Nella Seconda
Parte del post, dopo aver introdotto nella Prima
Parte la posizione di Andre Gunder Frank negli anni sessanta e settanta,
quando era uno dei principali teorici della “Scuola del sottosviluppo”, e aveva coniato la teoria dello “Sviluppo
del sottosviluppo”, e aver descritto il passaggio alla “Scuola del sistema mondo” di Wallerstein, avevamo descritto la
svolta che matura negli anni novanta, anche se è una lenta evoluzione, e che si
definisce con il libro “ReOrient”,
che produce una drastica rottura con la “Gang
dei quattro” (Arrighi, Wallerstein, Amin, e lui).
Ora bisogna descrivere il “Sistema-mondo” nel suo
sviluppo storico per come lo concepisce, nel segno della continuità, Frank.
La "gang dei quattro" (Amin, Wallerstein, Arrighi, Frank) |
Il racconto: ricostruzione di un continuo cambiamento
Venendo alla seconda lezione, di carattere
metodologico, per Gunder Frank (in questo concordante in via di principio con
Arrighi), “il tutto deve essere concepito come qualcosa di più, e di diverso,
della somma delle sue singole parti”. Il che significa che ogni parte, ad
esempio l’Italia, è condizionata nel suo sviluppo dalla totalità, ma si
relaziona e si interconnette con altre parti. Dunque nulla può essere studiato
separatamente. Il secondo principio metodologico è l’esistenza (secondo una
vecchia tradizione analitica) di cicli di sviluppo “lunghi”, composti di fasi di
espansione e contrazione che attraversano sempre
l’intera economia mondiale e investono quindi ogni area. La storia va
dunque studiata “orizzontalmente” (i paesi nella loro relazione reciproca e
compresenza), anziché “verticalmente” (la storia di un paese nel tempo, preso
da solo).
Nelle lezioni successive l’autore procede ad
analizzare, appunto ‘orizzontalmente’, i diversi periodi, partendo dalla crisi
mondiale postbellica e dall’arresto della crescita del dopoguerra. Nel suo
racconto la crisi prende avvio nel 1965, con le recessioni in Germania e in
Usa, a partire dalle quali si registrò un declino del tasso di profitto che
portò ad un drastico calo degli investimenti. L’opinione di Frank è che si è trattato
di una crisi da sovrapproduzione che
innescò una crisi da accumulazione,
con conseguente abbassamento dei prezzi ed avvio di bolle speculative[1]. Contribuì
anche la lotta della classe operaia, che nella misura in cui riuscì ad
interferire nel processo produttivo[2],
determinò come risposta da parte del capitale l’innovazione ed automazione, o la
delocalizzazione. Ma naturalmente altrettanta importanza l’ha avuta la lotta
tra capitalisti, che è, anzi, stato il fattore più importante nella riduzione
del tasso di profitto. Questa è peraltro l’analisi di Arrighi nel “Lungo XX secolo”, come ricorda.
Naturalmente in queste analisi il problema è sempre di
capire quale sia la causa e quale l’effetto, e per Frank l’ipotesi è che non
sia la finanza, ma l’economia ‘reale’ che continua a guidare l’economia.
Più specificamente il racconto parte dall’inclusione,
malgrado la sua opinione precedente[3],
anche dei paesi socialisti nell’economia-mondo; per cui anche in Urss partì
negli anni ottanta una profonda recessione che alla fine conduce al crollo,
dato che non riesce a superarla. La ragione viene fatta risalire alla ‘lunga
durata’ e ad un ritardo storico che affonda almeno in cinque secoli,
dell’Europa orientale da quella occidentale. Una differenza che si è protratta
interamente durante l’intero arco del socialismo storico che è in definitiva il
tentativo di industrializzarsi e di svilupparsi, superando il gap con
l’occidente[4]: “i Soviet più
l’elettricità” di Lenin.
Mentre però fino agli anni sessanta sembrava che il
gap fosse stato superato, e che il mondo socialista fosse in vista del
sorpasso, nei settanta la crisi mondiale colpisce. Essa passa attraverso
quattro recessioni successive (1967, 1969-70, 1973-75, 1979-82) inframmezzate
da piccole riprese cicliche che non recuperano interamente i livelli economici precedenti.
Questa situazione induce politiche supply-side di smantellamento dello schema
keynesiano (peraltro reintrodotto come spesa militare da Reagan), ottenendo però
l’effetto non voluto di approfondire le recessioni successive perché disattivano
gli strumenti per gestire le congiunture. L’ultima crisi costringe allora,
terminata ogni arma, a drastiche politiche restrittive (fiscali e monetarie), per
ridurre ancora i costi di produzione e aumentare i profitti. Questa manovra induce
la stagnazione della domanda, e cerca di compensarla aumentando le esportazioni
(ovvero ‘rubando’ la già asfittica domanda estera). Inizia in questo modo il
programma di smantellamento del welfare state che si diceva “non più economicamente
sostenibile” da parte in particolare della sinistra (Challagan, Mitterrand,
Carter).
