Su MicroMega,
testata del gruppo La Repubblica/L’Espresso,
il dottorando in Scienze Politiche alla Scuola Normale Superiore che “si occupa
di sinistra radicale” Jacopo Custodi[1] sostiene
che alla egemonia della destra bisogna contrapporre un’altra idea di Italia,
evitando sia il rifiuto dell’identità nazionale sia l’interiorizzazione del discorso
della destra. E questa posizione, che dichiara frutto di “reimmaginazione politica”, la descrive come:
“immaginare un’identità
italiana che sia includente e progressista, basata sulla storia migliore del
nostro paese. Che ricordi con orgoglio la storia dei nostri nonni che diedero
la vita per la libertà, contro i fascisti che distrussero il nostro paese. Un’identità
italiana che non dimentichi che gli italiani sono stati un popolo migrante, e
che l’accoglienza e l’ospitalità italiana sono valori impressi nella nostra
storia e di cui dobbiamo andare fieri. Un’Italia che ami il suo passato e la
sua cultura, nella consapevolezza che la storia va avanti e le tradizioni
evolvono. Un’Italia internazionalista e interculturalista, consapevole che una
comunità nazionale sana ha tutto da guadagnare dall’incontro tra i popoli”.
Continua:
“Patriottismo non è
chiudere le frontiere, patriottismo è lottare per un paese con scuole e
ospedali pubblici di eccellenza, per la dignità di chi lavora. È rivendicare
una comunità solidale che ami la sua terra e che rifiuti ogni discriminazione
tra i suoi membri, ad esempio per il paese di origine o per il colore della
pelle. Perché l’Italia non è la Meloni, non è Salvini, non è Minniti. L’Italia
siamo noi che lottiamo per un paese migliore, che siamo attivi nella difesa
dell’ambiente e nella solidarietà coi migranti, che difendiamo i nostri diritti
in quanto lavoratori, donne, studenti. Non dovremmo più permettere alla destra
di appropriarsi incontrastata di quel termine – «Italia» – che identifica tutti
noi.
L’Italia siamo noi, ed
è venuto il momento di riprendercela”.
A parte l’ultima frase retorica e aggressiva (l’Italia,
evidentemente, non è della sinistra, almeno quanto non è della destra, ma è lo spazio
di una contesa), questa posizione mi ricorda qualcosa.
In un
post per molti versi frettoloso, e sul quale occorre tornare con più
approfonditi strumenti, a gennaio di due anni fa scrivevo, circa il “Patriottismo Costituzionale”:
“Il
‘patriottismo’ rivolto alla Costituzione implica, cioè, lealtà alla sostanza
universalista della libertà ed alla democrazia incorporata nelle costituzioni
novecentesche ed opera una cesura sistematica tra l’ideale politico della
nazione fatta da cittadini e quella immaginata costituita da un “popolo”;
dunque intesa come unità prepolitica fondata su fattori come linguaggio e
cultura (per non parlare della razza). Un “patriottismo” di questo genere è “politico” nel senso di
riconoscere pienamente il fatto del pluralismo, ovvero la piena legittimità dei
diversi possibili stili di vita e delle altre differenze che si riferiscano ai
valori della libertà e della democrazia. […] Raccontare questa storia, costruire questa immagine,
significa coltivare quello che Durkheim chiamava “patriottismo
costituzionale”, e che è necessario per mobilitare verso la direzione di un
cambiamento che, insieme, sia riscoperta di ciò che ‘realmente’ si è. Dove,
naturalmente, cosa o chi ‘realmente’ si è, è indissolubile da chi di vuole
essere al proprio meglio. E questo dal racconto di cosa e chi si è
stati al proprio meglio. Bisogna chiedersi che cosa o
chi ‘realmente’ siamo. Bisogna, cioè, ricordarlo, esercitare una
forma di ermeneutica storica e valoriale per definire, rammemorandolo, quale è
l’impegno che ci definisce. Bisogna cioè ricordare, e costruire, storie
illuminanti.
[…]
Anche qui occorre essere attenti: qualunque cosa sia
l’identità morale creata nella contingenza e nella temporalizzazione, è
qualcosa che deve sempre, di nuovo, essere ridefinita. Non qualcosa che è stato
e deve essere preservato. Non è “multiculturale”, nel senso di una
giustapposizione di monadi variamente diverse, incomunicabili, ma più un
tessuto di differenze che sono in contatto e nelle quali ci sono anche scontri,
in cui ci devono essere scontri.
