In fondo è una storia come tante altre, banale. Una ragazzina
di quindici anni che prende una idea semplice, in bianco e nero, e la sposa con l’entusiasmo dei suoi anni. Nasce in
una famiglia di professionisti dello spettacolo (una cantante ed un attore) e
traduce questa idea in performance. Queste performance, nativamente preordinate
nel codice della società dello spettacolo, sono utilizzate da un sistema dei
media sempre alla ricerca di eventi-mondo per costruire un prodotto efficace. Questo
efficace prodotto viene ripreso e rilanciato, per i più diversi scopi, dalle
più diverse forze ed organizzazioni.
Stiamo facendo un esercizio di complottismo? Un’aggressione
alla simpatica ragazzina?
No. Tutt’altro, Greta Thunberg ha tutta la mia
simpatia, è una ragazzina sveglia ed intelligente, piena di ottimi sentimenti e
impegnata per una battaglia degna.
Semplicemente il mondo ha il suo modo di funzionare,
ed usa tutto.
Ma il fatto che
qualcosa sia usato significa che non sia fondato? No. Io credo fermamente che il sistema ambientale sia
alterato dall’uomo, ad una profondità che è difficile da definire con
precisione, e che il clima venga modificato anche da questi fattori di
pressione antropogenetici.
Il fatto che
qualcosa sia fondato significa che altro non lo sia? No. Io credo fermamente che la questione in campo sia
il potere.
Il fatto che una
cosa sia usata e fondata significa che non ci sia altro da dire? No. Io credo fermamente che buona parte del degrado
dell’ambiente sia determinato dalla logica dello sfruttamento della natura per
il profitto e dalla sua appropriazione da parte di pochi.
Il fatto è che, anche se Greta Thunberg può pensarlo[1],
il mondo non è affatto “bianco o nero”.
Quando ad agosto 2018 il curioso “sciopero”[2]
(dalla scuola) della ragazzina di Stoccolma, opportunamente spettacolarizzato,
in vista delle elezioni generali di settembre, e subito rilanciato da qualche
interessato sito come parte di una strategia di autopromozione
commerciale/ambientale[3], sfonda
il muro della irrilevanza prende avvio un processo autorafforzante imponente. Già
nella prima settimana di sciopero i quotidiani svedesi, attivi sul dibattito
elettorale e quindi sensibili, e la Tv locale hanno ripreso la cosa. Un fattore
è stato la dissimetria tra uno stato considerato (in parte a torto) invalidante
e la mobilitazione su temi complessi.
A dicembre la ragazza è intervenuta al COP24 ed ha
parlato a Davos, quindi è stata inserita (giustamente) da Time tra i 25
teenager più influenti del 2018, quindi ha lanciato il “Fridays for future” che sta portando a enormi mobilitazioni in
molte città del mondo.
Decisamente una buona cosa.
Ciò significa che hanno ragione i media di tutto il
mondo nel dire che Greta Thunberg è la vera sfida al potere dei ‘grandi del
mondo’? No, ovviamente.
Proviamo allora a prendere un poco di distanza e
guardare dall’alto la cosa: il mondo è intrappolato nelle conseguenze di un
modo di essere e funzionare che sacrifica buona parte dell’umanità e la natura
alla creazione di valore astratto ed alla sua accumulazione come potere. Guardando
la cosa a partire dalla esteriorità abbiamo una violenta polarizzazione sociale
nei ‘centri’ tradizionali, dinamizzati da flussi di segni di valore che tendono
ad essere accumulati da ristrettissime élite (ben concentrare tra gli
interessati ascoltatori della nostra eroina), e che lasciano i più in
condizioni di subalternità e degrado. Ed abbiamo un, anche più violento,
sfruttamento della debolezza nelle ‘periferie’ interconnesse del “sistema mondo”[4]. Ciò
significa che nel “centro” prevalgono le condizioni economiche del “sottoconsumo”[5],
mentre nelle “periferie”, o nei ‘centri’ sfidanti, prevale la “sovrapproduzione”[6].
Il mondo è un luogo di squilibri.
A connettere e rendere anche possibile la disgiunzione
di una sovracapacità produttiva con un sottoconsumo, ovvero la globalizzazione,
è la finanza. Ovvero la traduzione dei rapporti sociali di dominazione dall’una
come dall’altra parte in valore che è scambiato su piattaforme estese all’intero
pianeta e virtualmente prive di attriti[7].
