Il libro del 2009 di Pierre Dardot e
Christian Laval reca come sottotitolo “Critica
della razionalità neoliberista”, e svolge in quasi cinquecento pagine una
lunga e meditata ricostruzione della genealogia dello sviluppo del neoliberismo
nelle sue varie e diverse correnti. Si tratta di un libro che utilizza e
riprende espressamente la lettura che Michel Foucault fece, nei suoi ultimi,
anni del neoliberismo[1] e
della sua forma di ragione[2].
Il neoliberismo riletto da Dardot e Laval è un pensiero dell’adattamento, sottilmente
invertebrato, capace di pervadere ogni cosa e soprattutto produttore di nuove soggettività. Al contrario di quanto
normalmente si pensa per gli autori esso non è, come il liberalismo classico,
ostile alle regolamentazioni, ma è il creatore di vere e proprie strutture
nelle quali l’uomo diventa una particolare (ed ‘inumana’) macchina per la
competizione e per il desiderio. L’uomo neoliberale esiste solo in un universo
di competizione, e si pensa come auto-governato, e quindi integralmente
autonomo. Il tentativo che compie la pratica neoliberale è, in altre parole, di
governare l’uomo attraverso se stesso,
non contro la sua libertà, ma per mezzo
di essa; di convincerlo a conformarsi autonomamente al sistema di norme idoneo
alla competizione che esso stesso determina.
Ma tutto questo, bisogna notare, per gli autori, come
per il loro maestro, non è un progetto di qualche macrosoggetto, sia esso una
classe o un gruppo; non è disceso da un corpo dottrinario pronto, anche se
molti vi hanno lavorato per anni. Esso “si è costituito lungo il filo di
battaglie incerte e politiche claudicanti” (p.15). Dunque la società
neoliberista, non è neppure il risultato della logica del capitale, o di uno o
più rapporti di produzione, Dardot e Laval, che non sono marxisti, pensano che
tutto ciò derivi sì dagli effetti della crisi degli anni settanta, ma che
questa non sia principalmente economica.
Pensano che, cioè, non sia questione di difficoltà di accumulazione, come ad
esempio sostiene David Harvey contro il quale polemizzano, bensì sia una
questione dell’emergere di un deficit di governamentalità[3].
Come per quello precedente, dunque, anche il sistema di produzione e quello di
governo degli uomini neoliberale è insieme un sistema di produzione
antropologica. Ed è sotto questo profilo che si presenta anche la crisi contemporanea:
“una crisi globale del neoliberismo come modalità di governo della società”
(p.18).
Una modalità di governo della società e dell’uomo che
interessa profondamente l’intera costruzione europea, impregnata di
competitività e di logica disciplinare, e gli Stati stessi[4].
Gran parte del libro è costruita sulla lettura,
attenta e a tratti profonda, di alcuni autori esemplari e storici del pensiero
liberale prima e neoliberale dopo.
L’avvio, nella Prima
Parte, è molto convenzionale: il liberalesimo è parte del grande movimento
della ragione scientifica e della soggettivazione moderna, imperniata sui
diritti dell’uomo e gli interessi. La lettura è condotta con particolare
riferimento al radicalismo inglese (e scozzese), e trova che la politica, il potere
di condurre gli uomini, non si pieghi più alla Legge divina ma alle nuove
“leggi naturali” che, quindi, esprimono una necessità inscritta in qualche modo
nelle cose. Come dicono: “quasi
ovunque si trova un discorso antropologico fondato sull’uomo delle passioni e
degli interessi[5], un discorso canonico
modellato sul gioco meccanico delle forze in equilibrio e un discorso storico
basato sull’idea di un cammino” (p.29). Questa politica, è quindi fondata sulla
considerazione insieme: della natura dell’individuo, dell’ordine della società
e del progresso della storia.
Momenti essenziali di questa maturazione concettuale
sono ovviamente Locke e l’analisi delle tensioni tra interesse e morale in Adam
Ferguson, che rifiuta di ricondurre interamente la condotta umana al solo
interesse[6],
linea proseguita da Adam Smith nella “Teoria
dei sentimenti morali”, cui fa da contraltare, in una sorta di corno fatto
di due punte, contrapposte ma connesse, “La
ricchezza delle nazioni”. Quello di Smith è, nella lettura qui proposta, un
vasto sistema morale che tende a condurre in un sistema armonioso fondato sulla
divisione del lavoro e quindi sullo scambio.
Si passa nell’insieme da una concezione ontologica
della sovranità, e quindi da un ordinamento dato da una legge esterna, alla
concezione funzionale della governamentalità, che si esplica attraverso la
conoscenza e l’azione delle stesse forze della natura (p.50).
Questa governamentalità, propria del liberalesimo
settecentesco, è strettamente connessa anche con un altro piano di fondazione: una concezione progressiva e lineare della
storia. Una delle prime versioni è Adam Ferguson e la “teoria degli stadi”, nella quale ognuno di essi si identifica con
un modo di sussistenza e quindi una forma economica, e transita naturalmente al
successivo (che rappresenta quindi un progresso necessario); ne deriva che i
popoli sono classificati secondo gli stadi. Questo modello fu elaborato quasi
in contemporaneo da Smith, Turgot e Rousseau[7].
Certo c’è un problema, perché se gli “stadi” sono
discontinui viene meno l’unità della natura umana postulata dal liberalismo
(con la generalità di egoismo e scambio). Ferguson propone a tal fine il suo
concetto di ‘società civile’ come
costante storico-naturale, sempre presente in tutte le forme umane, ma tale da
assicurare la sintesi spontanea degli individui[8];
ma la ‘società civile’ attraversa necessariamente il progresso dallo stato ‘selvaggio’,
nel quale è raggiunto un ordine spontaneo, quello ‘barbaro’ e, infine, quello ‘civile’.
Passando dalla cura della terra a forme più evolute di economia, l’allevamento,
per Ferguson, compare la proprietà, e con essa l’ineguaglianza. Allora agisce
la ‘dissociazione’ economica.