[…]
Honneth punta perché quello che chiama “il patriottismo insito
nell’archivio europeo degli sforzi collettivi per conquistare la libertà” torni ad essere
rivolto alla sua realizzazione, riattivando e reinterpretando per i nostri
tempi le promesse istituzionalizzate nelle diverse “sfere”. Che questo
“patriottismo buono” (se posso dire così) scacci il “patriottismo cattivo” che
sta riprendendo piede sull’onda della paura e della sfiducia reciproca che è
alimentata proprio dall’inibizione a tutti i livelli, da quelli personali a
quelli economici e politici, determinata dall’imperialistico prevalere delle
sole “libertà giuridiche”, senza conservare le condizioni della loro attuazione.
Una simile forma di “Patriottismo
Costituzionale”, che si nutre dell’interpretazione dei momenti più alti della
nostra storia e dell’ancoramento alla sostanza di liberazione delle nostre
istituzioni, anzi dello “spirito oggettivo” di queste, nella loro eticità, non
è incompatibile con gli obblighi auto assunti nei confronti dell’umanità in
generale, ma li sostanzia. La causa dell’umanità si sostiene
difendendola entro di noi e nelle istituzioni con le quali abbiamo a che fare,
compiendo la “buona gara” di rendere ognuna esempio per l’altra.
Specificamente la Costituzione
repubblicana è per noi la sintesi concreta del progetto di agire insieme delle
principali culture nazionali, per come si è dato nel momento fondativo. Ciò non
significa musealizzarlo, ma riconoscere la necessità di una ermeneutica sempre
rinnovata, aperta ai problemi dell’oggi, che però tenga insieme.
Rispetto a questo progetto comune
nella svolta degli anni novanta si è prodotto un vulnus, una radicale
discontinuità, che ha allontanato dal terreno comune producendo l’egemone
dittatura di una delle culture presenti (ma minoritaria) nel compromesso
repubblicano. Gli effetti li stiamo vedendo.
I temi che possono essere
mobilitati, dunque, in una ripresa del concetto di “Patriottismo
Costituzionale” sono la valorizzazione della nostra storia recente come
felice fusione delle culture politiche intorno ad un comune interesse per la
crescita democratica, il rigetto della logica del “vincolo esterno” e il
rispettoso confronto non subalterno con la cultura luterano-calvinista del
“capitalismo del nord” (pur con tutte le sue differenze). La rivendicazione di
un orgoglio, che è anche amore e passione, per la capacità storica di trovare
una sintesi alta, insieme all’affermazione del diritto di autoderminarsi
secondo i nostri, propri, termini”.
Una lunga auto-citazione (che proprio non si fa).
Ne aggiungo un’altra, questa volta due anni dopo e non
(solo) mia. La versione tradotta in proposizioni del paragrafo sul “Patriottismo
senza Nazionalismo”, del “Manifesto
per la Sovranità Costituzionale”, firmato da Patria e Costituzione,
Rinascita! e Senso Comune:
1- L’amore
per la patria è un sentimento fondativo della comunità democratica, necessario
per la reciproca solidarietà
2- È
l’amore per una forma di vita libera, di fratellanza e solidarietà fra
cittadini, e di cura delle istituzioni comuni, nella misura in cui queste
garantiscono a tutti di vivere in pace e sicurezza, da liberi ed eguali
3- Un
sentimento di protezione data e ricevuta, necessariamente connesso ad un
territorio ed a una storia e cultura condivisa, non aggressivo e rispettoso del
simile amore per altre patrie
4- Un
sentimento concreto, non astratto e meramente universalistico, incarnato in un
luogo, una lingua, una cultura, delle istituzioni. Popolo, Stato, Nazione, sono
unità costruita politicamente e non trovata in sangue e suolo
5- Il
“patriottismo costituzionale” è indispensabile per generare i vincoli
autoassunti di solidarietà che possono rendere possibili politiche
redistributive e di giustizia sociale
6- L’emergente
individualismo, premessa e frutto insieme della svolta neoliberale, fa infatti
a meno del patriottismo e depotenzia la costituzione proprio per revocare e
rendere impossibili le politiche redistributive e cancellare la giustizia
sociale[2]
Tra i testi messi a confronto ci sono differenze di
accentuazione, e di cultura politica, che per certi versi ricordano i conflitti
tra le diverse anime della sinistra storica, ma credo sinceramente sia
difficile sostenere che i due brani sopra indicati siano identici a quelli
della Meloni o di Salvini, e che siano una “interiorizzazione del discorso
della destra”, come sostiene l’autore.
