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venerdì 15 marzo 2019

Andre Gunder Frank, “Per una storia orizzontale della globalizzazione” (Parte Prima)



In questo libro di Andre Gunder Frank sono raccolte cinque lezioni tenute dall’economista americano nel 2004 presso l’Università della Calabria, presso il dottorato di ricerca in Scienza Tecnologia e Società. L’anno dopo, nel 2005, Frank, che aveva settantasei anni, scomparirà; seguito nel 2009 dall’amico Giovanni Arrighi, nel 2014 da Hosea Jaffe, tutti preceduti dal coautore di Wallerstein Therence Hopkins nel 1997, ed infine l’anno scorso da Samir Amin; restano, del gruppo che diede vita alla Scuola del “sistema mondo”, solo Immanuel Wallerstein, ed il suo coautore Christopher Chase-Dunn.



Andre Gunder Frank

Rispetto a questi compagni di avventura la traiettoria di Andre Gunder Frank è però molto personale: viene da studi economici classici ottenendo un dottorato a Chicago, con Milton Friedman come tutor, si trasferisce all’avvio degli anni sessanta in America Latina e per un decennio segue con grande intensità le lotte che si sviluppano sul continente americano. In questi anni scrive nel 1967 “Capitalismo e sottosviluppo in America latina”, e nel 1969 “America latina: sottosviluppo o rivoluzione”. Per inquadrare il periodo: da due anni era stato ucciso Malcom X e in mezzo tra i due libri sarà ucciso anche Martin Luter King; dal 1966 Huey P. Newton e Bobby Seale promuovono il Black Panther Party, di ispirazione marxista-leninista su dieci punti programmatici[1] (avviarono la loro azione politica in questo movimento attivisti come George Jackson e Angela Davis); nel 1968 Che Guevara viene catturato e fucilato in Bolivia; la guerra del Vietnam, che terminerà solo nel 1975, era nel frattempo in una fase di espansione verso la Cambogia ed il Nord del Vietnam, entrambe bombardate dall’aviazione americana; i movimenti giovanili in tutto il mondo erano in fermento e ovunque si susseguivano stagioni di lotte operaie sempre più determinate.

Gunder Frank segue la breve parabola di Allende, fino al colpo di stato, e poi va in esilio in Europa. La sconfitta del programma della via cilena al socialismo[2], e la morte di Allende per opera dei golpisti sostenuti dal governo imperialista americano, determina in lui un profondo ripensamento della pratica fattibilità delle ipotesi del “terzomondismo”[3]. Certo la “teoria della dipendenza”, nella versione radicale di Gunder Frank, che abbiamo ripercorso leggendo i suoi libri degli anni sessanta, prevedeva non solo la disconnessione e l’industrializzazione sostitutiva (come avevano fatto, a partire dagli anni cinquanta paesi autoritari come la Corea del Sud, o, in precedenza, il Giappone, con ottimi risultati), ma anche e soprattutto il distacco e la sconfitta delle borghesie ‘compradore’ autoctone. È, infatti, drenando il surplus[4] prodotto nella nazione che le borghesie interconnesse con i centri “sviluppati”, e per questo dominanti, si riproducono come classe. Nel farlo estraggono e trasferiscono la gran parte dei capitali prodotti localmente e, tramite un insieme di meccanismi messi in evidenza già da Baran, “sviluppano il sottosviluppo”. Bisogna però comprendere che questa relazione tra ‘metropoli’ e ‘periferia’, si scala a tutti i livelli, e non designa solo la relazione, ad esempio, della regione di Buenos Aires con New York, ma quella complessiva tra il sistema finanziario argentino e quello statunitense, tra le industrie locali e le loro controparti multinazionali; relazioni che dominano il sistema di scambio (‘ineguale’) mondiale, e anche la relazione tra la complessa gerarchia dei centri e delle periferie interne, geografiche e sociali.


