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domenica 10 febbraio 2019

Pierre Dardot, Christian Laval, “La nuova ragione del mondo”





Il libro del 2009 di Pierre Dardot e Christian Laval reca come sottotitolo “Critica della razionalità neoliberista”, e svolge in quasi cinquecento pagine una lunga e meditata ricostruzione della genealogia dello sviluppo del neoliberismo nelle sue varie e diverse correnti. Si tratta di un libro che utilizza e riprende espressamente la lettura che Michel Foucault fece, nei suoi ultimi, anni del neoliberismo[1] e della sua forma di ragione[2].
Il neoliberismo riletto da Dardot e Laval è un pensiero dell’adattamento, sottilmente invertebrato, capace di pervadere ogni cosa e soprattutto produttore di nuove soggettività. Al contrario di quanto normalmente si pensa per gli autori esso non è, come il liberalismo classico, ostile alle regolamentazioni, ma è il creatore di vere e proprie strutture nelle quali l’uomo diventa una particolare (ed ‘inumana’) macchina per la competizione e per il desiderio. L’uomo neoliberale esiste solo in un universo di competizione, e si pensa come auto-governato, e quindi integralmente autonomo. Il tentativo che compie la pratica neoliberale è, in altre parole, di governare l’uomo attraverso se stesso, non contro la sua libertà, ma per mezzo di essa; di convincerlo a conformarsi autonomamente al sistema di norme idoneo alla competizione che esso stesso determina.



Ma tutto questo, bisogna notare, per gli autori, come per il loro maestro, non è un progetto di qualche macrosoggetto, sia esso una classe o un gruppo; non è disceso da un corpo dottrinario pronto, anche se molti vi hanno lavorato per anni. Esso “si è costituito lungo il filo di battaglie incerte e politiche claudicanti” (p.15). Dunque la società neoliberista, non è neppure il risultato della logica del capitale, o di uno o più rapporti di produzione, Dardot e Laval, che non sono marxisti, pensano che tutto ciò derivi sì dagli effetti della crisi degli anni settanta, ma che questa non sia principalmente economica. Pensano che, cioè, non sia questione di difficoltà di accumulazione, come ad esempio sostiene David Harvey contro il quale polemizzano, bensì sia una questione dell’emergere di un deficit di governamentalità[3]. Come per quello precedente, dunque, anche il sistema di produzione e quello di governo degli uomini neoliberale è insieme un sistema di produzione antropologica. Ed è sotto questo profilo che si presenta anche la crisi contemporanea: “una crisi globale del neoliberismo come modalità di governo della società” (p.18).

Una modalità di governo della società e dell’uomo che interessa profondamente l’intera costruzione europea, impregnata di competitività e di logica disciplinare, e gli Stati stessi[4].

Gran parte del libro è costruita sulla lettura, attenta e a tratti profonda, di alcuni autori esemplari e storici del pensiero liberale prima e neoliberale dopo.




L’avvio, nella Prima Parte, è molto convenzionale: il liberalesimo è parte del grande movimento della ragione scientifica e della soggettivazione moderna, imperniata sui diritti dell’uomo e gli interessi. La lettura è condotta con particolare riferimento al radicalismo inglese (e scozzese), e trova che la politica, il potere di condurre gli uomini, non si pieghi più alla Legge divina ma alle nuove “leggi naturali” che, quindi, esprimono una necessità inscritta in qualche modo nelle cose. Come dicono: “quasi ovunque si trova un discorso antropologico fondato sull’uomo delle passioni e degli interessi[5], un discorso canonico modellato sul gioco meccanico delle forze in equilibrio e un discorso storico basato sull’idea di un cammino” (p.29). Questa politica, è quindi fondata sulla considerazione insieme: della natura dell’individuo, dell’ordine della società e del progresso della storia.
Momenti essenziali di questa maturazione concettuale sono ovviamente Locke e l’analisi delle tensioni tra interesse e morale in Adam Ferguson, che rifiuta di ricondurre interamente la condotta umana al solo interesse[6], linea proseguita da Adam Smith nella “Teoria dei sentimenti morali”, cui fa da contraltare, in una sorta di corno fatto di due punte, contrapposte ma connesse, “La ricchezza delle nazioni”. Quello di Smith è, nella lettura qui proposta, un vasto sistema morale che tende a condurre in un sistema armonioso fondato sulla divisione del lavoro e quindi sullo scambio.
Si passa nell’insieme da una concezione ontologica della sovranità, e quindi da un ordinamento dato da una legge esterna, alla concezione funzionale della governamentalità, che si esplica attraverso la conoscenza e l’azione delle stesse forze della natura (p.50).



Questa governamentalità, propria del liberalesimo settecentesco, è strettamente connessa anche con un altro piano di fondazione: una concezione progressiva e lineare della storia. Una delle prime versioni è Adam Ferguson e la “teoria degli stadi”, nella quale ognuno di essi si identifica con un modo di sussistenza e quindi una forma economica, e transita naturalmente al successivo (che rappresenta quindi un progresso necessario); ne deriva che i popoli sono classificati secondo gli stadi. Questo modello fu elaborato quasi in contemporaneo da Smith, Turgot e Rousseau[7].
Certo c’è un problema, perché se gli “stadi” sono discontinui viene meno l’unità della natura umana postulata dal liberalismo (con la generalità di egoismo e scambio). Ferguson propone a tal fine il suo concetto di ‘società civile’ come costante storico-naturale, sempre presente in tutte le forme umane, ma tale da assicurare la sintesi spontanea degli individui[8]; ma la ‘società civile’ attraversa necessariamente il progresso dallo stato ‘selvaggio’, nel quale è raggiunto un ordine spontaneo, quello ‘barbaro’ e, infine, quello ‘civile’. Passando dalla cura della terra a forme più evolute di economia, l’allevamento, per Ferguson, compare la proprietà, e con essa l’ineguaglianza. Allora agisce la ‘dissociazione’ economica.