Ovvero che sia “rossobrunismo”, come scrive:
“Esiste all’interno
della sinistra una corrente minoritaria ma in crescita che cerca di coniugare
il patriottismo italiano con alcuni valori tradizionali della sinistra. È il
cosiddetto ‘rossobrunismo’, un’area politica eterogenea e di varie gradazioni,
che va da organizzazioni quali Patria e Costituzione, Rinascita! e Movimento Popolare
di Liberazione, fino a personaggi come Diego Fusaro. È il rossobrunismo italiano un esempio di questa
possibilità di reimmaginare la nazione di cui ho parlato finora? Assolutamente
no. Per una ragione molto semplice: perché nel rossobrunismo non c’è
reimmaginazione, non c’è sfida controegemonica, ma vi è piuttosto
un’interiorizzazione dei valori e dei significati che l’identità nazionale
assume all’interno della destra italiana. La vera natura dei rossobruni la
spiega molto bene Mauro Vanetti in un piccolo racconto a due puntate pubblicato sul
sito dei Wu Ming, in cui smonta le grottesche posizioni anti-immigrazione di
Fusaro e di quelli come lui. La ‘sinistra’ contro l’immigrazione altro non è
che l’utile idiota della destra italiana. Quando Fassina dichiara che le sinistre sono “diventate Ong, impegnate on
shore e off shore per i migranti” non vi è
nessuna sfida controegemonica. Ciò che abbiamo di fronte è piuttosto una triste
subalternità ideologica, una quasi totale interiorizzazione del discorso della
destra”.
Sostenere, cioè, con il supporto di qualche vecchio
attacco sul quale abbiamo già scritto e replicato[3], che
faccia parte di una presunta unica “area rossobruna” (che “cerca di coniugare
il patriottismo italiano con alcuni valori tradizionali della sinistra”[4]),
sia pure “con varie gradazioni”, sia “Patria
e Costituzione”, sia “Rinascita!”
(dimentica “Senso Comune”), sia il “Movimento Popolare di Liberazione” e,
infine, Diego Fusaro, è chiara espressione dell’enorme distanza dalla quale
guarda i fenomeni.
Secondo la sua accusa, in sintesi, la Nazione non sarebbe
“reimmaginata”, dalle posizioni che attacca (mai io scrivo solo per la prima,
come detto), perché ci sarebbe “interiorizzazione”.
E’ strano, pure io concordo pienamente, e come me le organizzazioni
citate, per quel che capisco, che:
“.. così facendo si
rischia di legittimare il discorso dell'avversario su questi temi, che si
ritrova senza sfidanti nella sua battaglia egemonica per definire cosa sia
l'Italia o cosa significhi essere italiani. Invece di assumere per dato di
fatto l’idea di Italia portata avanti dalla destra, la sinistra potrebbe
contrastarla contrapponendo un’idea diversa di appartenenza alla comunità
nazionale”.
Così con gli esempi storici portati (ai quali molti
altri si potrebbero aggiungere).
Allora dove è la
divergenza? Sinceramente si fa
fatica ad individuarla; bisognerebbe, per fare un passo avanti, interrogarsi dolorosamente
su cosa significa “interiorizzare” il discorso dell’avversario, e, per questo,
esserne “subalterni”.
All’avvio del suo discorso l’autore ripercorre la questione
della “identità” come costruzione ed immaginazione, oggetto di altre piccole
polemiche segno di reciproca incomprensione[5],
sostenendo che sia una costruzione culturale, e portando a sostegno Habermas[6],
Benedict Anderson, persino Giuseppe Garibaldi e Lenin. L’uso di fonti così eterogenee
(da liberali a marxisti a protosocialisti), prima di andare a ricordare Chantal
Mouffe ed Iglesias (entrambi piuttosto vicini alle posizioni criticate,
peraltro), mostra lo spirito polemico dell’articolo.
Ma ciò non è rilevante. Chiediamoci, piuttosto, come
si evita di essere “subalterni” e di “interiorizzare” il discorso dell’avversario.
Un modo è di opporre, punto a punto, alla sua agenda l’esatto opposto?
Ma non è questo
essere subalterni? Aver tanta paura delle parole dell’avversario da negare persino
il terreno su cui nascono, fornendone una interpretazione di parte, anche se è
sotto i nostri piedi, pur di essere altro? Non è questo aver interiorizzato il
suo discorso e quindi opporne uno meramente reattivo?
In questo modo si è altro dal proprio
avversario, o si è solo il suo doppio?
In un mondo che si polarizza in primo luogo in senso
sociale, ed economico, nel quale molti restano indietro e pochi si sentono al
sicuro. Nel quale chi resta indietro ha paura, e per questo, ormai ovunque nel
mondo, si rivolge alla destra per avere protezione e conforto.
In questo mondo, dire che le frontiere devono essere spalancate,
perché “gli italiani sono stati un popolo migrante”[7],
senza chiedersi se questo sia stato un bene e come abbia funzionato per l’Italia
e per i paesi riceventi, precisamente per le classi subalterne dei paesi riceventi[8],
guardandola con lo sguardo inconsapevole di un turista o di un privilegiato membro
della ‘generazione erasmus’, si fa il lavoro della sinistra, o si resta dentro
il frame della destra, ponendosi nel
posto che questa riserva?