Come scrive:
“quando l’individuo non incontra più tra i
suoi soci la stessa disposizione a consegnare ogni cosa all’uso comune, a
questo punto è preso dall’interesse per la propria fortuna personale ed è
allarmato dalle attenzioni che ogni persona ha verso se stessa. È spinto sia
dalla competizione e dalla rivalità, sia dal senso di necessità. Permette che
considerazioni di interesse si impossessino della sua mente così che, quando ogni
desiderio immediato è sufficientemente soddisfatto, può agire in vista del futuro,
o piuttosto trovare motivo di vanità nell’accumulare tutto ciò che diventa
oggetto di competizione e di stima universale”[9]
Insomma, nei primi stadi l’interesse agisce
debolmente, e i sentimenti di generosità e tenerezza sono i più propri della
natura umana. L’interesse, selfish, è “l’amore del proprio”, e dunque è
connesso ambiguamente all’egoismo come al principio della autoconversazione “proprio
della costituzione umana”. Il gioco dell’interesse è alla fine “il motore della
storia nella società civile” (D&L,
p.62). Ed allora l’interesse si ritrova come molla sia del passaggio da età
della barbarie alla civiltà, sia del progresso di questa e delle nazioni, nella
continua e progressiva divisione del lavoro.
Ma Ferguson non si limita a valorizzare la divisione
del lavoro come motore del progresso, al contempo specifica che il progresso
economico rischia sempre di andare a determinare lo scadimento delle virtù
civiche e morali. Il danno deriva “dal
principio della preminenza rovinosa dell’economico sul politico”.
Scrive:
“La divisione delle professioni, mentre
sembra promettere il miglioramento delle abilità ed è effettivamente la causa
che attraversa lo sviluppo del commercio perfeziona molto le produzioni di ogni
tipo, tuttavia alla fine nei suoi effetti ultimi porta in qualche misura a
rompere i legami sociali, a mettere la forma al posto dell’ingegno e a far
ritrarre gli individui dalla scena comune del lavoro, dove la mente e i sentimenti
del cuore sono impiegati con la massima felicità”[10]
L’interdipendenza determinata dalla divisione del
lavoro e dalla preminenza dell’economico, “l’amore del guadagno”, provoca la
perdita di interesse per il fine pubblico, questa è la causa della decadenza
(decay). La posizione è, insomma, estremamente ricca e non identifica affatto
il progresso con il perfezionamento della natura umana.
Anche Smith produce un’antropologia attraversata dalla
contraddizione, questa volta tra due desideri fondamentali: quello di
migliorare la propria condizione, mosso “dall’amore di sé”, e il desiderio di
approvazione altrui, mosso dalla “simpatia”. Ma qui gli stadi sono concepiti
come crescita delle risorse disponibili e progresso, come incremento e
miglioramento. Qui si trova l’idea di un progresso costante della società,
garantito dalla meccanica degli interessi e quindi informata da un profondo
naturalismo.
Scriverà in un manoscritto postumo:
“Coloro che fanno continuamente progetti
perturbano la natura nella sua attività sugli affari umani; e in realtà non v’è
bisogno d’altro che di lasciarla fare, di lasciargli carta bianca nel
perseguimento dei suoi obiettivi, così che possa compiere il proprio disegno. Per
condurre uno Stato dalla barbarie più profonda al più alto grado di opulenza
non si richiede molto di più che la pace, una tassazione moderata e un’amministrazione
tollerabile della giustizia: giacché tutto il resto si compie per il semplice
corso naturale delle cose. Tutti i governi che contrariano questo corso, che lo
deviano su altri canali, o che addirittura si sforzano di bloccare in un preciso
punto il progresso della società, tutti questi governi sono innaturali”[11]
Insomma, il corso naturale è irresistibile, ed è al
fine orientato dalla “provvidenza”, che determina una sorta di “economia della
natura”, capace di far prevalere il desiderio di migliorare la propria
condizione su tutti gli altri. Come sottolinea Lasch[12]
esisteva tuttavia anche una sorta di disprezzo repubblicano per il genere di
vita unicamente orientato all’accumulo dei beni materiali, ma senza arrivare a
postulare una sorta di decay, come in
Ferguson. In conseguenza in Smith “gli appetiti insaziabili non portano alla
corruzione e alla decadenza [come in Ferguson], ma all’espansione indefinita
dell’apparato produttivo necessario per soddisfarli”. Il progressismo è quindi fede
nella possibilità, non per caso garantita in ultima analisi dalla provvidenza, “di
un incremento indefinito della produttività e della ricchezza”.
Dopo Smith Spencer naturalizza completamente la storia
umana, sottomettendola al principio dell’evoluzione, per cui l’egoismo
biologico diventa il fondamento ed il fine della stessa vita morale. Il Laissez-faire
diventa forma di vita scientificamente fondata sull’evoluzionismo biologico. E la
giustizia pretende che i meritevoli si approfittino dei vantaggi.
“Tutti gli accomodamenti che impediscono alla
superiorità di approfittare dei vantaggi della superiorità, o che proteggono l’inferiorità
dai mali che essa produce, tutti gli accomodamenti, dunque, che mirano a
sopprimere le differenze tra il superiore e l’inferiore sono da ritenersi
diametralmente opposti rispetto al progresso dell’organizzazione e all’avvento
di una vita più alta”[13].
Nel seguito del loro excursus gli autori individuano
la via giuridico-deduttiva alla determinazione dei diritti individuali come
limite alla possibile azione del governo in Rousseau e Locke, e la proprietà di
se stessi come fondamento del diritto di proprietà.
Ma sorge un problema: quale è il limite dell’azione di governo e come fare
con individui che si pensano governati dal principio di piacere? Da questa
domanda scaturisce la riflessione di Jeremy Bentham, che svolge un ruolo
centrale nel racconto del testo, la ricerca di un principio, l’utilità, che non
è né strettamente economico, né strettamente politico. Un principio che “permette
anzi di abolire i confini tra questi due ambiti e di applicare all’uomo un
unico modello di spiegazione e di giustificazione” (p.110). Il principio di utilità,
in Bentham, diventa l’unico criterio di azione pubblica e questa è improntata a
radicalismo e progresso sociale.
Con Bentham lo scontro, sorto all’interno del
liberalismo classico, tra la logica dei diritti individuali e quella del principio
di utilità, si manifesta pienamente.
Di qui nasce la crisi ideologica del liberalismo, che
si manifesta come un “universo di tensioni” difficilmente componibili, una
sorta di ideologia dalle maglie troppo strette (p.133). Queste tensioni si
manifestano già con le inquietudini di Tocqueville e soprattutto di Mill, la
versione radicale di Spencer. È soprattutto quest’ultimo che rappresenta la
svolta, la sua aspra battaglia, condotta negli anni in cui inizia un nuovo protagonismo
pubblico[14], contro i Parlamenti, che
vanno limitati, e l’assunzione della concorrenza come lotta vitale, anche al
prezzo di distruggere, come sosteneva anche Malthus, gli inadatti.