Come scrive:

“quando l’individuo non incontra più tra i suoi soci la stessa disposizione a consegnare ogni cosa all’uso comune, a questo punto è preso dall’interesse per la propria fortuna personale ed è allarmato dalle attenzioni che ogni persona ha verso se stessa. È spinto sia dalla competizione e dalla rivalità, sia dal senso di necessità. Permette che considerazioni di interesse si impossessino della sua mente così che, quando ogni desiderio immediato è sufficientemente soddisfatto, può agire in vista del futuro, o piuttosto trovare motivo di vanità nell’accumulare tutto ciò che diventa oggetto di competizione e di stima universale”[9]

Insomma, nei primi stadi l’interesse agisce debolmente, e i sentimenti di generosità e tenerezza sono i più propri della natura umana. L’interesse, selfish, è “l’amore del proprio”, e dunque è connesso ambiguamente all’egoismo come al principio della autoconversazione “proprio della costituzione umana”. Il gioco dell’interesse è alla fine “il motore della storia nella società civile” (D&L, p.62). Ed allora l’interesse si ritrova come molla sia del passaggio da età della barbarie alla civiltà, sia del progresso di questa e delle nazioni, nella continua e progressiva divisione del lavoro.
Ma Ferguson non si limita a valorizzare la divisione del lavoro come motore del progresso, al contempo specifica che il progresso economico rischia sempre di andare a determinare lo scadimento delle virtù civiche e morali. Il danno deriva “dal principio della preminenza rovinosa dell’economico sul politico”.

Scrive:

“La divisione delle professioni, mentre sembra promettere il miglioramento delle abilità ed è effettivamente la causa che attraversa lo sviluppo del commercio perfeziona molto le produzioni di ogni tipo, tuttavia alla fine nei suoi effetti ultimi porta in qualche misura a rompere i legami sociali, a mettere la forma al posto dell’ingegno e a far ritrarre gli individui dalla scena comune del lavoro, dove la mente e i sentimenti del cuore sono impiegati con la massima felicità”[10]

L’interdipendenza determinata dalla divisione del lavoro e dalla preminenza dell’economico, “l’amore del guadagno”, provoca la perdita di interesse per il fine pubblico, questa è la causa della decadenza (decay). La posizione è, insomma, estremamente ricca e non identifica affatto il progresso con il perfezionamento della natura umana.

Anche Smith produce un’antropologia attraversata dalla contraddizione, questa volta tra due desideri fondamentali: quello di migliorare la propria condizione, mosso “dall’amore di sé”, e il desiderio di approvazione altrui, mosso dalla “simpatia”. Ma qui gli stadi sono concepiti come crescita delle risorse disponibili e progresso, come incremento e miglioramento. Qui si trova l’idea di un progresso costante della società, garantito dalla meccanica degli interessi e quindi informata da un profondo naturalismo.

Scriverà in un manoscritto postumo:

“Coloro che fanno continuamente progetti perturbano la natura nella sua attività sugli affari umani; e in realtà non v’è bisogno d’altro che di lasciarla fare, di lasciargli carta bianca nel perseguimento dei suoi obiettivi, così che possa compiere il proprio disegno. Per condurre uno Stato dalla barbarie più profonda al più alto grado di opulenza non si richiede molto di più che la pace, una tassazione moderata e un’amministrazione tollerabile della giustizia: giacché tutto il resto si compie per il semplice corso naturale delle cose. Tutti i governi che contrariano questo corso, che lo deviano su altri canali, o che addirittura si sforzano di bloccare in un preciso punto il progresso della società, tutti questi governi sono innaturali”[11]

Insomma, il corso naturale è irresistibile, ed è al fine orientato dalla “provvidenza”, che determina una sorta di “economia della natura”, capace di far prevalere il desiderio di migliorare la propria condizione su tutti gli altri. Come sottolinea Lasch[12] esisteva tuttavia anche una sorta di disprezzo repubblicano per il genere di vita unicamente orientato all’accumulo dei beni materiali, ma senza arrivare a postulare una sorta di decay, come in Ferguson. In conseguenza in Smith “gli appetiti insaziabili non portano alla corruzione e alla decadenza [come in Ferguson], ma all’espansione indefinita dell’apparato produttivo necessario per soddisfarli”. Il progressismo è quindi fede nella possibilità, non per caso garantita in ultima analisi dalla provvidenza, “di un incremento indefinito della produttività e della ricchezza”.

Dopo Smith Spencer naturalizza completamente la storia umana, sottomettendola al principio dell’evoluzione, per cui l’egoismo biologico diventa il fondamento ed il fine della stessa vita morale. Il Laissez-faire diventa forma di vita scientificamente fondata sull’evoluzionismo biologico. E la giustizia pretende che i meritevoli si approfittino dei vantaggi.

“Tutti gli accomodamenti che impediscono alla superiorità di approfittare dei vantaggi della superiorità, o che proteggono l’inferiorità dai mali che essa produce, tutti gli accomodamenti, dunque, che mirano a sopprimere le differenze tra il superiore e l’inferiore sono da ritenersi diametralmente opposti rispetto al progresso dell’organizzazione e all’avvento di una vita più alta”[13].

Nel seguito del loro excursus gli autori individuano la via giuridico-deduttiva alla determinazione dei diritti individuali come limite alla possibile azione del governo in Rousseau e Locke, e la proprietà di se stessi come fondamento del diritto di proprietà.



Ma sorge un problema: quale è il limite dell’azione di governo e come fare con individui che si pensano governati dal principio di piacere? Da questa domanda scaturisce la riflessione di Jeremy Bentham, che svolge un ruolo centrale nel racconto del testo, la ricerca di un principio, l’utilità, che non è né strettamente economico, né strettamente politico. Un principio che “permette anzi di abolire i confini tra questi due ambiti e di applicare all’uomo un unico modello di spiegazione e di giustificazione” (p.110). Il principio di utilità, in Bentham, diventa l’unico criterio di azione pubblica e questa è improntata a radicalismo e progresso sociale.

Con Bentham lo scontro, sorto all’interno del liberalismo classico, tra la logica dei diritti individuali e quella del principio di utilità, si manifesta pienamente.

