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domenica 24 marzo 2019

Emanuele Leonardi, “Lavoro, natura, valore”




Questo libro di Emanuele Leonardi[1], il cui sottotitolo è “Andrè Gorz tra marxismo e decrescita”, individua dei temi sui quali è necessario prendere posizione per collocare correttamente il discorso ambientale. Nella sua intenzione compie il difficilissimo tentativo di mettere in comunicazione l’area culturale, frastagliata e non omogenea ma certamente anti-marxista, della “decrescita”[2] con gli esiti dell’evoluzione dell’operaismo[3], con riferimento alla versione trontiana. Lo snodo è il progressismo, esplicito o implicito, e quindi l’atteggiamento verso lo sviluppo tecnologico e la società industriale. Ciò che rende pensabile il ponte, malgrado la grande distanza delle rive, è la valorizzazione, nel post-marxismo del recente operaismo, del ‘cognitivismo’, dei ‘commons’, nella migrazione progressiva dal concetto originario di “operaio massa”[4], a quello di “operaio sociale”[5], ed infine, nella versione negriana di “moltitudine”.

Leggere un libro, l’autore mi perdonerà, significa sempre ri-collocarlo entro il proprio universo di discorso, e dunque io lo collocherò esattamente al punto in cui termina, prematuramente, l’ultimo post sul fenomeno mediatico e sociale di Greta Thunberg[6]. E, magari, al punto di intersezione con questo post di Andrea Zhok, con il quale sono in accordo. Bisogna prendere le distanze “dall’ecobuonismo” liberale, in ogni e qualsiasi travestimento (di cui alcune versioni della “decrescita”, interpreti dello spirito borghese, sono espressione) ed inquadrare il superamento della crisi ambientale come parte, importante, dello sforzo di mettere in questione radicalmente quella che Leonardi chiama “logica del valore”, ovvero lo “spirito del capitalismo”. Nel post “Greta Thunberg”, lo squilibrio essenziale che ha consentito agli spiriti animali del capitalismo, in primo luogo incarnati nelle grandi imprese monopoliste finanziarie e non, di superare la crisi di accumulazione degli anni settanta, prolungandola e facendola pagare alle classi lavoratrici di tutto il mondo, è stato descritto, seguendone l’esteriorità, come sfruttamento di ‘periferie interconnesse’[7] nel sistema mondo. Quindi come interconnessione subalterna di aree di ‘sottoconsumo[8] e di ‘sovrapproduzione[9]. Questi problemi sistemici si risolvono per via di mercato, tramite un lento adeguamento delle condizioni di produzione e degli stili di vita (quindi dei prezzi), fino a che i flussi andranno a terminare, essendo venuto meno il differenziale: è la soluzione liberale, ad esempio proposta nel recente lavoro di Branko Milanovic “Ingiustizia globale”. Oppure attraverso l’intervento pubblico, ovvero superando la “logica capitalistica” (di mercato), atteso il suo fallimento, con una “logica territorialista” (politica). Come sostenuto nel post su Greta, la “green economy”, con i suoi investimenti in qualche modo ‘forzati’ (o emergenziali), e l’attrazione di capitali su operazioni diffuse di manutenzione territoriale (ovvero di “economia circolare[10]).

La “soluzione” liberale prevede di estendere il ‘sottoconsumo’ e la ‘sovrapproduzione’ gemelle, fino a che il primo determini le condizioni di eliminazione delle differenze salariali e di vita, incontrandosi per così dire “a mezza strada” con i paesi emergenti. In questa prospettiva il capitale continuerà a mediare tra i differenziali, traendo valore da questi. Il prezzo lo pagheranno le classi medie inferiori delle aree semiperiferiche (in occidente), ed il beneficio lo avranno le classi superiori, in posizione di sfruttare interconnessione e disponibilità di capitale[11]. Casomai la loro coscienza dolorosa sarà calmata con qualche dose di “acquisto solidale”, “bio-qualcosa”, cioè con quello che Zhok chiama “ecobuonismo”.



L’altra soluzione, promossa da una parte delle élite preoccupate per i venti di guerra e l’emergente instabilità politica, è di forzare il capitalismo, riavviando non una forma di “keynesismo militare” (in avvio comunque[12]) ma di “keynesismo ambientale”, spinto dalla dichiarazione di un’emergenza e dalla costruzione su questa di un’egemonia.
La posta di questo investimento “territorialista” è il controllo del mondo, ovvero l’attrazione ed impiego dei capitali mobili[13] che lo rendono instabile, e il loro impiego per guadagnare un superiore livello di efficienza (nel consumo di materia ed energia, ad esempio).

Ma, senza trascurare la logica di potenza incorporata in questa distrazione (ovvero il conflitto con altri mezzi, che va criticato e denunciato) come giustamente, sottolinea Zhok nel post prima citato è pure vero che: “Una volta presa distanza dall’ecobuonismo liberale, il tema ecologico presenta, per chi sia in grado di farsene carico con la dovuta radicalità, un’occasione unica per criticare il modello capitalista in forme di attualità e universalità oggi non facilmente raggiungibili per altra via. Nelle forme del degrado ecologico, la natura autodistruttiva di quella ‘sovranità dell’economico’ che risponde al nome di ‘capitalismo’ diviene intuitivamente manifesta”. 

Questa sarà la traccia che seguiremo nella lettura.



Andare, però, oltre il “keynesismo ambientale” per porre la questione dell’uomo e della vita, come avevamo concluso, significa in primo luogo togliere le molte pietre che rendono sterile il campo.