Ma la stessa cosa avviene anche nei paesi socialisti:
negli anni settanta i paesi del blocco abbandonano le politiche ISI (‘Industrializzazione
per Sostituzione delle Importazioni’) e cercano di avviare una strategia di ‘crescita
guidata dalle importazioni’ (di tecnologia occidentale) ed esportazioni. In
America Latina, questa idea viene imposta a forza di colpi militari (Bolivia,
Cile, Argentina), in Asia nelle Filippine, ed in Africa è introdotta da molti
paesi. Una politica disperata, che ebbe successo solo per pochi paesi, “le
poche economie del sud-est asiatico che riuscirono a penetrare i mercati
recessionari dell’Occidente, per lo più difesi da politiche protezionistiche”
(p.55). Gli altri aumentarono solo il debito estero, venendo sfruttati a tal
fine nella fase di espansione della finanza occidentale, che doveva riciclare
gli ingenti ‘eurodollari’ ed i ‘petrodollari’. Il denaro, infatti, che non
poteva più essere investito in occidente, in crisi da sovrapproduzione (o sottoconsumo),
si riversò nei paesi “in via di sviluppo”, che erano alle prese con il
fallimento delle loro politiche. La successiva svolta restrittiva fu il compito
che si assunse Volker, e fu promossa per migliorare la posizione degli Usa (indebolitasi
sotto la presidenza Nixon che aveva distrutto nel 1971 il sistema di Bretton
Woods e aveva fermato le importazioni giapponesi, provocandone la lunga
stagnazione). Il monetarismo è per Frank la risposta a questa situazione che
tende a peggiorare sempre di più. E porta il tasso di interesse dal 5-6%
improvvisamente al 20-21%, innescando una forte crisi del debito nei paesi del
terzo mondo esposti. I paesi che attraversano questa spirale del debito sono la
Polonia nel 1981, il Messico e l’Argentina nel 1982, che rispondono con manovre
di “stabilizzazione strutturale”. Ma queste politiche, a servizio del debito,
sono implementate anche dai partiti comunisti (Polonia, Ungheria, Romania,
Yugoslavia, che al termine del decennio o poco dopo subiscono un cambio di
regime per l’erosione del consenso) e da governi militari, o non, sudamericani
(Argentina, Brasile, Messico). Di fatto anche il Nicaragua, che non faceva
parte del Fmi, e non era obbligato adottò una politica di “condicionalidad sin
fondo”.
In sostanza, come dice Frank:
“il costo della
crisi, e soprattutto la recessione del 79-82, fu scaricato [da Volker che
aspirò i capitali con gli alti tassi] sui paesi dell’est e del sud. Si poneva
però un problema: fino ad ora queste aree avevano rappresentato regioni verso
cui dirigere i prestiti per sostenere la domanda nelle economie occidentali.
Ma, a causa della crisi del debito che esse attraversavano, ciò non era più
possibile. Era allora necessario trovare altre strade: fu l’America del Nord a
diventare, dal 1986, il più importante paese debitore del mondo”[5].
Ma nel frattempo la spesa militare in via di continuo
aumento, e la competizione alla quale l’Urss fu costretta su questo terreno,
costrinsero questa ultima a drenare risorse dall’industrializzazione e dai
servizi pubblici. La politica ‘keynesiana’, sia pure ‘bastarda’ e non dichiarata,
tenne nel frattempo a galla l’economia occidentale per gli anni ottanta, ma
portò Africa, America latina e paesi dell’est ad una depressione economica più
profonda di quella degli anni trenta. Contemporaneamente nel 1981 ci fu il
crollo dei prezzi di alcune materie prime di cui l’Urss era particolarmente
ricca (petrolio e oro, in particolare) e i paesi della sua area erano tutti in
grave crisi.
La bancarotta colpì per queste ragioni l’Est prima che
l’Ovest, che potevano aspirare risorse dal Giappone e dall’Europa, e che riuscì
a sostenere il “doppio deficit” americano grazie ai capitali attratti e
all’acquisto dei suoi buoni del Tesoro.
Insomma, l’Unione Sovietica non crollò per colpa di
Gorbaciov, che non aveva alternative, ma fece solo l’errore di non investire
abbastanza sull’agricoltura, perdendo il consenso di gran parte del paese, e
dunque non trovò nel momento cruciale il capitale politico sufficiente per
superare una dura fase di ristrutturazione.
Insomma, da questa analisi allargata (ed
“orizzontale”) Gunder Frank ne ricava l’opinione che “la vera ragione della
caduta dell’Unione Sovietica è il posto che questa regione occupava nel sistema
economico mondiale”.
Ne deriva anche una valutazione che ai critici della
sua ‘svolta’ (ovvero Arrighi, Amin e Wallerstein) suona, in effetti, come
friedmaniana:
“i policy makers sono
convinti di muovere il mondo, di poter determinare tutto quello che avverrà, ma
non si rendono conto che la politica non possiede questa autonomia assoluta. In
realtà, essi rispondono a circostanze storiche create da forze sovrastanti che
essi non riescono a controllare, e che non sono capaci di riconoscere come
tali. Per questo, non riescono a comprendere che, spesso, la politica che
perseguono per arginare o risolvere una crisi non fa altro che acuirla, che
essi stessi diventano strumenti del meccanismo che ha generato la crisi”
(p.61).
È chiaro che la frase poggia sul termine “autonomia assoluta”, ma poi, con una
caratteristica torsione in effetti dal sapore friedmaniano[6],
estende la conclusione definendo di passaggio il “controllo”, come una
questione tutto/niente, e arrivando a dire che la politica ha effetti
controfinalistici. Invece di combatterla la politica quindi acuisce la crisi.
E’ chiara la prescrizione implicita: lasciar
fare al mercato.
Quindi “l’implementazione di politiche economiche
anticicliche fece sì che la successiva flessione fosse peggiore di quanto
sarebbe potuta essere” (un giro di argomento del tutto classico, davvero tipico
dei contemporanei scritti del suo vecchio maestro). Gli effetti sarebbero sia
la rivoluzione all’est europeo (in effetti connesso con le politiche
‘austeriane’), sia il collasso sovietico e subito dopo la crisi dell’est
asiatico.
Ma quando i paesi dell’est caddero sotto l’area di
controllo occidentale, che aveva di suo il problema di superare la propria
crisi nascosta dall’espansione del debito e dal deficit Usa, esso distrusse la loro
capacità produttiva e li incorporò in posizione subalterna. Le strutture della
Germania dell’Est, dell’Ungheria, della Polonia e della stessa Urss, furono
acquisite e smantellate non perché non erano, ma proprio perché erano competitive[7].
Scrivendo nel 2004, a soli tre anni dal crollo
finanziario, Gunder Frank a questo punto trae la conclusione che i processi di
saccheggio in corso nei paesi dell’est, come nel sud-est asiatico (in uscita
dalla crisi del 1997), producevano la “falsa” immagine che Usa ed Europa
avevano risolto i problemi e la ‘grande moderazione’ aveva risolto la fase
depressiva. Ma la prosperità non era ottenuta dalla maggiore produttività, o
dalla politica di Clinton (“che virtualmente non ha fatto alcuna differenza”),
ma dalla posizione Usa nel mondo; ovvero dalla possibilità, tramite il dollaro,
di giovarsi della distruzione dell’Europa dell’est e del Sud-Est asiatico.
