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venerdì 15 marzo 2019

Andre Gunder Frank, “Per una storia orizzontale della globalizzazione” (Parte Seconda)




Nella Prima Parte di questo post è stata richiamata la posizione originaria di Andre Gunder Frank, connessa con la “Scuola del sottosviluppo” ed il suo famoso costrutto teorico dello “sviluppo del sottosviluppo”, e per farlo è stata richiamata molto brevemente l’esperienza cilena, cruciale nella storia dell’America latina e non solo. Dopo gli anni settanta, molto gradualmente, Frank passa da una critica del “socialismo reale”, che comporta duri scontri con le organizzazioni comuniste, e si avvicina ad una evoluzione della “scuola”, messa a punto da Immanuel Wallerstein e altri. In questa fase nasce la “Gang dei quattro”: Immanuel Wallerstein, Giovanni Arrighi, Samir Amin e Andre Gunder Frank.
La “Scuola del sistema mondo” allarga l’unità d’analisi alle relazioni complessive del centro propulsivo (che è interpretato comunque come capitalista) e il resto del mondo, ma viene letto come movimento espansivo. Un centro capace di sviluppo endogeno, estende il dominio a periferie, o semi-periferie, dominate/associate. Insieme all’implicito eurocentrismo sono valorizzati i concetti connessi di modernità e discontinuità (quindi di sviluppo e progresso).
Sarà questo il punto di attacco di Frank.


La svolta: oltre il sistema-mondo e l’eurocentrismo


Gunder Frank introduce in questa dinamica analitica una vera e propria rottura con il libro “ReOrient”, nel quale sostiene che in effetti il “sistema mondo” era già operativo da seimila anni; con cicli di sviluppo e di crisi che si propagano all’intero pianeta, ed accumulazione di capitale come principio organizzatore di leadership egemoniche che avvicendano ‘centri’ e ‘periferie’. L’attacco è particolarmente pesante, e parte dall’accusa di inconsapevole eurocentrismo, dissolvendo completamente la specificità presunta della civiltà occidentale come forma capace di estendersi ed incorporare, dominandolo, il mondo. Frank rifiuta in radice lo sforzo di buona parte delle scienze storiche di individuare un punto, od un criterio, di demarcazione per spiegare l’eccezionalismo europeo. Prediligendo la continuità e dissolvendo le differenze, interpretate come travestimenti del senso di superiorità occidentale, e della sua falsa coscienza, fa radicalmente venire meno l’idea, sulla quale si forma buona parte della cultura critica occidentale (almeno a partire dall’illuminismo), che esista un solo sviluppo possibile. Una idea che innerva profondamente le scienze economiche.