Ma un mondo intrappolato in un’immane distruzione di
energia umana e naturale, che la furia compulsiva di accumulazione di pochi
mette sulla strada della sua distruzione, è come un computer perfettamente
funzionante ma nero, perché il suo sistema operativo va riavviato.
Sul piano tecnico lo schema della soluzione dovrebbe
essere di rimettere in attività nei “centri”, risolvendo il sottoconsumo, e
avviare una necessaria distruzione controllata della sovracapacità[8],
trovando, al contempo un impiego utile alla sovracapitalizzazione che ingolfa
le piazze finanziarie di tutto il mondo e che alimenta un disperato gioco alla
prossima ‘bolla’[9].
Il fatto è che non
si può fare.
Giovanni Arrighi, nel corso del suo lavoro, ha messo a
punto uno schema interpretativo potente che vede lo sviluppo del sistema di
produzione ed organizzazione ‘capitalista’[10] come
una successione di ‘cicli’ per successiva espansione ed incorporazione[11]
in una dialettica tra “attori territoriali” e “attori economici”. Oppure, se si
vuole utilizzare un linguaggio diverso, tra una “logica di potenza” ed una “logica
capitalista”. Ancora in altre parole il sistema capitalistico è visto come
una successione di cicli di accumulazione
(ogni volta composti di una fase di espansione produttiva ed una fase terminale
finanziaria) e da cicli di egemonia
nei quali un “centro” si impone a molte “periferie”. Quando la fase di
espansione produttiva inizia ad essere meno redditizia (perché si allenta il
vantaggio monopolistico che ha all’inizio sfruttato) a causa dell’accresciuta
concorrenza, allora i capitali generati vengono detenuti in forma liquida, e
non più investiti in attività divenute troppo rischiose, si ha quindi una fase
di espansione finanziaria che prepara il crollo. Sarà l’emergere di una nuova
gerarchia, spesso dopo una fase molto turbolenta e non di rado di guerra, che
determina un nuovo “centro” che riavvia il processo su basi nuove.
Arrighi sposa la tesi di Marx che nel
modo di produzione capitalistico, dato che lo scopo è la produzione di capitale
e non lo sviluppo delle forze produttive, il mezzo entra in conflitto [in
particolare nelle fasi “finanziarie”] con il fine ristretto, la valorizzazione
del capitale esistente. Quindi, scrive, “se il modo di produzione
capitalistico è quindi un mezzo storico per lo sviluppo della forza produttiva
materiale e la creazione di un corrispondente mercato mondiale, è al tempo
stesso la contraddizione costante tra questo suo compito storico e i rapporti
di produzione sociali che gli corrispondono” (Marx, Il Capitale,
libro III, p. 350). Il capitale entra dunque periodicamente in palese
contraddizione con l’espansione materiale dell’economia-mondo, il capitale
“disimpegnato” in ogni fase finanziaria dall’espansione ulteriore di produzione
e commerci, è, infatti, riciclato con profitto superiore in settori non
produttivi (che sono spesso le armi)[12].
Uno dei modi attraverso cui gli
agenti economici reagiscono a questa tendenza è l’espansione del sistema-mondo allo scopo di trovare “terre
vergini” nelle quali siano presenti opportunità più convenienti[13].
Nella dinamica che si genera tra la
tendenza a ritirare il capitale dagli investimenti produttivi (di cui a tutta
evidenza soffrono i ‘centri’ sovracapitalizzati, determinando sottoccupazione e
quindi sottoconsumo), a causa dell’incremento della concorrenza e la relativa
scarsità di occasioni sfruttabili per un ‘adeguato’ saggio di profitto[14],
e la sovrabbondanza di capitale mobile che ne è l’immediata conseguenza, c’è lo
spazio per numerosi equilibri dinamici. Gli equilibri sono determinati dalla
dialettica tra occasioni di impiegare i capitali per investimenti e di metterli
a frutto per rendite (DMD vs DD), entrambe soggette alla legge dei rendimenti
decrescenti (relativa e non assoluta).
A rendere complesso il quadro, però,
non ci sono solo le diverse arene nelle quali le due scarsità (di occasioni di
investimento e di occasioni di rendita) si contrappongono, ma anche attori ed
organizzazioni non interessate al profitto,
ma, dice Arrighi, a potere o prestigio[15].
In queste “biforcazioni” si creano quindi campi instabili e turbolenti
nei quali “agenti” diversamente orientati concorrono l’uno a sottrarre capitali
ai circuiti produttivi e commerciali per offrirli sui mercati finanziari, gli
altri a impegnarli nei primi, cercando ognuno di massimizzare il proprio potere.