Di qui nasce la crisi ideologica del liberalismo, che si manifesta come un “universo di tensioni” difficilmente componibili, una sorta di ideologia dalle maglie troppo strette (p.133). Queste tensioni si manifestano già con le inquietudini di Tocqueville e soprattutto di Mill, la versione radicale di Spencer. È soprattutto quest’ultimo che rappresenta la svolta, la sua aspra battaglia, condotta negli anni in cui inizia un nuovo protagonismo pubblico[14], contro i Parlamenti, che vanno limitati, e l’assunzione della concorrenza come lotta vitale, anche al prezzo di distruggere, come sosteneva anche Malthus, gli inadatti.



Il nuovo liberalismo nasce da qui: dalla costatazione dell’incapacità dei dogmi liberali a ridefinire i nuovi limiti per l’intervento del governo che si rendono necessari nella nuova situazione creata da quello che Karl Polanyi chiamò[15] l’autodifesa della società. Ovvero dalla condizione di insopportabile ineguaglianza e degrado sociale determinato dalla globalizzazione imperialista sotto egemonia anglosassone[16].
Il neoliberalismo, che si forma come reazione a queste difficoltà è quindi il superamento del dogmatismo del laissez-faire della scuola di Manchester, ma ristrutturando e salvando, attraverso un’opportuna struttura di intervento pubblico, i rapporti economici e sociali governati dalla concorrenza.

Ci sono due modi di rispondere a questa crisi: uno è il ‘nuovo liberalismo’ di cui l’autore e l’espressione più compiuta, seppure tarda, è John Maynard Keynes; l’altro è il ‘neoliberalismo’. Il primo si propone di limitare il mercato attraverso un’azione statale compensativa, che salvi di questo l’essenziale, ovvero la libertà di azione degli individui; il secondo, al contrario, intende usare una gabbia normativa sostenuta dalla forza dello stato per purificare il mercato e far affermare in esso la forma pura della concorrenza. La mossa eleva la concorrenza a principio centrale della vita sia sociale sia individuale, ma lo fa riconoscendo che l’ordine di mercato non è affatto un ordine di natura: è il prodotto di una costruzione politica intrinsecamente storica.

Questo movimento che porta alla messa a punto della proposta neoliberale parte per gli autori dal “Convegno Lippman”, dal 26 al 30 agosto 1938, che precede di qualche anno la fondazione della Società Mont Pelerin (1947). Sono invitati Hayek, von Mises, Rueff, Aron, Ropke, Von Rustow, Rougier. Nel discorso inaugurale Rougier ricorda che il liberalismo non si identifica affatto con il laissez-faire, ma è un ordine legale che richiede l’intervento dello stato. Malgrado l’opposizione di Von Mises (che sarà in minoranza anche nella successiva Società Mont Pelerin), la linea centrale condivide questa impostazione, in favore di un “interventismo liberale”. Lo scontro si determina tra ortodossi (Von Mises e Hayek, Robbins e Rueff) e i riformatori (Ropke e von Rustow, che insistono sul fondamento sociale del mercato, ma anche Lippman e Rougier) per i quali ‘essere liberali significa essere progressisti’ adeguando continuamente l’ordine sociale e legale alle scoperte, ai cambiamenti strutturali, senza pianificare interamente il traffico, ma creando un “codice della strada”. Insomma, come scrive Lippman, “gli ‘ultimi liberali’ non hanno capito che ‘ben lungo dall’essere astensionista, l’economia liberista presuppone un ordine giuridico attivo e progressista, teso al continuo adattamento dell’uomo a condizioni sempre mutevoli. Serve un ‘interventismo liberista’, un ‘liberalismo costruttivo’ ed un dirigismo statale che certo si deve differenziare sostanzialmente rispetto alla pianificazione ed al collettivismo” (p.182). Un dirigismo “che implica la protezione della libertà, non il suo asservimento; deve garantire che la conquista di benefici sia il frutto di una vittoria dei più adatti all’interno di una competizione leale, e non il privilegio dei più garantiti o di coloro meglio collocati socialmente”.

Questo liberismo rinnovato è, insomma, il regno della legge, e contemporaneamente il governo delle élite, uno stato forte organizzato da competenti la cui qualità sia l’esatto opposto della “mentalità magica e impaziente delle masse” (p.196). Ne deriva, ovviamente, che la democrazia è affetta da una debolezza congenita determinata dalla eccessiva influenza dei popoli sul governo, attraverso l’opinione pubblica ed il suffragio universale. L’eterno bersaglio del neoliberalismo, per la stretta logica interna che lo contraddistingue, è dunque il potere del popolo, che va limitato e ricondotto alla guida degli esperti.



Ma nel neoliberalismo, e sin dai suoi esordi, è presente anche un’altra corrente, non perfettamente coincidente: l’ordoliberalismo tedesco. L’ordine è concepito come dovere politico, nato come movimento conservatore nei circoli antinazisti[17], prevede “una teoria della trasformazione sociale che fa appello alla responsabilità degli uomini” ed il cui problema fondamentale è come riformare l’ordine sociale dopo lo stato totalitario. Certo l’ordine liberale muove dalla creazione di uno stato di diritto che è all’origine stessa della forma capitalista, l’economico non è per loro un insieme di processi naturali ai quali in qualche modo si aggiunge la regolazione ed il diritto, in accordo o in ritardo. Come scrive Foucault, “l’economico, in realtà, deve essere inteso da subito come un insieme di attività regolate. Un insieme di attività le cui regole hanno livelli, forme, origini, date e cronologie del tutto differenti tra loro”[18].

Il punto sarebbe questo:

“il problema che dovevano risolvere consisteva nel dimostrare che un capitalismo era ancora possibile, che il capitalismo poteva sopravvivere, a condizione di fornirgli una forma nuova, e se ammettiamo che questo era l’obiettivo finale degli ordoliberali, allora possiamo dire che, in definitiva, dovevano dimostrare due cose. In primo luogo, dovevano dimostrare che la logica propriamente economica del capitalismo, la logica del mercato concorrenziale, era possibile e non contraddittoria – ed è proprio ciò che hanno cercato di fare. In secondo luogo, poiché questa logica non era contraddittoria in sé e dunque era fondata, dovevano mostrare che tra le forme concrete, reali, storiche del capitalismo esisteva un insieme di relazioni giuridico-economiche  tali per cui era possibile, inventando un nuovo funzionamento istituzionale, superare gli effetti – le contraddizioni, le impasse, le irrazionalità -  peculiari della società capitalistica, ma che, tuttavia, non erano dovuti alla logica del capitalismo, bensì semplicemente a una figura determinata e particolare di questo complesso economico-giuridico”[19].

