Il movimento promosso da Sahra Wagenknecht, Aufstehen,
sta sviluppando da qualche tempo una sistematica campagna per il diritto alla
casa[1] ed
alla città[2]. Questa
si articola in una vasta rete di mobilitazioni locali riportate in questa
mappa che focalizza, in particolare la questione del caro fitti[3].
Anche se in un mercato immobiliare meno asfittico di quello
italiano (dove la più alta percentuale di case in proprietà rende molto scarsa
l’offerta di alloggi in affitto sul mercato), anche in Germania gli affitti
aumentano, e soprattutto in molti casi contribuiscono ad espellere la
popolazione poco abbiente dai quartieri intermedi ed a concentrarla in aree di
degrado fisico e sociale. Come scrive il lancio della campagna: “la crescita
dei fitti è socialmente esplosiva. Una spaccatura attraversa la popolazione:
coloro che non guadagnano abbastanza sono espulsi, perdendo vicini, amici, patria.
[Inoltre] l’affitto stesso consuma i redditi della classe media”. Segue l’indicazione
delle cause, connesse con la finanziarizzazione della nostra economia: “Le ‘locuste’
comprano le nostre città, aziende come la Deutsche Wohnen e la Vonovia
espellono gli inquilini”. Ed, infine, la proposta di intervento: “non deve
essere così: nel dopoguerra c’era una protezione legale in Germania. Fino al
1988 le autorità di Berlino Ovest potevano vietare l’aumento degli affitti. Gli
esperti costituzionali e delle locazioni considerano possibile la protezione
degli affitti nella città consolidata”.
Questa è la situazione, che è giunta, al termine di un
lunghissimo sentiero di ritirata della funzione pubblica, crisi fiscale dello
Stato, ed esaltazione dell’equilibrio automatico del mercato, ad un livello
assolutamente intollerabile, con percentuali crescenti e non marginali di
famiglie in grandissima difficoltà.
L’orientamento delle politiche abitative neoliberale,
dominante da un trentennio, prevede infatti, in Germania come in Italia, o in
Francia, di lasciare che sia il mercato ad associare domanda di casa ed
offerta, limitandosi a politiche indirette (o per ridurre il costo unitario di
costruzione, o per integrare il reddito degli inquilini), e solo nei casi
estremi intervenendo sull’offerta di mercato direttamente con nuovi programmi
di edilizia. Di fatto questi ultimi, per l’enorme distanza tra la domanda di accesso
a case ‘popolari’, e l’offerta limitatissima di queste, sono demandati a
situazioni emergenziali, alloggi di rotazione, provvisori.
Inoltre alla fine le politiche della casa neoliberali
hanno privilegiato i ceti medi, comunque inseriti nella società del lavoro,
dotati di redditi e solvibili. Le popolazioni marginali sono risultate espulse,
rese periferiche; quando non accedono, o lo fanno saltuariamente, alla società
del lavoro, sono trattate in modo assistenziale, senza garantirgli la sicurezza
abitativa e livelli decenti di accesso alla città. Affidare al mercato la
soluzione, infatti, determina la necessaria affermazione della “logica della valorizzazione” del patrimonio,
favorendo i grandi operatori immobiliari, facendo calare in secondo piano la “logica dell’interesse pubblico”, che
prevedrebbe di salvaguardare con investimenti pubblici di autorità ed economici
la complessità sociale, la coesione, la qualità della vita collettiva.
Meccanismi potenti di esclusione determinano fenomeni
di polarizzazione sociale e la creazione di enclave che a volte si
specializzano in senso etnico o culturale, identificandosi come aree di insediamento,
in relazione al fenomeno dell’immigrazione, di vere e proprie ‘diaspore’[4]. Quando
per effetto del trattamento della domanda di casa, o di meccanismi di
espulsione e polarizzazione di mercato, si determina una concentrazione escludente.
Ovvero la creazione di quartieri “monoclasse”, nei quali, talvolta anche per
effetto della logica modernista della loro concezione, finisce per venire a mancare
la varietà sociale che è anche occasione di percorsi, individuali e collettivi
di mobilità verticale.
Le soluzioni offerte agli “underclass”, dalle
politiche assistenziali neoliberali, sono strutturalmente residuali e fortemente
sottofinanziate. Si tratta di soluzioni temporanee, quasi sempre di scarsissima
qualità, distanti dal modello di casa ordinaria per una famiglia ordinaria. Soluzioni
che sono classificate come “di accoglienza”, “di emergenza”, e quindi imperniate
su offerte di rifugi, residenze sociali collettive, talvolta veri e propri
dormitori.
