemone tedesco, insieme al suo
junior partner francese, in questa fase è di togliere anche la politica fiscale ai parlamenti sovrani nazionali per
darli ad una “Istituzione indipendente”. Per promuoverla agita il sogno di
diventare come gli Usa (trascurando i fattori di potenza meno raggiungibili, ma
più decisivi, come il deterrente nucleare e le decine di portaerei, per non
parlare delle tragedie del settecento e dell’ottocento che hanno tenuto a
battesimo l’Unione[24]).
Ma l’altro è
il più surreale: la neutralizzazione dei parlamenti sovrani nel loro potere più
caratteristico, di fare i bilanci, ovvero di decidere la distribuzione delle
risorse tra le diverse classi e territori, è difesa come democratica. Ciò in un
senso molto particolare, e tipico del discorso neoliberale: mandati precisi comporterebbero
una maggiore facilità per i singoli cittadini di valutare se sono stati
traditi. La spoliticizzazione del discorso pubblico procede qui, insieme alla
concezione tutta tecnica delle scelte distributive.
Nelle conclusioni ribadisce che “solo gli Stati più grandi riescono a
essere indipendenti e sovrani allo stesso tempo”, e quindi la Ue è,
precisamente, quella istituzione che può rendere gli stati membri sovrani in
modo condiviso, cosa che è meglio di niente. Dunque bisogna adattarsi (un altro luogo tipico del discorso neoliberale).
Questo argomento finale ha una somiglianza davvero
notevole con la dottrina prussiana che ha determinato due guerre mondiali (ed
una regionale): Durkheim parlava di “una
certa disposizione mentale”, fondata sulla volontà bellicosa (di competere),
sul disprezzo per il diritto internazionale (per la logica ‘giuridica’, ovvero
democratica), sulle ‘atrocità ordinate da regolamenti’ ed un “sistema mentale e
morale formatosi specialmente in previsione della guerra”, un sistema
naturalmente imperialista. Treitschke vede nello Stato (in questo caso nella
Unione Europea come macrostato) “l’unico e vero sovrano”, l’unico libero nella
sua capacità di determinare, al di là di ogni vincolo morale e di ogni
consenso, indipendente e assoluto. Uno Stato è ciò che “non può ammettere
nessuna forza al di sopra di sé”. In sostanza “lo Stato è potenza” ed
appartiene esclusivamente a se stesso, è tale solo nella misura e in quanto è
forte. I piccoli Stati non sono davvero tali, sono da disprezzare, sono
kleinstaaterei, muovono al riso, sono “contraddizioni incarnate”. Dunque, sostiene
il prussiano, questi devono sparire ed essere “ingoiati” dagli Stati più
grandi.
Sappiamo cosa ha portato questa logica. Al ‘Deutschland uber alles’, e all’unico
dovere, sopra ogni morale ed ogni politica, di “farsi largo nel mondo”,
soggiacendo a quella che Durkheim chiama “una sorta di ipertrofia mostruosa
della volontà, una specie di mania del volere”[25],
di elevarsi al di sopra di tutte le forze, di ogni cosa, della morale, delle
altre volontà, delle leggi.
La logica, di questo discorso, ricondotta al suo
principio è simile: lasciate fare a noi
che ne capiamo e noi vi garantiremo vita e beni. In pratica è il principio
del contratto tra padrone e schiavo, molto più che premoderno. Non potrà
funzionare.
A questa volontà di potenza il grande sociologo
francese, mentre i cannoni tuonano, obietta una cosa semplice:
“la Germania non può compiere la missione che si è prefissata
senza impedire all’umanità di vivere liberamente, e la vita non si lascia
incatenare in eterno. Con un’azione meccanica si può contenerla, paralizzarla
per un certo tempo, ma poi finisce sempre col riprendere il suo corso
abbattendo gli ostacoli che si opponessero al suo libero movimento”.
Io, sinceramente, credo che siamo a questo[26].
[1]
- Fatto di volontà di potenza nazionali, attori economici monopolisti in cerca
di soluzioni, forze politiche liberali, cui si sono piegate entusiasticamente le
élite socialdemocratiche in cerca di rilegittimazione.
[2]
- Termine, come noto, messo in campo dalla rivoluzione francese.