In risposta, nel 1999, un numero monografico della rivista “Review”, del Ferdinand Braudel Center, segna la rottura con i compagni della “scuola del sistema mondo”: viene consumata in tre articoli rispettivamente di Samir Amin[1], Giovanni Arrighi[2] e Immanuel Wallerstein[3]. A questo attacco Gunder Frank risponde nel 2000 con “Response to gang of 3 ReOrient Reviews[4], nel quale a sua volta accusa da una parte Samir Amin di essere “un disco rotto” sul capitalismo e quindi, in effetti, di parlare di altro rispetto al libro. Wallerstein, di essere ‘subdolo, intelligente e malizioso’, e dichiarando di non essere quel che lui bersaglia, lamenta l’uso da parte dell’avversario del massimo colpo basso possibile: rinfacciargli il dottorato a Chicago e quindi dargli del “monetarista” (magari inconsapevole). Quindi entra nel merito, ricordando anche interessanti discussioni del 1991 nel quale l’oggetto era l’utilità del costrutto analitico di “modo di produzione” e la proposta di Gunder Frank, come ricorda, di “scartarlo del tutto”. Ad Arrighi, invece, che obietta un’insufficiente base empirica (ad esempio la deduzione di crescita produttiva, ignota, dalla crescita della popolazione, nota), risponde che mentre questa si può migliorare, magari insieme, resta il fatto che “le prove storiche del mondo reale minano l’eurocentrismo e sfortunatamente per i miei tre critici anche l’ideologia del capitalismo europeo” (la sua risposta merita su questo punto di essere letta[5] direttamente). Quindi risponde all’accusa di aver ignorato il potere politico-militare, riconoscendo che in effetti questa è una divergenza nella sua proposta teorica da quella dell’amico; per Frank non è il politico-militare a influenzare l’economico, ma casomai il contrario (anche questo punto merita di essere letto[6] direttamente).
Insomma, come riconosce nella sua replica, la linea di fondo delle critiche è il capitalismo; per Gunder Frank esso è, come concetto teorico e come ideologia, incoerente con la realtà storica mondiale: il capitalismo non esiste o tutto è sempre stato capitalismo. Secondo lui questa ipotesi minaccia “intellettualmente ed anche personalmente” a tal punto i vecchi amici che questi ricorrono a tutte le distorsioni retoriche e si impediscono, dice, di vedere che bisogna “confrontarsi con la realtà e affrontare il problema posto dalla storia del mondo reale”, e che “dolorosamente abbiamo bisogno di una nuova partenza per RiOrientarci”.

La profondità di questo “Ri-Orientamento”, al passaggio del millennio, nel contesto di un mondialismo trionfante, appare evidentemente ad Arrighi, Amin e Wallerstein come abbandono di un campo di battaglia e la frattura non sarà mai più ricucita. Nelle bibliografie dei libri della “Scuola” il nome di Andre Gunder Frank scompare. Unica eccezione che conosco, la bibliografia ragionata di Immanuel Wallerstein, in “Comprendere il Mondo”, del 2004, in cui insieme a Janet Abu-Lughod, Samir Amin, Giovanni Arrighi, Chris Chase-Dunn, Arghiri Emmanuel, Therence Hopkins, Peter Taylor c’è Andre Gunder Frank che viene però diviso in un “primo” ed un “secondo”, dopo “ReOrient” che “ha provocato un radicale revisionismo, in virtù del quale Frank sostiene che sia esistito un solo sistema mondiale della durata di cinquemila anni, il cui centro è stato perlopiù costituito dalla Cina, e che quello di capitalismo non sia un concetto significativo”.


Mi sono soffermato, forse troppo, su questo passaggio storico, per mostrare, prima di affrontare direttamente il densissimo testo di Andre Gunder Frank di cinque anni successivo, come la rottura con i vecchi compagni della “Scuola del sistema mondo” sia davvero profonda, e sia stata vissuta da loro come una vera e propria defezione. L’abbandono di concetti centrali come “capitale”, “modo di produzione”, ovvero di una prospettiva anche vagamente marxista, fa il paio con la vera divergenza con Arrighi: la centralità o meno dell’economico nel determinare gli assetti del mondo. L’accusa che viene da tutti e tre, e che solo in parte Frank accetta (distinguendo però tra ‘mercato’ e ideologia liberale[7]), è che si tratta di una ritirata recuperante la vecchia scuola di formazione, ovvero il liberismo, nel momento in cui è in definitiva il mercato a determinare tutto e la politica nulla. Naturalmente c’è una importante differenza: per Frank l’economico (lo scambio, in particolare) determina tutto, ma non crea equilibrio e tanto meno ottimale impiego dei fattori.

Insomma, semplificando un poco, Giovanni Arrighi sostiene che ‘Frank si unisce al coro degli ideologi neoliberisti nel risveglio la credenza nei mercati autoregolamentati’; per Frank, in conseguenza di questo primato, scompare in altre parole la posta in gioco delle lotte presenti e, alla fine, come dice invece Samir Amin, “è come se la storia fosse esclusivamente il prodotto di una semplice legge oggettiva, determinata dal cambio di egemonie”; oppure, come dice Wallerstein, “per uccidere il demone eurocentrico, Frank abolisce il capitalismo”, finendo per fare una sorta di “peana dell’efficienza economica”.


