In questo libro
di Andre Gunder Frank sono raccolte cinque lezioni tenute dall’economista
americano nel 2004 presso l’Università della Calabria, presso il dottorato di
ricerca in Scienza Tecnologia e Società.
L’anno dopo, nel 2005, Frank, che aveva settantasei anni, scomparirà; seguito nel
2009 dall’amico Giovanni Arrighi,
nel 2014 da Hosea Jaffe,
tutti preceduti dal coautore di Wallerstein Therence
Hopkins nel 1997, ed infine l’anno
scorso da Samir Amin;
restano, del gruppo che diede vita alla Scuola del “sistema mondo”, solo Immanuel Wallerstein,
ed il suo coautore Christopher Chase-Dunn.
Andre Gunder Frank
Rispetto a questi compagni di avventura la traiettoria
di Andre Gunder Frank è però molto personale: viene da studi economici classici
ottenendo un dottorato a Chicago, con Milton Friedman come tutor, si
trasferisce all’avvio degli anni sessanta in America Latina e per un decennio
segue con grande intensità le lotte che si sviluppano sul continente americano.
In questi anni scrive nel 1967 “Capitalismo e
sottosviluppo in America latina”,
e nel 1969 “America latina:
sottosviluppo o rivoluzione”.
Per inquadrare il periodo: da due anni era stato ucciso Malcom X e in mezzo tra
i due libri sarà ucciso anche Martin Luter King; dal 1966 Huey
P. Newton e Bobby
Seale promuovono il Black Panther Party, di ispirazione
marxista-leninista su dieci punti programmatici[1] (avviarono
la loro azione politica in questo movimento attivisti come George
Jackson e Angela
Davis); nel 1968 Che Guevara viene catturato e fucilato in
Bolivia; la guerra del Vietnam, che terminerà solo nel 1975, era nel frattempo in
una fase di espansione verso la Cambogia ed il Nord del Vietnam, entrambe
bombardate dall’aviazione americana; i movimenti giovanili in tutto il mondo
erano in fermento e ovunque si susseguivano stagioni di lotte operaie sempre
più determinate.
Gunder Frank segue la breve parabola di Allende, fino
al colpo di stato, e poi va in esilio in Europa. La sconfitta del programma
della via cilena al socialismo[2], e
la morte di Allende per opera dei golpisti sostenuti dal governo imperialista
americano, determina in lui un profondo ripensamento della pratica fattibilità
delle ipotesi del “terzomondismo”[3].
Certo la “teoria della dipendenza”,
nella versione radicale di Gunder Frank, che abbiamo ripercorso leggendo i suoi
libri degli anni sessanta, prevedeva non solo la disconnessione e l’industrializzazione
sostitutiva (come avevano fatto, a partire dagli anni cinquanta paesi
autoritari come la Corea del Sud, o, in precedenza, il Giappone, con ottimi
risultati), ma anche e soprattutto il distacco e la sconfitta delle borghesie
‘compradore’ autoctone. È, infatti, drenando il surplus[4]
prodotto nella nazione che le borghesie interconnesse con i centri “sviluppati”,
e per questo dominanti, si
riproducono come classe. Nel farlo estraggono e trasferiscono la gran parte dei
capitali prodotti localmente e, tramite un insieme di meccanismi messi in
evidenza già da Baran, “sviluppano il
sottosviluppo”. Bisogna però comprendere che questa relazione tra
‘metropoli’ e ‘periferia’, si scala a tutti i livelli, e non designa solo la
relazione, ad esempio, della regione di Buenos Aires con New York, ma quella complessiva
tra il sistema finanziario argentino e quello statunitense, tra le industrie
locali e le loro controparti multinazionali; relazioni che dominano il sistema
di scambio (‘ineguale’) mondiale, e anche la relazione tra la complessa
gerarchia dei centri e delle periferie interne, geografiche e sociali.