Il nuovo liberalismo nasce da qui: dalla costatazione dell’incapacità
dei dogmi liberali a ridefinire i nuovi limiti per l’intervento del governo che
si rendono necessari nella nuova situazione creata da quello che Karl Polanyi chiamò[15] l’autodifesa
della società. Ovvero dalla condizione di insopportabile ineguaglianza e
degrado sociale determinato dalla globalizzazione imperialista sotto egemonia
anglosassone[16].
Il neoliberalismo, che si forma come reazione a queste
difficoltà è quindi il superamento del dogmatismo del laissez-faire della
scuola di Manchester, ma ristrutturando e salvando, attraverso un’opportuna
struttura di intervento pubblico, i rapporti economici e sociali governati
dalla concorrenza.
Ci sono due modi di rispondere a questa crisi: uno è
il ‘nuovo liberalismo’ di cui l’autore e l’espressione più compiuta, seppure
tarda, è John Maynard Keynes; l’altro è il ‘neoliberalismo’. Il primo si
propone di limitare il mercato attraverso un’azione statale compensativa, che
salvi di questo l’essenziale, ovvero la libertà di azione degli individui; il
secondo, al contrario, intende usare una gabbia normativa sostenuta dalla forza
dello stato per purificare il mercato e far affermare in esso la forma pura
della concorrenza. La mossa eleva la concorrenza a principio centrale della
vita sia sociale sia individuale, ma lo fa riconoscendo che l’ordine di mercato
non è affatto un ordine di natura: è il prodotto di una costruzione politica
intrinsecamente storica.
Questo movimento che porta alla messa a punto della
proposta neoliberale parte per gli autori dal “Convegno Lippman”, dal 26 al 30
agosto 1938, che precede di qualche anno la fondazione della Società Mont Pelerin
(1947). Sono invitati Hayek, von Mises, Rueff, Aron, Ropke, Von Rustow, Rougier.
Nel discorso inaugurale Rougier
ricorda che il liberalismo non si identifica affatto con il laissez-faire, ma è
un ordine legale che richiede l’intervento dello stato. Malgrado l’opposizione
di Von Mises (che sarà in minoranza anche nella successiva Società Mont
Pelerin), la linea centrale condivide questa impostazione, in favore di un “interventismo
liberale”. Lo scontro si determina tra ortodossi (Von Mises e Hayek, Robbins e
Rueff) e i riformatori (Ropke e von Rustow, che insistono sul fondamento
sociale del mercato, ma anche Lippman e Rougier) per i quali ‘essere liberali
significa essere progressisti’ adeguando continuamente l’ordine sociale e
legale alle scoperte, ai cambiamenti strutturali, senza pianificare interamente
il traffico, ma creando un “codice della strada”. Insomma, come scrive Lippman,
“gli ‘ultimi liberali’ non hanno capito che ‘ben lungo dall’essere
astensionista, l’economia liberista presuppone un ordine giuridico attivo e
progressista, teso al continuo adattamento dell’uomo a condizioni sempre
mutevoli. Serve un ‘interventismo liberista’, un ‘liberalismo costruttivo’ ed
un dirigismo statale che certo si deve differenziare sostanzialmente rispetto
alla pianificazione ed al collettivismo” (p.182). Un dirigismo “che implica la
protezione della libertà, non il suo asservimento; deve garantire che la
conquista di benefici sia il frutto di una vittoria dei più adatti all’interno
di una competizione leale, e non il privilegio dei più garantiti o di coloro meglio
collocati socialmente”.
Questo liberismo rinnovato è, insomma, il regno della legge, e contemporaneamente il governo delle élite,
uno stato forte organizzato da competenti la cui qualità sia l’esatto opposto
della “mentalità magica e impaziente delle masse” (p.196). Ne deriva,
ovviamente, che la democrazia è affetta da una debolezza congenita determinata
dalla eccessiva influenza dei popoli sul governo, attraverso l’opinione
pubblica ed il suffragio universale. L’eterno bersaglio del neoliberalismo, per
la stretta logica interna che lo contraddistingue, è dunque il potere del
popolo, che va limitato e ricondotto alla guida degli esperti.
Ma nel neoliberalismo, e sin dai suoi esordi, è
presente anche un’altra corrente, non perfettamente coincidente: l’ordoliberalismo tedesco. L’ordine è
concepito come dovere politico, nato come movimento conservatore nei circoli
antinazisti[17], prevede “una teoria
della trasformazione sociale che fa appello alla responsabilità degli uomini”
ed il cui problema fondamentale è come riformare l’ordine sociale dopo lo stato
totalitario. Certo l’ordine liberale muove dalla creazione di uno stato di
diritto che è all’origine stessa della forma capitalista, l’economico non è per
loro un insieme di processi naturali ai quali in qualche modo si aggiunge la regolazione ed il diritto,
in accordo o in ritardo. Come scrive Foucault, “l’economico, in realtà, deve
essere inteso da subito come un insieme di attività regolate. Un insieme di
attività le cui regole hanno livelli, forme, origini, date e cronologie del
tutto differenti tra loro”[18].
Il punto sarebbe questo:
“il problema che dovevano risolvere consisteva
nel dimostrare che un capitalismo era ancora possibile, che il capitalismo poteva
sopravvivere, a condizione di fornirgli una forma nuova, e se ammettiamo che
questo era l’obiettivo finale degli ordoliberali, allora possiamo dire che, in
definitiva, dovevano dimostrare due cose. In primo luogo, dovevano dimostrare
che la logica propriamente economica del capitalismo, la logica del mercato
concorrenziale, era possibile e non contraddittoria – ed è proprio ciò che
hanno cercato di fare. In secondo luogo, poiché questa logica non era
contraddittoria in sé e dunque era fondata, dovevano mostrare che tra le forme
concrete, reali, storiche del capitalismo esisteva un insieme di relazioni
giuridico-economiche tali per cui era
possibile, inventando un nuovo funzionamento istituzionale, superare gli effetti
– le contraddizioni, le impasse, le irrazionalità - peculiari della società capitalistica, ma che,
tuttavia, non erano dovuti alla logica del capitalismo, bensì semplicemente a
una figura determinata e particolare di questo complesso economico-giuridico”[19].
