Nella Prima
Parte di questo post è stata
richiamata la posizione originaria di Andre Gunder Frank, connessa con la
“Scuola del sottosviluppo” ed il suo famoso costrutto teorico dello “sviluppo
del sottosviluppo”, e per farlo è stata richiamata molto brevemente
l’esperienza cilena, cruciale nella storia dell’America latina e non solo. Dopo
gli anni settanta, molto gradualmente, Frank passa da una critica del
“socialismo reale”, che comporta duri scontri con le organizzazioni comuniste,
e si avvicina ad una evoluzione della “scuola”, messa a punto da Immanuel
Wallerstein e altri. In questa fase nasce la “Gang dei quattro”: Immanuel
Wallerstein, Giovanni Arrighi, Samir Amin e Andre Gunder Frank.
La “Scuola del sistema mondo” allarga l’unità d’analisi alle
relazioni complessive del centro propulsivo (che è interpretato comunque come
capitalista) e il resto del mondo, ma viene letto come movimento espansivo. Un
centro capace di sviluppo endogeno, estende il dominio a periferie, o
semi-periferie, dominate/associate. Insieme all’implicito eurocentrismo sono
valorizzati i concetti connessi di modernità e discontinuità (quindi di
sviluppo e progresso).
Sarà questo il punto di attacco di Frank.
La svolta: oltre il sistema-mondo e l’eurocentrismo
Gunder Frank introduce in questa dinamica analitica
una vera e propria rottura con il libro “ReOrient”, nel quale sostiene che in
effetti il “sistema mondo” era già operativo da seimila anni; con cicli di
sviluppo e di crisi che si propagano all’intero pianeta, ed accumulazione di
capitale come principio organizzatore di leadership egemoniche che avvicendano
‘centri’ e ‘periferie’. L’attacco è particolarmente pesante, e parte
dall’accusa di inconsapevole eurocentrismo, dissolvendo completamente la
specificità presunta della civiltà occidentale come forma capace di estendersi
ed incorporare, dominandolo, il mondo. Frank rifiuta in radice lo sforzo di
buona parte delle scienze storiche di individuare un punto, od un criterio, di
demarcazione per spiegare l’eccezionalismo europeo. Prediligendo la continuità
e dissolvendo le differenze, interpretate come travestimenti del senso di
superiorità occidentale, e della sua falsa coscienza, fa radicalmente venire
meno l’idea, sulla quale si forma buona parte della cultura critica occidentale
(almeno a partire dall’illuminismo), che esista un solo sviluppo possibile. Una
idea che innerva profondamente le scienze economiche.
In risposta, nel 1999, un numero monografico della rivista “Review”, del Ferdinand Braudel Center, segna la rottura con i compagni della “scuola del sistema mondo”: viene consumata in tre articoli rispettivamente di Samir Amin[1], Giovanni Arrighi[2] e Immanuel Wallerstein[3]. A questo attacco Gunder Frank risponde nel 2000 con “Response to gang of 3 ReOrient Reviews”[4], nel quale a sua volta accusa da una parte Samir Amin di essere “un disco rotto” sul capitalismo e quindi, in effetti, di parlare di altro rispetto al libro. Wallerstein, di essere ‘subdolo, intelligente e malizioso’, e dichiarando di non essere quel che lui bersaglia, lamenta l’uso da parte dell’avversario del massimo colpo basso possibile: rinfacciargli il dottorato a Chicago e quindi dargli del “monetarista” (magari inconsapevole). Quindi entra nel merito, ricordando anche interessanti discussioni del 1991 nel quale l’oggetto era l’utilità del costrutto analitico di “modo di produzione” e la proposta di Gunder Frank, come ricorda, di “scartarlo del tutto”. Ad Arrighi, invece, che obietta un’insufficiente base empirica (ad esempio la deduzione di crescita produttiva, ignota, dalla crescita della popolazione, nota), risponde che mentre questa si può migliorare, magari insieme, resta il fatto che “le prove storiche del mondo reale minano l’eurocentrismo e sfortunatamente per i miei tre critici anche l’ideologia del capitalismo europeo” (la sua risposta merita su questo punto di essere letta[5] direttamente). Quindi risponde all’accusa di aver ignorato il potere politico-militare, riconoscendo che in effetti questa è una divergenza nella sua proposta teorica da quella dell’amico; per Frank non è il politico-militare a influenzare l’economico, ma casomai il contrario (anche questo punto merita di essere letto[6] direttamente).