L’esperienza cilena



L’esperienza di Allende è centralissima, e non solo per Frank, nell’indicare l’impossibilità di una fuga da questo sistema; tale conclusione non è solo effetto dell’intelligence e dei capitali americani (gli Usa stanziarono 10 milioni di dollari per alimentare il golpe, mentre l’Urss, ad esempio, solo 400 mila dollari di aiuti), ma soprattutto per il ferreo boicottaggio interno dei grandi latifondisti e della borghesia cilena, raggruppata politicamente nelle forze che avevano perso, ma di stretta misura, le elezioni. L’interruzione completa degli investimenti esteri, auspicata nella teoria di Frank per i suoi effetti negativi, ma troppo rapida per essere compensata, e il congelamento dei crediti (cui Allende rispose bloccando i conti dei latifondisti e nazionalizzando il sistema bancario), insieme ad una massiva fuga di capitali determinò, infatti, una selvaggia crisi sociale, e famosi scioperi, e creò le condizioni interne per il golpe. Come aveva previsto Frank era in definitiva la buona società cilena, che, resa dipendente dall’estero e subordinata ai flussi estrattivi che verso questo si indirizzavano (o, per essere più precisi, dalla quota che riuscivano a trattenere), attraversò una crisi di rigetto, suscitata e poi strumentalizzata dall’esterno per ricondurre il paese alla compatibilità con il quadro internazionale.

Una cosa del genere di quella che sta accadendo in Venezuela[5], si spera senza lo stesso esito.



Pochi anni dopo Gunder Frank scriverà, riflettendo su quella tragica esperienza, che “la teoria e la pratica della dipendenza era veramente morta. Il generale Pinochet l’aveva decapitata con la sua spada l’11 settembre 1973”.

L’Accumulazione flessibile

Questa svolta, che ebbe importanti conseguenze anche nell’evoluzione del Pci in Italia[6], avvia la prima sperimentazione di quel brutale processo di ri-disciplinamento delle forze popolari tramite la mobilitazione globale del capitale produttivo in cerca ovunque di ‘forza-lavoro’[7] a basso costo in quanto erogata da lavoratori deboli ed obbedienti (peraltro anche a causa del loro inserimento in stati molto autoritari e nei quali i diritti civili erano inesistenti) che prende il via negli anni settanta, per poi accelerare nel ventennio successivo. Si entra nel modello della “accumulazione flessibile”[8], di cui il Cile di Pinochet, accompagnato dai ‘Chicago boys’, fu uno dei più rilevanti laboratori. Alcuni paesi (le “tigri asiatiche”) grazie ad un mix di autoritarismo, investimento pubblico in infrastrutture e sostegno ai ‘campioni nazionali’, apertura selettiva, e totale apertura commerciale, muovono da questi anni creando alla fine un modello di sviluppo “orientato verso l’esterno” di grande successo che appare a molti come una confutazione della “teoria della dipendenza”, mentre ne è probabilmente una conferma. La “teoria”, infatti, individuava “centri” e “periferie” senza presumere che questi fossero esclusivamente concentrati in una specifica area, e la dominazione come dialettica tra classi dominanti, per la loro posizione nei flussi internazionali di risorse (capitali, merci, forza-lavoro), e classi dominate. È necessario solo un piccolo aggiustamento per comprendere i centri dominanti interconnessi, e le borghesie “compradore”[9], ovunque siano, per quello che sono (un effetto della totalità), e quindi per comprendere che in una nuova geometria di relazioni (ovvero di potere) quel che prima era parte del ‘centro’, sia pure subordinato, è respinto alla ‘periferia’. Il nuovo assetto passa dal disegnare un mondo a grandi campiture ad un pianeta a ‘pelle di leopardo’, nel quale tanti centri interconnessi sfruttano insieme periferie distribuite[10].

La "Scuola del sistema mondo"

Alla ricerca di un nuovo schema esplicativo che superi, o almeno spieghi, l’impossibilità di uno sviluppo autonomo dell’America latina, cioè di quello che ho chiamato “piccolo aggiustamento”, ed entrando negli anni ottanta nel modello ‘dell’accumulazione flessibile’, Frank si avvicina a Immanuel Wallerstein che sta nel frattempo mettendo in piedi la “Scuola del sistema mondo” (che incorpora dalla teoria precedente i concetti di ‘costellazioni di centri e periferie’, ‘drenaggio del surplus’, ‘scambio ineguale’) e la cui principale mossa, in linea con lo spirito dei tempi, è di spostare il focus dagli Stati-nazione, agenti storici dello sviluppo nella precedente impostazione, ai processi globali integrati. Confluiscono Giovanni Arrighi, Samir Amin, Terence Hopkins.