L’ordoliberalismo respinge dunque ogni forma di
riduzione del giuridico a sovrastruttura, e ogni concezione unitaria del ‘capitalismo’
fondata su una autonomia dell’economico.
Ne sono espressione autori importanti come Ropke, che
in “Civitas umana” rifiuta
frontalmente il laissez-faire e identifica l’economia di mercato “vitale”, come
un’opera d’arte, un prodotto della civiltà particolarmente difficile e che
presuppone molto.
L’ordoliberalismo è, a sua volta, diviso in due gruppi
principali: gli economisti e giuristi della Scuola
di Friburgo, come Euckel e Bohm, i sociologi Alfred Muller-Armack, Wilhelm
Ropke e Alexander von Rustow. La distinzione è tra la struttura giuridica e
quella sociale come focus, i primi sono concentrati sulla crescita economica,
dalla quale deriverebbero i progressi sociali, mentre i secondi sono
preoccupati degli effetti di disintegrazione sociale propri dei meccanismi di
mercato e allo Stato affidano anche il compito di garantire e strutturare un
soziale umwelt, un ‘ambiente sociale’, che reintegri gli individui nella società.
Alla wirtschaftspolitik, ‘politica economica’, si contrappone la
gesellschaftspolitick, ‘politica della società’.
La critica dell’economia da commando, pianificata, del
nazismo, si rovescia nella critica della ipertrofia dello Stato che ne
consegue, e degli effetti di dissoluzione sociale e comunitaria derivanti, è la
crescita del potere dello Stato che distrugge i legami di comunità. Su un altro
piano, recuperando motivi di critica che risuonano nell’area dei ‘giovani
conservatori’, e che poi nel novecento avranno enorme seguito, per Ropke il
collettivismo economico è una sorta di estensione ‘dell’annientamento
scientista dell’uomo’, e tenta di asservire completamente l’umanità. Ne deriva
che l’economia di mercato impedisce la “politicizzazione della vita economica”
(con il suo intrinseco totalitarismo) e, in particolare, alla politica di
decidere in vece del consumatore.
Ma lo Stato neoliberale, al contrario, fondando le
condizioni della libertà individuale ne viene legittimato tramite i suoi frutti
che sono la crescita economica, e quindi l’aumento della qualità della vita. Il
primo “Consiglio Scientifico” (un
organismo creato dall’amministrazione anglo-americana e da allora fondamentale
nell’orientare le decisioni pubbliche) è composto da Euckem, Bohm e Muller-Armack
e consegna un documento nel quale viene proposto la direzione del processo
economico tramite il sistema dei prezzi, su questa base Ludwig Erhard, che era
il responsabile della bi-zona, avvia la liberalizzazione e la riforma
monetaria.
L’idea è di mettere
al centro la concorrenza, e non il principio di equivalenza dello scambio,
e di sviluppare tramite questa la forma di mercato più completa e più coerente
possibile. Nel 1957 viene istituita la Bundesbank
su queste basi: una Banca Centrale indipendente, non toccata dalle direttive
del governo[20], e la cui principale missione è salvaguardare
la moneta, ovvero la capacità di acquisto del capitale. Come sottolineano gli
autori “in linea di principio la politica attiva di stampo keynesiano è
incompatibile con i principi ordoliberali” (p.213).
La questione centrale è del potere, del cittadino di
disporre di diritto della propria vita ed indipendenza, mentre dall’altra parte
di limitare il potere illegittimo dei gruppi di pressione. Soprattutto in Ropke
l’ideale è di una società di piccoli
imprenditori, nessuno dei quali ha potere sul mercato, e di democrazia dei
consumatori, che esercita il proprio potere attraverso le scelte quotidiane.
Sono questi i diritti fondamentali ed intangibili dell’ordoliberalismo.
Gli individui, quindi, non esercitano i propri poteri come produttori (e quindi, ad esempio,
attraverso partiti e sindacati, come classe), ma come consumatori, non tramite il conflitto e la ricerca di vantaggi
e privilegi comuni, ma tramite il consenso. Infatti tutti i consumatori hanno
eguale interesse alla salvaguardia del meccanismo della concorrenza, che
contiene i prezzi e allarga le scelte.
Questa idea profondamente radicata nel discorso
ordoliberale, e della quale ci sono riverberi continui, storicamente, nel
discorso egemonico delle nostre élite (ad esempio di Carli, o di Einaudi), costituisce
un contratto tra consumatore e Stato
e individua nella sovranità del
consumatore la forma dell’interesse generale.
Qui c’è anche l’equivoco, trasportato direttamente nei
testi istitutivi della Unione Europea, e prima della Comunità Europea, della
formula della “economia sociale di
mercato”, il termine è messo in campo da Muller-Armack, fra i negoziatori
del Trattato di Roma[21]: significa economia
di mercato nella quale si instaura la ‘democrazia del consumo’ per mezzo della
concorrenza. L’economia qui è ‘sociale’ proprio e solo perché obbedisce alle scelte dei consumatori,
un concetto che fu inizialmente criticato dai socialisti, per i quali il
termine rinviava casomai a solidarietà e cooperazione. Ma per Armack questa
forma si legittima in quanto produce la massima ricchezza e benessere, ed è un
‘ordine artificiale’, istituito con un atto di tipo costituzionale, definitorio
degli scopi essenziali di una società. Nel definirli è dunque l’atto (di fondare la concorrenza come
principio di ordine) che costituisce la società, rovesciando il meccanismo
rousseuiano. Dunque, anche se può non sembrare, la “economia sociale di mercato” degli ordoliberali è proprio direttamente opposta allo Stato Sociale,
o stato welfarista, il cui funzionamento tende, invece, a ridurre la
concorrenza ed a ostacolare, se del caso, il meccanismo dei prezzi.
Per gli ordoliberali alle ineguaglianze, ed alla
povertà, si dà soluzione solo tramite la responsabilizzazione individuale ed al
massimo tramite la carità (ovvero il mecenatismo volontario, una idea che torna
nella “new philanthroy” dei supericchi
della new economy[22]).