Insomma, come riconosce nella sua replica, la linea di
fondo delle critiche è il capitalismo;
per Gunder Frank esso è, come concetto teorico e come ideologia, incoerente con
la realtà storica mondiale: il capitalismo non esiste o tutto è sempre stato
capitalismo. Secondo lui questa ipotesi minaccia “intellettualmente ed anche
personalmente” a tal punto i vecchi amici che questi ricorrono a tutte le
distorsioni retoriche e si impediscono, dice, di vedere che bisogna
“confrontarsi con la realtà e affrontare il problema posto dalla storia del
mondo reale”, e che “dolorosamente
abbiamo bisogno di una nuova partenza per RiOrientarci”.
La profondità di questo “Ri-Orientamento”, al passaggio del millennio, nel contesto di un
mondialismo trionfante, appare evidentemente ad Arrighi, Amin e Wallerstein come
abbandono di un campo di battaglia e la frattura non sarà mai più ricucita.
Nelle bibliografie dei libri della “Scuola” il nome di Andre Gunder Frank
scompare. Unica eccezione che conosco, la bibliografia ragionata di Immanuel
Wallerstein, in “Comprendere il Mondo”,
del 2004, in cui insieme a Janet Abu-Lughod, Samir Amin, Giovanni Arrighi,
Chris Chase-Dunn, Arghiri Emmanuel, Therence Hopkins, Peter Taylor c’è Andre
Gunder Frank che viene però diviso in un “primo” ed un “secondo”, dopo “ReOrient” che “ha provocato un radicale revisionismo, in virtù del quale Frank
sostiene che sia esistito un solo sistema mondiale della durata di cinquemila
anni, il cui centro è stato perlopiù costituito dalla Cina, e che quello di
capitalismo non sia un concetto significativo”.
Mi sono soffermato, forse troppo, su questo passaggio
storico, per mostrare, prima di affrontare direttamente il densissimo testo di
Andre Gunder Frank di cinque anni successivo, come la rottura con i vecchi
compagni della “Scuola del sistema mondo” sia davvero profonda, e sia stata
vissuta da loro come una vera e propria defezione. L’abbandono di concetti
centrali come “capitale”, “modo di produzione”, ovvero di una prospettiva anche
vagamente marxista, fa il paio con la vera divergenza con Arrighi: la centralità o meno dell’economico nel
determinare gli assetti del mondo. L’accusa che viene da tutti e tre, e che
solo in parte Frank accetta (distinguendo però tra ‘mercato’ e ideologia
liberale[7]), è
che si tratta di una ritirata recuperante
la vecchia scuola di formazione, ovvero il liberismo, nel momento in cui è in
definitiva il mercato a determinare tutto e la politica nulla. Naturalmente c’è
una importante differenza: per Frank l’economico (lo scambio, in particolare)
determina tutto, ma non crea equilibrio e tanto meno ottimale impiego dei
fattori.
Insomma, semplificando un poco, Giovanni Arrighi
sostiene che ‘Frank si unisce al coro
degli ideologi neoliberisti nel risveglio la credenza nei mercati
autoregolamentati’; per Frank, in conseguenza di questo primato, scompare in
altre parole la posta in gioco delle lotte presenti e, alla fine, come dice
invece Samir Amin, “è come se la storia fosse esclusivamente il prodotto di una
semplice legge oggettiva, determinata dal cambio di egemonie”; oppure, come
dice Wallerstein, “per uccidere il demone eurocentrico, Frank abolisce il
capitalismo”, finendo per fare una sorta di “peana dell’efficienza economica”.
