Questo libro,
del 2018, conclude la cosiddetta trilogia
dell’homo faber (composta da “L’uomo
artigiano” [1] e da “Insieme”[2]), inquadrando il
modo di creare lo spazio nel quale la società si forma. Si tratta di un
discorso sulla città ‘storta e sbilenca’; abitata da emigranti che parlano
decine di lingue e contente ineguaglianze ‘accecanti’. L’ethos di Sennett, intellettuale
certamente cosmopolita, come Sassen, abitante tra due città simili e diverse
come New York e Londra, è orientato al “laboratorio
aperto”, alla libertà garantita dagli incontri, dalla imprevedibilità e
dalla differenza della grande città. Nella ricostruzione storica, e nella
narrazione, che propone, come negli altri libri, costruiti sempre per grandi
mappe e mosaici sottili, più che per sequenze lineari di concetti ordinati, il
primo momento simbolico è la teoria urbana di Cerdà,
alla metà dell’ottocento: una Barcellona che è attraversata da imponenti flussi
migratori, che non trovano sbocco e stagnano entro la città, creando enormi
problemi di salute pubblica. È la stagione degli ‘igienisti’, e di innovazioni
tecniche continue, ma anche di nuovi concetti. Cerdà prende il modello della
circolazione sanguigna, trovata da Harvey nel 1720, e l’eleva a modello della
progettazione urbana (come noto impone alla città uno schema di strade a senso
unico) e riorienta la costruzione della città.
Ma il discorso e l’attenzione alla città, sostiene Sennett,
è fatta di attenzione alla sua forma fisica (“la ville”) e di attenzione alla
urbanità della società che in essa vive (“la citè”).
Esempio di questo secondo sguardo è l’inchiesta di
Friedrich Engels “La situazione della
classe operaia in Inghilterra”[3],
ma anche grandi romanzi ottocenteschi sulla situazione della classe operaia e
delle classi borghesi come quello di Balzac “Le illusioni perdute”[4], e
Stendhal “Il rosso e il nero”. Tutti testi in cui
in modo diverso è descritto il carattere inquieto della vita urbana e della
modernità, nella quale i vecchi rapporti prestabiliti e cristallizzati sono
spazzati via, insieme ai pregiudizi. Insomma, come dice Baudelaire “la
modernità è il transitorio, il fuggitivo, il contingente”.
La “ville” è invece ancora rappresentata dai modelli e
dai tentativi di Haussmann[5] o
di Olmsted. Strutture urbane per garantire una città per tutti, valorizzazione
dell’elemento socializzante della natura e spazio della nuova borghesia sono i
temi che si intrecciano. In questa trasformazione ottocentesca irrompe la massa
urbana, ed i suoi interpreti, come Gustave Le Bon (p.68), e si manifesta il
tentativo di interpretazione monstre di Max Weber (p.75).
Nel novecento “citè” e “ville” divorziano. È da una
parte la grande riflessione sulla società urbana della “scuola di Chicago”, Robert Park, nel quale si inquadra la città
come comunità e se ne dà una definizione come prodotto della natura e della
umanità. Dall’altra la “Carta di Atene”,
del 1933, in cui la tecnologia, come per le odierne ‘smart cities’[6],
cerca di ridurre la confusione urbana ed il caos (che per gli interpreti della “citè”
è vitalità) in un nuovo ordine, necessariamente uniforme ed egualitario. Un esempio
illustre il “Plan Voisin”.
Era la corrente dominante, il cosiddetto “movimento moderno”, contro il quale si
alzò da una parte la voce di Jane Jacobs, e, dall’altra, Lewis Mumford[7]. Due
alternative diverse all’urbanesimo ufficiale e modernista: il fabiano Mumford e
l’anarchica Jacobs. Il buon vicinato e il senso di intimità, senza curarsi
molto della qualità urbana, e le ‘città giardino’ di Howard che come tessuto
cellulare da riprodurre organicamente andavano accuratamente progettate. Due diverse
interpretazioni della città aperta.