La “politica
della società” è dunque del tutto opposta alla redistribuzione, si tratta
di una sorta di “governo della società”,
secondo la formula di Foucault. Si tratta di creare una società nella quale il
consumatore possa esercitare completamente il suo diritto di scegliere in piena
indipendenza i beni e servizi che lo soddisfano di più[23]. La
“terza via” che cercano gli ordoliberali è tesa a produrre nuovi individui
capaci di scelte responsabili e in rapporto con istituzioni decentralizzate, ma
anche di aree libere dal mercato, sottratte alla sua logica (riverberando il
vecchio timore di Ferguson), e connesse con l’autoproduzione, la vita familiare.
Il neoliberalismo, dunque, in tutte le sue plurali
correnti, contribuisce a mettere al centro un nuovo e diverso tipo umano, nel
quale la concorrenza svolge la funzione dirigente e mobilitante tutte le
energie: l’uomo imprenditoriale.
Vanno in questa direzione i discepoli di Von Mises,
Murray Rothbard e Friedrich Hayek, che approfondiscono la critica della ragione
interventista, nel secondo attraverso una lettura del mercato come scoperta
dell’informazione più pertinente, superando l’ineliminabile carenza delle
capacità umane di conoscere e calcolare. Il mercato è strumento della
conoscenza, di quella direttamente utilizzabile proprio perché specifica e
dispersa. Le conoscenze individuali e specifiche sono quelle che contano di più
(più di quelle scientifiche ed astratte) e sono molto più efficaci, proprio
perché decentralizzate. Ne deriva che il problema dell’economia non è l’equilibrio
generale, ma è “sapere come gli individui possano trarre il maggior vantaggio
dalle informazioni frammentare delle quali dispongono” (p.244).
Quindi non c’è assolutamente nessun bisogno che lo
Stato intervenga, perché solo gli individui, e ognuno per sé, sono capaci di
fare i calcoli che servono e utilizzare, mobilitandola, l’informazione
necessaria (una informazione che non si può concentrare e non si può padroneggiare
tecnicamente). Il discorso è contrario al marginalismo, ed alle loro ipotesi irrealistiche.
Lo Stato neoliberale è dunque uno stato molto forte,
ma è solo il guardiano del diritto privato e delle condizioni nelle quali
soggettività imprenditoriali possano mobilitare, ognuno per sé e decentrato, le
conoscenze ed esercitare la propria libertà (negativa). Un simile stato si
ancora alla sovranità del consumatore e non alla democrazia del produttore
(p.281).
Il neoliberalismo, in tutte le sue correnti, non è,
dunque, un movimento di deregolazione e non è una ritirata dello Stato, ma l’avvio
di un nuovo impegno politico e disciplinare. Affida allo Stato il ruolo di
guardiano, vigile ed attento, delle regole giuridiche, monetarie e
comportamentali. Da questa fondamentale decisione derivano tutti i costrutti
teorici anche della scuola americana: la teoria delle anticipazioni razionali
(p.317); la teoria del tasso di disoccupazione naturale (p.318); il postulato
di soggetti sempre calcolatori e sempre razionali (p.321); la filosofia del
management (p.326).
E deriva lo sfondamento che porta, negli anni novanta[24],
all’adesione della sinistra socialdemocratica ad una forma di neoliberismo che
ne riprende in pieno la matrice ideologica, adattandovisi.
Ma ne derivano anche “le origini ordoliberali della costituzione europea”, come recita il
capitolo 11 (p.342). La costruzione europea è il prodotto di molteplici
tradizioni, ma deriva anche da una delle più vecchie strategie neoliberiste, anteriore alla diffusione dell’ideologia
negli anni settanta. La costruzione del “mercato comune” europeo, sin dal
trattato del 1951 e poi dal Trattato di Roma del 1957, è imperniato su strette
regole rivolte a mettere al centro il principio della concorrenza. Da allora si è creata una vera e propria “costituzione
economica”, non senza il contributo decisivo, nel far prevalere il diritto privato
sul diritto pubblico, della Corte di Giustizia Europea[25],
per come la mettono: “l’ordoliberalismo è stato il fondamento dottrinale
essenziale dell’attuale costituzione europea, prima ancora che questa fosse
sottoposta alla nuova razionalità mondiale” (p.344).
Questa impostazione nativa ha condizionato l’intera
costruzione europea e indotto una continua concorrenza anche tra legislatori e
tra sistemi. La concorrenza tra nazioni non è, dunque, un effetto non voluto di
uno schema rivolto alla cooperazione, ma un elemento necessariamente strutturale
di un meccanismo ed una logica che intende mobilitare le energie e scoprire le
informazioni rilevanti solo attraverso tale metodo.
La governance neoliberale[26]
sostituisce gradualmente la categoria, che considera desueta e svalutata, di
sovranità democratica su un dato territorio, con la capacità di determinarsi in
‘buone prassi’ in codecisioni pubblico-privato secondo il modello di impresa
che tracima in ogni direzione ed invade ampiamente anche la funzione pubblica. Un
modello strettamente disciplinato dalla concorrenza come stimolatore di
prestazioni, e che presume attori egoisti e razionali (in effetti creandoli).
Un esempio- chiave è la teoria della ‘public choise’, che vede Buchanan tra i
suoi autori essenziali, ed il ‘modello principale-agente’. Tramite questa la
concorrenza viene trascinata anche al centro dell’azione pubblica. Un testo chiave
di questa influente corrente è David Osborne e Ted Gaebler “Dirigere e
governare”. Una linea di pratiche che produce come effetto perverso lo
spingere i servizi a concentrarsi sulla prestazione anziché sul contenuto dei
compiti.
Anche in questa direzione quella che gli autori
chiamano la “ristrutturazione neoliberista”, trasforma i cittadini in consumatori
di servizi che pensano soltanto alla loro propria soddisfazione egoistica, e li
tratta in seguito come tali “tramite procedure di sorveglianza, restrizione,
penalizzazione e ‘responsabilizzazione’” (p.413).
Insomma, il
neoliberalismo, fabbrica un soggetto.
In un certo senso “fabbrica uomini utili, docili al lavoro, inclini al consumo,
fabbrica un uomo efficiente”, e lo fa sin dall’opera seminale di Jeremy Bentham.
Induce il soggetto neoliberista a lavorare per l’impresa esattamente come
farebbe per se stesso.