Come detto la controversia è profonda e non sarà più
ricucita, del resto i protagonisti gli sopravviveranno solo poco, in
particolare Frank. In sostanza viene a mancare, insieme all’eurocentrismo,
anche la tesi che il processo di accumulazione sia il motore della storia e
ogni specificità al capitalismo, ovvero, alla fine, ogni possibilità di fondare
una teoria critica dello sviluppo.
Una cosa è certa:
la lama di Pinochet ha tagliato in profondità.
Il nuovo paradigma
Certo il RiOrientamento che Frank propone apre molte
nuove domande, ed interessanti: consente di chiedersi non come l’Europa ha
modificato il mondo, ma come il mondo ha
costruito l’Europa; consente di individuare le dinamiche storiche
congiunturali che hanno spostato gradualmente il centro di gravità mondiale e
simultaneamente determinato il declino dell’Asia e l’acquisizione da parte
dell’Europa di una posizione dominante e vantaggiosa nei commerci e di
attrazione dei capitali.
La “modernità” diventa quindi il risultato della piena
integrazione dell’Europea nel sistema mondo esistente, e non la causa della
costituzione del sistema-mondo capitalistico; diventa un evento tra gli altri, che ad un certo punto si
concluderà.
Ma il problema è che insieme alla “modernità”, viene a cadere ogni possibile mito del “progresso”, e anche che viene in questo modo riclassificata la discontinuità storica che ha dato avvio al capitalismo come una modificazione marginale (questa è l’accusa di Amin). Il sistema mondiale, e la struttura ‘centro/periferia’, sembrano piuttosto posti come invarianti della storia umana, e quindi ontologizzati; diventano fonte di trasformazione ciclica per la quale in sostanza non c’è da fare (ancora l’accusa di Amin, e in trasparenza quella di Arrighi). La storia sembra, alla fine, muoversi da sola, intorno all’economico (l’accusa di Wallerstein, e, più gentilmente, di Arrighi).
Tuttavia bisogna anche valorizzare il fatto che la
storia, anche nei termini di Frank, è ancora (e forse ancora più) lotta tra
frazioni delle classi dominanti per acquisire posizioni di vantaggio relativo,
sulla scena mondiale, e anche per “rendere possibile – e necessaria-
l’oppressione sulla classe dominata”.
Accusarlo di essere tornato a Milton Friedman è dunque troppo.
Ma è un fatto che in questo modo resta chiusa la strada dell’azione collettiva politica, dunque, lo vedremo, l’ultima speranza di Frank è nei “movimenti”; ma da studiare con il metodo della “storia orizzontale”, nella loro particolarità ma anche nelle loro relazioni reciproche, consapevoli o non, e nella loro presenza entro un movimento generalizzato, connesso con la fase (espansiva o depressiva) del sistema-mondo e del suo ciclo di sviluppo. I “movimenti sociali”, nell’accezione di Frank sono quindi connessi al tema della globalizzazione e questa alla caduta del socialismo, che è letto come parte dell’inconsapevole imperialismo culturale occidentale. La critica alla tradizione socialista, e marxista, è dunque drastica e radicale.
I “movimenti” come sbocco, dall’internazionalismo al
globalismo
Tra l’altro bisogna fare mente locale al fatto che al
tempo dell’intervento erano ancora vivaci i movimenti “no global”, che emergono all’attenzione pubblica con la Conferenza
di Seattle del 1999, ed impongono il tema dello sfruttamento da parte delle
multinazionali e della finanza, organizzandosi nel Forum Sociale Mondiale di Porto Alegre. Si tratta di un movimento altamente
plurale ed anche incoerente, che si ispira ad autori come Naomi Klein, Vandana
Shiva, Toni Negri, e che trova il suo momento più alto nella mobilitazione per
il G8 di Genova, nel 2001.