[3]
- Una delle descrizioni migliori in Rosanvallon, “La
politica nell’età della sfiducia”, che vede una società decentrata ed
incapace di pensarsi come unità esercitare pratiche plurali di sorveglianza,
interdizione, giudizio, verso un potere formalizzato che si è nel tempo
autonomizzato. Un potere di cui l’istituzione di Draghi è esempio chiarissimo,
e che intende, non a caso estendere, reagendo alla sorveglianza ed al
discredito ricevuto con ulteriore distanza.
[4]
- Nel quale enti ‘sovrani’, perché capaci di difendere i confini, si contrapponevano
gli uni agli altri in una competizione di potenza.
[5]
- Si veda, Bernard Manin, “Principi
del governo rappresentativo”, 1997
[6] -
Si veda, ad esempio, Jean-Claude Michéa, “L’impero
del male minore”
[7]
- Così sono le nostre élite, ormai, non riescono neppure a controllare un breve
discorso, catturate nelle contraddizioni che hanno, esse stesse, suscitato.
[8]
- Si veda, per questo concetto, essenza del principio neoliberale, Dardot e
Laval, “La
nuova ragione del mondo”
[9]
- Trascurando il fatto che questo è prodotto sociale e specificamente di
investimenti in capitale fisso sociale e istruzione.
[10]
- Si veda, ad esempio, Arnaldo Bagnasco, “La
questione del ceto medio”.
[11]
- Per il nesso tra libertà, autonomia, autodeterminazione e diritti sociali e
civili vedi Axel Honneth, “Il
diritto della libertà”.
[12]
- Come, ad esempio, non si stanca di dire Dani Rodrik, ad esempio in “E’
tempo di pensare in proprio al libero scambio”, ma a suo tempo disse persino
un mostro sacro come Kenneth Arrow, 1994, in “Problemi
nell’applicazione del libero mercato”, oppure si veda Steve Keen, “Circa
la globalizzazione ed il libero scambio” e Reinhard Schumacher “Decostruendo
la Teoria dei Vantaggi Comparati”.
[13]
- Si tratta proprio del paradigma centrale della rivoluzione liberale sin dal
seicento: il ‘dolce’ commercio incrementa la ricchezza totale e garantisce la
pace. In alcune versioni aumenta la ricchezza perché garantisce la pace, dall’opera
di Ricardo in poi (1803) aumenta la ricchezza perché ognuno fa quel che sa fare
meglio.
[14]
- Come sosteneva anche Keynes in “Moneta
internazionale”
[15]
- Come il suo collega Monti, si veda “Circa
Monti e l’effetto tsipras”.
[16]
- La proprietà di attività finanziarie, indipendentemente se sia transnazionale
o non, è cresciuta di decine di volte nel frattempo, il dato è quindi poco significativo,
anzi modesto.
[17] -
Per un punto di vista diverso si veda, ad esempio: Annette Bernhardt “Governare
il sentiero di sviluppo tecnologico”.
[18] -
Di recente un economista del FMI, Prakash Lougani, ha dimostrato che tra 150 recessioni
verificatesi negli ultimi trenta anni solo due sono state previste dagli
occhiuti modelli delle istituzioni internazionali.
[19] - Cit. ‘t Veld, J. (2019), “Quantifying the Economic Effects of the Single Market
in a Structural Macromodel”, European Economy Discussion
Paper, n. 094, Commissione europea, febbraio.
[20]
- cit sempre Velt: “Questo scenario presume un’ipotesi
controfattuale di un ritorno alle regole commerciali del WTO e applica le
aliquote della nazione più favorita (NPF) ai dazi sulle merci. Per le barriere
non tariffarie, si basa su stime calcolate per il commercio tra l’UE e gli USA.
Cfr. in ‘t Veld, J. (2019), op. cit.”
[21]
- Amico di Bismark e principale teorico prussiano dello stato di potenza,
secondo il quale “lo Stato è potenza” ed appartiene esclusivamente a se stesso,
ed è quindi tale solo quando e nella misura in cui è forte. Per il politologo ‘Nell’immagine del piccolo stato, egli
dice, c’è qualcosa che muove al riso. In sé, la debolezza non ha niente di
ridicolo, ma non è più lo stesso quando ostenta atteggiamenti di forza’. Poiché
l’idea di Stato evoca quella della potenza, uno Stato debole è una
contraddizione incarnata.” (p.25). Dunque i piccoli stati devono sparire per
essere “ingoiati” dagli stati più grandi. Si veda: “Emile
Durkheim, “La Germania al di sopra di tutto”
[22] -
Il secondo modo in cui la globalizzazione vincola la sovranità di un paese sta
nel limitarne la capacità di emanare leggi e fissare standard che riflettano
gli obiettivi sociali del paese stesso.
