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sabato 30 marzo 2019

Aufstehen e dintorni: campagna per il diritto alla casa.



Il movimento promosso da Sahra Wagenknecht, Aufstehen, sta sviluppando da qualche tempo una sistematica campagna per il diritto alla casa[1] ed alla città[2]. Questa si articola in una vasta rete di mobilitazioni locali riportate in questa mappa che focalizza, in particolare la questione del caro fitti[3].

Anche se in un mercato immobiliare meno asfittico di quello italiano (dove la più alta percentuale di case in proprietà rende molto scarsa l’offerta di alloggi in affitto sul mercato), anche in Germania gli affitti aumentano, e soprattutto in molti casi contribuiscono ad espellere la popolazione poco abbiente dai quartieri intermedi ed a concentrarla in aree di degrado fisico e sociale. Come scrive il lancio della campagna: “la crescita dei fitti è socialmente esplosiva. Una spaccatura attraversa la popolazione: coloro che non guadagnano abbastanza sono espulsi, perdendo vicini, amici, patria. [Inoltre] l’affitto stesso consuma i redditi della classe media”. Segue l’indicazione delle cause, connesse con la finanziarizzazione della nostra economia: “Le ‘locuste’ comprano le nostre città, aziende come la Deutsche Wohnen e la Vonovia espellono gli inquilini”. Ed, infine, la proposta di intervento: “non deve essere così: nel dopoguerra c’era una protezione legale in Germania. Fino al 1988 le autorità di Berlino Ovest potevano vietare l’aumento degli affitti. Gli esperti costituzionali e delle locazioni considerano possibile la protezione degli affitti nella città consolidata”.



Questa è la situazione, che è giunta, al termine di un lunghissimo sentiero di ritirata della funzione pubblica, crisi fiscale dello Stato, ed esaltazione dell’equilibrio automatico del mercato, ad un livello assolutamente intollerabile, con percentuali crescenti e non marginali di famiglie in grandissima difficoltà.

L’orientamento delle politiche abitative neoliberale, dominante da un trentennio, prevede infatti, in Germania come in Italia, o in Francia, di lasciare che sia il mercato ad associare domanda di casa ed offerta, limitandosi a politiche indirette (o per ridurre il costo unitario di costruzione, o per integrare il reddito degli inquilini), e solo nei casi estremi intervenendo sull’offerta di mercato direttamente con nuovi programmi di edilizia. Di fatto questi ultimi, per l’enorme distanza tra la domanda di accesso a case ‘popolari’, e l’offerta limitatissima di queste, sono demandati a situazioni emergenziali, alloggi di rotazione, provvisori.
Inoltre alla fine le politiche della casa neoliberali hanno privilegiato i ceti medi, comunque inseriti nella società del lavoro, dotati di redditi e solvibili. Le popolazioni marginali sono risultate espulse, rese periferiche; quando non accedono, o lo fanno saltuariamente, alla società del lavoro, sono trattate in modo assistenziale, senza garantirgli la sicurezza abitativa e livelli decenti di accesso alla città. Affidare al mercato la soluzione, infatti, determina la necessaria affermazione della “logica della valorizzazione” del patrimonio, favorendo i grandi operatori immobiliari, facendo calare in secondo piano la “logica dell’interesse pubblico”, che prevedrebbe di salvaguardare con investimenti pubblici di autorità ed economici la complessità sociale, la coesione, la qualità della vita collettiva.
Meccanismi potenti di esclusione determinano fenomeni di polarizzazione sociale e la creazione di enclave che a volte si specializzano in senso etnico o culturale, identificandosi come aree di insediamento, in relazione al fenomeno dell’immigrazione, di vere e proprie ‘diaspore’[4]. Quando per effetto del trattamento della domanda di casa, o di meccanismi di espulsione e polarizzazione di mercato, si determina una concentrazione escludente. Ovvero la creazione di quartieri “monoclasse”, nei quali, talvolta anche per effetto della logica modernista della loro concezione, finisce per venire a mancare la varietà sociale che è anche occasione di percorsi, individuali e collettivi di mobilità verticale.

Le soluzioni offerte agli “underclass”, dalle politiche assistenziali neoliberali, sono strutturalmente residuali e fortemente sottofinanziate. Si tratta di soluzioni temporanee, quasi sempre di scarsissima qualità, distanti dal modello di casa ordinaria per una famiglia ordinaria. Soluzioni che sono classificate come “di accoglienza”, “di emergenza”, e quindi imperniate su offerte di rifugi, residenze sociali collettive, talvolta veri e propri dormitori.