Leonardi, che scrive nel 2017, parte a tal fine da una critica dell’Accordo di Parigi, quel COP 21 (radicalmente insufficiente a dire di tutti), che è al centro dell’attenzione mediatica di Greta. Ovvero muove dalla critica della ‘green economy’ in quanto del tutto coerente con la logica di mercatizzazione della natura, anzi continua ad essa, e della finanziarizzazione e reificazione del mondo. Si tratta della centralità di quel che chiama “il carbon trading dogma[14]; l’idea che basti dare un prezzo al danno alla natura e questo sarà immediatamente riassorbito dal mercato; ci sarà, cioè, chi si vorrà guadagnare questo prezzo. Un poco come nello schema di risoluzione delle ineguaglianze di Milanovic: il mercato che ha creato il problema è anche la sua soluzione.

Per raggiungere il punto dal quale si può criticare questa logica[15], e dunque anche la parte insufficiente della posizione di Greta, bisogna però compiere un certo percorso ed averne l’ambizione. Secondo la proposta di Leonardi, dipendente da un’impostazione “post-operaista” (temperata), si tratta di comprendere intanto la differenza tra ‘lavoro entropico’ e ‘lavoro informazione’; quindi affermare la centralità di quest’ultimo nel modo di produzione contemporaneo (nel quale, ovviamente, il primo continua ad abbondare, ma è respinto ai margini sistemici[16]); criticare la logica del valore e conservare l’ambizione di superarla attraverso una società conviviale libera dal produttivismo che recupera le attenzioni, a metà tra marxismo e decrescita, di Andrè Gorz e Ivan Illich, ecc..


Leonardi è un erede della tradizione analitica dell’operaismo, la stessa tradizione dalla quale parte, allontanandosene, un autore coraggioso, ambizioso e altamente sfidante come Carlo Formenti ma prende una direzione diversa, rispetto al franco anti-progressismo e anti-modernismo di questo[17]; certo anche lui mette sotto il fuoco la necessità, inderogabile, di “superare gli elementi produttivistici del socialismo” (marxiano), perché la crisi della natura, ovvero della riproduzione[18] non è affatto esterna alla società ed alla politica, “ne è semmai il sintomo estremo, inaggirabile, l’ingiunzione cui non ci si può sottrarre, procrastinandolo” (p.38).

Un poco come le altre questioni settoriali ed identitarie[19], la questione ambientale, insomma, “non è autosufficiente”, ma va ancorata ad una critica generale del modo di produzione e riproduzione. La chiave che cerca l’autore è di trovare il modo di ridurre la pressione sulla biosfera grazie alla proliferazione delle attività di cura e quelle di produzione di conoscenza e società. Ovvero, come del resto sostiene appunto anche Formenti, l’idea è di sviluppare un discorso che la faccia finita con l’immaginario dello sviluppo (sia anche “sostenibile”) e sia capace di “tirare il freno”. Sotto certi profili assomiglia all’idea che aveva Keynes nella sua conferenza del 1930, “Prospettive per i nostri nipoti”, quando per effetto di una moltiplicazione di otto volte della ricchezza disponibile (siamo quasi giunti) immaginava che i “bisogni relativi” (quelli di distinguersi, che sono inesauribili in quanto ordinano la società), potessero essere riconsiderati oltre l’accumulazione verso il “vivere bene, piacevolmente e con saggezza”, riducendo l’orario di lavoro socialmente necessario a tre ore al giorno, mentre il desiderio di mero accumulo di valore andrà incontro allo stigma sociale che merita[20]. Con le sue parole: “rivaluteremo di nuovo i fini sui mezzi e preferiremo il bene all’utile. Renderemo onore a chi saprà insegnarci a cogliere l’ora e il giorno con virtù, alla gente meravigliosa capace di trarre un piacere diretto dalle cose, i gigli del campo che non seminano e non filano” (Citazione di Keynes da Matteo 6, 24-34).

Un testo, commovente nella sua ingenuità (o nella sua inattualità) che ne ricorda un altro del 1875:

“in una fase più elevata della società …, dopo che è scomparsa la subordinazione asservitrice degli individui alla divisione del lavoro, e quindi anche il contrasto fra lavoro intellettuale e fisico; dopo che il lavoro non è divenuto soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno della vita; dopo che con lo sviluppo onnilaterale degli individui sono cresciute anche le forze produttive e tutte le sorgenti della ricchezza collettiva scorrono in tutta la loro pienezza, solo allora l’angusto orizzonte giuridico borghese può essere superato, e la società può scrivere sulle sue bandiere: Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni!” (Karl Marx, Critica del Programma di Gotha, 1875)


Leonardi riconosce, in un primo solco sul terreno da arare, che qualche pietra può anche essere utile, e che quindi tra “ricchezza[21], che caratterizza l’espansione della dotazione di beni, materiali ma soprattutto immateriali, e il “valore[22], che è l’espansione quantificabile e soggetta allo scambio di mercato c’è un qualche reciproco rafforzamento. Ovvero che nel crescere del ‘valore’ si dà anche una certa crescita di ‘ricchezza’[23], e che in questo effetto secondario riposa “l’elemento migliorativo del capitale”. La via di uscita, anche per lui come per Marx e Keynes, è quindi “verso l’alto”, attraverso la produzione di ricchezza, non attraverso il pauperismo. Ma questo elemento migliorativo non è dovuto ad una logica immanente del capitale (o meglio della interazione tra capitali), bensì, in linea con uno dei nuclei paradigmatici dell’operaismo, “emerge come esito delle lotte dei subalterni per una distribuzione meno unidirezionale del valore da essi stessi prodotto”.