In questo mondo, dire che la “storia va avanti”, ripetendo un mantra
di antica durata nella sinistra illuminista, dimenticando sia la critica
novecentesca (ad esempio francofortese) allo spirito di potenza incorporato in
questa visione unilaterale del progresso, non significa che i brutti, sporchi e
cattivi, devono acconciarsi ad essere da essa superati. E questa non è una
visione classista rovesciata? Non si sta con la sinistra realmente esistente,
in questo modo? È “reimmaginare”?
Per servire davvero una identità basata sulla storia
migliore del paese, orgogliosa dei suoi esempi, amante del proprio passato,
internazionalista, aperta all’incontro tra i popoli, chiusa ad ogni discriminazione,
attiva nella difesa dell’ambiente, solidale con gli immigrati (e con i propri
concittadini), è utile, insomma, richiudersi negli steccati del discorso dell’avversario?
Stare proprio dove lui vuole?
Per essere accoglienti bisogna apprestare il
necessario, come ho scritto in “Uscendo
dall’ipocrisia dei rispettivi muri: che cosa significa accogliere”.
Per lottare per un paese con scuole e ospedali
pubblici di eccellenza, bisogna voler riaffermare, contro il pensiero liberale
che lascia fare al mercato, quei “vincoli autoassunti di solidarietà che
possono rendere possibili politiche redistributive e di giustizia sociale”, per
i quali è necessario un discorso di costruzione politica di popolo.
Alla fine è questo: tutto quel che milita contro la
costruzione di popolo, unito, solidale e di parte, lo dissolve.
È, in fondo, questa dissoluzione e riduzione di ogni
identità ad individuale, il cuore del neoliberalismo nel quale troppi, come l’autore
sono nati e di cui non riescono quindi a vedere i confini (e non basta studiare,
o pensare di averlo fatto).
Io temo che questo
significhi essere subalterni.
[2] - Questo il testo senza la riduzione in tesi: “2.
PER UN PATRIOTTISMO SENZA NAZIONALISMO. L’amor patrio che la
Costituzione richiede ai cittadini non è un anacronismo storico, un residuo
dell’esigenza di riscattare la nazione dal ventennio fascista, era e resta un
valore civico fondamentale, un sentimento fondativo della comunità democratica,
l’opposto della degenerazione ideologica del nazionalismo. La sinistra ha la
responsabilità di avere regalato alle destre il monopolio del linguaggio
patriottico. Occorre, invece, rivendicare quella tradizione che, da Machiavelli
alla Resistenza, passando per la Rivoluzione Francese, ha identificato l’amor
di patria con l’amore per la Repubblica in quanto forma di vita libera, come
fratellanza e solidarietà fra cittadini che amano il proprio Paese e le sue
istituzioni nella misura in cui garantiscono a tutti di vivere da liberi e
uguali, in pace e sicurezza. Questo sentimento è condiviso da tutti i cittadini
di una determinata comunità territoriale, a prescindere dalla loro origine
etnica e dalle loro identità religiose, ideologiche, di genere, ecc. È un sentimento
di protezione data e ricevuta, è dunque non
aggressivo e riconosce pari diritti e dignità alle altre patrie.
Non è, tuttavia, un sentimento astratto: si incarna in un luogo, in una lingua,
in una cultura, in una parola in un popolo e nelle sue istituzioni. La patria
è, al tempo stesso, popolo, Stato e nazione: un’unità
che è frutto di costruzione politica e non di un ancestrale
retaggio di sangue. Questo patriottismo è, appunto,
patriottismo costituzionale, indispensabile a generare vincoli di solidarietà,
a loro volta condizione necessaria per politiche redistributive e di giustizia
sociale.”
[3] - Precisamente,
agli articoli
di Mauro Vanetti, che peraltro attacca Diego Fusaro, di cui non intendo fare le
difese, in questo
post. E su Marco
Bertorello, qui.
[4] - Definizione per
la quale implicitamente il “patriottismo italiano” è direttamente e solo di
destra, per cui si regala buona parte della tradizione letteraria e valoriale
italiana alla destra che sentitamente ringrazia.
[6] - La quale, però,
è una ben curiosa citazione, venendo da uno scrittore competente che tiene una
posizione di estrema sinistra, in quanto in questo dibattito Habermas è
schierato, per sua espressa ammissione, su posizioni liberali. Ovvero per un “cosmopolitismo
di sinistra – liberale in senso culturale e politico”. Si veda, ad esempio “La
risposta della sinistra al nazionalismo della destra”.
[7] - Cosa che significa
costretto ad emigrare dallo
sfruttamento e dalla povertà indotta da fenomeni di colonizzazione interna
simili a quelli con i quali il nord del mondo tratta i vari sud (o i centri le
periferie).
[8] - Senza andare a guardare
i conflitti di cui è piena questa tragica storia, guardandola come una gita
turistica.
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