Questi flussi si scaricarono sui prezzi borsistici, dando l’illusione di un
boom, e creando anche blocchi contrapposti (Asean, Europa, Nafta).
Retrocedendo, viene nella terza lezione preso in esame
il periodo che va dalla “lunga guerra mondiale” (ovvero le due guerre) alla
Guerra Fredda, il periodo, cioè, di ascesa della potenza americana.
La crisi degli anni trenta è qui descritta utilizzando
lo schema di analisi di Kondrat’ev, simile a quello impiegato da Arrighi e in
generale dalla scuola del “sistema mondo”. Un ciclo economico “lungo”, composto
dall’avvicendarsi di periodi di crescita (aumento domanda e inflazione) e un
periodo di depressione (sovrapproduzione e crisi, deflazione), secondo periodi
di 50-60 anni. Negli anni quaranta, mentre si aspettava l’avvio di un ulteriore
ciclo di depressione, dopo la guerra, furono create a Bretton Woods delle
Istituzioni (FMI e BM) e un organismo di regolazione del commercio (ITO, poi
GATT), che di fatto furono e sono gestiti dal Dipartimento del tesoro Usa e
“utilizzati come armi nei confronti dei paesi del Terzo Mondo”.
Fino al 1970 circa si produsse una grande fase
espansiva, durante la quale crebbero la produzione, l’occupazione, il
commercio, in particolare in Europa e Giappone.
Ma prima degli anni trenta, c’era stata un’altra
profonda depressione economica, dal 1873 al 1896. Seguirono venti anni di
ripresa e poi la guerra mondiale. La posta in gioco di questo periodo di guerra
(due guerre guerreggiate con le armi, ed un intermezzo nel quale si combattè con
la finanza ed il commercio) era l’egemonia mondiale tra blocchi rivali. Al
declino della Gran Bretagna, che iniziò nel 1873, due poli di potenza tentarono
infatti di subentrare: Germania e Stati Uniti, e due leggermente inferiori,
Russia/Urss e Giappone. La guerra (tripartita) fu quindi combattuta per decidere
chi dovesse dominare.
In sostanza da una parte il Giappone voleva sfruttare
le risorse del sud est asiatico e della Cina, gli Usa quelle dell’America
Latina e la Germania quella della Europa dell’est e del sud. Come dice Frank:
“dai documenti dell’epoca emerge chiaramente il piano tedesco di realizzare
un’unione europea al servizio dell’economia tedesca” (p.73).
Riprendendo un modello che ricorrerà in tutta l’analisi,
dato che l’interconnessione è la fisiologia del mondo, quando si allenta
emergono le tensioni (il contrario della prescrizione precedente, quando
sosteneva che era separandosi che si guadagnava la possibilità dello sviluppo).
Quindi è questa fase di aspra contrapposizione, nella quale non è presente un
egemone imperiale, ad essere una fase di disintegrazione e disgregazione,
ovvero di “nazionalismo”. Una politica che si appoggia, per Frank, in
particolare sulle classi medie, sfidate dalle crisi ed a rischio di
proletarizzazione. Il “nazionalismo”, chiaramente, indebolisce anche le
politiche internazionali e si attiva un circolo che, senza essere progettato,
induce a puntare sulla produzione locale in sostituzione delle importazioni
che, in assenza di sufficienti esportazioni, non si possono neppure sostenere
per carenza di valuta. La stessa politica economica, di sostituzione delle importazioni, è in questa fase portata avanti da
tutti: dalla Unione Sovietica, dalla Germania e Italia, dagli Stati Uniti con
il New Deal[8], dal Terzo Mondo e
dall’Asia.
Alla fine sono gli Stati Uniti a collocarsi al
vertice, soprattutto per due fattori: la potenza industriale e il sacrificio
vittorioso russo.
La Guerra fredda consiglia a quel punto gli Usa di
arruolare i vecchi nemici e di lasciare che si reindustrializzassero in chiave
‘anticomunista’ (rispettivamente la Germania e il Giappone), ed a questo fine
misero in piedi un vasto sistema di “alleanza competitiva” tra le classi
dirigenti che, a ben vedere, coinvolgeva anche gli avversari. Chiaramente la Comunità Economica Europea è da leggere
in questo contesto[9].
Nella quarta
lezione si retrocede all’analisi dell’ottocento. E’ in questo periodo che nasce
il “mito della superiorità europea”. La tesi qui diventa divergente, secondo
Frank prima del XIX secolo la posizione dominante nel mondo era asiatica, il
reddito pro capite (stimato da dati discontinui e incerti) era più alto che in
occidente e quando cambia non avviene per un qualche sviluppo endogeno europeo
(ovvero per l’eccezionalità determinata dalla ‘rivoluzione industriale’), ma
per l’evoluzione del sistema mondo nel suo complesso. La trasformazione e il predominio
avverrebbe solo dopo il 1850 / 1870. Specificamente è contestata la visione
della rivoluzione industriale propagandata da testi famosi come “Il prometeo liberato”, di Landers
(1969), o di Hosbawm che vede l’Inghilterra come l’officina del mondo, ma in
realtà, sostiene Frank, fino al 1913 ogni anno, dalla fine delle guerre napoleoniche
l’Inghilterra è stata in deficit di partite commerciali, e non riuscì mai a
penetrare veramente il mercato cinese. E malgrado la distruzione dell’industria
tessile indiana, la più grande del mondo, non riuscì neppure a dominare davvero
neppure questo mercato. Ogni singola affermazione o dimensione della
superiorità occidentale (navi a vapore, mezzi di trasporto, gold standard) è smantellata
da Frank.
Certo il carattere del dominio Inglese fu fondato
soprattutto sul “libero scambio”, che viene ora imposto dagli Stati Uniti (la
cosiddetta “globalizzazione”). Il punto “è che tale sistema, essendo favorevole
all’attore più forte dal punto di vista economico è politico, viene sempre
adottato perché il più forte, nella concorrenza, tragga vantaggio rispetto ai
più deboli”. Si tratta, però, di un regime iniziato dal 1845-46 e che scompare
nel 1873, dunque dura molto poco.