Si tratta anche di una lotta per l’egemonia[16].
La questione è che l’egemonia
mondiale si ottiene quando alla capacità di governance delle forze
sistemiche si aggiunge la leadership, che come dicono Arrighi e Silver in “Caos
e governo del mondo”: “si fonda sulla capacità del
gruppo dominante di presentarsi, ed essere percepito, come portatore di
interessi generali” (p.30), questa capacità porta un potere “addizionale”.
Gruppo dominante e gruppi subordinati in qualche modo concordano che la
direzione nella quale il primo dirige le forze è a vantaggio comune. Il sistema
è gestibile, dunque, senza ricorrere alla pura e semplice forza.
Questa
divagazione mostra la questione in campo.
In definitiva una possibile via di uscita
dalla crisi di sottoconsumo in occidente e di sovrapproduzione incipiente in
oriente è di avviare una ‘distruzione
controllata’ nella seconda area, per sgombrare la sovracapacità, e una
serie di impieghi ‘distrattivi’ (rispetto
alla logica ‘capitalista’) nella prima. Salvaguardando, ovviamente, e anzi
trovando impieghi alla sovrabbondanza di capitali in modo che non rischino un
crollo per carenza di fiducia e quindi illiquidità. Ma un impegno di questa
portata richiede un’emergenza che metta a tacere gli ‘spiriti animali’ che
guardano sempre a cortissimo raggio.
Richiede
soprattutto la produzione di egemonia, perché bisogna mettere a tacere questi ‘spiriti’.
Allora la quadra, come fu negli anni
cinquanta la guerra fredda, può venire dalla ‘distruzione del pianeta’. In questo modo i capitali possono forzatamente
essere impiegati in investimenti guidati dallo Stato, ma salvaguardanti
l'iniziativa privata. In conseguenza nella parte diffusa della ‘manutenzione
territoriale’ e della ‘economia circolare’ si impiegano i ‘superflui’,
combattendo il sottoconsumo occidentale, e la capacità produttiva si riconverte
riducendo la sovracapacità e la sovrapproduzione. Una quadra perfetta per
quello che Minsky chiamava “Keynesismo
privatizzato”[17].
Quindi, la riconversione ecologica e
slogan come “Non c’è più tempo”,
svolgerebbe questa funzione strutturale vista
dal punto di vista delle élite.
Ma questo significa che noi, se non
vogliamo essere quelle élite, dobbiamo essere contro la conversione ecologica ed il contrasto al cambiamento climatico?
No. Sarebbe un comportamento stupidamente reattivo, e lascerebbe tutti i problemi,
che sono reali, sul tavolo. Sia quelli
di equilibrio di sistema sia quelli ambientali, che in parte ne sono una
conseguenza.
Ciò che bisogna fare è invece porre
la cosa in modo più serio e radicale di quello che, parziale e colonizzabile,
viene posto dal movimento di Greta Thunberg. Essere dentro e contro.
E ciò proprio perché quello che le forze intercapitalistiche che stanno
spingendo l’azione di lobby aggregata intorno alla generosa attivista svedese
cercano di ottenere è un investimento egemonico in grado di ‘forzare’ un investimento
di potere pubblico in grado di spostare la logica da meramente ‘capitalistica’
(volta all’accumulazione di capitale, al massimo livello possibile di
redditività) ad una logica ‘territorialista’ sui generis (volta alla
occupazione di ‘spazio’ strategico, in questo caso immateriale ma non solo). Questo
spostamento è necessario.
La situazione attuale vede, infatti, le prospettive di profitto dei
mercati finanziari, concretissime fonti di potere, soggette a rendimenti
decrescenti e quindi a crescente rischio di dissoluzione. Abbiamo negli ultimi
dieci anni disperatamente cercato di allontanare questo calice con forme sempre
più creative di ‘allentamento monetario’, ma ogni soluzione sta raggiungendo il
suo limite di redditività[18].
Restano ormai solo due alternative, o
in altre parole spazi di espansione di una logica “territorialista” in grado di
assorbire il capitale in eccesso:
-
gli investimenti di potenza militari (in espansione e tradizionalmente
praticati, quando dal ‘keynesismo privatizzato’ del primo tipo si passa a
quello ‘finanziario’[19]
e da questo, infine, terminati tutti gli escamotage, a quello “militare”);
-
la deviazione dei capitali sulla lotta a qualche ‘nemico
esterno’ che giustifichi impieghi “ineconomici” (ovvero il passaggio dal “keynesismo
finanziario”, cioè l’economia del debito, al “keynesismo ambientale”). Bisogna
essere chiari: la cosa funziona proprio perché
la riconversione ambientale è irrazionale in termini ‘ capitalistici’, ovvero
non determina ritorni sul capitale investito adeguati, e dunque si presta a
distruggere il capitale in eccesso.