L’esperienza cilena
L’esperienza di Allende è centralissima, e non solo
per Frank, nell’indicare l’impossibilità di una fuga da questo sistema; tale
conclusione non è solo effetto dell’intelligence e dei capitali americani (gli
Usa stanziarono 10 milioni di dollari per alimentare il golpe, mentre l’Urss, ad
esempio, solo 400 mila dollari di aiuti), ma soprattutto per il ferreo
boicottaggio interno dei grandi latifondisti e della borghesia cilena, raggruppata politicamente nelle forze che
avevano perso, ma di stretta misura, le elezioni. L’interruzione completa degli
investimenti esteri, auspicata nella teoria di Frank per i suoi effetti
negativi, ma troppo rapida per essere compensata, e il congelamento dei crediti
(cui Allende rispose bloccando i conti dei latifondisti e nazionalizzando il
sistema bancario), insieme ad una massiva fuga di capitali determinò, infatti,
una selvaggia crisi sociale, e famosi scioperi, e creò le condizioni interne per il golpe. Come aveva
previsto Frank era in definitiva la buona società cilena, che, resa dipendente
dall’estero e subordinata ai flussi estrattivi che verso questo si
indirizzavano (o, per essere più precisi, dalla quota che riuscivano a
trattenere), attraversò una crisi di rigetto, suscitata e poi strumentalizzata
dall’esterno per ricondurre il paese alla compatibilità con il quadro
internazionale.
Una cosa del genere di quella che sta accadendo in
Venezuela[5],
si spera senza lo stesso esito.
Pochi anni dopo Gunder Frank scriverà, riflettendo su
quella tragica esperienza, che “la teoria
e la pratica della dipendenza era veramente morta. Il generale Pinochet l’aveva
decapitata con la sua spada l’11 settembre 1973”.
L’Accumulazione flessibile
Questa svolta, che ebbe importanti conseguenze anche nell’evoluzione
del Pci in Italia[6], avvia la prima
sperimentazione di quel brutale processo di ri-disciplinamento delle forze
popolari tramite la mobilitazione globale del capitale produttivo in cerca ovunque
di ‘forza-lavoro’[7] a basso costo in quanto
erogata da lavoratori deboli ed obbedienti (peraltro anche a causa del loro
inserimento in stati molto autoritari e nei quali i diritti civili erano
inesistenti) che prende il via negli anni settanta, per poi accelerare nel
ventennio successivo. Si entra nel modello della “accumulazione flessibile”[8],
di cui il Cile di Pinochet, accompagnato dai ‘Chicago boys’, fu uno dei più
rilevanti laboratori. Alcuni paesi (le “tigri asiatiche”) grazie ad un mix di
autoritarismo, investimento pubblico in infrastrutture e sostegno ai ‘campioni
nazionali’, apertura selettiva, e totale apertura commerciale, muovono da
questi anni creando alla fine un modello di sviluppo “orientato verso
l’esterno” di grande successo che appare a molti come una confutazione della “teoria della dipendenza”, mentre ne è
probabilmente una conferma. La “teoria”, infatti, individuava “centri” e “periferie”
senza presumere che questi fossero esclusivamente concentrati in una specifica
area, e la dominazione come dialettica tra classi dominanti, per la loro
posizione nei flussi internazionali di risorse (capitali, merci, forza-lavoro),
e classi dominate. È necessario solo un piccolo aggiustamento per comprendere i centri
dominanti interconnessi, e le borghesie “compradore”[9], ovunque
siano, per quello che sono (un effetto della totalità), e quindi per
comprendere che in una nuova geometria di relazioni (ovvero di potere) quel che
prima era parte del ‘centro’, sia pure subordinato, è respinto alla ‘periferia’.
Il nuovo assetto passa dal disegnare un mondo a grandi campiture ad un pianeta
a ‘pelle di leopardo’, nel quale tanti centri interconnessi sfruttano insieme
periferie distribuite[10].
La "Scuola del sistema mondo"
Alla ricerca di un nuovo schema esplicativo che superi,
o almeno spieghi, l’impossibilità di uno sviluppo autonomo dell’America latina,
cioè di quello che ho chiamato “piccolo aggiustamento”, ed entrando negli anni
ottanta nel modello ‘dell’accumulazione flessibile’, Frank si avvicina a
Immanuel Wallerstein che sta nel frattempo mettendo in piedi la “Scuola del sistema mondo” (che incorpora
dalla teoria precedente i concetti di ‘costellazioni di centri e periferie’, ‘drenaggio
del surplus’, ‘scambio ineguale’) e la cui principale mossa, in linea con lo
spirito dei tempi, è di spostare il focus dagli Stati-nazione, agenti storici
dello sviluppo nella precedente impostazione, ai processi globali integrati.
Confluiscono Giovanni Arrighi, Samir Amin, Terence Hopkins.