L’ordoliberalismo respinge dunque ogni forma di riduzione del giuridico a sovrastruttura, e ogni concezione unitaria del ‘capitalismo’ fondata su una autonomia dell’economico.

Ne sono espressione autori importanti come Ropke, che in “Civitas umana” rifiuta frontalmente il laissez-faire e identifica l’economia di mercato “vitale”, come un’opera d’arte, un prodotto della civiltà particolarmente difficile e che presuppone molto.
L’ordoliberalismo è, a sua volta, diviso in due gruppi principali: gli economisti e giuristi della Scuola di Friburgo, come Euckel e Bohm, i sociologi Alfred Muller-Armack, Wilhelm Ropke e Alexander von Rustow. La distinzione è tra la struttura giuridica e quella sociale come focus, i primi sono concentrati sulla crescita economica, dalla quale deriverebbero i progressi sociali, mentre i secondi sono preoccupati degli effetti di disintegrazione sociale propri dei meccanismi di mercato e allo Stato affidano anche il compito di garantire e strutturare un soziale umwelt, un ‘ambiente sociale’, che reintegri gli individui nella società. Alla wirtschaftspolitik, ‘politica economica’, si contrappone la gesellschaftspolitick, ‘politica della società’.

La critica dell’economia da commando, pianificata, del nazismo, si rovescia nella critica della ipertrofia dello Stato che ne consegue, e degli effetti di dissoluzione sociale e comunitaria derivanti, è la crescita del potere dello Stato che distrugge i legami di comunità. Su un altro piano, recuperando motivi di critica che risuonano nell’area dei ‘giovani conservatori’, e che poi nel novecento avranno enorme seguito, per Ropke il collettivismo economico è una sorta di estensione ‘dell’annientamento scientista dell’uomo’, e tenta di asservire completamente l’umanità. Ne deriva che l’economia di mercato impedisce la “politicizzazione della vita economica” (con il suo intrinseco totalitarismo) e, in particolare, alla politica di decidere in vece del consumatore.
Ma lo Stato neoliberale, al contrario, fondando le condizioni della libertà individuale ne viene legittimato tramite i suoi frutti che sono la crescita economica, e quindi l’aumento della qualità della vita. Il primo “Consiglio Scientifico” (un organismo creato dall’amministrazione anglo-americana e da allora fondamentale nell’orientare le decisioni pubbliche) è composto da Euckem, Bohm e Muller-Armack e consegna un documento nel quale viene proposto la direzione del processo economico tramite il sistema dei prezzi, su questa base Ludwig Erhard, che era il responsabile della bi-zona, avvia la liberalizzazione e la riforma monetaria.
L’idea è di mettere al centro la concorrenza, e non il principio di equivalenza dello scambio, e di sviluppare tramite questa la forma di mercato più completa e più coerente possibile. Nel 1957 viene istituita la Bundesbank su queste basi: una Banca Centrale indipendente, non toccata dalle direttive del governo[20],  e la cui principale missione è salvaguardare la moneta, ovvero la capacità di acquisto del capitale. Come sottolineano gli autori “in linea di principio la politica attiva di stampo keynesiano è incompatibile con i principi ordoliberali” (p.213).

La questione centrale è del potere, del cittadino di disporre di diritto della propria vita ed indipendenza, mentre dall’altra parte di limitare il potere illegittimo dei gruppi di pressione. Soprattutto in Ropke l’ideale è di una società di piccoli imprenditori, nessuno dei quali ha potere sul mercato, e di democrazia dei consumatori, che esercita il proprio potere attraverso le scelte quotidiane.

Sono questi i diritti fondamentali ed intangibili dell’ordoliberalismo.




Gli individui, quindi, non esercitano i propri poteri come produttori (e quindi, ad esempio, attraverso partiti e sindacati, come classe), ma come consumatori, non tramite il conflitto e la ricerca di vantaggi e privilegi comuni, ma tramite il consenso. Infatti tutti i consumatori hanno eguale interesse alla salvaguardia del meccanismo della concorrenza, che contiene i prezzi e allarga le scelte.
Questa idea profondamente radicata nel discorso ordoliberale, e della quale ci sono riverberi continui, storicamente, nel discorso egemonico delle nostre élite (ad esempio di Carli, o di Einaudi), costituisce un contratto tra consumatore e Stato e individua nella sovranità del consumatore la forma dell’interesse generale.

Qui c’è anche l’equivoco, trasportato direttamente nei testi istitutivi della Unione Europea, e prima della Comunità Europea, della formula della “economia sociale di mercato”, il termine è messo in campo da Muller-Armack, fra i negoziatori del Trattato di Roma[21]: significa economia di mercato nella quale si instaura la ‘democrazia del consumo’ per mezzo della concorrenza. L’economia qui è ‘sociale’ proprio e solo perché obbedisce alle scelte dei consumatori, un concetto che fu inizialmente criticato dai socialisti, per i quali il termine rinviava casomai a solidarietà e cooperazione. Ma per Armack questa forma si legittima in quanto produce la massima ricchezza e benessere, ed è un ‘ordine artificiale’, istituito con un atto di tipo costituzionale, definitorio degli scopi essenziali di una società. Nel definirli è dunque l’atto (di fondare la concorrenza come principio di ordine) che costituisce la società, rovesciando il meccanismo rousseuiano. Dunque, anche se può non sembrare, la “economia sociale di mercato” degli ordoliberali è proprio direttamente opposta allo Stato Sociale, o stato welfarista, il cui funzionamento tende, invece, a ridurre la concorrenza ed a ostacolare, se del caso, il meccanismo dei prezzi.
Per gli ordoliberali alle ineguaglianze, ed alla povertà, si dà soluzione solo tramite la responsabilizzazione individuale ed al massimo tramite la carità (ovvero il mecenatismo volontario, una idea che torna nella “new philanthroy” dei supericchi della new economy[22]).