Il sistema mondo, sul quale abbiamo letto in precedenza in particolare le opere di Giovanni Arrighi[11], e la versione, in parte ancora connessa con la teoria della dipendenza, proposta da Samir Amin[12], comporta la scelta di un’unità di analisi globale, intesa come totalità sociale nella quale vengono lette sia le sfere dell’economico (produzione, distribuzione e consumo), sia le loro relazioni strutturali con il politico ed il sociale. Il capitalismo è letto come un processo di accumulazione illimitata, capace di connettere mercati e processi e di integrare in posizioni strutturate e gerarchiche centro-periferia. Da questo paradigma emerge alla fine degli anni ottanta una nuova percezione dell’insorgenza dell’egemonia occidentale e della rete integrata mondiale ad essa precedente (incentrata sull’impero mongolo)[13], e quindi la ripresa del concetto marxiano di “modo di produzione”, in particolare grazie al contributo innovativo di Giovanni Arrighi.
Tuttavia lo stesso capitalismo è individuato come forma specificamente moderna di una relazione totale allargata all’intero pianeta, che, secondo la teoria, dal 1500 si espande distruggendo ed incorporando le periferie extraeuropee. Questo movimento, da un centro dotato di capacità di sviluppo endogeno, a periferie dominate/associate, diventerà in seguito uno dei principali punti di divergenza con Frank, il quale supera, insieme all’implicito eurocentrismo del modello, il concetto stesso di modernità e di discontinuità (quindi di sviluppo e progresso).

Il problema, come vedremo, è che senza un’idea di progresso e di modernità viene meno il punto di vista dal quale criticare l’esistente, che, a questo punto appare come semplicemente esistente. Frank cercherà di sfuggire a questo esito, ma in qualche modo cadendo in una sorta di ribellismo in ultima analisi disperato (o di vitalismo).

Ogni plausibile speranza d’azione era perduta.

Bisogna procedere leggendo la Seconda Parte.