Al di fuori di queste soluzioni estreme, e per loro
natura dissuasive e punitive, si allarga l’area del disagio abitativo e dell’emergenza
affitti. Emergenza che, come correttamente individua il lancio di Aufstehen, esercita
una pressione verso il basso per i ceti deboli, costretti a impegnare una
quantità eccessiva di risorse per garantirsi il tetto, a svantaggio non solo
della qualità della vita, ma anche, spesso, degli investimenti in istruzione,
salute, cultura o socializzazione, che possono essere precondizione per
garantirsi la possibilità di miglioramento.
Molta dell’attuale antipolitica, che prolifera nella
mancanza di speranza e nella rabbia, nasce da qui.
Le mobilitazioni rappresentate nella mappa mostrano la
rilevanza del tema: in un documento
a Colonia, ad esempio, si legge che gli affitti dal 2010 sono aumentati del 40%
e, in conseguenza, gli inquilini a basso reddito devono lasciare i loro
quartieri, le ristrutturazioni espellono ancora più persone, nel frattempo
aumentano gli alloggi sfitti ed il numero dei senzatetto. La causa è l’esposizione
al mercato senza freni o limiti, per cui gli investitori internazionali e le
immobiliari (Vonovia, Deutsche Wohnen, Leg, …) ritirano immobili dal mercato,
restringendolo. D’altra parte gli immobili immessi sul mercato secondo una programmazione
pubblica sono sempre insufficienti e i relativi inquilini troppo pochi.
A Lipsia, sostiene un altro sito di
mobilitazione, c’è stato un forte aumento della domanda di abitazioni e un
mercato immobiliare orientato al profitto, insieme alla speculazione immobiliare,
ha determinato l’aumento dei fitti. È necessaria quindi una politica di
edilizia sociale, che garantisca a tutti, indipendentemente dal reddito, dall’origine
o dal genere, di avere accesso ad alloggi decenti e di buona qualità. Bisogna fissare
che nessuna famiglia spenda più del 30% del proprio reddito per la casa. Bisogna
quindi intervenire garantendo la costruzione di alloggi senza scopo di lucro o
accessibili per tutti, promuovere l’edilizia sociale e cooperativa, i sussidi
agli investimenti e strumenti come gli “Statuti
di conservazione sociale”, che ostacolino le ristrutturazioni di lusso e la
conversione degli immobili, il diritto di prelazione pubblico, e la limitazione
alle case per vacanze. E’ infine indispensabile una lotta efficace per i
senzatetto in alloggi permanenti.
A Potsdam, il sito “Una città per tutti”, organizza una
‘passeggiata per la città’, e contiene tantissime mobilitazioni, segnalazioni,
denunce e analisi sulle disfunzioni urbane. Su un gruppo di inquilini che si
mobilitano contro la vendita dell’immobile, chiedendo al municipio di
esercitare il diritto di prelazione[5],
ed hanno anche offerto l’acquisto dello stesso. Ma la lievitazione dei prezzi
nel mercato del lusso, in continua crescita in Germania (e non solo), causato
da una società che si sta divaricando a danno delle classi medie, e dal carattere
internazionale del mercato immobiliare, ha fatto rifiutare l’offerta. Anche qui
l’indicazione è che lo “Statuto di Conservazione”,
se emanato dai Comuni, potrebbe essere lo strumento per garantire che “la
conservazione della composizione sociale della popolazione residente”, riconosciuta
come parte del ‘diritto alla città’.
A Dresda, un documento di
mobilitazione, racconta che anche nella città gli affitti stanno aumentando
rapidamente, e molti sono costretti a trasferirsi in quartieri più economici. Ciò
è causato dalle retribuzioni stagnanti mentre i prezzi delle case salgono. Negli
ultimi anni c’è stato un aumento del 30% e la vendita delle case popolari urbane,
poi ristrutturate. Solo i progetti di trasformazione urbana orientati alla “logica
della valorizzazione”, ovvero al profitto, sono perseguiti, mentre quelli “orientati
all’interesse pubblico” sono ignorati. Gli estensori del documento chiedono una
città:
-
che non sia
modello di business ma spazio di vita aperto a tutti senza discriminazioni,
-
in cui le case
siano costruite per vivere e non a scopo di lucro,
-
in cui nessuno
debba vivere in rifugi, o per strada,
-
con alloggi
sociali accessibili a tutti,
-
e nella quale lo
spazio vitale, il suolo e la natura siano effettiva proprietà comune.
A Monaco, il manifesto della
mobilitazione dichiara di essere stufo degli speculatori che trasformano la
città in una giungla di cemento senza anima e mette a disposizione una piattaforma aperta
per mettere in rete gli abitanti, aumentare gli scambi tra di loro, la coesione
e la consapevolezza. Organizzarsi
contro la follia degli affitti e contrattaccare, “per una città bella e colorata!”