La “politica della società” è dunque del tutto opposta alla redistribuzione, si tratta di una sorta di “governo della società”, secondo la formula di Foucault. Si tratta di creare una società nella quale il consumatore possa esercitare completamente il suo diritto di scegliere in piena indipendenza i beni e servizi che lo soddisfano di più[23]. La “terza via” che cercano gli ordoliberali è tesa a produrre nuovi individui capaci di scelte responsabili e in rapporto con istituzioni decentralizzate, ma anche di aree libere dal mercato, sottratte alla sua logica (riverberando il vecchio timore di Ferguson), e connesse con l’autoproduzione, la vita familiare.


Il neoliberalismo, dunque, in tutte le sue plurali correnti, contribuisce a mettere al centro un nuovo e diverso tipo umano, nel quale la concorrenza svolge la funzione dirigente e mobilitante tutte le energie: l’uomo imprenditoriale.
Vanno in questa direzione i discepoli di Von Mises, Murray Rothbard e Friedrich Hayek, che approfondiscono la critica della ragione interventista, nel secondo attraverso una lettura del mercato come scoperta dell’informazione più pertinente, superando l’ineliminabile carenza delle capacità umane di conoscere e calcolare. Il mercato è strumento della conoscenza, di quella direttamente utilizzabile proprio perché specifica e dispersa. Le conoscenze individuali e specifiche sono quelle che contano di più (più di quelle scientifiche ed astratte) e sono molto più efficaci, proprio perché decentralizzate. Ne deriva che il problema dell’economia non è l’equilibrio generale, ma è “sapere come gli individui possano trarre il maggior vantaggio dalle informazioni frammentare delle quali dispongono” (p.244).
Quindi non c’è assolutamente nessun bisogno che lo Stato intervenga, perché solo gli individui, e ognuno per sé, sono capaci di fare i calcoli che servono e utilizzare, mobilitandola, l’informazione necessaria (una informazione che non si può concentrare e non si può padroneggiare tecnicamente). Il discorso è contrario al marginalismo, ed alle loro ipotesi irrealistiche.

Lo Stato neoliberale è dunque uno stato molto forte, ma è solo il guardiano del diritto privato e delle condizioni nelle quali soggettività imprenditoriali possano mobilitare, ognuno per sé e decentrato, le conoscenze ed esercitare la propria libertà (negativa). Un simile stato si ancora alla sovranità del consumatore e non alla democrazia del produttore (p.281).

Il neoliberalismo, in tutte le sue correnti, non è, dunque, un movimento di deregolazione e non è una ritirata dello Stato, ma l’avvio di un nuovo impegno politico e disciplinare. Affida allo Stato il ruolo di guardiano, vigile ed attento, delle regole giuridiche, monetarie e comportamentali. Da questa fondamentale decisione derivano tutti i costrutti teorici anche della scuola americana: la teoria delle anticipazioni razionali (p.317); la teoria del tasso di disoccupazione naturale (p.318); il postulato di soggetti sempre calcolatori e sempre razionali (p.321); la filosofia del management (p.326).
E deriva lo sfondamento che porta, negli anni novanta[24], all’adesione della sinistra socialdemocratica ad una forma di neoliberismo che ne riprende in pieno la matrice ideologica, adattandovisi.

Ma ne derivano anche “le origini ordoliberali della costituzione europea”, come recita il capitolo 11 (p.342). La costruzione europea è il prodotto di molteplici tradizioni, ma deriva anche da una delle più vecchie strategie neoliberiste, anteriore alla diffusione dell’ideologia negli anni settanta. La costruzione del “mercato comune” europeo, sin dal trattato del 1951 e poi dal Trattato di Roma del 1957, è imperniato su strette regole rivolte a mettere al centro il principio della concorrenza. Da allora si è creata una vera e propria “costituzione economica”, non senza il contributo decisivo, nel far prevalere il diritto privato sul diritto pubblico, della Corte di Giustizia Europea[25], per come la mettono: “l’ordoliberalismo è stato il fondamento dottrinale essenziale dell’attuale costituzione europea, prima ancora che questa fosse sottoposta alla nuova razionalità mondiale” (p.344).
Questa impostazione nativa ha condizionato l’intera costruzione europea e indotto una continua concorrenza anche tra legislatori e tra sistemi. La concorrenza tra nazioni non è, dunque, un effetto non voluto di uno schema rivolto alla cooperazione, ma un elemento necessariamente strutturale di un meccanismo ed una logica che intende mobilitare le energie e scoprire le informazioni rilevanti solo attraverso tale metodo.

La governance neoliberale[26] sostituisce gradualmente la categoria, che considera desueta e svalutata, di sovranità democratica su un dato territorio, con la capacità di determinarsi in ‘buone prassi’ in codecisioni pubblico-privato secondo il modello di impresa che tracima in ogni direzione ed invade ampiamente anche la funzione pubblica. Un modello strettamente disciplinato dalla concorrenza come stimolatore di prestazioni, e che presume attori egoisti e razionali (in effetti creandoli).
Un esempio- chiave è la teoria della ‘public choise’, che vede Buchanan tra i suoi autori essenziali, ed il ‘modello principale-agente’. Tramite questa la concorrenza viene trascinata anche al centro dell’azione pubblica. Un testo chiave di questa influente corrente è David Osborne e Ted Gaebler “Dirigere e governare”. Una linea di pratiche che produce come effetto perverso lo spingere i servizi a concentrarsi sulla prestazione anziché sul contenuto dei compiti.
Anche in questa direzione quella che gli autori chiamano la “ristrutturazione neoliberista”, trasforma i cittadini in consumatori di servizi che pensano soltanto alla loro propria soddisfazione egoistica, e li tratta in seguito come tali “tramite procedure di sorveglianza, restrizione, penalizzazione e ‘responsabilizzazione’” (p.413).