L’ethos neoliberale è orientato alla impresa di sé,
alla autorealizzazione, ed è, in effetti, qualcosa di molto vicino ad essere l’etica
del nostro tempo (in particolare per alcuni ceti e strati sociali). Questo ‘managemant
dell’anima’ che si ancora in una sorta di ascetica, relazionata ad un vero e proprio
ordine cosmologico[27]. In
questa accezione il ‘rischio’, una delle parole chiave della sociologia contemporanea[28] è
insieme una dimensione esistenziale e uno stile di vita obbligato. Chi volesse
sottrarsi ad esso sarebbe sottoposto allo stigma morale, ed all’espulsione
stessa dall’ordine cosmologico, in un certo
senso dall’umano[29].
Per Beck il capitalismo avanzato demolisce interamente
la dimensione collettiva dell’esistenza, distruggendo le strutture tradizionali
che lo hanno preceduto, ma anche quelle strutture che aveva creato al loro
posto: le classi sociali. Dunque “si
assiste ad una individualizzazione radicale per cui tutte le forme di crisi
sociale sono percepite come crisi individuali, e tutte le disuguaglianze sono
messe in relazione con la responsabilità individuale”[30]. Chiaramente,
come dice spesso anche Bauman, in questo modo tutti i problemi sistemici sono
neutralizzati come problemi politici e ricondotti a fallimenti individuali. Ne deriva
un decisivo indebolimento dei quadri istituzionali e delle strutture simboliche
in cui i soggetti trovavano posizione ed identità, quindi alcune specifiche e
caratteristiche patologie: erosione della personalità, demoralizzazione,
depressione generalizzata, desimbolizzazione (p.454-459).
Il dispositivo neoliberale di soggettivazione è
dunque, per gli autori, descrivibile come ‘dispositivo prestazione/godimento’,
dove la prima è misurabile e il secondo personale ed individuale. Un dispositivo
che obbliga inflessibilmente i soggetti a seguire le regole del gioco, pena
essere espulsi dal suo cosmo.
Tutto questo determina niente di meno che la fine della democrazia liberale e l’affermazione
di una razionalità radicalmente a-democratica.
Gli autori traggono da questa spietata analisi, di
grande intensità e complessità, la conclusione che la ragione-mondo neoliberale
consiste nella completa estensione della razionalità commerciale a tutte le
sfere dell’esistenza umana. La vena di profondo pessimismo, in linea con la
postura drammaticamente diagnostica dell’opera foucoltiana[31]
induce gli autori a riconoscere che la disattivazione del normativo, indotta
dalla decostruzione neoliberale del ‘pubblico’, della ‘legge’ sul ‘governo’,
quindi dell’universale sul particolare, è ormai andata oltre il non ritorno. Tutto,
fino alle radici, è radicalmente sovvertito. Il “consumatore sovrano” della
società neoliberale è ormai un individuo al quale “la società non deve niente,
l’uomo imprenditore di se stesso, che si rapporta agli altri sotto la forma del
rapporto di contratto con altri imprenditori di se stessi”: è Carlo Rovelli, forse
non per caso un ex ‘rivoluzionario’, che afferma di non avere identità. Di non
avere, cioè, più alcuna responsabilità collettiva, alcun dovere, che non sia
autoassunto[32]; di essere solo
compatibile con quella che Lasch chiamava “una mentalità turistica del mondo”.
Il superamento del welfarismo, che il neoliberalismo
ha provocato, ben oltre la sostituzione di una gestione biopolitica delle
popolazioni[33] con un’altra, è anche
superamento dell’integrazione dei lavoratori nello spazio politico e quindi
erosione dei diritti di cittadinanza attraverso la disattivazione delle
condizioni sociali della loro concreta possibilità di rivendicazione.
È per questo che il neoliberalismo mette in questione
in modo molto profondo e radicale, come ha incessantemente proposto Hayek, l’idea
stessa che la democrazia possa fondarsi sulla sovranità del popolo.
‘Potere al
popolo’, ovvero demos-krazia, è l’autentico bersaglio di questa corrosiva
critica che fa cavallo di troia della critica del totalitarismo, ovvero della ‘malattia’
del novecento. Per chi, come chi scrive, continua a ritenere, ostinatamente[34], che
la democrazia si basi necessariamente sulla sovranità popolare ne deriva che il
neoliberalismo, come scrivono gli autori, “in quanto dottrina è, non
accidentalmente ma essenzialmente, antidemocrazia”
(p.475).
Questo dispositivo antidemocratico così pervasivo,
però, non dipende da alcun attore, qualunque esso sia[35], esso
“si impone ai soggetti stessi e produce così il proprio soggetto”.
Allora cosa? Nessuna via possibile di uscita, nessun ‘capitalismo
buono’ o ritorno alle origini è possibile, magari solo qualche nuova fase di
neoliberismo, o uno spostamento di equilibrio. Qualcosa che sembri cambiare
tutto per non cambiare nulla.
Nessuna possibile
soluzione ‘vecchio-liberale’, o ‘socialdemocratica’,
è possibile ed all’altezza per gli autori, allora “la sola questione che valga
la pena è se la sinistra possa o no proporre una governamentalità alternativa a
quella neoliberista” (p.481). Ma una ‘governamentalità’ non si inventa, non si
progetta; eppure dice Foucault, preso nella critica al sovietismo dei suoi
anni, ‘bisognerà inventarla’, perché non c’è. Non c’è nell’amministrativismo e
non c’è nel liberalismo radicale (anche di stampo anarchico), né c’è nell’idea
di sovranità (che implica gerarchia).
La mossa che propongono gli autori, e sviluppano nei
libri successivi[36], è di attraversare il
neoliberalismo e uscire in un certo senso dall’altra parte. Non cercare di
tornare al compromesso socialdemocratico, in qualunque quadro (nazionale o
europeo), “senza realizzare che la dimensione dei problemi è cambiata, che le
forze in gioco non sono più le stesse, che la globalizzazione del capitale ha
distrutto dalla base un compromesso del genere”[37].
La questione, dato che il vecchio caro Tina impedisce
di pensare le alternative note, è “uscire dalla razionalità neoliberista”.
E non vale né la mossa del ‘presupposto-posto’ (per
usare un termine di Finelli) marxiano, per cui il soggetto alternativo è già
qui, presupposto nella situazione, e va posto a partire da essa. Ma neppure la
mossa simile di Negri e Hardt che postulano una “autonomia ontologica della
moltitudine”, generata dalla dinamica del ‘capitalismo cognitivo’[38]. Oppure
non vale l’ipotesi di Axel Honneth, con la sua analisi della ‘reificazione’[39].