Come detto la controversia è profonda e non sarà più ricucita, del resto i protagonisti gli sopravviveranno solo poco, in particolare Frank. In sostanza viene a mancare, insieme all’eurocentrismo, anche la tesi che il processo di accumulazione sia il motore della storia e ogni specificità al capitalismo, ovvero, alla fine, ogni possibilità di fondare una teoria critica dello sviluppo.

Una cosa è certa: la lama di Pinochet ha tagliato in profondità.


Il nuovo paradigma


Certo il RiOrientamento che Frank propone apre molte nuove domande, ed interessanti: consente di chiedersi non come l’Europa ha modificato il mondo, ma come il mondo ha costruito l’Europa; consente di individuare le dinamiche storiche congiunturali che hanno spostato gradualmente il centro di gravità mondiale e simultaneamente determinato il declino dell’Asia e l’acquisizione da parte dell’Europa di una posizione dominante e vantaggiosa nei commerci e di attrazione dei capitali.
La “modernità” diventa quindi il risultato della piena integrazione dell’Europea nel sistema mondo esistente, e non la causa della costituzione del sistema-mondo capitalistico; diventa un evento tra gli altri, che ad un certo punto si concluderà.


Ma il problema è che insieme alla “modernità”, viene a cadere ogni possibile mito del “progresso”, e anche che viene in questo modo riclassificata la discontinuità storica che ha dato avvio al capitalismo come una modificazione marginale (questa è l’accusa di Amin). Il sistema mondiale, e la struttura ‘centro/periferia’, sembrano piuttosto posti come invarianti della storia umana, e quindi ontologizzati; diventano fonte di trasformazione ciclica per la quale in sostanza non c’è da fare (ancora l’accusa di Amin, e in trasparenza quella di Arrighi). La storia sembra, alla fine, muoversi da sola, intorno all’economico (l’accusa di Wallerstein, e, più gentilmente, di Arrighi).
Tuttavia bisogna anche valorizzare il fatto che la storia, anche nei termini di Frank, è ancora (e forse ancora più) lotta tra frazioni delle classi dominanti per acquisire posizioni di vantaggio relativo, sulla scena mondiale, e anche per “rendere possibile – e necessaria- l’oppressione sulla classe dominata”.

Accusarlo di essere tornato a Milton Friedman è dunque troppo.

Ma è un fatto che in questo modo resta chiusa la strada dell’azione collettiva politica, dunque, lo vedremo, l’ultima speranza di Frank è nei “movimenti”; ma da studiare con il metodo della “storia orizzontale”, nella loro particolarità ma anche nelle loro relazioni reciproche, consapevoli o non, e nella loro presenza entro un movimento generalizzato, connesso con la fase (espansiva o depressiva) del sistema-mondo e del suo ciclo di sviluppo. I “movimenti sociali”, nell’accezione di Frank sono quindi connessi al tema della globalizzazione e questa alla caduta del socialismo, che è letto come parte dell’inconsapevole imperialismo culturale occidentale. La critica alla tradizione socialista, e marxista, è dunque drastica e radicale.

I “movimenti” come sbocco, dall’internazionalismo al globalismo

Tra l’altro bisogna fare mente locale al fatto che al tempo dell’intervento erano ancora vivaci i movimenti “no global”, che emergono all’attenzione pubblica con la Conferenza di Seattle del 1999, ed impongono il tema dello sfruttamento da parte delle multinazionali e della finanza, organizzandosi nel Forum Sociale Mondiale di Porto Alegre. Si tratta di un movimento altamente plurale ed anche incoerente, che si ispira ad autori come Naomi Klein, Vandana Shiva, Toni Negri, e che trova il suo momento più alto nella mobilitazione per il G8 di Genova, nel 2001.