Anche attraverso questi dibattiti l’urbanesimo si
articola come disciplina a cavallo tra l’arte di costruire e quella di abitare.
Allargando lo sguardo Sennett ci presenta un modo
informale di abitare nel Nehru Place di Delhi, nel quale si impegna in una
delle sue migliori descrizioni dense assolutamente non riassumibili. Città che
crescono vorticosamente, spesso nelle quali si abita provvisoriamente, per
pochi anni, in cui si creano sempre nuove richieste. Ma anche città globali,
effetto della mondializzazione, effetti di massicci investimenti “core”[8],
per i quali “i pianificatori sono diventati gli schiavi dei progetti”.
Poi ci sono le immense città vuote, create per dare
sbocchi ai capitali ed impegnare le imprese, in Cina, le autostrade verso il
nulla, scommesse su una crescita continua che potrebbe anche non esserci
(p.126).
E l’esaltazione, in questa ubriacatura per lo sviluppo
determinato dai flussi di capitali liberi, in cerca parossistica di impiego, delle
“classi creative” di Richard Florida.
Altri temi del libro, labirintico come tutti quelli di
Sennett, sono il peso degli altri, dell’abitare con l’alieno, con il fratello,
nel ghetto o con il vicino. La capacità di mescolare le classi sociali o di creare
quelle che Robert Putnam ha chiamato le “good
fences” (recinzioni ragionevoli), diversità tollerabili perché a distanza
(p.162).
L’idea è che la città per essere sana deve essere un “sistema
aperto”, non deve impoverire l’esperienza, rifiutare i diversi, ma non deve
neppure avere una crescita convulsa, non deve inseguire semplificazioni
tecnologiche che riducano l’esperienza del luogo (e quel tanto di inaspettato
che deve esserci), non deve essere priva di attrito. Deve essere sempre riappresa,
come diceva Clifford Geertz.
Un luogo deve essere anche toccato, ascoltato,
annusato (p. 196).
Allora nella parte finale di questa ricognizione sull’abitare
e le sue strutture, si trovano cinque “forme aperte” in chiave di progettazione
urbana:
-
gli spazi sincronici,
nei quali sia possibile un uso misto dello spazio,
-
le punteggiature,
segni monumentali e segni ordinari, nei quali ci siano punti esclamativi e
virgole. Piccole scale, segni arbitrari anche disseminati, che creino punteggiature
spaziali (p. 240),
-
la porosità e le membrane,
-
gli incompleti,
gusci e forme-tipo (p. 253),
-
i multipli,
spazi ibridi e con identità molteplici, instabili e squilibrati (p. 265),
E alcuni esempi di tecnica della produzione di spazio,
anzi di coproduzione (processi di progettazione coinvolgenti con la comunità): pensare
nel contesto e praticare una progettazione adattiva.
Il senso del libro si coglie alla fine, e con esso il
legame con gli altri libri della “trilogia del fare”: membrane porose tra le
comunità, forme-tipo che variano da un luogo all’altro, “pianificazione della
semina”, sono solo escamotage. Il problema è di evitare l’enfasi sul controllo,
che è autodistruttivo. Evitare l’ordine della “Carta di Atene” o delle attuali “smart
cities”, la smania di controllare tutte le forme, di pensare tutto come funzione,
efficienza, concorrenza.
Bisogna praticare, invece, una modestia che è anche
etica: vivere tra i molti senza presumere di avere da insegnare, cercare “la
ricchezza di significati, anziché la chiarezza di significato”.
Praticare, cioè, l’etica della città aperta.