C’è dunque una sorta di “lato progressivo” del capitale, ma in qualche modo malgrado esso. Per cui fino agli anni settanta si sarebbe verificata una sovrapposizione, parziale ma significativa, tra valore e ricchezza, ma la crisi energetica sarebbe intervenuta a rompere la convergenza. Certo, dentro un evento ce ne sono sempre altri (e lo shock petrolifero è successivo alla rottura dello schema d’ordine di Bretton Woods e al rovesciamento che questo comporta sui molti piani geopolitico, economico, e socio-politico), ma la tesi, ripresa da Illich[24] è che in quella circostanza si è superata definitivamente la soglia di controproduttività. e l’ulteriore intensificazione della produzione da allora comincia a creare scarsità (in due forme: ineguaglianza, ovvero ‘scarsità relativa’, e deterioramento ambientale, ovvero ‘scarsità assoluta’). E’ questa una tesi che potrebbe essere scritta in altra forma, e soprattutto che dal 1974 ad oggi guadagna una diversa e maggiore comprensione, in relazione almeno a due fattori: in primo luogo l’esperienza della mondializzazione, ascendente e quindi, in questi anni, discendente, fornisce una comprensione maggiore della prima scarsità; in secondo, l’evoluzione delle tecnologie ambientali fornisce un, sia pure parziale, disaccoppiamento (insieme all’automazione ed alle forme di produzione post-fordiste che nel 1974 non erano visibili) tra produzione e consumo di ambiente naturale. Leonardi, non senza qualche ragione, è molto scettico su quest’ultimo punto soprattutto, credo, perché si presta ad essere diretto dal capitale.




Su questo complesso crinale nasce l’interesse di Emanuele Leonardi per un pensatore importante ed atipico, anche trasversale[25] come Andre Gorz. Si tratta di allargare lo sguardo: da una parte sono focalizzate le “lotte al punto di produzione” (per democratizzare i luoghi e le distribuzioni), e dall’altro le “lotte al punto di riproduzione” (della natura e dell’umano, ovvero i movimenti come l’ambientalismo, il femminismo, etc.). Per la prospettiva gorziana la questione ambientale non è quindi autosufficiente, non è esterna ad economia, società e politica, e include una crisi del produttivismo occidentale, in un necessario progetto globale di trasformazione della società e di rottura della logica del capitale[26].


Lo studio muove, come detto, da una rivendicata prospettiva ‘operaista’, e specificamente utilizza del bagaglio metodologico trontiano il concetto di “composizione di classe” e l’ipotesi che non sia lo sviluppo capitalistico a determinare, come reazione, le lotte operaie; ma, viceversa siano queste a determinare, come reazione, lo sviluppo del capitale[27]. Ne deriva l’ipotesi centrale nel post-operaismo che il lavoro (salariato) addetto alla produzione, e quindi connesso all’operaio massa industriale, abbia un carattere entropico, mentre il lavoro cognitivo sviluppi almeno potenzialmente un carattere neghentropico “simultaneamente espresso e occultato in dispositivi quali la green economy e il carbon trading dogma” (p.47). Si tratta del portato ultimo, o della trasposizione, della ipotesi che il “capitalismo immateriale”, ovvero abbastanza banalmente il processo di terziarizzazione della struttura economica occidentale, avviata negli anni settanta, in uno con lo smontaggio del fordismo e la ritirata del welfare, in particolare dal momento della esplosione della “New Economy” (un fenomeno di assorbimento di capitali in eccesso) a cavallo del passaggio di millennio e della occupazione commerciale della rete, di pochi anni successiva, sia tanto più portatore di ‘valore’ quanto più è leggero in termini materiali e denso di informazione e conoscenza. Questa influente e fortunata tesi, portata dai propagandisti del neoliberismo, insieme alla “Società a costo marginale zero”, propagandata da ultimo da Rifkin, farebbe venire meno l’idea di scarsità, e promuoverebbe per sua natura la collaborazione. Con questa utopia digitale, fragorosamente contraddetta dai fatti solo dopo pochissimi anni, passa l’idea che il lavoro (immateriale) sarebbe in grado di generare cooperazione sociale ed autonomia dal comando capitalistico, e passa quella che in conseguenza i prodotti assumono forma di commons[28]. Dunque oggi il “general intellect”, non è tanto nel sistema totale delle macchine, e quindi nel “lavoro morto”, come si può leggere nel “frammento”, ma nella cooperazione sociale spontanea e nella produzione di “sapere vivo”, che ne deriva.



Per sviluppare questa tesi, del carattere neghentropico del ‘lavoro cognitivo’, sulla quale torneremo, vengono ripresi elementi della critica marxiana, in particolare il carattere progressivo della logica del valore e l’influenza civilizzatrice del capitale nei “Grundisse” e da Jason W. Moore, un sociologo che fu allievo di Giovanni Arrighi, è riletta la critica del dualismo cartesiano ed il concetto di “natura sociale astratta[29]. Questa trasformazione, di cui il meccanismo del “Carbon trading” è espressione e simbolo, è in realtà per Leonardi in continuità con il ‘ciclo di espansione dissipativo’ del fordismo-keynesismo, probabilmente in quanto adattamento e continuità della ‘tecnomacchina’ e quindi dell’espansione del dominio del “lavoro morto”.
Ovvero, in una prima fase (‘fordista’) il ciclo, preordinato alla valorizzazione del capitale nel quale le lotte operaie erano state incorporate e in qualche modo funzionalizzate (quindi il dispositivo entropico della produzione e del consumo), si è legato al compromesso del welfare le cui condizioni di tenuta erano la crescita sostenuta[30], e la particolare subordinazione ed organizzazione del welfare. In una seconda la risposta all’esaurimento delle condizioni di valorizzazione del capitale, al termine della ‘doppia crisi’ (1968-73) degli anni settanta, cui partecipa anche la denuncia dei “limiti dello sviluppo”, interviene attraverso una “politica di classe dall’alto” che ripropone su scala mondiale quei rapporti di produzione, e dissolve (o meglio traspone) quell’operaio-massa, che non riesce più a domesticare efficacemente in occidente. La mondializzazione è effetto di questa mossa[31].
La società salariale, entrata in crisi, esce, insomma, “a marcia indietro” e la valorizzazione capitalistica ottiene di svincolarsi sempre più dal tempo di lavoro come propria unità di misura.