Al di fuori di queste soluzioni estreme, e per loro natura dissuasive e punitive, si allarga l’area del disagio abitativo e dell’emergenza affitti. Emergenza che, come correttamente individua il lancio di Aufstehen, esercita una pressione verso il basso per i ceti deboli, costretti a impegnare una quantità eccessiva di risorse per garantirsi il tetto, a svantaggio non solo della qualità della vita, ma anche, spesso, degli investimenti in istruzione, salute, cultura o socializzazione, che possono essere precondizione per garantirsi la possibilità di miglioramento.

Molta dell’attuale antipolitica, che prolifera nella mancanza di speranza e nella rabbia, nasce da qui.



Le mobilitazioni rappresentate nella mappa mostrano la rilevanza del tema: in un documento a Colonia, ad esempio, si legge che gli affitti dal 2010 sono aumentati del 40% e, in conseguenza, gli inquilini a basso reddito devono lasciare i loro quartieri, le ristrutturazioni espellono ancora più persone, nel frattempo aumentano gli alloggi sfitti ed il numero dei senzatetto. La causa è l’esposizione al mercato senza freni o limiti, per cui gli investitori internazionali e le immobiliari (Vonovia, Deutsche Wohnen, Leg, …) ritirano immobili dal mercato, restringendolo. D’altra parte gli immobili immessi sul mercato secondo una programmazione pubblica sono sempre insufficienti e i relativi inquilini troppo pochi.

A Lipsia, sostiene un altro sito di mobilitazione, c’è stato un forte aumento della domanda di abitazioni e un mercato immobiliare orientato al profitto, insieme alla speculazione immobiliare, ha determinato l’aumento dei fitti. È necessaria quindi una politica di edilizia sociale, che garantisca a tutti, indipendentemente dal reddito, dall’origine o dal genere, di avere accesso ad alloggi decenti e di buona qualità. Bisogna fissare che nessuna famiglia spenda più del 30% del proprio reddito per la casa. Bisogna quindi intervenire garantendo la costruzione di alloggi senza scopo di lucro o accessibili per tutti, promuovere l’edilizia sociale e cooperativa, i sussidi agli investimenti e strumenti come gli “Statuti di conservazione sociale”, che ostacolino le ristrutturazioni di lusso e la conversione degli immobili, il diritto di prelazione pubblico, e la limitazione alle case per vacanze. E’ infine indispensabile una lotta efficace per i senzatetto in alloggi permanenti.

A Potsdam, il sito “Una città per tutti”, organizza una ‘passeggiata per la città’, e contiene tantissime mobilitazioni, segnalazioni, denunce e analisi sulle disfunzioni urbane. Su un gruppo di inquilini che si mobilitano contro la vendita dell’immobile, chiedendo al municipio di esercitare il diritto di prelazione[5], ed hanno anche offerto l’acquisto dello stesso. Ma la lievitazione dei prezzi nel mercato del lusso, in continua crescita in Germania (e non solo), causato da una società che si sta divaricando a danno delle classi medie, e dal carattere internazionale del mercato immobiliare, ha fatto rifiutare l’offerta. Anche qui l’indicazione è che lo “Statuto di Conservazione”, se emanato dai Comuni, potrebbe essere lo strumento per garantire che “la conservazione della composizione sociale della popolazione residente”, riconosciuta come parte del ‘diritto alla città’.

A Dresda, un documento di mobilitazione, racconta che anche nella città gli affitti stanno aumentando rapidamente, e molti sono costretti a trasferirsi in quartieri più economici. Ciò è causato dalle retribuzioni stagnanti mentre i prezzi delle case salgono. Negli ultimi anni c’è stato un aumento del 30% e la vendita delle case popolari urbane, poi ristrutturate. Solo i progetti di trasformazione urbana orientati alla “logica della valorizzazione”, ovvero al profitto, sono perseguiti, mentre quelli “orientati all’interesse pubblico” sono ignorati. Gli estensori del documento chiedono una città:
-        che non sia modello di business ma spazio di vita aperto a tutti senza discriminazioni,
-        in cui le case siano costruite per vivere e non a scopo di lucro,
-        in cui nessuno debba vivere in rifugi, o per strada,
-        con alloggi sociali accessibili a tutti,
-        e nella quale lo spazio vitale, il suolo e la natura siano effettiva proprietà comune.