Chiuso nel labirinto della sua sconfitta, strettamente
scaturente dalla corrosione della sua analisi, questo pensiero esce allora con
la mossa del cavallo di postulare la
necessità-possibilità di costruire un nuovo soggetto che combini la
soggettivazione con la resistenza al potere. Una “contro-condotta”[40],
come rifiuto di farsi condurre e definizione di se stessi, ovvero rifiuto di
comportarsi verso sé come un’impresa e rifiuto della norma della concorrenza
verso gli altri. Quindi avviare rapporti di cooperazione, inventando collettivamente
nuove forme di esistenza, producendo e moltiplicando contro-condotte.
Qualcosa che nessuno progetti e che emerga,
attraversando il neoliberalismo, appunto: o restando di esso prigioniero?
[1]
- Si veda in primo luogo “Nascita della biopolitica”,
il corso del 1978-79, circa cinque anni prima del suo ultimo corso, del 1984
sul “Coraggio della verità”. Ed alla
luce della parresia, del dire-il-vero, che è ‘oggetto di quella ultimissima
lezione, che si muove anche il discorso degli autori.
[2]
- Una forma che si pensa come Ragione e nega, spesso aspramente, di essere
cultura, ovvero ideologia.
[3]
- Alcune versioni della critica marxista, del resto, illumina questo stesso
punto quando ricorda che la vera posta dei conflitti distributivi degli anni
settanta sia stata la questione del potere di determinare i rapporti sociali;
nei conflitti nelle fabbriche (ad esempio alla
Fiat) o nella rappresentanza politica.
[4]
- Dardot e Laval sono degli autori che inclinano verso una soluzione libertaria
dei dilemmi della modernità, tengono in alto sospetto lo Stato e non
condividono con la tradizione critica francofortese (in particolare la prima) l’auspicio
di riabilitare in qualche modo una natura umana vilipesa dalla razionalità
strumentale del capitalismo, ma conta sull’emergere, dalla crisi di
governamentalità, di contro-condotte che si costituisca da sé, lungo il filo di
nuove battaglie incerte e di nuove politiche, per quanto claudicanti.
[5]
- Inevitabile il rimando al grande libro di Albert Hirschman, “Le
passioni e gli interessi”.
[6]
- In questa stessa direzione l’insegnamento di un altro grande padre della
scienza economica, ma molto meno noto come Antonio Genovesi, si veda “Il
mercato e il dono”, di Luigino Bruni.
[7] -
Certo, ci sarebbe anche Gianbattista Vico, che è precedente.
[8]
- Adam Ferguson, in “Saggio sulla storia
della società civile”, con una mossa anti-lockiana, sostiene che non
avviene nessuna cessione di diritti, patto, o unione volontaria. Gli individui
non fanno una società, ma vi sono dentro sin dall’inizio, sono “fin dall’inizio
associati da legami stretti a monte di ogni istituzione”. I legami sono
costituiti da simpatia, benevolenza, compassione, ma anche dal loro opposto,
ripugnanza, rivalità e gelosia. I legami, affettivi e passionali, costituiscono
il tessuto dell’esistenza della società civile nella storia, e non il legame
economico. Al contrario lo scambio commerciale, in quanto legame di interesse, agisce
come “principio dissociativo”, perché tende a disfare l’unione spontanea che si
era formata attraverso il gioco di passioni e affetti. Ovvero “i legami di
interesse tendono a dissociare coloro che i legami affettivi avevano associato”.
Si mette in essere un movimento si associazione-dissociazione. La lettura di
Foucault che qui è ripresa continua (“Nascita
della biopolitica”, p.245) individuando la ‘società civile’ come matrice
del potere politico, nel senso che “il potere si produce prima di ogni istituzione
politica e di ogni codificazione giuridica” per effetto di una divisione del
lavoro fondata sulla differenza dei talenti.
[9]
- Adam Ferguson, “Saggio sulla storia della società civile”,
1767, p. 80.
[10]
- Ferguson, cit, p. 201
[11]
- Adam Smith, Citato da Maroby, “L’économie
della nature”, p.90., in D&L, p.67
[12]
- In Cristopher Lasch, “Il paradiso in
terra”, p.49
[13]
- Spencer, citato p.71
[14]
- Per effetto delle terribili condizioni delle classi lavoratrici, ben descritte
da Engels in “La
situazione della classe operaia in Inghilterra”, 1844, e quindi delle
politiche sanitarie, dell’avvio di timide politiche di welfare, e in generale
del tentativo di contenere la rabbia e le conseguenze del degrado.
[15]
- Cfr. Karl Polanyi “La
grande trasformazione”, 1944. Gli autori criticano le conclusioni di
Polanyi, attribuendo la trasformazione che segue al crollo contemporaneo del
Gold Standard, della mondializzazione e dello Stato liberale, le tre ‘istituzioni’
che creavano l’illusione del libero mercato, non ad un movimento di autodifesa
della società, bensì ad una trasformazione del liberalismo stesso che non
coincide affatto con il laissez-faire (cfr. p.161). Diverse forme di
liberalismo necessitano di diverse forme di intervento statale.