In un certo senso era anche la tesi sostenuta nella parte ricostruttiva di “Greta Thunberg: la posta egemonica e lo scontro per il mondo”.

Come scrive Leonardi, quindi:

“Con la retorica della green economy la crisi ecologica diventa pensabile anche come terreno di sviluppo capitalistico e non soltanto come punto di blocco, puro costo, effetto collaterale indesiderato ma necessario. Le cause di questo passaggio vanno ricercate in fenomeni quali la cognitivizzazione del lavoro e la finanziarizzazione dell’economia -alla cui base sta il divenire produttivo della sfera di riproduzione sociale- i quali a loro volta derivano dalla maturazione della composizione di classe nel corso degli anni settanta e ottanta” (p.101).

È quel che identifica come un nuovo nesso lavoro-natura, basato “sullo sfruttamento di nuove tipologie di lavoro, non necessariamente salariato - lavoro cognitivo e/o riproduttivo [della natura], lavoro risucchiato nei vortici finanziari”. Un lavoro di cui è espressione specifica la ‘green economy’; che però, sembra di capire, per sviluppare realmente il proprio potenziale, e garantire la riproduzione della natura, deve necessariamente andare oltre la logica della valorizzazione. Ovvero deve andare oltre il capitalismo, sostituendo la logica della “ricchezza” a quella del “valore” (la prima storicamente limitata, la seconda strutturalmente illimitata) e quindi “ridurre il metabolismo sociale”, oggi spinto da un astratto motore del tutto indifferente ai tempi e le forme metaboliche della riproduzione, che sono, al contrario, sempre concrete.

L’idea è, in un certo senso, di “ribadire in senso ambientalista il nucleo teorico dell’operaismo”, come si vede un disegno ambizioso.

“Affrontare il tema di una nuova, possibile articolazione del nesso lavoro-natura-valore, al di là di ogni determinismo. Tale articolazione va dunque pensata (e agita) sia tenendo presenti le dinamiche tendenziali dello sviluppo capitalistico che ne stanno alla base, sia non perdendo di vista il terreno di potenziale emancipazione da essa dischiuso. Il fatto che tale potenziale sia oggi mistificato dalle retoriche della green economy non deve oscurare il fatto che la condizione operaia contemporanea – disseminata – trova in esso l’opportunità di esprimersi sulla composizione qualitativa della produzione al di là della logica del valore. Insomma, l’operaio diffuso che ancora abita i territori produttivi – segnati dai processi di moltiplicazione del lavoro – deve poter prendere parola riguardo al cosa, come e dove produrre, non sulla base della minaccia catastrofista ma su quella del diritto inalienabile alla costruzione di un futuro desiderabile (anche dal punto di vista ambientale).
Ciò significa che nel divorzio crescente tra logica del valore e logica delle ricchezze trovano spazio contemporaneamente l’approfondimento dello sfruttamento deregolamentato e le pratiche (da costruire e consolidare politicamente) di nuove liberazioni del e dal lavoro. Nessuna necessità, dunque, solo scenari la cui effettiva realizzazione sarà l’esito della lotta di classe nel XXI secolo – lotta di cui la crisi ecologica è parte integrante” (p.107).

Qui si collega alla classica, per la tradizione operaista, lettura del “frammento delle macchine” e della conoscenza come forza produttiva, l’intellettualità diffusa e la “produzione di conoscenze a mezzo di conoscenze”. Ma anche alla cattura, la messa a valore, del non lavoro e della cooperazione sociale, fino a l’intera esistenza. Ipotesi generose, che sono sottoposte alla critica di Formenti, che sottolinea la capacità del nuovo sistema, della “accumulazione flessibile”, di “sovradeterminare non solo l’organizzazione, ma la stessa antropologia del lavoro”[32].





Certo la famosa ipotesi di Gorz, che l’economia della conoscenza, proprio in quanto tale, ovvero fondata su un bene non scarso, che anzi tanto più si estende e riproduce, quanto più abbondante e gratuito, sia per sua natura portatrice di un’incompatibilità con la mercificazione e quindi mini la stabilità del capitalismo e della valorizzazione, era ottimista e Leonardi lo sa. Oggi essa non può essere riproposta, davanti allo spettacolo dell’economia delle piattaforme[33] e le altre forme di taylorismo digitale[34], spietato quanto non mai. Ma, pur riconoscendo ciò, per Leonardi non bisogna gettare il bambino con l’acqua sporca; la tensione rimane, solo, essa non si dispiega per vie interne, necessarie e naturali, bensì solo rischiando lotte contingenti.


Lotte che devono coinvolgere anche la ‘green economy’, nel momento in cui questa si sforza di connettere capitalismo e natura attraverso la tradizionale mossa di dargli un prezzo, quindi di trasformare la natura stessa in merce astratta e de-politicizzare la decisione pubblica attraverso un meccanismo automatico (p.144).




Si diceva della necessità di ‘ridurre il metabolismo sociale’: è seguendo questa idea che viene ripreso il dibattito, difficile, tra marxismo e decrescita. La proposta scaturisce dalla discussione di questa (p.163), dal fantasma del socialismo reale, e della riduzione di Marx al paradosso produttivista (p.167), e dalla “via catalana alla decrescita”: limiti, cura, depense.