Insomma, il neoliberalismo, fabbrica un soggetto. In un certo senso “fabbrica uomini utili, docili al lavoro, inclini al consumo, fabbrica un uomo efficiente”, e lo fa sin dall’opera seminale di Jeremy Bentham. Induce il soggetto neoliberista a lavorare per l’impresa esattamente come farebbe per se stesso.
L’ethos neoliberale è orientato alla impresa di sé, alla autorealizzazione, ed è, in effetti, qualcosa di molto vicino ad essere l’etica del nostro tempo (in particolare per alcuni ceti e strati sociali). Questo ‘managemant dell’anima’ che si ancora in una sorta di ascetica, relazionata ad un vero e proprio ordine cosmologico[27]. In questa accezione il ‘rischio’, una delle parole chiave della sociologia contemporanea[28] è insieme una dimensione esistenziale e uno stile di vita obbligato. Chi volesse sottrarsi ad esso sarebbe sottoposto allo stigma morale, ed all’espulsione stessa dall’ordine cosmologico, in un certo senso dall’umano[29].

Per Beck il capitalismo avanzato demolisce interamente la dimensione collettiva dell’esistenza, distruggendo le strutture tradizionali che lo hanno preceduto, ma anche quelle strutture che aveva creato al loro posto: le classi sociali. Dunque “si assiste ad una individualizzazione radicale per cui tutte le forme di crisi sociale sono percepite come crisi individuali, e tutte le disuguaglianze sono messe in relazione con la responsabilità individuale”[30]. Chiaramente, come dice spesso anche Bauman, in questo modo tutti i problemi sistemici sono neutralizzati come problemi politici e ricondotti a fallimenti individuali. Ne deriva un decisivo indebolimento dei quadri istituzionali e delle strutture simboliche in cui i soggetti trovavano posizione ed identità, quindi alcune specifiche e caratteristiche patologie: erosione della personalità, demoralizzazione, depressione generalizzata, desimbolizzazione (p.454-459).

Il dispositivo neoliberale di soggettivazione è dunque, per gli autori, descrivibile come ‘dispositivo prestazione/godimento’, dove la prima è misurabile e il secondo personale ed individuale. Un dispositivo che obbliga inflessibilmente i soggetti a seguire le regole del gioco, pena essere espulsi dal suo cosmo.




Tutto questo determina niente di meno che la fine della democrazia liberale e l’affermazione di una razionalità radicalmente a-democratica.

Gli autori traggono da questa spietata analisi, di grande intensità e complessità, la conclusione che la ragione-mondo neoliberale consiste nella completa estensione della razionalità commerciale a tutte le sfere dell’esistenza umana. La vena di profondo pessimismo, in linea con la postura drammaticamente diagnostica dell’opera foucoltiana[31] induce gli autori a riconoscere che la disattivazione del normativo, indotta dalla decostruzione neoliberale del ‘pubblico’, della ‘legge’ sul ‘governo’, quindi dell’universale sul particolare, è ormai andata oltre il non ritorno. Tutto, fino alle radici, è radicalmente sovvertito. Il “consumatore sovrano” della società neoliberale è ormai un individuo al quale “la società non deve niente, l’uomo imprenditore di se stesso, che si rapporta agli altri sotto la forma del rapporto di contratto con altri imprenditori di se stessi”: è Carlo Rovelli, forse non per caso un ex ‘rivoluzionario’, che afferma di non avere identità. Di non avere, cioè, più alcuna responsabilità collettiva, alcun dovere, che non sia autoassunto[32]; di essere solo compatibile con quella che Lasch chiamava “una mentalità turistica del mondo”.

Il superamento del welfarismo, che il neoliberalismo ha provocato, ben oltre la sostituzione di una gestione biopolitica delle popolazioni[33] con un’altra, è anche superamento dell’integrazione dei lavoratori nello spazio politico e quindi erosione dei diritti di cittadinanza attraverso la disattivazione delle condizioni sociali della loro concreta possibilità di rivendicazione.
È per questo che il neoliberalismo mette in questione in modo molto profondo e radicale, come ha incessantemente proposto Hayek, l’idea stessa che la democrazia possa fondarsi sulla sovranità del popolo.

Potere al popolo’, ovvero demos-krazia, è l’autentico bersaglio di questa corrosiva critica che fa cavallo di troia della critica del totalitarismo, ovvero della ‘malattia’ del novecento. Per chi, come chi scrive, continua a ritenere, ostinatamente[34], che la democrazia si basi necessariamente sulla sovranità popolare ne deriva che il neoliberalismo, come scrivono gli autori, “in quanto dottrina è, non accidentalmente ma essenzialmente, antidemocrazia” (p.475).



Questo dispositivo antidemocratico così pervasivo, però, non dipende da alcun attore, qualunque esso sia[35], esso “si impone ai soggetti stessi e produce così il proprio soggetto”.

Allora cosa? Nessuna via possibile di uscita, nessun ‘capitalismo buono’ o ritorno alle origini è possibile, magari solo qualche nuova fase di neoliberismo, o uno spostamento di equilibrio. Qualcosa che sembri cambiare tutto per non cambiare nulla.
Nessuna possibile soluzione ‘vecchio-liberale’, o ‘socialdemocratica’, è possibile ed all’altezza per gli autori, allora “la sola questione che valga la pena è se la sinistra possa o no proporre una governamentalità alternativa a quella neoliberista” (p.481). Ma una ‘governamentalità’ non si inventa, non si progetta; eppure dice Foucault, preso nella critica al sovietismo dei suoi anni, ‘bisognerà inventarla’, perché non c’è. Non c’è nell’amministrativismo e non c’è nel liberalismo radicale (anche di stampo anarchico), né c’è nell’idea di sovranità (che implica gerarchia).


La mossa che propongono gli autori, e sviluppano nei libri successivi[36], è di attraversare il neoliberalismo e uscire in un certo senso dall’altra parte. Non cercare di tornare al compromesso socialdemocratico, in qualunque quadro (nazionale o europeo), “senza realizzare che la dimensione dei problemi è cambiata, che le forze in gioco non sono più le stesse, che la globalizzazione del capitale ha distrutto dalla base un compromesso del genere”[37].
La questione, dato che il vecchio caro Tina impedisce di pensare le alternative note, è “uscire dalla razionalità neoliberista”.