Proprio
perché la posta del gioco è il controllo del mondo, l’attrazione dei capitali mobili,
che lo rendono instabile, e l’impiego per guadagnare un superiore livello di
efficienza. O in altri termini, un cambiamento della ‘piattaforma tecnologica’
a sé vantaggioso.
Sotto questo profilo l’investimento
egemonico in corso non potrebbe essere più serio.
Dunque
cosa può fare un movimento socialista che voglia sviluppare una
contro-egemonia? Questa
è la vera domanda. Io credo che si debba riprendere l’agenda di Minsky, e
spingere ai limiti della loro stessa logica la dinamica del “keynesismo ambientale”,
ponendo, come un lottatore di Judo, la questione di “cosa” e “perché” produrre.
Per quale uomo e per quale vita.
[1] - Al TED di Stoccolma del 2018 lei
stessa ha detto: “per quelli che
come me sono aldilà dello spettro (autistico) quasi tutto è bianco o nero. Credo che sotto molti aspetti gli
autistici siano normali mentre il resto delle persone molto strane. Come quando
affermano che il cambiamento climatico è una minaccia seria e poi continuano a
comportarsi come sempre”. Per certo versi non è necessario avere le sue
caratteristiche per essere convinti che il mondo sia bianco o nero, basta avere
la sua età.
[2] - Dal 20 agosto al 9 settembre
resta seduta davanti al Parlamento svedese con dei cartelli, durante l’intero
orario scolastico, per protestare contro la mancata applicazione de l’Accordo
di Parigi, COP 21.
[3] - Precisamente via Twitter dalla
società di comunicazione e start-up tecnologica “We
don’t have time”.
[4] - Uso questo termine nella
tradizione di ricerca della “Scuola del
sistema mondo” di cui abbiamo parlato nei post su Andre
Gunder Frank e in quelli su Arrighi
e Amin. A questo livello di astrazione non è rilevante scegliere tra le
versioni di Frank e degli altri tre della “gang”.
[5] - Effetto della carenza di domanda
aggregata creata da una distribuzione delle risorse che finisce per spostarle
verso la finanza interconnessa.
[6] - Un eccesso di capacità produttiva
che trova senso solo nella domanda esterna, determinando gli squilibri
produttivi, commerciali e quindi finanziari che stanno squassando il mondo (da
ultimo determinando anche i flussi migratori).
[7] - Sul piano tecnico gli attriti
sono ridotti dalla completa dematerializzazione del capitale, su quello tecnico
dalla infrastruttura, enormemente energivora, della gestione dell’informazione,
su quello normativo dalla deregolazione e dalla uniformazione.
[8]
- La simmetrica soluzione al
sottoconsumo ed alla sovracapacità (ovvero il riequilibrio della
estero-flessione, come dice Rodrik) è resa necessaria dall’equilibrio contabile
d’area. Altrimenti l’investimento in un’area non riassorbirebbe i sottoconsumi,
traducendosi in aggravamento della crisi fiscale e ulteriore estero-flessione e
ipertrofia delle “periferie”. Lo schema porterebbe solo a maggiore finanziarizzazione
ed aggravamento della crisi, quindi dello “stato di consolidamento” (Streeck)
nel medio periodo. In altre parole è un vincolo di “sistema mondo”.
[9] - Per una delle migliori analisi
di questi fenomeni, in un quadro categoriale keynesiano, si veda Massimo Amato,
Luca Fantacci, “Fine
della finanza”.
[10] - Su questa caratterizzazione una
delle obiezioni di Frank, che vede egualmente all’opera ‘cicli’, ma non una
specificità del ‘capitalismo’ e tantomeno dell’occidente.
[11] - Questo è il secondo piano di
critica, e quello fondamentale, in quanto Frank ritiene che il ‘sistema-mondo’
sia esistente da millenni, circa dal 3000 a.c., e che l’occidente ne sia stato
a margine fino al 1800 inoltrato. Dunque che il movimento non sia dall’occidente
industrializzato verso il resto del mondo, ma casomai dal mondo a nuovi centri
che lo sfruttano e che si costituiscono come tali parassitariamente.