Fermiamoci dunque un attimo: la “decrescita” è un vasto movimento anti-sistemico che prende forma negli anni settanta, con radici nella controcultura beat, ma ha una relazione diretta con la mobilitazione sessantottina. Il primo utilizzo del termine si deve ad Andre Gorz in un dibattito nel 1972, con riferimento al Report del Club di Roma. Si può dividere in cinque correnti: la bio-economia di Nicholas Georgescu-Roegen; la critica alla tecnica di Jacques Ellul; la critica allo sviluppo di radice culturalista di Ivan Illich; l’ecologia politica di Andre Gorz; il terzomondismo di Francois Partant. Si tratta di linee di ricerca e tensione, con l’eccezione di Gorz, piuttosto esterne ed indifferenti al contesto di critica marxista.
Questa linea di critica si è occupata di riproduzione, come il femminismo, ma, come ricorda Riccardo Bellofiore citato da Leonardi, tutti questi movimenti “rifiutano di riconoscere il proprio coinvolgimento nella valorizzazione – in altri termini, la propria implicazione con il ‘nuovo’ nesso lavoro-natura-valore” (p.164); quello dell’economia della conoscenza nella divisione del lavoro centro-periferia incorporata nel ‘sistema mondo’ di cui abbiamo parlato all’avvio. Il rapporto tra lavoro ed ecologia (ma anche, direi, quello lavoro e femminismo, o lavoro e identità di genere estesa) va quindi indagato dentro la composizione di classe e nella dialettica tra lavoro entropico e neghentropico.
La ‘decrescita’ si ripresenta, dopo l’eclissi seguita alla crisi energetica, a seguito del movimento altermondista tra Seattle 1999 e Genova 2001. Il suo limite è aver ricondotto, in modo liquidatorio, l’intera tradizione socialista e marxiana al “paradosso produttivita”. Ne sorgono posizioni, come alcune di Serge Latouche, francamente non seguibili[35], e che Leonardi, infatti, non segue.

La sua ipotesi di lavoro è, al contrario, di recuperare il rapporto tra le istanze della ‘decrescita’ e il nesso valore-lavoro e quindi la tradizione marxista.

Questo sforzo viene compiuto, dopo il 2008, dalla cosiddetta “via catalana”, di cui è espressione “Ecologia dei poveri”, di Joan Martinez Alier, che distingue un “ecologismo dei ricchi”, quello dei parchi nazionali, dei giardini di corte, del sano e bello, e quella “dei poveri”, che chiede insieme giustizia sociale ed ambientale, lottando non per ricreazione e contemplazione, quanto per le basi materiali di sostentamento, condizioni naturali della propria riproduzione. Di qui l’attenzione al “limite”, ovvero auto-limitazioni collettive, con una certa tendenza a recuperare la tradizione del regionalismo (ovvero della autosufficienza per piccole unità territoriali e sociali)[36]; “cura”, ovvero la centralità dei lavori di riproduzione; “depense”, la riduzione del surplus e il suo utilizzo comunitario anziché per l’accumulazione.


Una posizione simile, mi pare, ha una carica utopistica di grandissimo momento ed è contemporaneamente altamente problematica, quanto a senso proprio, nelle condizioni del ‘sistema mondo’ attuale, e, se ha ragione Andre Gunder Frank nelle sue ultime riflessioni, consustanziale allo stesso sviluppo umano. Io credo che Frank non avesse ragione, e propendo più per la visione di Arrighi, ma comunque retrocedere, fisicamente e strutturalmente, a livelli di complessità sociale e tecnica tali da potersi coordinare senza tecnostrutture politiche (a scala di municipi, o di grandi aree urbane, connettendosi magari con il movimento delle ‘città ribelli’ ed il ‘neo-municipalismo’) è irrealistico e indesiderabile. Rileggendo “Limite”, di Latouche, certo un autore lontano dal marxismo, si vede una versione particolarmente netta di questa non-soluzione: Il limite significa, infatti, riterritorializzare; transitare nelle bioregioni nelle quali non ci siano scambi esterni significativi (né di merci né di uomini) se non nella forma di una diplomazia rispettosa. Aree limitate nelle quali, solo, può funzionare la democrazia che -per l’autore francese- richiede necessariamente piccole dimensioni ed elevata omogeneità. Una concezione sostanzialistica della comunità contro la quale, ad esempio, non cessano di opporsi autori influenti come Habermas e Bauman (per citarne solo due). La riterritorializzazione della vita è proposta invece come una necessità ed una posizione prudente. Anziché “lanciarsi nel tuffo vertiginoso e arrischiato dell’ignoto” (L. p. 26).



L’ambizione di Leonardi è di connettere queste posizioni, che nella versione dell’ex economista francese si riferiscono ad una letteratura anti-illuminista ben precisa[37], con la tradizione neo-operaista e la sua tecnofilia fondata sul lavoro cognitivo e il ‘general intellect’, che sfuggirebbe alla maledizione della scarsità. Unire in qualche modo un utopismo venato di toni reazionari con un tecnottimismo piuttosto contraddetto dai fatti.
Oppure, in altri termini, la più radicale “disconnessione” dal sistema mondo (quindi la cessazione di ogni forma politica sovranazionale e probabilmente anche nazionale, o la sua ridefinizione come struttura iperleggera[38] che connette unità di natura “organica”).



Certo questo nodo non appare affrontato nel dettaglio in un testo che, in fondo, si propone solo di togliere le pietre e non di arare.
Ma l’idea di “ridurre il lavoro entropico” (ovvero quello produttivo), e per esso l’organizzazione tecnica che rende possibile l’intensità energetica, funzionale, infrastrutturale che lo rende produttivo, per favorire il “lavoro neghentropico”, ovvero “cognitivo”, è molto poco differenziata. Occorrerebbe separarsi radicalmente, più che unirsi (la questione che fa ostacolo è la competizione e per essa il potere), e quindi un radicale impiego di autorità. Ricorda, effettivamente, una lunga e importante tradizione, ben più che secolare, come abbiamo cercato di mostrare nella nota su John Friedman, tuttavia non è facile farsi una idea concreta del modello di società funzionante per sette miliardi di persone cui si pensa. Cioè non è facile farsi un’idea della generalizzazione del modello.