Questi movimenti, sostiene Frank, sono per loro natura soggetti a cicli di mobilitazione/smobilitazione, come si è visto bene negli anni ottanta del secolo (ma anche nel secolo XIX) e nascono anche dalla crisi del sindacato, ricondotta a molteplici motivi. Però nel 2004, quando pronuncia queste lezioni, anche i “nuovi” movimenti (pacifista, femminista, ecologista) gli appaiono in declino, per non parlare del movimento della “nuova consapevolezza”, che è per Frank quasi interamente un fenomeno di fuga dai problemi sociali.

Nella prima lezione si chiede in proposito: come si giudica l’efficacia ed il successo di un “movimento”? Alcuni, infatti, ottengono risultati, ma magari a scapito di altri; ad esempio “il movimento femminista ha ottenuto qualcosa per le donne del nord, ma non ha liberato tutte le donne dello stesso nord e, soprattutto, la maggioranza delle donne del Sud”[8]. Invece il movimento degli anni sessanta e settanta ha realizzato molto, ma non vi aspirava; come dice, infatti: “noi volevamo cambiare il mondo”. Questo scollamento con i risultati concreti per Frank è proprio dei movimenti, che sono difensivi, rivendicano riconoscimento e quindi democrazia sostanziale, sono spinti alla lotta da motivi impellenti ed incombenti, e non da ideologie.

I movimenti, vedremo alla fine, non producono azione collettiva intenzionale e razionale, non fanno piani, non sanno che cosa si deve fare, ma sanno cosa “non si deve fare”.


Nella Terza Parte continueremo il racconto.