[1] - Nel libro, del 2008, l’ex allievo di Hannah Arendt
e marito di Saskia Sassen, avvia una ricognizione del sapere pratico nel quale
l’uomo, superando la distinzione tra mente e mano, trova nell’esperienza del
contatto con la materia, nel fare, una dimensione intersoggettiva e di
relazione con il reciproco riconoscimento. Il processo del fare è rivelazione,
grazie a ragione e sentimento, dell’essere umani, applicando non tanto una
tecnica, quanto una ‘maestria’, connessione tra mano e testa e di queste con la
voce. Quindi gli artigiani, per il lavoro fatto bene per se stesso e non per un
qualsivoglia risultato. Un lavoro che è fatto nel modo giusto, non strumentalmente,
non ottimizzante, non massimizzante: giusto. Come sottolinea Sennett, ad ogni
artigiano (falegname, tecnico, direttore d’orchestra) sta a cuore il lavoro ben
fatto. Qualcosa per il quale si vive. E’ questo atteggiamento, che la modernità
fa ‘esplodere’, spezzetta e divide mano e testa nel momento in cui sottopone
tutto alla competizione. Quella che Dardot e Laval, giustamente, chiamano “La
nuova ragione del mondo”, smonta quel lavoro tecnico che aveva valore
in sé nel definire insieme strutture della personalità e socialità. Il lavoro
tecnico definisce una sfera di abilità e conoscenze che trascendono le capacità
verbali dell’uomo. Che sono inafferrabili, per le quali il lungo testo di
Sennett cerca di attivare la nostra sensibilità moltiplicando gli esempi e i
racconti. Come dice: “l’azione, soprattutto il lavoro di buona qualità, non ha
luogo in un vuoto sociale o emotivo; il desiderio di fare bene una cosa è un
test decisivo per la nostra identità, una prestazione personale inadeguata
ferisce in maniera diversa rispetto alla ineguaglianze dovute alla posizione
sociale ereditata o alla esteriorità della ricchezza: riguardo quel che siamo –
va bene agire, ma perseguire attivamente un lavoro ben fatto e scoprire che non
siamo capaci di compierlo corrode il nostro senso di sé” (p.99). Prendere
più seriamente il lavoro è una delle strade per essere liberi.
[2] - In questo libro, del 2012, mette sotto attenzione
la capacità di collaborare, e quindi anche la capacità di gestire le differenze
irriducibili. Siamo impediti dall’esplosione delle ineguaglianze e dall’effetto
silos, creato da organizzazioni moderne che sono disegnate per separare, per
impedire la coesione (e quindi la sua minaccia), e che creano compartimenti
stagni, separazione funzionale, frequente movimento. Lavoro spezzettato, a breve
termine, senza carriera. Gli avversari della capacità di lavorare insieme sono
il capitalismo manageriale e competitivo e la sinistra politica. Ricostruendo l’evoluzione
di questa trasformazione, anche in questo secondo libro Sennett individua
quella profonda trasformazione delle norme sociali secondo la quale non è più
disapprovato lo sguardo a breve termine, la speculazione, la ricerca del
profitto immediato. Oggi un giovane laureato può aspettarsi, nella sua vita
lavorativa, di cambiare almeno dodici volte il lavoro e tre volte la tipologia
di competenze utilizzate. Dunque oggi “nessuno è insostituibile”, ma “gli
uffici sono vuoti” (di relazioni). In certo senso, il modello è diventato il
“consulente”, con abilità portatili e attaccamento passeggero. La stabilità
diventa quasi un marchio di disonore; ci si aspetta che una persona “dinamica”
cambi lavoro ogni pochi anni. Insomma, per come la mette Sennett, “il tempo
agisce come un acido corrosivo, che intacca l’autorità, la fiducia e la
collaborazione” (p.182). Ci sono due avversari che sono nominati: uno esterno,
la forma della ragione capitalista; un altro interno, la “sinistra politica”,
verso la quale spende una parte del libro che parteggia per la cosiddetta “sinistra
sociale” (Owen, Kropotkin) e le cui strade fa dividere al principio del novecento.
[4] - Romanzo del 1843, nel quale Balzac descrive un
giovane della provincia che si trasferisce a Parigi, dove perde sia l’integrità
morale sia la fortuna.
[7] - Si veda, ad esempio, “Tecnica e cultura”, 1934
[8] - Oggetto di molte analisi ed interessanti di sua
moglie Saskia Sassen. Si veda ad esempio “Londra
si autodistrugge”
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