Il richiamo alle lotte “altermondialiste”, dei movimenti indigeno-contadini africani, asiatici e latino americani, delle teorizzazioni di Vandana Shiva, per dire, degli indignados e della presunta ‘sperimentazione municipalista napoletana’ (che a me non appare poi così sperimentale), fa un insieme instabile e complesso.

Poi, è vero, Leonardi dice che “converrà essere chiari: non si tratta di indulgere in improbabili mitologie premoderne”, ma non è chiarissimo come uscirne, almeno a me. Soprattutto quando nelle conclusioni, certo provocatoriamente, ma in modo strategico nell’ambito del discorso fatto, sostiene che, come nel XX secolo si diceva che il progresso aveva sempre ragione, anche quando sbagliava (per cui, per dire, Cortez massacrando gli indigeni e antiche civiltà comunque faceva il bene della Storia), nello stesso modo oggi bisognerebbe dire che “le lotte socio-ecologiche hanno sempre ragione, anche laddove alcune loro valutazioni dovessero rilevarsi approssimative”.
La ragione sarebbe che oggi è venuta meno la sovrapposizione, almeno parziale tra la “logica del valore” (ovvero capitalista) e quella delle “ricchezze” (cioè dell’uso socialmente appropriato), oggi “il loro crescente divorzio si pone all’osservatore come auto-evidenza” e dunque “l’intervento politico sulle forze produttive è diventato un elemento essenziale dei rapporti sociali di produzione” (p.200). Sarebbe, in altre parole, ormai l’intero modello di sviluppo che richiede treni ad alta velocità a non avere più nulla a che vedere con l’idea di benessere.



Tutto sommato, se l’esito è che occorre recuperare “la centralità della mediazione politica tra istanze originariamente incommensurabili” (p.201), anche contro le troppo semplicistiche ipotesi ‘accelerazioniste’ per far valere la “logica delle ricchezze” senza abbandonarsi ai meccanismi automatici ed al relativismo culturale, si può essere d’accordo. Se è più di questo andrebbero comprese ed accettate le premesse implicite.

Come si vede di pietre dal campo ne vanno tolte davvero molte.
Questo è un inizio.