Questi movimenti, sostiene Frank, sono per loro natura soggetti a cicli di mobilitazione/smobilitazione, come si è visto bene negli anni ottanta del secolo (ma anche nel secolo XIX) e nascono anche dalla crisi del sindacato, ricondotta a molteplici motivi. Però nel 2004, quando pronuncia queste lezioni, anche i “nuovi” movimenti (pacifista, femminista, ecologista) gli appaiono in declino, per non parlare del movimento della “nuova consapevolezza”, che è per Frank quasi interamente un fenomeno di fuga dai problemi sociali.
Nella prima lezione si chiede in proposito: come si
giudica l’efficacia ed il successo di un “movimento”? Alcuni, infatti,
ottengono risultati, ma magari a scapito di altri; ad esempio “il movimento
femminista ha ottenuto qualcosa per le donne del nord, ma non ha liberato tutte
le donne dello stesso nord e, soprattutto, la maggioranza delle donne del Sud”[8].
Invece il movimento degli anni sessanta e settanta ha realizzato molto, ma non vi
aspirava; come dice, infatti: “noi volevamo cambiare il mondo”. Questo scollamento
con i risultati concreti per Frank è proprio dei movimenti, che sono difensivi,
rivendicano riconoscimento e quindi democrazia sostanziale, sono spinti alla
lotta da motivi impellenti ed incombenti, e non da ideologie.
I movimenti, vedremo alla fine, non producono azione collettiva intenzionale e razionale, non fanno piani, non sanno che cosa si deve fare, ma sanno cosa “non si deve fare”.
Nella Terza
Parte continueremo il racconto.
[1] - Vi scrivono Samir Amin, “History
Conceived as an Eternal Cycle”, che oppone la tesi che in effetti la
posizione di Frank si risolva in una debole filosofia della storia che
appiattisce le differenze e nasconde l’emergenza del nuovo. Ma forse più grave,
elimina la questione di identificare la posta in gioco nelle lotte presenti,
suggerendo una risposta meccanica: “è la fine di un ciclo, come se la storia
fosse esclusivamente il prodotto di una semplice legge oggettiva, determinata
dal cambio di egemonie”.
[2] - Giovanni Arrighi, “The
world According to Andre Gunder Frank”, è più generoso con il suo amico, e
riconosce che il tentativo di ReOrient è notevole, ma la ricostruzione nel
periodo 1400-1800 di una economia-mondo formata ad est, non riesce nel suo
scopo di “strappare da sotto i piedi” il corpo della teoria sociale
occidentale, perché è ancora influenzata in modo decisivo dalla prevalenza di
aspetti non economici (ai quali è data una eccessiva rilevanza).
[3] - Immanuel Wallerstein, “Frank
Proves the European miracles”, respinge interamente la tesi della
non-eccezionalità europea, e analizza puntigliosamente le “incongruenza,
deduzioni non supportate da argomenti” del testo. Il punto è che “per uccidere
il demone eurocentrico, Frank abolisce il capitalismo”, finendo per fare una
sorta di “peana dell’efficienza economica”.