Naturalmente poi c’è la potenza militare, ma anche
questa sovrastimata. L’autore cita la decisiva battaglia di Plassey (1757) che
fu combattuta con pochissimi occidentali ed armi. La conquista dell’India è una
storia lunga ed avviene per lo più grazie alle divisioni interne.
Come dice, insomma: “non si vuole con ciò negare il
colonialismo, che certamente è stata una realtà storica, ma solo confutare l’assunzione
secondo cui la Gran Bretagna riuscì ad ottenere una posizione dominante nel
campo dell’economia, della politica e della cultura grazie allo sviluppo della
sua manifattura e alla sua competitività sui mercati internazionali” (p.87).
Furono piuttosto i ‘commerci triangolari’ lo strumento
attraverso il quale la Gran Bretagna riuscì a guadagnare la centralità, tra
questi il più vitale era quello imperniato sul commercio dell’oppio indiano. La
potenza inglese nasce in questo contesto e ha a che fare con questa estrazione
di ricchezza per accumulo e reinvestimento (nelle colonie), nel quale
chiaramente l’imperialismo ha una importanza centrale. Ciò che bisogna dunque osservare
è l’insieme dei rapporti; infatti, per Frank:
“benefici e perdite possono essere qualitativamente e
quantitativamente calcolati solo allargando la prospettiva all’intero sistema
multilaterale di relazioni. Lo sviluppo, la struttura economica interna e anche
la rendita nazionale ed internazionale del capitale vanno sempre esaminati come
risultato della posizione occupata da un paese all’interno di quella totalità
che è l’economia mondo. In altre parole, non si può comprendere quello che
avviene nella parte a prescindere dalla collocazione della parte nell’intero. È
solo questo che ci può far comprendere il ruolo giocato dai paesi del ‘terzo mondo’
nello sviluppo europeo” (p.90).
Nel suo complesso (Messico per l’argento, Cina, India,
Australia, Canada) il “terzo mondo” ha nel tempo prodotto ed esportato
sistematicamente più di quello che importava; la differenza è che inizialmente
se ne avvantaggiò l’Inghilterra, poi toccò agli Usa.
Ora la tesi di “ReOrient”
(in questo in accordo anche con Arrighi) è che il mondo si sta ri-dislocando
verso oriente.
Ma questo è solo un ritorno all’assetto di potere del
mondo che ha avuto per la maggior parte del periodo storico dell’umanità. Del resto
sino al 1800 gli europei stessi erano attratti dall’oriente e lo consideravano
più avanzato in termini di civiltà, cultura, economia, politica e tecnologia. Sembrava il modello da
imitare.
È solo nella seconda metà dell’ottocento, per Frank,
che qualcosa interviene a modificare drasticamente questa percezione, e questo
avviene insieme all’estensione del colonialismo (in Asia e Africa). Qui si
trova (p.95) uno dei passaggi, ripreso dal libro del 1999, più ostico per la
sensibilità degli ex amici:
“nella storia del mondo che Karl Marx
sviluppa nel Manifesto del partito
comunista e poi nel Capitale si
attribuisce all’Europa un ruolo centrale di produzione della storia. Il vero
motore della storia, egli sostiene, è la ‘transizione dal feudalesimo al
capitalismo’, realizzato per la prima volta in Europa.
Egli rinviene, in Asia, l’esistenza di un ‘modo
di produzione asiatico’, caratterizzato da una stagnazione permanente e da un
sistema politico definito come ‘dispotismo orientale’. In una parola gli
asiatici, dall’India alla Russia, vivevano una condizione di totale immobilismo
accompagnato da quello che Marx descrive come ‘la più crudele forma di Stato’. Nella
sua formulazione, il ‘modo di produzione asiatico’ – che è un’invenzione di
Marx, dal momento che non è mai esistito nella realtà – si basava su un insieme
di villaggi sparsi che non avevano alcuna connessione reciproca: ciascun villaggio
era un mondo a se stante, senza altra storia che la propria immobilità nel
tempo. Nello stesso tempo, Marx indicava l’esistenza di un ‘dispotismo
orientale’, che traeva origine dall’esigenza, da parte dello Stato centrale, di
garantire il funzionamento del complesso sistema di irrigazione su larga scala.
Era dunque necessaria la presenza di uno Stato forte, di uno Stato dispotico. La
conclusione generale a cui Marx giunge è quella dell’impossibilità, da parte di
questo sistema, di sviluppare le forze produttive.”
Dato che solo l’Europa aveva un sistema feudale che
serbava al suo interno contraddizioni tali da farlo evolvere in senso
capitalistico, e quindi industriale, ne conseguiva la missione civilizzatrice
del continente nei confronti del resto del mondo. Si tratta in fondo dello
schema di lettura weberiano[10]
che per Frank su questo punto è coincidente, ed al quale viene aggiunta un’analisi
della ‘razionalità’ (dello ‘spirito’) del capitalismo che Weber riprende da
Sombart. Come noto la tesi weberiana è che questo ‘spirito’ a suo parere manca all’oriente.
E manca perché è radicato nell’etica protestante.
Qui Frank si limita ad un corrosivo commento: “poco
importa che non furono i protestanti, ma i cattolici italiani – Genova, Venezia,
Firenze – a dare avvio al capitalismo”. E, aggiungo, poco importa che furono i
filosofi morali italiani a definirne per primi, o tra i primissimi, il quadro
categoriale[11].
Il superamento dell’eurocentrismo
Questo eurocentrismo si consolida con i padri della
sociologia e poi gli economisti politici, antropologi, ma anche “marxisti come
Amin”, nel suo libro del 1973, quando discute di “modi di produzione”, asiatico,
feudale e tributario.
Ovviamente se si accetta questo schema ne consegue
necessariamente che le società ‘tradizionali’ si devono modernizzare (Amin in
seguito rivedrà abbastanza questo pregiudizio) e seguire il modello unico di
sviluppo, occidentale. Come viene esplicitato da Rostow[12] e
Landers.
Insomma, formulando un giudizio molto tranchant, ma
non certo infondato, “tutto questo non è altro che razzismo”.