[1] - Il Ten Point Plan recitava: 1. Vogliamo la libertà, vogliamo il potere di determinare il destino della nostra comunità nera; 2. Vogliamo piena occupazione per la nostra gente; 3. Vogliamo la fine della rapina della nostra comunità nera da parte dell'uomo bianco; 4. Vogliamo abitazioni decenti, adatte a esseri umani; 5. Vogliamo per la nostra gente un'istruzione che smascheri la vera natura di questa società americana decadente. Vogliamo un'istruzione che ci insegni la nostra vera storia e il nostro ruolo nella società attuale; 6. Vogliamo che tutti gli uomini neri siano esentati dal servizio militare; 7. Vogliamo la fine immediata della brutalità della polizia e dell'assassinio della gente nera; 8. Vogliamo la libertà per tutti gli uomini neri detenuti nelle prigioni e nelle carceri federali, statali, di contea e municipali; 9. Vogliamo che tutta la gente nera rinviata a giudizio sia giudicata in tribunale da una giuria di loro pari o da gente delle comunità nere, come è previsto dalla costituzione degli Stati Uniti; 10. Vogliamo terra, pane, abitazioni, istruzione, vestiti, giustizia e pace.
[2] - Si parte con la totale nazionalizzazione delle principali industrie private del paese, le miniere di rame (sotto il controllo della Kennecott e della Anaconda statunitensi), delle banche, delle compagnie di assicurazione e dell’energia elettrica, i trasporti, le telecomunicazioni, l’industria pesante. Al 1973 lo Stato controllava ormai il 90% delle miniere, il 85% delle banche, l’80% delle grandi industrie, ed il 50% delle aziende medio-piccole. Fu fatta una riforma agraria e sospesi i pagamenti esteri e congelati i crediti di molti potentati. Fu anche introdotto il divorzio e aumentati i salari, con l’introduzione del salario minimo garantito e ridotto il prezzo degli affitti. Le imprese pubbliche vedevano un ruolo rilevante ai lavoratori e molti altri istituti di democrazia di base, inoltre fu istituito un sistema decentrato di controllo dei prezzi, sulla base di una rete di agenzie governative e di organi consiliari municipali composti da normali cittadini. Il governo avviò un programma di lavori pubblici, in particolare per connettere meglio le periferie ed i quartieri operai al centro delle città, ed avviò un programma di case popolari. Fu definitivamente abolito il latifondo e i terreni affidati a cooperative agricole. La quota del reddito salariale salì dal 51% al 65% e i consumi delle famiglie aumentarono in consumi del 12%.
[3] - Che si era raggruppato sotto la “teoria della dipendenza” ed ipotizzava la disconnessione dal sistema mondiale per evitare che questo inducesse lo “sviluppo del sottosviluppo”.
[4] - Come abbiamo già visto il concetto di “surplus”, per come è usato da Frank, risale alla teorizzazione di Paul Baran che si collega alla distinzione tra surplus potenziale ed effettivo. Questa nozione che affonda nei classici (i fisiocratici, Quesnay, e poi Smith, Ricardo), fa riferimento semplicemente al prodotto sociale che rimane dopo che sono stati reintegrate le dotazioni produttive necessarie alla generazione (lavoro e riproduzione incluse). Ma per Baran solo il surplus effettivo è osservabile in una data società concreta, il secondo è “la differenza tra il prodotto che si potrebbe ottenere in un dato ambiente naturale e tecnologico con le risorse produttive impiegabili, e ciò che si potrebbe considerare come consumo indispensabile”. Tra sviluppo e sottosviluppo, individuabile come differenza maggiore o minore tra surplus effettivo e potenziale, c’è quindi una relazione dialettica in quanto i paesi che si sviluppano lo fanno nella misura in cui drenano il potenziale di quelli che, per questo, restano ‘sottosviluppati’.
[5] - Si veda, ad esempio, “Venezuela: il black out elettrico”.
[6] - Come noto Enrico Berlinguer, alla guida del Pci da appena un anno e già in diverse occasioni impegnato a recuperare la prospettiva di Togliatti (“Svolta di Salerno”) di alleanza interclassista tra le grandi famiglie politiche comunista, socialista e cattolica che aveva sovrainteso alla redazione costituzionale, utilizza in tre importanti articoli su “Rinascita” (28 settembre, 5 ottobre e 12 ottobre) l’esperienza cilena per vincere le resistenze interne e accreditare quella strategia che passerà come “Compromesso Storico”, sostanzialmente fallita nel biennio 1976-78, ma mai più abbandonata come cultura politica, lettura dei processi di democratizzazione e concezione del progresso politico. Il “compromesso” con le forze moderate democratiche (con quelle che Frank chiama le “borghesie compradore”), nasce dalla visione della conseguenza della ‘divisione in due del paese’ manifestatasi in Cile, ma soprattutto dalla convinzione che serva una ‘larga alleanza sociale’ con i ceti medi ed i loro rappresentanti politici (ovvero la Democrazia Cristiana).