[1] - Vi scrivono Samir Amin, “History Conceived as an Eternal Cycle”, che oppone la tesi che in effetti la posizione di Frank si risolva in una debole filosofia della storia che appiattisce le differenze e nasconde l’emergenza del nuovo. Ma forse più grave, elimina la questione di identificare la posta in gioco nelle lotte presenti, suggerendo una risposta meccanica: “è la fine di un ciclo, come se la storia fosse esclusivamente il prodotto di una semplice legge oggettiva, determinata dal cambio di egemonie”.
[2] - Giovanni Arrighi, “The world According to Andre Gunder Frank”, è più generoso con il suo amico, e riconosce che il tentativo di ReOrient è notevole, ma la ricostruzione nel periodo 1400-1800 di una economia-mondo formata ad est, non riesce nel suo scopo di “strappare da sotto i piedi” il corpo della teoria sociale occidentale, perché è ancora influenzata in modo decisivo dalla prevalenza di aspetti non economici (ai quali è data una eccessiva rilevanza).
[3] - Immanuel Wallerstein, “Frank Proves the European miracles”, respinge interamente la tesi della non-eccezionalità europea, e analizza puntigliosamente le “incongruenza, deduzioni non supportate da argomenti” del testo. Il punto è che “per uccidere il demone eurocentrico, Frank abolisce il capitalismo”, finendo per fare una sorta di “peana dell’efficienza economica”.
[5] - Leggiamo meglio questo passaggio: “Detrazioni, contraddizioni e domande non poste né risposte: Giovanni afferma, ma non mostra mai che le mie deduzioni non reggono la verifica o addirittura non dimostra che siano contraddittorie. Ma questo è solo perché le mie deduzioni e anche le induzioni non corrispondono al SUO [o a quella di Samir e alla logica di Immanuel] paradigma, che è a sua volta contraddittorio nei miei termini come gli ho dimostrato sul “Lungo ventesimo secolo” molto tempo fa personalmente e in parte ancora in “ReORIENT”, che sostiene che lui non può insistere sulle innovazioni finanziarie globali nell'Europa meridionale precedente al 1500 in un'economia globale centrata sulla Cina. Giovanni apprezza la mia tesi che l'intero globale è più della somma e aiuta a modellare le sue parti. Ma lui mi condanna per aver presumibilmente negato che le parti formino anche il tutto. Ma certo che la critica è assurda; poiché il libro è pieno di casi e analisi di come parti, ad es. La Cina e il suo commercio, le Americhe e il suo argento, Europa e il suo commercio, e molto più piccolo geografico, settoriale e altre parti hanno contribuito a trasformare il tutto. ‘Frank non ci dice mai qualcosa su queste specifiche’, scrive Giovanni. Che anche questa affermazione sia assurda è mostrato dalle 36 pagine di indice che elencano tutti i tipi di specifiche - in un libro dedicato al tutto generale. ‘Il libro è tutto l'unità e non sulla diversità’, ha anche accusato, non è così: il libro sottolinea l'unità - e questo è il suo merito come riconosciuto anche da Giovanni anche se purtroppo non da Samir e Immanuel - mostra anche come quella stessa unità genera diversità al suo interno. Ecco perché la carica di Giovanni nella quale sostiene che ‘Frank si unisce al coro degli ideologi neoliberisti nel risveglio la credenza nei mercati autoregolamentati’ è così ampia come non lo è sleale. Mercato sì, ma NON il ‘credo liberale’ che risolve i problemi del mondo attraverso l'equalizzazione. Dove Giovanni trova questo nei miei scritti o nei nostri discorsi personali durante i 30 anni che ci conosciamo?”
[6] - Giovanni crede che le istituzioni politico-militari e il potere esercitano un'influenza di vasta portata o addirittura determinano le relazioni economiche. Contesto questa convinzione nel capitolo 4 in teoria e nella sua base empirica in tutto il libro. La mia debolezza politica è quindi paralizzante solo se Giovanni ha ragione, ed è solo una debolezza relativamente minore se ho ragione io. Ad esempio, Giovanni afferma che non lo chiedo, e quindi non rispondo, al motivo per il quale la Cina avrebbe dovuto avere una carenza di capitale, mentre l'Europa un'eccedenza di capitale. Ma io chiedo proprio questo e do una risposta, soddisfacente o no. Ovviamente la mia risposta non può soddisfare Giovanni perché la sua risposta è in quei fattori politico-militari in cui ‘io [GA] sospetto che qui alla fine risieda la risposta alla domanda che Frank avrebbe dovuto chiedere ma mai fatto ... [circa] la maggiore capacità di concentrare il capitale in eccesso da tutto il mondo nella finanza europea mercati’. Bene, decisivo per il sospetto di Giovanni e anche per la mia dimostrazione è mostrare come l'uso del potere politico-militare europeo in Africa e nelle Americhe erano vitali per la capacità europea di accumulare capitali anche dall'Asia. Ma naturalmente il capitale che si concentravano in Europa rimaneva ancora un solo una piccola parte di tutto il capitale mondiale. Giovanni mi accusa di non poter vedere le origini politico-militari della rivoluzione industriale. Si. Bene, questo dipende dal fatto che la sua origine sia o non sia lì. Se ciò significa che la formazione dello stato altamente organizzato e del sistema interstatale all'interno dell'Europa occidentale, lo determini [ha ragione Arrighi] ma ci sono molte prove che non è quello a generare la rivoluzione industriale, e ci sono anche molte prove che invece siano i fattori economici mondiali a farlo; ReORIENT è il primo libro a esaminare questa tesi”.
[7] - Risponde infatti: “Mercato sì, ma NON il ‘credo liberale’ che risolve i problemi del mondo attraverso l'uniformazione”. E con una dolorosa nota personale: “Dove Giovanni trova questo nei miei scritti o nei nostri discorsi personali durante i 30 anni che ci conosciamo?”
[8] - Per una esplicazione abbastanza forte di questo concetto si veda Elisabetta Teghil “Siamo all’offensiva?”.

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