[12] - Alla
base del modello è l’idea (di Adam Smith, prima che di Marx) che ceteris
paribus la continua espansione delle attività produttive, con il crescere della
competizione, debba portare ad un calo del saggio di profitto e, nella versione
dell’ultimo, ad una stagnazione dei salari reali e conseguente crisi di domanda
(che ostacola i rapporti di produzione sociali, generando la contraddizione
essenziale).
[13] - Naturalmente
anche in queste espansioni la legge dei rendimenti decrescenti resta all’opera
e, pur contrastata da possibili guadagni di efficienza, riarticolazioni e
ottimizzazioni tecniche, alla fine determina un “ristagno” (Hicks). Questa fase
è caratterizzata da sovrabbondanza di capitali liberi (“crisi di sovraccumulazione”)
ed è anche, e forse soprattutto, caratterizzata da un inasprimento della lotta
concorrenziale per l’impiego del capitale mobile (e la sua attrazione). In
questa fase i detentori del capitale lottano per allocarlo in usi
“accettabilmente” redditivi, in condizioni di abbondanza del primo e scarsità
dei secondi. D’altro lato gli utilizzatori (che sono spesso gli Stati, che ne
necessitano per i loro usi acuiti dalle tensioni della fase) lottano per
attrarli a condizioni meno onerose.
[14] - A sua volta determinato per via
di concorrenza.
[15] - Storicamente, nei vari cicli di
accumulazione caratterizzati da una successione di fasi queste “lottavano contro i rendimenti decrescenti prendendo
in prestito tutto il capitale possibile, e investendolo per conquistare con la
forza i mercati, territori e popolazioni”.
[16] - “Egemonia” è il concetto
chiave, senza apprezzare il quale nulla si potrebbe capire del testo. Non si
tratta di descrizioni di ‘dominio’, di potenti e di subalterni e delle loro
eventualmente contrapposte volontà (o “desideri”), qui è in gioco una capacità
che non può essere progettata e che scaturisce dall’insieme di una situazione e
di una storia, quella di unire al dominio il consenso. Di estenderlo
alle menti ed ai cuori, coinvolgendo rappresentazione di sé, immagine del
mondo, meccanica di valori ed obiettivi, interessi e bisogni. Quando si dà una
egemonia si creano soggettività e ci si fa carico, in qualche misura, dei loro
interessi (di quelli che sono entro il campo di senso definito dal blocco
egemonico) e, grazie ad un coerente insieme di basi di potere e di valori,
rappresentazioni, tecniche e regole, si riesce a far diventare “sistema” una
porzione del mondo. In effetti, fino a che dura, facendo prevalere il momento
cooperativo (ma intimamente gerarchico, anche se inavvertito) su quello
competitivo. La crisi è la disgregazione e in certo misura rovesciamento di
questo effetto. Dunque tra “base” (termine che viene usato per “struttura” da
Marx, nell’”Ideologia tedesca”, infatti userà struktur e basis)
e la “soprastruttura” (uberbau, tutte metafore architettoniche come si vede, si
tratta di ciò che è edificato sopra e del fondamento), in una condizione nella
quale evidentemente ci vogliono entrambe, c’è una relazione molto più stretta
di quella, pur complessa, della vulgata marxista. Il concetto di egemonia è per
espressa ammissione, ripreso da Gramsci (che lo rileva da Lenin, ma lo estende
molto) che lo impernia in una critica della vulgata marxista del rapporto tra
“struttura” e “soprastruttura” nella loro reciproca influenza. I due concetti
sono una unità, in senso dialettico. Ma avviene in qualche modo in Gramsci,
nell’intreccio di concetti che si rimandano, un passaggio che è colto molto più
da Arrighi che da Negri: la struttura, la base, è in un rapporto con la
soprastruttura che ad essa si innerva e intreccia, quasi confondendosi, in un
modo che ricorda quello tra storia ed evento. Cioè quel rapporto, nella lettura
storica che Gramsci compie in tutta la sua opera, tra passato e presente.