[7] - Il concetto di ‘forza-lavoro’ non è equivalente a quello di ‘lavoro’. Per comprenderlo occorre distinguere intanto tra ‘lavoro concreto’ (quel che faccio quando produco, ad esempio, una sedia di legno), e ‘lavoro astratto’ che è definito dalla riduzione ad una metrica comune che rende scambiabile il loro prodotto e remunerabile, in quanto valorizzato nella sfera dello scambio, l’unità di tempo estratta dal flusso vitale, ovvero un ‘tot’ di ‘forza’ capace di produrre. Ciò che rende possibile estrarre, un’astrazione concreta, dal flusso vitale del ‘lavoratore’ (creandolo come tale) una ‘forza-lavoro’ che produce valore di scambio è la ‘piattaforma tecnologica’, ovvero un set di funzionamenti essenziali, punti di convenienza e vantaggio determinati da gruppi di tecnologie convergenti e reciprocamente rafforzanti, quindi dall’insieme di skill favoriti da queste e di know how privilegiati, ma anche da norme sociali e giuridiche che si affermano nella sfera pubblica e privata, e infine da pacchetti di incentivi pubblici e privati. Una “Piattaforma Tecnologica” è, inoltre sempre connessa con un assetto geopolitico che la rende vincente (ed in ultima analisi possibile). Se la ‘forza-lavoro’ è determinata dal lavoro dell’insieme del mercato e dalle caratteristiche proprie della ‘piattaforma tecnologica’ vigente (e differenziata da paese a paese) il suo miracolo è di rendere commensurabile ciò di cui si dà scambio, superando le perplessità antiche (Aristotele, “Etica Nicomachea”, Laterza, p.193). Ma ciò che è commensurabile, in quanto astratto, può essere soppesato e messo in concorrenza.
[8] - Si veda per il concetto di “accumulazione flessibile” David Harvey. Si tratta del modello di accumulazione che prende piede, trasformandosi continuamente, quando crollano le condizioni internazionali, tecnologiche e socio-politiche del modello keynesiano. Alla crisi di accumulazione, determinata da tanti e diversi fattori ma nella quale la capacità della ‘forza-lavoro’, nelle condizioni della fabbrica fordista, di imporsi come soggettività politica, e quindi di pretendere rispetto ed estrarre maggior valore, sottraendosi alla logica di comando verticale, è centrale. La crisi di redditività induce prima una fuga degli investimenti nella finanza, quindi crea le condizioni della ri-subordinazione dei lavoratori e della interscambiabilità, su base globale, della loro forza-lavoro. Dunque in questa de-soggettivazione della forza-lavoro viene ricreato un ‘esercito industriale di riserva’ per via di allargamento a popolazioni non inserite (donne, minoranze), inserimento di centinaia di milioni di nuovi individui incapaci di esprimere soggettività politica nel mondo ‘in convergenza’, e immigrazione. Le condizioni di questa nuova forma di accumulazione, che, però, ha scavato sotto le proprie fondamenta sia sul piano economico sia politico, sono anche tecnologiche e commerciali e rendono possibile scambiare la ‘forza-lavoro’ in modo del tutto nuovo, rendendola indefinitamente flessibile, rapidamente sostituibile, esposta al ricatto del capitale.
[9] - Si chiama “borghesia compradora” quella borghesia parassitaria che si organizza e trae il suo ruolo dal flusso di surplus che è estratto da centri (o ‘metropoli’, con il linguaggio di Gunder Frank) dominanti da periferie diversificate. Si tratta di ceti connessi con le industrie di esportazione, manager, azionisti, operatori di logistica, produttori di informazione e/o di decisioni, operatori finanziari. La borghesia ‘compradora’, il capitale monopolistico, e tutti i loro agenti e meccanismi sono parte nel loro insieme, come totalità, del modo di produzione necessariamente allargato alla scala mondiale che determina l’accumulazione (‘flessibile’) del capitale.
[10] - Affrontando una discussione sul ruolo della immigrazione e di come rapportarsi ad essa da una prospettiva neo-socialista, in “Circa Fabrizio Marchi” avevo provato a scrivere che il neo-colonialismo è una etichetta semplificata che mettiamo verso un processo di generazione e sfruttamento della debolezza dove si vede meglio: nei paesi meno capaci di opporre allo sfruttamento capitalista la logica dell’interesse pubblico, per debolezza relativa delle loro forme statuali e per ‘cattura’ particolarmente pronunciata delle élite “compradore”. Ma anche questa è una semplificazione: le contraddizioni dell’espropriazione/appropriazione e della polarizzazione metropoli/satellite “penetrano, come una catena, il mondo sottosviluppato nella sua totalità, creando una struttura di sottosviluppo ‘interna’”(Gunder Frank, 1967). Il sottosviluppo, africano come quello del sud Italia, ma anche quello delle periferie di Milano, o di Shangai, non è quindi questione geograficamente ‘esterna’, non si tratta di essere sfruttati da fuori, e non è questione principalmente di ‘fughe di capitali’ o di ‘uomini’ (anche se entrambe hanno molto a che fare), ma è “interno/esterno”, è una “struttura” che, questa, va integralmente distrutta e sostituita con una dimensione socialista di sviluppo.
[11] - Di Giovanni Arrighi si può leggere, “Il lungo XX secolo”, del 1994, “Caos e governo del mondo”, del 1999, ed il suo ultimo scritto, il “Poscritto” al “Lungo XX secolo”, scritto poco prima di morire, nel 2009.
[12] - Di Samir Amin, il suo capolavoro del 1973 “Lo sviluppo ineguale”, “Oltre la mondializzazione”, del 1999, “Il virus liberale”, del 2004, “Per un mondo multipolare”, del 2006, “La crisi”, del 2009, il recentissimo “La sovranità popolare, unico antidoto alla offensiva del capitale”.
[13] - Si parla del libro di Janet Abu-Lughod “Before European Hegemony: the world system AD 1250-1350”, del 1991.

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