Dunque l’eurocentrismo
va radicalmente superato. Aiutano in
questa direzione i lavori di Eduard Said, ed anche “Eurocentrismo”, di Samir Amin nel 1988, James Blaut (1993), etc.,
studi che hanno prodotto molte evidenze: l’importanza della cultura araba, e di
quella sunnita, o egiziana, la continuità dello sviluppo tecnico in Cina, in India,
etc. Altre critiche sono quelle di Ken Pomeranz, e quella dalla quale lo stesso
Gunder Frank proviene, la critica alla teoria economica classica (e neo-classica,
o keynesiana) formulata dalla “teoria
della dipendenza” e, in seguito dopo l’esaurimento di questa, dalla “scuola del sistema-mondo”. Per riassumerne
i risultati: “la teoria della dipendenza aveva dimostrato come il sottosviluppo
non fosse una condizione originaria, ‘tradizionale’, dei paesi erroneamente
chiamati del Terzo Mondo, ma una condizione storicamente prodotta nella
relazione di dipendenza fra il centro e la periferia”, invece la scuola del
sistema-mondo “allargava la prospettiva collocando la relazione centro-periferia
all’interno dell’intero ‘sistema’”.
Ma sono stati sviluppati, in “ReOrient” cinque punti di critica:
1-
L’Oriente non è stato mai come l’Occidente lo ha
rappresentato, bisogna andare molto
oltre la critica ideologica di Said e Amin, la stessa “teoria della dipendenza”
presumeva che le cause affondassero nel rapporto con il ‘centro’ posto in
occidente, e per effetto della penetrazione del capitalismo da tali centri.
2-
L’occidente non è mai stato quel che i suoi sostenitori
dicevano fosse, ma per trarne le
conseguenze bisogna modificare l’unità di analisi.
3-
La compenetrazione tra Occidente e Oriente/terzo mondo
è utile, ma non ancora sufficiente,
ci vuole un approccio più olistico.
4-
La prospettiva sistema-mondo è innovativa, ma non
sufficiente. Non è ancora del tutto
superata la visione ‘endogena’ dello sviluppo occidentale, e quindi il suo
ruolo come motore dello sviluppo mondiale. Il movimento è concepito (ad esempio
da Arrighi), come “processo attraverso cui esso si espande, qualitativamente e
quantitativamente, verso le altre regioni del mondo per ‘incorporare’
progressivamente le aree ‘esterne’ al sistema” (p.103). Poi il punto di
partenza varia a seconda delle interpretazioni (Braudel, 1300; Wallerstein,
1400; Frank, 1492, e via dicendo).
5-
È necessario sviluppare una teoria alternativa.
Prima del ‘capitalismo’
La lezione successiva tenta di superare questa
limitazione retrocedendo al periodo 1400-1800 cercando di dimostrare che prima
del ‘capitalismo’ e, ovviamente, della ‘industrializzazione’ esisteva già “una
divisione del lavoro ed una rete di commercio multilaterale” che si organizzava
in una ‘economia-mondo’ coinvolta in cicli di espansione-contrazione di circa
3-400 anni (espansioni seguite da contrazioni secolari). Cicli, che
coinvolgevano le sfere economica, politica e culturale (forse). La posizione dominante era però detenuta
dall’Asia, ed in particolare dalla Cina, e vi rimase fino al XIX secolo. Ad
un certo punto parte quella che Pomeranz (2000) chiama “la grande divergenza”.
L’Europa era attardata in uno storico disavanzo, che i
veneziani riuscirono solo a sfiorare, ma che fu colmato solo grazie all’argento
americano, che si dirigeva per lo più verso le due regioni capaci di generare
surplus (l’India e la Cina).
Frank descrive minuziosamente, in un modo che qui non
si può riportare, le fasi di espansione e di crisi che si propagano da paese a
paese, e determinano sempre effetti globali. Dunque, “la simultaneità di questi
avvenimenti mostra come sia possibile individuare fenomeni globali già in fase
storica anteriore a quella che oggi chiamiamo globalizzazione, dove sono i
computer che consentono una comunicazione istantanea” (p.114). In tutto questo
periodo, comunque, e contrariamente alla normale percezione l’Asia era non solo
più ricca, ma anche più produttiva dell’Europa, e la Cina era l’economia più
produttiva del mondo. Gli asiatici producevano, con il 66% della popolazione
mondiale, ben l’80% dell’output (stime contestate da Arrighi, come abbiamo
visto), e quindi avevano anche
istituzioni che non potevano essere così pessime[13]. Nel XVI secolo
la più grande città del mondo era Istambul (700.000 abitanti, quasi come
Pechino) mentre Parigi era sei volte inferiore. Addirittura la città africana
di Fez aveva il doppio degli abitanti di Parigi. Ed in generale la regione più
urbanizzata era il Giappone.
La superiorità occidentale si dice però che fosse
decisiva in due aree: navale e militare. Gunder Frank non è d’accordo neppure
su questa affermazione, le tecnologie militari furono sempre un inseguimento nel
quale non sempre l’occidente era davanti, e le migliori navi erano cinesi.
Persino la rivoluzione scientifica viene ridimensionata
(con argomenti sommari e complessivamente deboli) e comunque il suo impatto
concreto viene minimizzato.
Ma ad un certo punto il vantaggio dell’Asia si muta in
svantaggio per dinamiche di crescita ineguale interna, e di abbondanza di forza
lavoro disponibile, che fecero iniziare un lento, ma lungo processo di declino.
Nello stesso momento in Europa la situazione era opposta e questo stimolava l’innovazione
(quando la forza lavoro è scarsa, costa di più e questo spinge ad aumentare la
produttività). Le importazioni di cibo dalle americhe (e dell’argento) e di
cotoni dall’India consentirono di concentrare il capitale nell’infrastrutturazione
produttiva. Un caso esemplare è quello indiano, le cui risorse furono drenate dall’Inghilterra.
Il mondo antico
Retrocedendo, nel periodo dal quarto secolo a.c. al
medioevo è presente una “singolare” economia-mondo che si può “già considerare”
globale. Con queste avvertenze implicite Frank svolge una lettura per cicli
economici di sviluppo di mezzo millennio e di fasi di stagnazione di 2 o 3
secoli. Il modello prevede fasi che seguono il medesimo andamento in diverse
zone della “totalità globale” di riorganizzazione economica, sociale e politica
con l’emersione di zone egemoniche, investimenti in infrastrutture produttive e
commerciali, e quindi urbanizzazione. Con la fase di decrescita nella quale
avviene il contrario, e naturalmente disgregazioni statuali, guerre e
disorganizzazione sociale.