[4] - A questo link,
[5]
- Leggiamo meglio questo
passaggio: “Detrazioni, contraddizioni e domande non
poste né risposte: Giovanni afferma, ma non mostra mai che le mie deduzioni non
reggono la verifica o addirittura non dimostra che siano contraddittorie. Ma
questo è solo perché le mie deduzioni e anche le induzioni non corrispondono al
SUO [o a quella di Samir e alla logica di Immanuel] paradigma, che è a sua
volta contraddittorio nei miei termini come gli ho dimostrato sul “Lungo ventesimo secolo” molto tempo fa
personalmente e in parte ancora in “ReORIENT”,
che sostiene che lui non può insistere sulle innovazioni finanziarie globali
nell'Europa meridionale precedente al 1500 in un'economia globale centrata
sulla Cina. Giovanni apprezza la mia tesi che l'intero globale è più della
somma e aiuta a modellare le sue parti. Ma lui mi condanna per aver
presumibilmente negato che le parti formino anche il tutto. Ma certo che la
critica è assurda; poiché il libro è pieno di casi e analisi di come parti, ad
es. La Cina e il suo commercio, le Americhe e il suo argento, Europa e il suo
commercio, e molto più piccolo geografico, settoriale e altre parti hanno
contribuito a trasformare il tutto. ‘Frank non ci dice mai qualcosa su queste
specifiche’, scrive Giovanni. Che anche questa affermazione sia assurda è
mostrato dalle 36 pagine di indice che elencano tutti i tipi di specifiche - in
un libro dedicato al tutto generale. ‘Il libro è tutto l'unità e non sulla
diversità’, ha anche accusato, non è così: il libro sottolinea l'unità - e
questo è il suo merito come riconosciuto anche da Giovanni anche se purtroppo
non da Samir e Immanuel - mostra anche come quella stessa unità genera diversità
al suo interno. Ecco perché la carica di Giovanni nella quale sostiene che ‘Frank si unisce al coro degli ideologi
neoliberisti nel risveglio la credenza nei mercati autoregolamentati’ è
così ampia come non lo è sleale. Mercato sì, ma NON il ‘credo liberale’ che
risolve i problemi del mondo attraverso l'equalizzazione. Dove Giovanni trova
questo nei miei scritti o nei nostri discorsi personali durante i 30 anni che
ci conosciamo?”
[6]
- “Giovanni crede che le istituzioni
politico-militari e il potere esercitano un'influenza di vasta portata o
addirittura determinano le relazioni economiche. Contesto questa
convinzione nel capitolo 4 in teoria e nella sua base empirica in tutto il
libro. La mia debolezza politica è quindi paralizzante solo se Giovanni ha
ragione, ed è solo una debolezza relativamente minore se ho ragione io. Ad
esempio, Giovanni afferma che non lo chiedo, e quindi non rispondo, al motivo
per il quale la Cina avrebbe dovuto avere una carenza di capitale, mentre
l'Europa un'eccedenza di capitale. Ma io chiedo proprio questo e do una
risposta, soddisfacente o no. Ovviamente la mia risposta non può soddisfare
Giovanni perché la sua risposta è in quei fattori politico-militari in cui ‘io
[GA] sospetto che qui alla fine risieda la risposta alla domanda che Frank
avrebbe dovuto chiedere ma mai fatto ... [circa] la maggiore capacità di
concentrare il capitale in eccesso da tutto il mondo nella finanza europea
mercati’. Bene, decisivo per il sospetto di Giovanni e anche per la mia
dimostrazione è mostrare come l'uso del potere politico-militare europeo in
Africa e nelle Americhe erano vitali per la capacità europea di accumulare
capitali anche dall'Asia. Ma naturalmente il capitale che si concentravano in
Europa rimaneva ancora un solo una piccola parte di tutto il capitale mondiale.
Giovanni mi accusa di non poter vedere le origini politico-militari della
rivoluzione industriale. Si. Bene, questo dipende dal fatto che la sua origine
sia o non sia lì. Se ciò significa che la formazione dello stato altamente
organizzato e del sistema interstatale all'interno dell'Europa occidentale, lo
determini [ha ragione Arrighi] ma ci sono
molte prove che non è quello a generare la rivoluzione industriale, e ci sono
anche molte prove che invece siano i fattori economici mondiali a farlo;
ReORIENT è il primo libro a esaminare questa tesi”.
[7] - Risponde infatti: “Mercato sì,
ma NON il ‘credo liberale’ che risolve i problemi del mondo attraverso
l'uniformazione”. E con una dolorosa nota personale: “Dove Giovanni trova
questo nei miei scritti o nei nostri discorsi personali durante i 30 anni che
ci conosciamo?”
[8] - Per una esplicazione abbastanza
forte di questo concetto si veda Elisabetta Teghil “Siamo
all’offensiva?”.
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