[16]
- Un degrado che non solo corrisponde alla previsione di Ferguson, ma è stata
individuata diagnosticamente anche dal giovane Marx, quando nel 1848 al Congresso
sul libero scambio di Bruxelles (organizzato dalle lobbies industriali inglesi,
dopo la battaglia per le leggi sul grano), si esprime “in ultima istanza ed in
linea di principio a favore” perché, a suo parere, “quanto più rapido è questo
sviluppo, tanto prima e più completamente si realizzeranno i suoi inevitabili
esiti: la divisione della società in due classi, capitalisti da una parte e lavoratori
salariati dall’altra; ricchezza ereditaria da una parte, povertà ereditaria
dall’altra; eccesso dell’offerta rispetto alla domanda, mercati incapaci di
assorbile la massa sempre crescente di prodotti industriali; un ciclo sempre
ricorrente di prosperità, sovrapproduzione, crisi, panico, stagnazione cronica
e graduale ripresa degli affari; segnale, quest’ultimo, non di un miglioramento
duraturo, ma di una nuova, prossima sovrapproduzione e crisi. In breve,
l’espansione delle forze produttive sociali è tale che le spinge a ribellarsi,
quasi fossero catene intollerabili, alle istituzioni sociali all’interno delle
quali esse sono state messe in movimento. Un’unica soluzione è allora
possibile: una trasformazione sociale che liberi le forze produttive sociali
dalle catene di un ordinamento sociale antiquato e i veri produttori, la grande
massa del popolo, dalla schiavitù del salario”. Insomma,
il libero scambio non è bene, ma alla fine essendo male porta il bene, dato che
le sue conseguenze sono intollerabili. Per come la mette Engels quaranta anni
dopo, ricordando quell’intervento: “E poiché il libero scambio è l’atmosfera
naturale e normale per questa evoluzione storica, l’ambiente economico nel
quale le condizioni di questa inevitabile soluzione sorgono più rapidamente – per
questo, e soltanto per questo – Marx si dichiarò a favore del libero
scambio”. Cfr. “Friedrich
Engels, ‘dazio protettivo e libero scambio’ 1888”
[17]
- Come accade anche in Italia esiste anche, ed è molto forte, una opposizione
liberale di destra, o conservatrice, al fascismo ed al nazismo.
[18]-
Michel Foucault, “Nascita della biopolitica”,
p.137.
[19] - Michel Foucault, op. cit. p. 139
[20]
- Gioca in questa direzione la memoria del ruolo della Banca Centrale nel
sostegno delle politiche del Reich, sia con Hitler sia prima.
[22]
- Si veda, ad esempio “’New
philanthropy’, ovvero Zuckenberg e gli altri”.
[23]
- Di qui si può collegare il senso profondamente ordoliberale delle recenti e reiterate
polemiche sulla libertà di scelta del corpo, e sul corpo, estese fino a giustificare
la pratica dell’utero in affitto. Si veda “Nichi
Vendola ed Ed Testa: circa Tobia. Dei confini del mercato”.
[25] -
Si veda su questa la cruciale analisi di Scharpf “La
doppia asimmetria dell’integrazione europea”.
[26]
- per un esempio tardo si veda La Spina, Majone “Lo
Stato regolatore”.
[27]
- Che è uno dei motivi per i quali per molti è così difficile distaccarsene, è
necessario letteralmente uscire da un mondo. L’ordine della ‘competizione mondiale’
è uno con la natura percepita dell’uomo, con il senso di sé, e con l’intero
orizzonte di senso dell’esistenza.
[28] -
Ovviamente si deve fare riferimento in primis all’opera di Beck.
[29]
- E’ questo, ancora, che lavora come sottotesto di molta della indignazione
morale che i contemporanei portano ai deboli e periferici, arrabbiati, spesso
ineleganti, concittadini che vorrebbero sottrarsi al rischio, richiedendo
protezione.
[30]
- Ulrich Beck, “La società del rischio”,
p.114
[31]
- Soggetta alla circolarità scettica e camminante sull’orlo del nichilismo.
[32] -
Si veda “Carlo
Rovelli, l’identità nazionale è fake”. La sua contestazione
delle identità indisponibili, ascrittive, muove inconsapevolmente a partire da
un punto di vista di classe: ““Sono cresciuto all’interno di una determinata
classe sociale, e condivido abitudini e preoccupazioni con le persone di questa
classe in tutto il pianeta più che con i miei connazionali”. E
generazionale: “Sono parte di una generazione: un inglese della mia età è molto
più simile a me di un veronese dall’età diversa”. Ora, da questa prospettiva l’identità
collettiva, che ammetteva con
riconoscimento fisiognomico all’avvio (“La Gran Bretagna è un vecchio Paese. Il
mio Paese, l’Italia, è giovane. Entrambi sono orgogliosi del loro passato.
Entrambi sono contrassegnati da marcati caratteri nazionali: è facile
identificare gli italiani o gli inglesi, tra la folla di un aeroporto
internazionale”), si dissolve senza lasciare traccia. Ora, dal punto di
vista divenuto interamente individuale, “l’identità è unica”, si tratta del
risultato di un percorso biografico irripetibile. E, sempre da questo punto di
vista, le comunanze di senso sono ora trasversali e attraversano i confini. E
di questa, in particolare della sua frazione cosmopolita, condivide il
rifiuto di qualsiasi responsabilità collettiva, di ogni dovere. Predilige,
naturalmente, i diritti. Esattamente difende il diritto di chiamarsi fuori.
Tra
le “preoccupazioni” della classe cosmopolita che, come scriveva Lasch, ‘ha una
mentalità turistica del mondo’, c’è infatti in primo piano quella di non essere
chiamata ad essere responsabile delle altre classi. Di non dover pagare le
tasse per loro, di non dover sottostare a regole che servono a proteggerle
dalle conseguenze del capitalismo di rapina che loro stessi, collettivamente
hanno prodotto e sostengono; c’è l’incubo di doverle risarcire.
[33]
- Quella che il movimento del ’68, in sintonia profonda quanto non intenzionale
con la critica neoliberale, ha accusato di essere un trattamento amministrativo
dei bisogni, produttore di uniformità e distruttore di autonomia e autentica
coesione.
[34]
- Cfr “Il
maestro e la democrazia”.
[35]
- La spinta ad antropomorfizzare e individuare il grande Satana dietro all’inferno
in essere porta alcuni a scegliere di volta in volta uno Stato (la Ue, gli USA)
un organismo (il FMI, o l’insieme BM, Ocse, FMI), o un club, un gruppo (il
Bildenberg, o altri), ma nulla di questo.
[36]
- Ovvero in “Del Comune, o della rivoluzione del XXI secolo”,
2015, “Guerra
alla democrazia”, 2016, “Il potere ai soviet”, 2017.
[37]
- Una obiezione insieme solita e pigra, nel 2009 magari anche comprensibile, in
realtà il ‘compromesso keynesiano’ nasce nello stesso quadro di finanziarizzazione,
anche maggiore negli anni venti del secolo scorso, e di interconnessione, nasce
come schema di governo mondiale. Casomai nasce in un contesto geopolitico, di
contrapposizione di potenza diverso, ma che questi ultimi anni sembrano
riproporre.
[38]
- Hardt, Negri, “Impero”.
[39]
- Axel Honneth, “Reificazione”
[40]
- Michel Foucault, “Sicurezza, territorio, popolazione”, p.
142-164.
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