Nella prima fase ascendente emerge l’impero persiano
achemenide da Dario a Serse che si costituisce come “impero tributario”, e
questo si pone in stretta connessione con l’egemonia ateniese. Seguono le fasi
di espansione della ascesa di Alessando Magno e della successiva disgregazione,
letta abbastanza frettolosamente come necessità storico-economica nel flesso
tra ‘cicli’ ascendenti e discendenti[14]. Dal
I secolo al II secolo si sviluppa l’Impero Romano che viene letto “a partire
dalla totalità” che vede l’intero sistema-mondo essere organizzato da una “catena
di egemonie”. Si hanno quindi fasi di aggregazione imperiale sia in Italia, sia
nella dinastia Han in Cina, sia nell’espansione dei Parti, e lo sviluppo dei
Kushana nel nord dell’India, e infine l’impero Aksum in Africa Orientale. Tutte
aree tra le quali erano presenti (come ovvio) direttrici di commercio, e scambi
nei quali capitava che l’Impero Romano restasse costantemente in deficit con la
Cina che lungo la “via della seta” esportava su tre rotte parallele.
Nella lettura degli eventi, Gunder Frank si fa guidare
dal lascito lontano della ‘teoria delle durate’
di Ferdinand Braudel (anche se trasposta), e da un certo schematismo ideologico
che descrive in questo modo: “personalmente, non ritengo condivisibile la tesi
del primato politico. Come materialista storico, attribuisco invece una
funzione determinante al cambiamento economico, che genera poi, come effetto,
la trasformazione politica” (p.126). Una lettura che si applica abbastanza
bene, che so, alla fase di guerre civili e transizione di assetto politico tra
i due triumvirati, lo scontro tra Cesare e Pompeo e poi Ottaviano Augusto che è
la superficie di profondi movimenti sociali ed economici, ma piuttosto male
alla vicenda storica di Filippo e Alessandro.
Comunque quando in Cina declina la dinastia Han, per
un processo irresistibile di disordine economico, questo si propaga, con caduta
del commercio, declino di città nodali, all’India dei Kushana e infine arrivando
a contagiare l’Impero Romano. Il declino porta frazionamento e guerra in Cina
ed al declino con frazionamento della parte occidentale dell’impero Romano. Qui
la lezione si fa estremamente sommaria (su una fase storica che conosciamo in
grande dettaglio) ma Frank ne conclude che “il declino fu strettamente legato al
declino dei sistema egemone in eurasia”. La pressione dei barbari sulle
frontiere nord (ed est) si verificherebbe, insomma, con successo “solo perché Roma
era già indebolita” da una crisi sociale ed economica; ma anche gli stessi
barbari arrivarono ad ondate particolarmente serrate perché, come altre volte,
in Asia erano in corso eventi destabilizzanti (anche climatici). Sommario, ma
non senza qualche buona freccia all’arco, perché in effetti la caduta dell’impero
romano di occidente è un evento certamente sistemico, che si lascia interpretare
abbastanza come effetto di più onde della storia che si sommano, un declino
socio-produttivo di più lunga durata, avviato almeno da due secoli, insieme ad
una disgregazione progressiva sociale e quindi anche politica, forse culturale,
e l’urto di forze esterne, determinate da eventi lontani, alle quali normalmente
si sarebbe fatto fronte.
La fase di espansione successiva inizia dal 500 d.c. e
dura trecento anni, ma l’Europa occidentale resta comunque frammentata e viene
marginalizzata. Nel XIX secolo questa fase viene chiamata “feudalesimo” (si
tratta di una trasformazione, adattata alle condizioni economiche e politiche
del tempo di strutture sociali già attive nel tardoimpero). Protagonisti di
questa fase i Turchi, i califfati arabi, la Cina della dinastia T’ang, la cui
espansione terminò con la battaglia di Talas (751 d.c.) tra arabi e cinesi. Ricomincia
allora una fase di disgregazione ad effetto domino, che arriva fino alla fase
di espansione intorno al mille (quando l’occidente inizia ad essere nuovamente
espansivo con le ‘crociate’).
Il mondo remoto
Ma, retrocedendo, Gunder Frank arriva fino ad
identificare un “singolo sistema-mondo afro-eurasiatico”
già nel III millennio a.c., al tempo dell’impero Harappa, l’Egitto, gli Hittiti,
la Persia e la Mesopotamia. Riesce a questo attraverso un processo che chiama “logico
e metodologico” attraverso il quale, “come in un puzzle”, si deducono relazioni
ed interconnessioni da segnali di sincronia nella crescita e decrescita. Singole
vie di commercio di lunga percorrenza, ‘pulsazioni’ di crescita, commerci di
prodotti pesanti in quantità significative su singoli canali, stime sulla
percentuale di popolazione dipendente dalle importazioni (fino a un quarto), specializzazioni
territoriali dovute alle materie prime presenti, crisi ecologiche e mutamenti
climatici… tutte queste evidenze di diversa natura e solidità, conducono l’autore
a postulare l’esistenza effettiva di cicli economici estesi al mondo intero,
con effetti sovrastrutturali sulle culture e le forme politiche.
Conclusione
Rispetto alla vecchia ‘teoria della dipendenza’, ora si presume che si debba insomma partire
dalle relazioni tra parti entro una totalità mondiale e non solo tra ‘centri’ e
‘periferie’. Anche il ‘centro’, il Nord del mondo, non si è naturalmente sviluppato
endogenamente, secondo un’idea di modernizzazione verticale ed autocentrata.
Gunder Frank propone quindi di considerare ogni sviluppo sempre come effetto di
una relazione estesa a livello mondiale.
Ne consegue che “nella lotta che abbiamo fatto contro
il capitalismo e per una società socialista, combattevamo il nemico sbagliato
con gli strumenti sbagliati” (p.140).