[1]- Autore anche di “Logiche dello sfruttamento”, 2016, e di “Manifesto per il reddito di base”, 2018.
[2] - Si veda l’enorme produzione letteraria di Serge Latouche.
[3] - Si veda, G. Borio, F. Pozzi, G. Roggero, “Futuro anteriore”, Derive, Roma 2002; M. Tronti, “Noi operaisti”, Derive, Roma, 2009; P. Palano, “Dionisio postmoderno” (su Negri), Multimedia, 2008.
[4] - Ovvero dell’operaio nella fase fordista, ed opposto alla aristocrazia operaia sulla quale faceva leva il sindacato, attualmente ben presente ma nei paesi di produzione decentrata, per lo più nell’Sud Est asiatico. La teoria muove dalla posizione di Panzieri e poi di Tronti, in particolare con “Operai e Capitale”. L’operaio massa, “rude razza pagana senza ideali, senza fede e senza morale”, brutalmente soggetto allo sfruttamento capitalistico e all’alienazione della catena di montaggio, spesso appena immigrato dalle campagne del mezzogiorno, sarebbe stato in grado, nelle speranze dell’operaismo trontiano, di destrutturare l’impalcatura della rappresentanza sindacale e dei partiti tradizionali della sinistra (ovvero del riformista Pci) portando nella fabbrica una lotta radicale e spontanea che, indirizzata politicamente, avrebbe portato alla rivoluzione. L’autoorganizzazione e lo spontaneismo delle lotte individua il concetto (e poi organizzazione politica) di “autonomia operaia”, ed insieme il “rifiuto del lavoro”. Questa fu la principale corrente della sinistra extraparlamentare negli anni sessanta-settanta (anche detta “nuova sinistra”), quindi “Potere Operaio”, insieme a “Lotta Continua”, su queste posizioni, e dall’altra parte gruppi (piccoli) “Marxisti-leninisti”, e posizioni “terzomondiste” o “maoiste”.
[5] - La reazione del capitale, con l’emergere di nuove tecnologie (“rivoluzione informatica”), lo spostamento dei capitali nella fase finanziaria, e del modo di produzione della “accumulazione flessibile”, estesa all’intero ‘sistema mondo’, determina la fine della presunta centralità dell’operaio massa, e della sua unità, anche potenziale. L’organizzazione a rete della produzione, la esternalizzazione di segmenti sempre maggiori dei cicli produttivi, ed a distanze sempre maggiori, alla ricerca dei margini e della disciplina persa nelle fabbriche fordiste, determina una ricerca di un nuovo ancoraggio. Antonio Negri proporrà di guardare con soddisfazione al declino dell’impianto fordista (solo in occidente), e vedervi la possibilità di una nuova soggettivazione antagonista non più determinata dal rapporto di fabbrica, «dentro e contro il capitale», ma autonoma da tale rapporto e capace di auto valorizzarsi: essere contro il capitale e fuori dalla fabbrica – il passaggio dall’operaio massa a “l’operaio sociale”. La base del ragionamento sono “I Grundisse”. Si deve rileggere “Marx oltre Marx”, e quindi “Dopo che il proletariato si era fatto operaio ora il processo è inverso: l’operaio si fa operaio terziario, operaio sociale, operaio proletario. […] Avevamo visto l’operaio massa (prima concretizzazione massificata dell’astrazione capitalistica del lavoro) produrre la crisi. Ora vediamo la ristrutturazione che, lungi dal superare la crisi, ne distende e allunga l’ombra su tutta la società” (Antonio Negri, “Proletari e stato”, 1976, p. 144). Mentre Tronti, in “Sull’autonomia del politico”, 1977, sposta nello Stato il conflitto, “nientemeno che la moderna forma di organizzazione autonoma della classe operaia”, Negri vede la politica come potenza immanente alla dimensione sociale e per sua natura contrapposta al potere dello Stato. Uno comincia a lavorare per occupare lo Stato, l’altro per dissolverlo.  
[6] - Ovvero “Greta Thunberg: la posta egemonica e lo scontro per il mondo”, quando si proponeva, come un lottatore di judo, di deviare l’energia del ‘movimento’, di per sé diretto al più a promuovere una sorta di “keynesismo ambientale”, a porre la questione di “cosa”, “perché” produrre. Ovvero per quale uomo e per quale vita.
[7] - Dove, è bene avvertirlo, per ‘periferia’ si intende un’area, non necessariamente geografica, debole in senso relativo ma interconnessa con un polo di dominazione forte in senso relativo. Le periferie sono sempre organizzate dai rapporti funzionali di dominazione, che le creano come tali e le sfruttano per determinare i ‘centri’, e possono, a loro volta essere dominanti verso ulteriori periferie di rango ancora inferiore. Ma queste non devono essere lette come descrizione della vecchia immagine dei “mondi” (primo, secondo, terzo), in quanto oggi l’interconnessione che prevale sulla recinzione determina una forte commistione di centri dominanti e periferie. Domina l’area urbana di Shanghai sulle sue periferie interne ed esterne, alcune delle quali molto lontane, e domina l’area di New York, sulle sue periferie interne (anche entro il perimetro) ed esterne, delle quali facciamo parte per alcune specializzazioni. Questa lettura segue la tradizione inaugurata da Perroux, di cui fu allievo Samir Amin, con la rilevante differenza che la dominazione delle aree ed imprese “motrici”, attraendo in modo selettivo capitali e risorse, determina dipendenza e stagnazione (cfr. post su Samir Amin, “Lo sviluppo ineguale”). La tradizione che è ripresa da Hirschman, il quale ne sottolinea gli effetti cumulativi, ma critica (come abbiamo visto in Andre Gunder Frank, “Capitalismo e sottosviluppo in America latina”) la proposta del terzomondismo di individuare nel socialismo (cubano in genere) la soluzione a mò di “deus ex machina”. Anche se si determinano condizioni di “sviluppo ineguale” e di “sviluppo del sottosviluppo” (per usare le formule rispettivamente di Amin e di Frank), ed esse dipendono dall’essere immerse nel ‘sistema mondo’, e quindi da una “causazione circolare comulativa” (Gunnar Myrdal), il punto è trovare delle tendenze che possono essere utilizzate, o deviate in senso di determinare indipendenza e condizioni di autonomia. Lavora in questa direzione anche quella parte della tradizione degli studi urbani e regionali che fa riferimento a John Friedman, ma anche geografi come Richard Peet, Massimo Quaini, Yves Lacoste, Claude Raffestin, Jean-Bernard Racine, Michael Storper. Come avevamo scritto, c’è certamente un rapporto di dominio e dipendenza che resiste, a volte a qualsiasi prezzo, ad essere interrotto. E che affonda le sue radici non esternamente al sistema condotto al sottosviluppo da questo, ma in un sistema totale fortemente intrecciato con i capitali locali e le borghesie che di questi vivono e si riproducono. Ma ci sono anche forze, e non solo popolari, che avrebbero più da guadagnare da migliori ‘ragioni di scambio’, di quanto avrebbero da perdere (anche se qualche bene di lusso per un periodo costasse di più). Possono essere, insomma, individuate delle ‘controtendenze’.