Il sistema mondo,
sul quale abbiamo letto in precedenza in particolare le opere di Giovanni
Arrighi[11],
e la versione, in parte ancora connessa con la teoria della dipendenza, proposta
da Samir Amin[12], comporta la scelta di un’unità di analisi globale, intesa come
totalità sociale nella quale vengono lette sia le sfere dell’economico
(produzione, distribuzione e consumo), sia le loro relazioni strutturali con il
politico ed il sociale. Il capitalismo è letto come un processo di
accumulazione illimitata, capace di connettere mercati e processi e di
integrare in posizioni strutturate e gerarchiche centro-periferia. Da questo
paradigma emerge alla fine degli anni ottanta una nuova percezione
dell’insorgenza dell’egemonia occidentale e della rete integrata mondiale ad
essa precedente (incentrata sull’impero mongolo)[13],
e quindi la ripresa del concetto marxiano di “modo di produzione”, in particolare grazie al contributo innovativo
di Giovanni Arrighi.
Tuttavia lo stesso capitalismo è individuato come forma specificamente moderna di una
relazione totale allargata all’intero pianeta, che, secondo la teoria, dal 1500
si espande distruggendo ed incorporando le periferie extraeuropee. Questo movimento,
da un centro dotato di capacità di sviluppo endogeno, a periferie
dominate/associate, diventerà in seguito uno dei principali punti di divergenza
con Frank, il quale supera, insieme all’implicito eurocentrismo del modello, il
concetto stesso di modernità e di discontinuità (quindi di sviluppo e progresso).
Il problema, come vedremo, è che senza un’idea di
progresso e di modernità viene meno il punto di vista dal quale criticare l’esistente,
che, a questo punto appare come semplicemente
esistente. Frank cercherà di sfuggire a questo esito, ma in qualche modo
cadendo in una sorta di ribellismo in ultima analisi disperato (o di vitalismo).
Ogni plausibile speranza d’azione era perduta.
Bisogna procedere leggendo la Seconda Parte.
[1] - Il Ten Point Plan recitava:
1. Vogliamo
la libertà, vogliamo il potere di determinare il destino della nostra comunità
nera; 2. Vogliamo piena occupazione per la nostra gente; 3. Vogliamo la fine
della rapina della nostra comunità nera da parte dell'uomo bianco; 4. Vogliamo
abitazioni decenti, adatte a esseri umani; 5. Vogliamo per la nostra gente
un'istruzione che smascheri la vera natura di questa società americana
decadente. Vogliamo un'istruzione che ci insegni la nostra vera storia e il
nostro ruolo nella società attuale; 6. Vogliamo che tutti gli uomini neri siano
esentati dal servizio militare; 7. Vogliamo la fine immediata della brutalità
della polizia e dell'assassinio della gente nera; 8. Vogliamo la libertà per
tutti gli uomini neri detenuti nelle prigioni e nelle carceri federali,
statali, di contea e municipali; 9. Vogliamo che tutta la gente nera rinviata a
giudizio sia giudicata in tribunale da una giuria di loro pari o da gente delle
comunità nere, come è previsto dalla costituzione degli Stati Uniti; 10. Vogliamo
terra, pane, abitazioni, istruzione, vestiti, giustizia e pace.
[2] - Si parte con la totale
nazionalizzazione delle principali industrie private del paese, le miniere di
rame (sotto il controllo della Kennecott e della Anaconda statunitensi), delle banche,
delle compagnie di assicurazione e dell’energia elettrica, i trasporti, le
telecomunicazioni, l’industria pesante. Al 1973 lo Stato controllava ormai il
90% delle miniere, il 85% delle banche, l’80% delle grandi industrie, ed il 50%
delle aziende medio-piccole. Fu fatta una riforma agraria e sospesi i pagamenti
esteri e congelati i crediti di molti potentati. Fu anche introdotto il
divorzio e aumentati i salari, con l’introduzione del salario minimo garantito
e ridotto il prezzo degli affitti. Le imprese pubbliche vedevano un ruolo
rilevante ai lavoratori e molti altri istituti di democrazia di base, inoltre
fu istituito un sistema decentrato di controllo dei prezzi, sulla base di una
rete di agenzie governative e di organi consiliari municipali composti da normali
cittadini. Il governo avviò un programma di lavori pubblici, in particolare per
connettere meglio le periferie ed i quartieri operai al centro delle città, ed
avviò un programma di case popolari. Fu definitivamente abolito il latifondo e
i terreni affidati a cooperative agricole. La quota del reddito salariale salì
dal 51% al 65% e i consumi delle famiglie aumentarono in consumi del 12%.