Come a prevenire l’idea, di alcuni suoi amici, che ciò
significhi per lui aver abbandonato la lotta, aggiunge: “da queste considerazioni non si deve concludere che non bisogna combattere”.
C’è molto spirito
del tempo in questa ultima posizione
di Gunder Frank, negli ultimi cinque anni della sua vita, assunta
coraggiosamente, correndo il rischio di rompere con gli amici di sempre[15];
come dice in una intervista contenuta nel libro, il problema della vecchia
analisi non era la ‘dipendenza’, che sussiste, ma la prescrizione politica. Lo “sganciamento”,
al quale Samir Amin restò legato fino alla fine[16], “non
ebbe luogo”, “era impossibile”, e quindi “non avrebbe funzionato”. Si trattava
di una “chimera”, di “un’illusione” (viene citato un discorso di Gorbaciov del
1988).
Insomma, non ci sono alternative, e neppure, in
effetti, se ne conoscono[17].
La “dipendenza” esiste, ma non ci sono alternative.
Quindi resta solo il “sistema mondiale, la sua
struttura, i suoi cicli e la sua trasformazione”. Una prospettiva che attraversa
l’intera sua opera dagli anni sessanta, come rivendica, ma che nella fase ‘critica’
era rivolta alla liberazione, nella fase ‘descrittiva’ al massimo alla denuncia.
Quando nei primi anni settanta emergevano le prime
letture del cambio di fase del capitalismo[18],
e il governo Allende, con il Ministro Pedro Vuscovic, assunse le linee guida
della politica anti-dipendenza[19], ma
fallì. Semplicemente, dice, “non funzionò”. Certo, nel governo Allende non si
cercò mai di cambiare in profondità “le relazioni con l’economia mondiale o con
il capitalismo” (p.147), si lasciarono in essere le relazioni internazionali (e
questo determinò, nel primo anno, la
fuga di tutte le riserve di moneta denominata estera in possesso dei privati,
limitando enormemente i margini successivi d’azione).
La “morte della
dipendenza”, negli anni settanta, dopo la transizione non al socialismo, ma
al fascismo, in realtà non ci fu mai. Anche l’apertura e l’attrazione di
capitali (la moda degli anni ottanta) l’accentuò soltanto. Frank resta di
questa opinione, come della relazione della crisi di accumulazione con l’annientamento
del welfare e lo schiacciamento dei ceti subalterni.
Ma a partire dal 1976, ben prima del crollo dell’Urss,
Andre Gunder Frank si convince che il socialismo ‘reale’, sovietico e cinese, è
solo un’altra versione di capitalismo, comunque volto a sfruttare il sud, e ad
attivare lo “sviluppo del sottosviluppo” di questo. Segue in questo una vasta
opinione nei “movimenti”, e nella cultura “post-moderna”.
Ma la conclusione che trae è drastica: “il problema
era che non esisteva affatto un sistema alternativo, e pertanto sarebbe stato
impossibile dar vita ad uno sviluppo alternativo”.
Se, come dice, la trasformazione è interamente legata ai cambiamenti della
economia (facendo, con una lettura un poco scolastica del nesso ‘struttura-sovrastruttura’,
risalire tale tesi a Marx), allora bisogna solo aspettare che questa cambi. Ma se
questa è interamente sovradeterminata da relazioni internazionali globali (dal
tutto), resta solo la lotta, perché l’alternativa è la morte e perché questa è
comunque una costante, ma insufficiente[20].
Una vecchia polemica, riportata da Frank nell’intervista,
può avere anche una qualche rilevanza: da una parte c’era chi sosteneva che
tutto deriva dalla struttura e dalla lotta di classe, dall’altra la sua
opinione è che:
“la struttura di classe, la natura e la politica della
lotta di classe derivano dalla posizione particolare che l’economia di un paese
occupa all’interno del sistema economico mondiale, oltre che dal tipo di partecipazione
dell’economia (se legata direttamente ai capitali stranieri o alla borghesia
nazionale o alla piccola borghesia). Ciò che è determinante è la posizione
assunta dall’economia di un paese nel sistema mondiale, posizione che poteva
cambiare in base all’esaurimento di alcune materie prime e alla variazione
(qualitativa o quantitativa) della domanda di materie prime”.
Insomma, come
dice al termine, Gunder Frank ha “cambiato la posizione”, e per questo è stato “scomunicato
dalla ‘chiesa’”. La scomunica nasce da un semplice fatto: mentre autori come
Samir Amin restarono sempre interessati ad identificare discontinuità e
differenze, Frank si convinse che c’erano, invece, solo continuità.
L’eterno ritorno dell’uguale.
[1] - “Il funzionamento generale del
meccanismo della crisi è il seguente. Le aziende innovatrici, introducendo
nuova tecnologia, riescono a tagliare i costi del capitale fisso obsoleto. Ma
ciò determina una sovra-capacità produttiva e quindi una sovrapproduzione, vale
a dire un volume di produzione eccessivo rispetto alla possibilità di
assorbimento del mercato. Di qui un abbassamento dei prezzi e, come
conseguenza, la diminuzione del tasso di profitto. Questo processo, a sua
volta, ha come effetto quello di ridurre gli investimenti e di provocare, nel
settore monetario, quella che si chiama bolla speculativa” (P.46).
[3] - Nei suoi libri degli anni sessanta
che abbiamo letto, nei quali i paesi socialisti erano individuati come
contro-sistema.
[4] - Si veda Domenido Losurdo, “Il
marxismo occidentale”, 2017.
[5] - E’ quello che Varoufakis, con
bella immagine, chiama l’inversione de “il Minotauro mondiale”, si veda Yanis
Varoufakis, “Il
Minotauto Globale”, 2011.
[6] - Si veda Milton Friedman, “La
metodologia dell’economia positiva”, 1953, un articolo che potrebbe essere
interessante per traguardare alcuni modi in cui Frank, che si è formato negli stessi
anni ed ambienti, interpreta la “scientificità”. E Milton Friedman, “Commentando
Milton & Rose Friedman, ‘Liberi di scegliere’”,
1980, oltre a “Capitalismo
e libertà”, 1962, chiuso appena pochi anni dopo il dottorato di Frank.
[7] - Su questo si veda Vladimiro Giacchè,
“Anchluss.