E non vale né la mossa del ‘presupposto-posto’ (per usare un termine di Finelli) marxiano, per cui il soggetto alternativo è già qui, presupposto nella situazione, e va posto a partire da essa. Ma neppure la mossa simile di Negri e Hardt che postulano una “autonomia ontologica della moltitudine”, generata dalla dinamica del ‘capitalismo cognitivo’[38]. Oppure non vale l’ipotesi di Axel Honneth, con la sua analisi della ‘reificazione’[39].

Chiuso nel labirinto della sua sconfitta, strettamente scaturente dalla corrosione della sua analisi, questo pensiero esce allora con la mossa del cavallo di postulare la necessità-possibilità di costruire un nuovo soggetto che combini la soggettivazione con la resistenza al potere. Una “contro-condotta[40], come rifiuto di farsi condurre e definizione di se stessi, ovvero rifiuto di comportarsi verso sé come un’impresa e rifiuto della norma della concorrenza verso gli altri. Quindi avviare rapporti di cooperazione, inventando collettivamente nuove forme di esistenza, producendo e moltiplicando contro-condotte.

Qualcosa che nessuno progetti e che emerga, attraversando il neoliberalismo, appunto: o restando di esso prigioniero?



[1] - Si veda in primo luogo “Nascita della biopolitica”, il corso del 1978-79, circa cinque anni prima del suo ultimo corso, del 1984 sul “Coraggio della verità”. Ed alla luce della parresia, del dire-il-vero, che è ‘oggetto di quella ultimissima lezione, che si muove anche il discorso degli autori.
[2] - Una forma che si pensa come Ragione e nega, spesso aspramente, di essere cultura, ovvero ideologia.
[3] - Alcune versioni della critica marxista, del resto, illumina questo stesso punto quando ricorda che la vera posta dei conflitti distributivi degli anni settanta sia stata la questione del potere di determinare i rapporti sociali; nei conflitti nelle fabbriche (ad esempio alla Fiat) o nella rappresentanza politica.
[4] - Dardot e Laval sono degli autori che inclinano verso una soluzione libertaria dei dilemmi della modernità, tengono in alto sospetto lo Stato e non condividono con la tradizione critica francofortese (in particolare la prima) l’auspicio di riabilitare in qualche modo una natura umana vilipesa dalla razionalità strumentale del capitalismo, ma conta sull’emergere, dalla crisi di governamentalità, di contro-condotte che si costituisca da sé, lungo il filo di nuove battaglie incerte e di nuove politiche, per quanto claudicanti.
[5] - Inevitabile il rimando al grande libro di Albert Hirschman, “Le passioni e gli interessi”.
[6] - In questa stessa direzione l’insegnamento di un altro grande padre della scienza economica, ma molto meno noto come Antonio Genovesi, si veda “Il mercato e il dono”, di Luigino Bruni.
[7] - Certo, ci sarebbe anche Gianbattista Vico, che è precedente.
[8] - Adam Ferguson, in “Saggio sulla storia della società civile”, con una mossa anti-lockiana, sostiene che non avviene nessuna cessione di diritti, patto, o unione volontaria. Gli individui non fanno una società, ma vi sono dentro sin dall’inizio, sono “fin dall’inizio associati da legami stretti a monte di ogni istituzione”. I legami sono costituiti da simpatia, benevolenza, compassione, ma anche dal loro opposto, ripugnanza, rivalità e gelosia. I legami, affettivi e passionali, costituiscono il tessuto dell’esistenza della società civile nella storia, e non il legame economico. Al contrario lo scambio commerciale, in quanto legame di interesse, agisce come “principio dissociativo”, perché tende a disfare l’unione spontanea che si era formata attraverso il gioco di passioni e affetti. Ovvero “i legami di interesse tendono a dissociare coloro che i legami affettivi avevano associato”. Si mette in essere un movimento si associazione-dissociazione. La lettura di Foucault che qui è ripresa continua (“Nascita della biopolitica”, p.245) individuando la ‘società civile’ come matrice del potere politico, nel senso che “il potere si produce prima di ogni istituzione politica e di ogni codificazione giuridica” per effetto di una divisione del lavoro fondata sulla differenza dei talenti.
[9] - Adam Ferguson, “Saggio sulla storia della società civile”, 1767, p. 80.
[10] - Ferguson, cit, p. 201
[11] - Adam Smith, Citato da Maroby, “L’économie della nature”, p.90., in D&L, p.67
[12] - In Cristopher Lasch, “Il paradiso in terra”, p.49
[13] - Spencer, citato p.71
[14] - Per effetto delle terribili condizioni delle classi lavoratrici, ben descritte da Engels in “La situazione della classe operaia in Inghilterra”, 1844, e quindi delle politiche sanitarie, dell’avvio di timide politiche di welfare, e in generale del tentativo di contenere la rabbia e le conseguenze del degrado.
[15] - Cfr. Karl Polanyi “La grande trasformazione”, 1944. Gli autori criticano le conclusioni di Polanyi, attribuendo la trasformazione che segue al crollo contemporaneo del Gold Standard, della mondializzazione e dello Stato liberale, le tre ‘istituzioni’ che creavano l’illusione del libero mercato, non ad un movimento di autodifesa della società, bensì ad una trasformazione del liberalismo stesso che non coincide affatto con il laissez-faire (cfr. p.161). Diverse forme di liberalismo necessitano di diverse forme di intervento statale.