[3] - Che si era raggruppato sotto la
“teoria della dipendenza” ed
ipotizzava la disconnessione dal sistema mondiale per evitare che questo
inducesse lo “sviluppo del sottosviluppo”.
[4] - Come abbiamo
già visto il concetto di “surplus”, per come è usato da Frank, risale alla
teorizzazione di Paul Baran che si collega alla distinzione tra surplus potenziale ed effettivo.
Questa nozione che affonda nei classici (i fisiocratici, Quesnay, e poi Smith,
Ricardo), fa riferimento semplicemente al prodotto sociale che rimane dopo che
sono stati reintegrate le dotazioni produttive necessarie alla generazione (lavoro
e riproduzione incluse). Ma per Baran solo il surplus effettivo è
osservabile in una data società concreta, il secondo è “la differenza tra il
prodotto che si potrebbe ottenere in un dato ambiente naturale e tecnologico
con le risorse produttive impiegabili, e ciò che si potrebbe considerare come
consumo indispensabile”. Tra sviluppo e sottosviluppo, individuabile come
differenza maggiore o minore tra surplus effettivo e potenziale,
c’è quindi una relazione dialettica in quanto i paesi che si sviluppano lo
fanno nella misura in cui drenano il potenziale di quelli che, per questo,
restano ‘sottosviluppati’.
[5] - Si veda, ad esempio, “Venezuela:
il black out elettrico”.
[6] - Come noto Enrico Berlinguer,
alla guida del Pci da appena un anno e già in diverse occasioni impegnato a
recuperare la prospettiva di Togliatti (“Svolta di Salerno”) di alleanza
interclassista tra le grandi famiglie politiche comunista, socialista e
cattolica che aveva sovrainteso alla redazione costituzionale, utilizza in tre
importanti articoli su “Rinascita” (28 settembre, 5 ottobre e 12 ottobre) l’esperienza
cilena per vincere le resistenze interne e accreditare quella strategia che
passerà come “Compromesso Storico”, sostanzialmente fallita nel biennio
1976-78, ma mai più abbandonata come cultura politica, lettura dei processi di
democratizzazione e concezione del progresso politico. Il “compromesso” con le
forze moderate democratiche (con quelle che Frank chiama le “borghesie
compradore”), nasce dalla visione della conseguenza della ‘divisione in due del
paese’ manifestatasi in Cile, ma soprattutto dalla convinzione che serva una ‘larga
alleanza sociale’ con i ceti medi ed i loro rappresentanti politici (ovvero la
Democrazia Cristiana).
[7] - Il concetto di ‘forza-lavoro’ non è equivalente a quello
di ‘lavoro’. Per comprenderlo occorre distinguere intanto tra ‘lavoro concreto’
(quel che faccio quando produco, ad esempio, una sedia di legno), e ‘lavoro
astratto’ che è definito dalla riduzione ad una metrica comune che rende
scambiabile il loro prodotto e remunerabile, in quanto valorizzato nella sfera
dello scambio, l’unità di tempo estratta dal flusso vitale, ovvero un ‘tot’ di
‘forza’ capace di produrre. Ciò che rende possibile estrarre, un’astrazione
concreta, dal flusso vitale del ‘lavoratore’ (creandolo come tale) una
‘forza-lavoro’ che produce valore di scambio è la ‘piattaforma tecnologica’,
ovvero un set di funzionamenti essenziali, punti di convenienza e vantaggio
determinati da gruppi di tecnologie convergenti e reciprocamente rafforzanti,
quindi dall’insieme di skill favoriti da queste e di know how privilegiati, ma
anche da norme sociali e giuridiche che si affermano nella sfera pubblica e
privata, e infine da pacchetti di incentivi pubblici e privati. Una “Piattaforma
Tecnologica” è, inoltre sempre connessa con un assetto geopolitico che la rende
vincente (ed in ultima analisi possibile). Se la ‘forza-lavoro’ è
determinata dal lavoro dell’insieme del mercato e dalle caratteristiche proprie
della ‘piattaforma tecnologica’ vigente (e differenziata da paese a paese) il
suo miracolo è di rendere commensurabile ciò di cui si dà scambio, superando le
perplessità antiche (Aristotele, “Etica
Nicomachea”, Laterza, p.193). Ma ciò che è commensurabile, in quanto
astratto, può essere soppesato e messo in concorrenza.