L’annessione”.
[8] - Si veda Kiran Klaus Patel, “Il
New Deal”.
[9] - E fu subito visto in questo modo
dai contemporanei, si deva “Il
Trattato di Roma”.
[10] - Ovviamente di “L’etica
protestante e lo spirito del capitalismo”, 1904. Si veda anche,
Sombart, “Il
capitalismo moderno”, 1902.
[11] - Si veda, Luigino Bruni, “Il
mercato e il dono”, e “Fondati
sul lavoro”.
[13] - Questo argomento, fondato su una
deduzione logica, è il cuore della ricostruzione, che alla fine desume potenza
produttiva ed evoluzione sociale e amministrativa dalla dimensione della
popolazione.
[14] - Una certa semplificazione e
schematismo si riconosce qui e lì, come quando afferma che “il ciclo attraversa
un momento di contrazione, per poi svilupparsi con una nuova fase espansiva.
Alessandro Magno (336-323 a.c.) riconquista l’impero persiano e una serie di
territori verso oriente, arrivando fino alla valle dell’Indo ed espandendosi
sul territorio indiano. Questo progetto politico aveva come sua finalità quella
di estendere l’egemonia sulle aree dell’est, ma ebbe fine con la sua morte (323
a.c.). Tale evento viene generalmente individuato come nodo per la scansione
storica che porta alla frammentazione politica e quindi alla successiva caduta
dell’impero di Alessandro Magno. In realtà la decadenza viene determinata dalla
fine del ciclo espansivo e l’inizio di un nuovo ciclo depressivo” (p.124). Ora,
pochi passaggi storici sono determinati dagli eventi individuali come la
traiettoria straordinaria di Alessandro, e per certi versi di suo padre
Filippo. L’unificazione della Macedonia sotto l’egemonia del principato di Pella,
e l’alleanza con l’Epiro che la rende possibile, da parte di Filippo il Grande,
il suo genio politico e militare, la straordinaria conquista della Grecia con
reiterate e difficili guerre, la sottomissione di Atene e di Tebe. L’emergere
del genio di Alessandro già in tenere età, la vittoria incredibilmente
difficile davanti alle porte di Tebe, quando una carica dei “compagni del re”,
guidata da un diciannovenne Alessandro compie l’impensabile miracolo di
sfondare e distruggere, con una carica frontale l’invincibile falange tebana.
Poi la successione, il miracolo di sopravvivergli (quasi tutti i re macedoni
sono morti di morte violenta, Filippo e forse Alessandro inclusi, e tra l’uno e
l’altro c’è quasi sempre stata guerra di successione per secoli, unica eccezione
-quasi senza spargimento di sangue- quella tra Filippo e Alessandro), la ri-sottomissione
della Grecia e delle tribù del nord, prontamente ribellate; la spedizione ad
est, preparata da Filippo e Parmenione, ma portata ben oltre gli obiettivi
dalla imprudente giovinezza di Alessandro; le battaglie difficilissime ed incerte
del Granico, nel quale arriva ad un centimetro dalla morte, Isso, Gaugamela, e
poi dell’Idaspe… tutto questo, nell’arco di dieci soli anni, letto come effetto
necessario di cicli economici ascendenti e discendenti. Il ciclo sarebbe
rimasto ascendente se un trentenne non avesse preso una coppa di veleno? Il
ciclo sarebbe rimasto discendente se Kratero avesse convinto, con le buone o le
cattive, gli altri satrapi a cedere subito il potere, come forse Alessandro
voleva? O se Alessandro non avesse aspettato l’ultimo respiro per dire
chiaramente chi doveva succedergli (e, magari, avesse fatto seguire, mentre era
ancora il re, la decisione da qualche drastica azione?)…
[15] - Nella foto, dell’agosto 2003, in
un Convegno a Rio de Janeiro, si vede che alla fine le divergenze sono aspre,
ma il rapporto resta, la “Gang dei
quattro” si presenta insieme.
[16] - Si veda, il recentissimo “La
sovranità popolare, unico antidoto alla offensiva del capitale”.
[17] - “In secondo luogo, da Marx in
poi, fino ai marxisti, neo-marxisti, semi-marxisti, dipendentisti, come li si
voglia chiamare, nessuno si pose il compito teorico e pratico di immaginare e di
spiegare quale sarebbe stata l’alternativa socialista”.
[18][18] - Frank cita un Convegno a Dakar nel 1972 ed uno alla
Fondazione Basso, nel quale venne focalizzato il problema della crescente
incorporazione del sistema socialista “reale”, nel mercato capitalista mondiale.
[19] - L’idea centrale era che
cambiando la distribuzione delle entrate si poteva cambiare, in favore di
consumi di massa, la struttura della domanda e quindi degli investimenti, per
questa via della produzione.
[20] - “Che ci siano politiche di
movimenti sociali che possano fare qualcosa è vero, come è vero che la lotta
deve sempre continuare, perché non vi è alternativa, se non quella di morire.
La lotta continua, e non solo adesso, è continuata da tempi immemorabili, però
non è stata sufficiente nell’arco della storia per cambiare l’essenza del sistema
mondiale. Ciò è vero principalmente perché nel suo corso la rivoluzione sovietica
e quella cinese non permisero realmente di uscire dal sistema” (p.150). Non a
caso il Partito Comunista cileno di Luis Corvalan lo chiamò “catastrofista,
teorico della sinistra, anarchico, provocatore, diversionista, confusionario,
divisionista, pseudo-marxista”.
Buongiorno, sono una studentessa di Scienze Storiche dell'Università di Padova che sta partecipando ad un progetto per ampliare Wiki Italia ( https://it.wikipedia.org/wiki/Progetto:Coordinamento/Universit%C3%A0/UNIPD/Digital_History_2024 ). Sto creando la voce sull'Analisi dei Sistemi-mondo e mi piacerebbe molto utilizzare l'immagine della Banda dei Quattro all'interno della pagina wiki. Ho però bisogno di sapere sotto quale licenza di copyright sia l'immagine e se sia di vostra proprietà o reperita altrove. Lasco come contatto l'email: marta.cannicci@studenti.unipd.it , grazie mille.
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