Affondare le radici nella storia, che è la stessa mossa nell’interpretazione
del presente che compie la tradizione delle Annales (forse non a caso
avviata nel ’29 e a conoscenza del nostro), significa per Gramsci liberarsi di
ogni trascendenza residuale, di ogni teologia. Il concetto compare nei primi
mesi del 1930, nei Quaderni del Carcere, e precisamente nell’ambito del
discorso sul risorgimento (che abbiamo letto per ora qui) e resta praticato fino alla fine, ogni volta con una qualificazione:
politica, culturale, linguistica, intellettuale, morale, ... l’egemonia è in
qualche modo, proverei a dire, uno strumento ed un effetto, che opera nel
garantire e realizzare la prevalenza di uno verso l’altro. Sia esso una classe,
o un blocco storico, una nazione (come del caso). Il concetto, per essere
compreso, va connesso con la sua assenza, ovvero con il puro e semplice
“dominio”. Dove il potere è nudo, privo della necessaria componente del
consenso, si ha quindi solo l’esercizio brutale del “dominio”. Ma il vero
potere non si limita alla costrizione; si estende alle menti ed ai cuori, si fa
seguire in qualche modo volontariamente, coinvolgendo insieme: la
rappresentazione di sé che si costruisce, l’immagine del mondo, e la meccanica
dei valori e obiettivi, con la loro gerarchia. Si radica inoltre nella “base”
degli interessi, e dei bisogni, cui in qualche modo (secondo il filtro delle
rappresentazioni) l’egemone risponde, facendosene almeno in parte carico. Il
vero potere è dunque egemonia. Abbiamo, ad esempio egemonia tedesca in Italia,
quando volontariamente si sceglie di seguire la logica della moneta stabile e
forte, della deflazione come orizzonte, dell’austerità suo mezzo. L’egemonia ha
sempre un suo campo e, per chi vi appartiene, un coerente insieme di desideri,
effetti di dominio (verso qualche subalterno) inseparabili da effetti
identitari, e sempre risponde almeno a parte ai suoi interessi e bisogni
secondo la loro percezione. Dunque le potenze realmente egemoniche, come sono
state quella olandese, inglese e americana al loro meglio, quando si sono fatte
carico, anche se diversamente, di produrre e distribuire beni pubblici e senso,
o come la Russia sovietica, che esportava una egemonia potente, hanno
riorganizzato in parte per effetto della loro base di potere, ma in parte
altrettanto importante (e inseparabile) per effetto della loro struttura di
valori, rappresentazioni coerenti, tecniche e regole, intorno a sé porzioni
decisive del mondo, rendendolo “sistema”. Cioè rendendolo capace di funzionare
insieme e creare le premesse per una accumulazione che ha anche disciplinato,
in qualche modo, i capitali incorporati entro le loro strutture e quelli mobili
(che fin che dura l’egemonia sono limitati). I capitali sono, infatti, una
sorta di rapporto sociale. La storia che racconta Arrighi non va capita come
storia del susseguirsi delle dominazioni, o del potere, ma di quel più sottile
scontro per la capacità di organizzare le forze, di dargli direzione e senso,
che alcune volte è emerso intorno ad un network ed una cultura. Cioè come
storia delle egemonie che, quando sono state realizzate, fino a che sono durate,
hanno reso parte del mondo un sistema (appunto un “sistema mondo”).
[17] - Vedi Hyman Minsky, “Keynes
e l’instabilità del capitalismo”, 1975.
[18] - Esattamente come accadde negli
anni settanta alle soluzioni del ‘keynesismo privatizzato’.
[19] - Per questo la classica analisi
di Streeck “L’ascesa
dello stato di consolidamento europeo”.
Per uscire da questa "impasse" economico-climatico-politica mantenendo l'egemonia della attuale classe "finanziaria" ci sono due modi : la guerra e la riconversione economica. Il primo è evidente con la destabilizzazione del medio-oriente il secondo trova grandi difficoltà nell'aumento della popolazione e nell'incapacità di una effettiva ridistribuzione della ricchezza. Che ci sia un effetto del modello di sviluppo industriale sul clima è fuori di dubbio. Ciò causerà instabilità che difficilmente troveranno soluzione con le misure di "mitigazione" sulla emissione di CO2. In fin dei conti queste misure nella sostanza prefigurano una "pianificazione" economica cioè quanto di più aborrito dalla narrazione e dalla pratica del "libero mercato". Non mi sembra che il futuro ci prospetti più solidarietà e meno competizione.
RispondiEliminaIndubbiamente abborrito, questo è anche un conflitto tra parti delle élite economico-finanziarie, alcune delle quali perfettamente consapevoli dell'orologio che ticchetta sotto le loro piramidi di fortune fragili. Ma cosa ci prospetta il futuro dipende dalle lotte del presente. (PS l'aumento della popolazione è un problema molto grave, ma che dopo la metà del secolo si attenuerà e verso la fine si invertirà, certo nei prossimi trenta anni cambierà molte cose).
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