[8] - Si veda per il concetto di “accumulazione flessibile” David Harvey.
Si tratta del modello di accumulazione che prende piede, trasformandosi
continuamente, quando crollano le condizioni internazionali, tecnologiche e
socio-politiche del modello keynesiano. Alla crisi di accumulazione,
determinata da tanti e diversi fattori ma nella quale la capacità della
‘forza-lavoro’, nelle condizioni della fabbrica fordista, di imporsi come
soggettività politica, e quindi di pretendere rispetto ed estrarre maggior
valore, sottraendosi alla logica di comando verticale, è centrale. La crisi di
redditività induce prima una fuga degli investimenti nella finanza, quindi crea
le condizioni della ri-subordinazione dei lavoratori e della
interscambiabilità, su base globale, della loro forza-lavoro. Dunque in questa
de-soggettivazione della forza-lavoro viene ricreato un ‘esercito industriale
di riserva’ per via di allargamento a popolazioni non inserite (donne,
minoranze), inserimento di centinaia di milioni di nuovi individui incapaci di
esprimere soggettività politica nel mondo ‘in convergenza’, e immigrazione. Le
condizioni di questa nuova forma di accumulazione, che, però, ha scavato sotto
le proprie fondamenta sia sul piano economico sia politico, sono anche tecnologiche
e commerciali e rendono possibile scambiare la ‘forza-lavoro’ in modo del tutto
nuovo, rendendola indefinitamente flessibile, rapidamente sostituibile, esposta
al ricatto del capitale.
[9] - Si chiama “borghesia compradora” quella borghesia parassitaria che si
organizza e trae il suo ruolo dal flusso di surplus che è estratto da centri (o
‘metropoli’, con il linguaggio di Gunder Frank) dominanti da periferie
diversificate. Si tratta di ceti connessi con le industrie di esportazione,
manager, azionisti, operatori di logistica, produttori di informazione e/o di
decisioni, operatori finanziari. La borghesia ‘compradora’, il capitale
monopolistico, e tutti i loro agenti e meccanismi sono parte nel loro insieme,
come totalità, del modo di produzione
necessariamente allargato alla scala mondiale che determina l’accumulazione
(‘flessibile’) del capitale.
[10] - Affrontando una discussione sul
ruolo della immigrazione e di come rapportarsi ad essa da una prospettiva
neo-socialista, in “Circa
Fabrizio Marchi” avevo provato a scrivere che il neo-colonialismo è una
etichetta semplificata che mettiamo verso un processo di generazione e
sfruttamento della debolezza dove si vede meglio: nei paesi meno capaci di
opporre allo sfruttamento capitalista la logica dell’interesse pubblico, per
debolezza relativa delle loro forme statuali e per ‘cattura’ particolarmente
pronunciata delle élite “compradore”. Ma anche questa è una semplificazione: le
contraddizioni dell’espropriazione/appropriazione e della polarizzazione
metropoli/satellite “penetrano, come una catena, il mondo sottosviluppato nella
sua totalità, creando una struttura di sottosviluppo ‘interna’”(Gunder Frank, 1967). Il sottosviluppo, africano come
quello del sud Italia, ma anche quello delle periferie di Milano, o di Shangai,
non è quindi questione geograficamente ‘esterna’, non si tratta di essere
sfruttati da fuori, e non è questione principalmente di ‘fughe di
capitali’ o di ‘uomini’ (anche se entrambe hanno molto a che fare), ma è
“interno/esterno”, è una “struttura” che, questa, va integralmente distrutta e
sostituita con una dimensione socialista di sviluppo.
[11] - Di Giovanni Arrighi si può
leggere, “Il
lungo XX secolo”, del 1994, “Caos
e governo del mondo”, del 1999, ed il suo ultimo scritto, il “Poscritto”
al “Lungo XX secolo”, scritto poco
prima di morire, nel 2009.
[12] - Di Samir Amin, il suo capolavoro
del 1973 “Lo
sviluppo ineguale”, “Oltre
la mondializzazione”, del 1999, “Il
virus liberale”, del 2004, “Per
un mondo multipolare”, del 2006, “La
crisi”, del 2009, il recentissimo “La
sovranità popolare, unico antidoto alla offensiva del capitale”.
[13] - Si parla del libro di Janet Abu-Lughod
“Before
European Hegemony: the world system AD 1250-1350”, del 1991.
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