L’integrazione
del commercio mondiale tende a ridurre l’autonomia dei singoli paesi nel
fissare le regole, perché con il frammentarsi della produzione nelle catene del
valore, aumenta l’importanza di standard comuni. In generale questi non vengono
fissati nell’ambito di un processo multilaterale come il WTO ma vengono imposti
dalle economie più grandi che hanno una posizione dominante nella catena del
valore. Le economie più piccole solitamente non possono che accettare
passivamente le regole stabilite da altri nel sistema internazionale.
Analogamente,
l’integrazione finanziaria globale riduce il potere che i singoli paesi hanno
di regolare, tassare, fissare gli standard di protezione sociale. Le imprese
multinazionali influenzano la regolamentazione dei singoli paesi con la
minaccia di ricollocarsi altrove, scelgono i sistemi fiscali a loro più
favorevoli spostando tra le varie giurisdizioni i flussi di reddito e le
attività intangibili. Tutto ciò può spingere i governi a usare gli standard di
protezione sociale come uno strumento di concorrenza internazionale: la
cosiddetta “corsa al ribasso”. Per un paese diventa più difficile la difesa dei
suoi valori essenziali, quindi la protezione dei suoi cittadini: si ha inoltre
un’erosione della base fiscale societaria che riduce il finanziamento del
welfare state. L’OCSE stima la perdita di gettito causata dall’elusione fiscale
tra il 4% e il 10% del totale del gettito dell’imposizione sul reddito societario.
[23]
- A. La Spina, G. Majone, “Lo
stato regolatore”.
[25] - Emile Durkheim, op.cit., p. 77
[26]
-Commenta un amico su Facebook: Qui l'ingenuità
filosofica e storica di Draghi ci fa un bel regalo: l'esplicitazione del
principio a cui si rifanno lui, il suo ceto e le istituzioni che dirigono. E'
un principio molto semplice: might makes right. Esporlo
così, nudo e crudo, è un fatto abbastanza nuovo nella storia istituzionale
d'Europa, perché la storia della civiltà europea è la storia della dialettica
permanente tra spirito e potenza. Qui, lo spirito brilla per la sua assenza,
un'assenza che si manifesta con l'elisione completa del problema “legittimità”.
Perché è verissimo che ogni classe dirigente è tenuta ad assicurare “il
controllo degli eventi”, come è vero che l'indipendenza di uno Stato non ne
assicura la sopravvivenza e la capacità di difendere se stesso e i propri
cittadini (questo è il lato “potenza”). Ma è anche altrettanto vero che la
sovranità, cioè il diritto di ottenere obbedienza all'interno e riconoscimento
all'esterno, non esiste se non in base a un principio legittimante condiviso da
chi comanda e chi ubbidisce (e questo è il lato “spirito”); che nell'Occidente
odierno non può che essere democratico. Il principio legittimante può essere diverso, come no:
trascendente come nell'ancien régime, oligarchico, aristocratico, etc. Però
ci deve essere, altrimenti il potere sovrano è puro potere di fatto: appunto, “might
makes right”. Questa scorciatoia
filosofica, che ha certo il pregio della semplicità, presenta però il difetto
rilevato da Durkheim: che suscita contro di sè un'inimicizia simmetrica
necessaria, interna ed esterna. Perché sulla base del
principio “might makes right” la “cooperazione” cara a Draghi diventa nuda
obbedienza al comando, quindi asservimento; e non è facile espiantare dal cuore
umano il desiderio di libertà. Il solo principio legittimante implicato da
Draghi (non esplicitato) è la legge economica, intesa come “legge scientifica”
secondo il positivismo scientista più puro, questo sì ottocentesco; e la
capacità della tecnocrazia di assecondarla e dirigerla (Saint-Simon, Comte).
Manca (per ora, s'immagina, nei pensieri di Draghi) la forza vera e propria,
militare, per difendere lo spazio economico contro l'esterno e assicurare la “cooperazione”
all'interno. Non ho idea se
Draghi si renda conto che il progetto da lui delineato, nella sua logica, è un
dispotismo totalitario paragonabile a una URSS con la proprietà privata dei
capitali e dei mezzi di produzione: il modello contemporaneo a cui tende la
visione del mondo di Draghi è la Repubblica Popolare Cinese, con Auguste Comte
al posto di Confucio (che è un fondamento più solido, ma non si può avere
tutto).
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