[16] - Un degrado che non solo corrisponde alla previsione di Ferguson, ma è stata individuata diagnosticamente anche dal giovane Marx, quando nel 1848 al Congresso sul libero scambio di Bruxelles (organizzato dalle lobbies industriali inglesi, dopo la battaglia per le leggi sul grano), si esprime “in ultima istanza ed in linea di principio a favore” perché, a suo parere, “quanto più rapido è questo sviluppo, tanto prima e più completamente si realizzeranno i suoi inevitabili esiti: la divisione della società in due classi, capitalisti da una parte e lavoratori salariati dall’altra; ricchezza ereditaria da una parte, povertà ereditaria dall’altra; eccesso dell’offerta rispetto alla domanda, mercati incapaci di assorbile la massa sempre crescente di prodotti industriali; un ciclo sempre ricorrente di prosperità, sovrapproduzione, crisi, panico, stagnazione cronica e graduale ripresa degli affari; segnale, quest’ultimo, non di un miglioramento duraturo, ma di una nuova, prossima sovrapproduzione e crisi. In breve, l’espansione delle forze produttive sociali è tale che le spinge a ribellarsi, quasi fossero catene intollerabili, alle istituzioni sociali all’interno delle quali esse sono state messe in movimento. Un’unica soluzione è allora possibile: una trasformazione sociale che liberi le forze produttive sociali dalle catene di un ordinamento sociale antiquato e i veri produttori, la grande massa del popolo, dalla schiavitù del salario”. Insomma, il libero scambio non è bene, ma alla fine essendo male porta il bene, dato che le sue conseguenze sono intollerabili. Per come la mette Engels quaranta anni dopo, ricordando quell’intervento: “E poiché il libero scambio è l’atmosfera naturale e normale per questa evoluzione storica, l’ambiente economico nel quale le condizioni di questa inevitabile soluzione sorgono più rapidamente – per questo, e soltanto per questo – Marx si dichiarò a favore del libero scambio”. Cfr. “Friedrich Engels, ‘dazio protettivo e libero scambio’ 1888
[17] - Come accade anche in Italia esiste anche, ed è molto forte, una opposizione liberale di destra, o conservatrice, al fascismo ed al nazismo.
[18]- Michel Foucault, “Nascita della biopolitica”, p.137.
[19] - Michel Foucault, op. cit. p. 139
[20] - Gioca in questa direzione la memoria del ruolo della Banca Centrale nel sostegno delle politiche del Reich, sia con Hitler sia prima.
[21] - Del quale abbiamo letto il dibattito parlamentare qui.
[23] - Di qui si può collegare il senso profondamente ordoliberale delle recenti e reiterate polemiche sulla libertà di scelta del corpo, e sul corpo, estese fino a giustificare la pratica dell’utero in affitto. Si veda “Nichi Vendola ed Ed Testa: circa Tobia. Dei confini del mercato”.
[24] - Gli autori citano in particolare Giddens e la “terza via”.
[25] - Si veda su questa la cruciale analisi di Scharpf “La doppia asimmetria dell’integrazione europea”.
[26] - per un esempio tardo si veda La Spina, Majone “Lo Stato regolatore”.
[27] - Che è uno dei motivi per i quali per molti è così difficile distaccarsene, è necessario letteralmente uscire da un mondo. L’ordine della ‘competizione mondiale’ è uno con la natura percepita dell’uomo, con il senso di sé, e con l’intero orizzonte di senso dell’esistenza.
[28] - Ovviamente si deve fare riferimento in primis all’opera di Beck.
[29] - E’ questo, ancora, che lavora come sottotesto di molta della indignazione morale che i contemporanei portano ai deboli e periferici, arrabbiati, spesso ineleganti, concittadini che vorrebbero sottrarsi al rischio, richiedendo protezione.
[30] - Ulrich Beck, “La società del rischio”, p.114
[31] - Soggetta alla circolarità scettica e camminante sull’orlo del nichilismo.
[32] - Si veda “Carlo Rovelli, l’identità nazionale è fake”. La sua contestazione delle identità indisponibili, ascrittive, muove inconsapevolmente a partire da un punto di vista di classe: ““Sono cresciuto all’interno di una determinata classe sociale, e condivido abitudini e preoccupazioni con le persone di questa classe in tutto il pianeta più che con i miei connazionali”. E generazionale: “Sono parte di una generazione: un inglese della mia età è molto più simile a me di un veronese dall’età diversa”. Ora, da questa prospettiva l’identità collettiva, che ammetteva con riconoscimento fisiognomico all’avvio (“La Gran Bretagna è un vecchio Paese. Il mio Paese, l’Italia, è giovane. Entrambi sono orgogliosi del loro passato. Entrambi sono contrassegnati da marcati caratteri nazionali: è facile identificare gli italiani o gli inglesi, tra la folla di un aeroporto internazionale”), si dissolve senza lasciare traccia. Ora, dal punto di vista divenuto interamente individuale, “l’identità è unica”, si tratta del risultato di un percorso biografico irripetibile. E, sempre da questo punto di vista, le comunanze di senso sono ora trasversali e attraversano i confini. E di questa, in particolare della sua frazione cosmopolita, condivide il rifiuto di qualsiasi responsabilità collettiva, di ogni dovere. Predilige, naturalmente, i diritti. Esattamente difende il diritto di chiamarsi fuori.
Tra le “preoccupazioni” della classe cosmopolita che, come scriveva Lasch, ‘ha una mentalità turistica del mondo’, c’è infatti in primo piano quella di non essere chiamata ad essere responsabile delle altre classi. Di non dover pagare le tasse per loro, di non dover sottostare a regole che servono a proteggerle dalle conseguenze del capitalismo di rapina che loro stessi, collettivamente hanno prodotto e sostengono; c’è l’incubo di doverle risarcire.
[33] - Quella che il movimento del ’68, in sintonia profonda quanto non intenzionale con la critica neoliberale, ha accusato di essere un trattamento amministrativo dei bisogni, produttore di uniformità e distruttore di autonomia e autentica coesione.
[35] - La spinta ad antropomorfizzare e individuare il grande Satana dietro all’inferno in essere porta alcuni a scegliere di volta in volta uno Stato (la Ue, gli USA) un organismo (il FMI, o l’insieme BM, Ocse, FMI), o un club, un gruppo (il Bildenberg, o altri), ma nulla di questo.
[37] - Una obiezione insieme solita e pigra, nel 2009 magari anche comprensibile, in realtà il ‘compromesso keynesiano’ nasce nello stesso quadro di finanziarizzazione, anche maggiore negli anni venti del secolo scorso, e di interconnessione, nasce come schema di governo mondiale. Casomai nasce in un contesto geopolitico, di contrapposizione di potenza diverso, ma che questi ultimi anni sembrano riproporre.
[38] - Hardt, Negri, “Impero”.
[39] - Axel Honneth, “Reificazione
[40] - Michel Foucault, “Sicurezza, territorio, popolazione”, p. 142-164.

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