A Monaco, il manifesto della mobilitazione dichiara di essere stufo degli speculatori che trasformano la città in una giungla di cemento senza anima e mette a disposizione una piattaforma aperta per mettere in rete gli abitanti, aumentare gli scambi tra di loro, la coesione e la consapevolezza. Organizzarsi contro la follia degli affitti e contrattaccare, “per una città bella e colorata!” (Für eine bunte und liebenswerte Stadt!).

Ma mobilitazioni sono presenti anche a Londra (“Radical housing network”) o Parigi (Droit au longemnent), Budapest (qui).

La crisi degli alloggi è, insomma, comune a tutta Europa ed è parte fondamentale della crisi neoliberale.

In Italia abbiamo oltre 700.000 famiglie nelle liste comunali in cerca di sostegno per risolvere il loro problema di disagio abitativo, quasi 70.000 sfratti all’anno, oltre 100.000 alloggi impropri e degradati, e meno del 5% delle domande hanno qualche speranza di essere soddisfatte.

E’ necessario ed urgente un massiccio investimento di capitale pubblico diffuso, orientato a riadeguare le caratteristiche dell’edilizia residenziale alla domanda locale (in Italia riducendo anche la quota di case in proprietà senza essere in uso familiare), avendo in grande cura la coesione sociale e l’integrazione sociale, oltre alla lotta a qualunque discriminazione. Ma si tratta anche di lavorare per proteggere l’ambiente urbano e l’equilibrio del pianeta, innalzando radicalmente gli standard energetico-ambientali e diffondendo in tutta la città piccoli nuclei di alloggi sociali per lo più ricavati dalla rifunzionalizzazione del costruito. Creando, secondo l’esempio tedesco, “Statuti di Conservazione sociale” e riservando ad essi risorse per l’esercizio del diritto di esproprio pubblico per ragioni di conservazione dell’equilibrio sociale di quartiere, quando si è di fronte ad operazioni rivolte ad alterarlo violentemente.

Agganciando tali Statuti, come proposto in questo post, al progetto di mettere in rete ed in comune la produzione energetica (“comunità energetiche cooperative”) e pratiche sociali volontarie rivolte all’inclusione ed all’affermazione del “diritto alla città”.  



[2] - Il termine come è noto è stato formulato da Henri Lefebvre nel suo libro del 1968 Il diritto alla cittàed indica il diritto di ciascuno di disporre, ma collettivamente, come diritto sociale, di una esperienza spaziale adeguata a sostenere una vita decente e dignitosa e non segregante o controllata. Indica un mutamento del soggetto che è legittimato a porre la domanda circa il tipo di città che vogliamo, il tipo di persone che vogliamo essere, i rapporti sociali cui aspiriamo, il rapporto che intendiamo promuovere con la natura, e, naturalmente, con le tecnologie che riteniamo convenienti. Dunque il “diritto alla città” non è un diritto individuale di accesso alle risorse originariamente concentrate nella città stessa: piuttosto è il diritto a cambiare insieme alla città, in modo da renderla conforme ai desideri, insieme scoprendoli. È un diritto collettivo (sociale) e non individuale (civile), e si traduce necessariamente nell’esercizio di un potere collettivo sul processo di urbanizzazione. Il “diritto alla città”, insomma, ossia il controllo della stretta relazione fra urbanizzazione, produzione e uso delle eccedenze di capitale, è quindi essenziale per riportare sotto controllo sociale la dinamica del capitalismo. Perché gli attori sociali imparino, attraverso le lotte per il riconoscimento, a riferirsi gli uni agli altri non come strumenti del reciproco egoismo (sotto l’egemonia del valore di scambio), ma come soggetti di bisogni. Agendo l’uno-per-l’altro, intrecciando i piani di vita condividendo la comune preoccupazione per l’autorealizzazione. La libertà non è, in questa visione che sarà sconfitta, realizzabile dai singoli ma da una formazione collettiva adeguata.
[3] - Si tratta di una più ampia mobilitazione europea nella quale è stata organizzata la Giornata di azione europea per il diritto alla casa.
[4] - Le quali tendono a perpetuarsi e quindi a consolidare comportamenti separati, talvolta devianti, ed a essere potenti attrattori di nuova immigrazione, si veda in proposito Collier, “Exodus”.
[5] - Che è un’interpretazione estensiva, finora mai applicata, del diritto di espropriare a prezzi di mercato per scopi e infrastrutture comunali. Un’interpretazione che si appoggia sull’istituto giuridico tedesco dello “Statuto di conservazione” (l’ultimo a Potsdam nel 1992, poi confermato nel 2014). La cui prevalente interpretazione è, però, quella di essere diretto alla conservazione dell’edilizia fisica e del relativo tessuto (La petizione).

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