(Für eine bunte und liebenswerte Stadt!).
Ma mobilitazioni sono presenti anche a Londra (“Radical housing network”) o
Parigi (Droit au longemnent),
Budapest (qui).
La crisi degli alloggi è, insomma, comune a tutta
Europa ed è parte fondamentale della crisi neoliberale.
In Italia abbiamo oltre 700.000 famiglie nelle liste
comunali in cerca di sostegno per risolvere il loro problema di disagio
abitativo, quasi 70.000 sfratti all’anno, oltre 100.000 alloggi impropri e
degradati, e meno del 5% delle domande hanno qualche speranza di essere soddisfatte.
E’ necessario ed urgente un massiccio investimento di
capitale pubblico diffuso, orientato a riadeguare le caratteristiche dell’edilizia
residenziale alla domanda locale (in Italia riducendo anche la quota di case in
proprietà senza essere in uso familiare), avendo in grande cura la coesione
sociale e l’integrazione sociale, oltre alla lotta a qualunque discriminazione.
Ma si tratta anche di lavorare per proteggere l’ambiente urbano e l’equilibrio
del pianeta, innalzando radicalmente gli standard energetico-ambientali e
diffondendo in tutta la città piccoli nuclei di alloggi sociali per lo più
ricavati dalla rifunzionalizzazione del costruito. Creando, secondo l’esempio
tedesco, “Statuti di Conservazione
sociale” e riservando ad essi risorse per l’esercizio del diritto di esproprio
pubblico per ragioni di conservazione dell’equilibrio sociale di quartiere,
quando si è di fronte ad operazioni rivolte ad alterarlo violentemente.
Agganciando tali Statuti, come proposto in
questo post, al progetto di mettere in rete ed in comune la produzione
energetica (“comunità energetiche cooperative”)
e pratiche sociali volontarie rivolte all’inclusione ed all’affermazione del “diritto alla città”.
[1] - Si veda, per un inquadramento, Antonio
Tosi, “Le
case dei poveri. È ancora possibile un welfare abitativo?” e “La
casa come base per il diritto alla città”.
[2] - Il termine come è noto è stato formulato da Henri Lefebvre nel suo
libro del 1968 “Il diritto alla città” ed
indica il diritto di ciascuno di disporre, ma collettivamente, come diritto
sociale, di una esperienza spaziale adeguata a sostenere una vita decente e
dignitosa e non segregante o controllata. Indica un mutamento del soggetto che
è legittimato a porre la domanda circa il tipo di città che vogliamo, il tipo
di persone che vogliamo essere, i rapporti sociali cui aspiriamo, il rapporto
che intendiamo promuovere con la natura, e, naturalmente, con le tecnologie che
riteniamo convenienti. Dunque il “diritto
alla città” non è un diritto individuale di accesso alle risorse
originariamente concentrate nella città stessa: piuttosto è il diritto a
cambiare insieme alla città, in modo da renderla conforme ai desideri, insieme
scoprendoli. È un diritto collettivo (sociale) e non
individuale (civile), e si traduce necessariamente nell’esercizio di un
potere collettivo sul processo di urbanizzazione. Il “diritto alla città”, insomma, ossia il controllo della stretta
relazione fra urbanizzazione, produzione e uso delle eccedenze di capitale, è
quindi essenziale per riportare sotto controllo sociale la dinamica del
capitalismo. Perché gli attori sociali imparino, attraverso le lotte per il
riconoscimento, a riferirsi gli uni agli altri non come strumenti del reciproco
egoismo (sotto l’egemonia del valore di scambio), ma come soggetti di bisogni.
Agendo l’uno-per-l’altro, intrecciando i piani di vita condividendo la comune
preoccupazione per l’autorealizzazione. La libertà non è, in questa visione che
sarà sconfitta, realizzabile dai singoli ma da una formazione collettiva adeguata.
[3] - Si tratta di una più ampia
mobilitazione europea nella quale è stata organizzata la Giornata di azione
europea per il diritto alla casa.
[5] - Che è un’interpretazione
estensiva, finora mai applicata, del diritto di espropriare a prezzi di mercato
per scopi e infrastrutture comunali. Un’interpretazione che si appoggia sull’istituto
giuridico tedesco dello “Statuto di conservazione” (l’ultimo a Potsdam nel 1992,
poi confermato nel 2014). La cui prevalente interpretazione è, però, quella di
essere diretto alla conservazione dell’edilizia fisica e del relativo tessuto (La
petizione).
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