[8] - Il termine “sottoconsumo” è di lunga tradizione, e si intreccia, come spiegazione della crisi nei paesi di antica industrializzazione, e nei quali la struttura del lavoro è connessa con la loro caratteristica di centri produttivi, con la finanziarizzazione come effetto della caduta tendenziale del saggio di profitto, causato da un insieme di cause in primo luogo competitive. Il meccanismo centrale della interpretazione marxista, per essa di quella di Arrighi e della ‘Scuola del Sistema Mondo’, suona in questo modo: la caduta tendenziale del saggio di profitto ad un certo punto, intorno agli anni sessanta per l’acuirsi della competizione intercapitalista (leggi Usa vs potenze industriali emergenti) e verso il mondo del lavoro (leggi lotte operaie), avvia una fuga dei capitali, uno ‘sciopero dei capitali’, come lo chiama Streeck, e quindi la finanziarizzazione oltre che l’esplosione dell’investimento diretto all’estero. Questa fuga di capitali, o disimpegno dall’investimento, determina una lunga stagnazione che viene combattuta da una parte con la deflazione dei prezzi, che insegue quella dei salari, dall’altra con l’allentamento progressivo dell’erogazione di credito, e quindi con l’emergere di un paradossale “keynesismo privatizzato di natura finanziaria”, anziché industriale. L’altra metà della spiegazione fa leva sul “sottoconsumo”, che è causa anziché effetto; in questo caso si è trattato prevalentemente di una ‘crisi da realizzazione’, ovvero da insufficienza di domanda (che ha innescato la competizione di prezzo, quindi la deflazione, e questa il raffreddamento degli investimenti, quindi il calo della quota salari, e via dicendo). In questo momento non è decisivo individuare quale sia esattamente la catena causale, ma comprendere che lo stato nel quale si trovano i ‘centri’ nei paesi di vecchia industrializzazione (e in misura maggiore le ‘semi-periferie’ al loro interno) è di ‘sottoconsumo’. Contemporaneamente ci sono nelle aree centrali isole di spreco e di sovraconsumo. Apparentemente c’è una contraddizione, ma, come afferma correttamente Paul Baran, in “Riflessioni sul sottoconsumo”, 1959 (in Paul Baran, “Saggi marxisti”, Einaudi, 1976, p. 187) il punto è in primo luogo definire sottoconsumo rispetto a cosa. Ci sono tre versioni: un consumo insufficiente ai fini del mantenimento della salute ed efficienza della popolazione, ovvero della riproduzione; una ripartizione del prodotto aggregato tra consumi ed investimenti inadeguata rispetto alla giusta destinazione delle risorse; una condizione in cui “la quota della produzione assorbita dal consumo corrente è tale da dare origine a un volume di investimenti che supera quello che sarebbe consentito dal livello esistente della produzione (e del reddito), col risultato che la domanda effettiva aggregata è insufficiente a mantenere il pieno impiego delle risorse”. Questa terza definizione è da Baran considerata la più interessante, e osservandola si comprende come un sottoconsumo deve necessariamente prevedere un sovrainvestimento (nel sistema mondo, questo è, però, altrove e finanziario). Per renderla utile, sostiene Baran, bisogna fare mente alla distinzione tra consumo ed investimento utili e superflui. Il “sottoconsumo” è, dunque, una tendenza, anche se ovviamente mai la sola, e non sempre la prevalente.
[9] - La “sovrapproduzione” è l’altra faccia, nel sistema mondo, della tendenza al ‘sottoconsumo’ nelle aree semiperiferiche dei paesi di vecchia industrializzazione, si tratta di un eccesso di capacità produttiva, per qualità e quantità, che trova senso, attirando i capitali mobili, solo nella domanda estera. Ovvero che è creato come ‘effetto di sistema’ dalla interconnessione nelle condizioni di pieno dominio della ‘logica capitalistica’. Ciò determina squilibri produttivi, commerciali ed è immagine degli squilibri finanziari che stanno squassando il mondo. La “sovrapproduzione” determina anche la distruzione delle condizioni di esistenza della parte più periferica del ‘sistema mondo’, e quindi la tendenza ad espellere da parte di questa la popolazione divenuta eccedentaria. La popolazione, si noti, di medio-alto livello di competenza e risorse, o parte di famiglie che ne dispongono, e che quindi contribuisce grandemente a porle in un percorso di ulteriore sottosviluppo.
[11] - Nel testo Milanovic pronostica altri ‘decenni’ di stagnazione dei redditi mentre lentamente migrazioni e innalzamento dei redditi medi delle ex periferie (in primis Cina e India, ma anche le altre) si arrampicano verso i redditi medi occidentali (essendo ora arrivati alle periferie dell’occidente). E pronostica, proiettando uno sguardo ardito, un futuro remoto addirittura sul prossimo secolo nel quale si tornerà ad avere la situazione del settecento; quando era più rilevante ‘da chi’ si nasceva che non ‘dove’. Ovvero nella quale era maggiore la distanza tra un nobile francese ed un suo concittadino nelle campagne che non tra questi ed un nobile cinese (o tra un contadino francese ed uno cinese). Una situazione nella quale, insomma, l’ineguaglianza mondiale (questo costrutto analitico alquanto problematico, ma fondativo dell’approccio numerico e economicista di Milanovic, che è pur sempre un ex capo del dipartimento di ricerca della Banca Mondiale) sarà alla fine annullata, mentre quella locale sarà massima. 
[12] - Ad un certo punto pure per Milanovic (che sembra riprendere lo schema di Arrighi) l’ineguaglianza provoca una stagnazione della domanda interna che determina tensioni non più sostenibili, a questo punto la ‘sovraccumulazione’ in cerca sempre più parossistica di rendimenti esaspera la competizione imperialista (dove le conseguenti spese pubbliche sono di per sé una forma di impiego). Questa, con le “guerre e rivoluzioni” che porta con sé è quindi da considerare “integrata nelle condizioni economiche interne dell’epoca: una disuguaglianza di reddito e di ricchezza molto elevata, nutrita dai risparmi delle classi più alte, un’insufficiente domanda aggregata interna ai paesi, e la necessità da parte dei capitalisti di trovare usi redditizi fuori al loro paese per l’eccedenza di risparmi” (p.95). Nel contesto del primo T.O.P. questa esigenza doveva tradursi nel controllo fisico di altri luoghi, come misero in evidenza John Hobson (1902), Rosa Luxemburg (1913) e Vladimir Lenin (1916). Quindi, come scrive Hobson, “non è il progresso industriale che richiede l’apertura di nuovi mercati e di nuove aree di investimento, ma la cattiva distribuzione della capacità di consumo che impedisce l’assorbimento di merci e capitali all’interno del paese” (H. p.76). Insomma, la questione è semplice, “la disuguaglianza è il motore della guerra”.
[13] - Nel ciclo di investimenti nelle rinnovabili, promosso dalla prima serie di incentivi negli anni 2010-14, sono stati attratti ed investiti nella sola Italia qualcosa come settanta miliardi di euro, ad una stima prudente, per realizzare qualcosa come il 10-15% della capacità di generazione.
[14] - Il commercio del carbonio è il meccanismo messo in campo per la prima volta nell’Accordo di Kyoto per utilizzare il marcato, creandolo, al fine di distribuire in modo ottimale il carico dello sforzo, necessariamente mondiale, di riduzione delle emissioni di gas climalteranti. La meccanica di base è semplice: chi riduce, o ha ridotto, le proprie emissioni sotto la soglia-fissa ad un certo anno, dispone di un ‘credito’ certificato che deve essere acquistato ed annullato da chi, viceversa, emette in misura maggiore. Il prezzo lo dovrebbe determinare il mercato, grazie ad un percorso di riduzione nazionale, diverso da paese a paese, che viene negoziato internazionalmente.
[15] - Che è, ad un livello piuttosto profondo, la logica della rivoluzione neoliberale, che pone al centro di tutto la concorrenza e ne fa il principio centrale della organizzazione umana, e di un nuovo uomo che deve essere imposto con gli strumenti coercitivi dello Stato. Cfr. Dardot, Laval “La nuova ragione del mondo”.
[16] - Termine che adopero al modo di Saskia Sassen.
[17] - Si veda, ad esempio, “Utopie letali”, del 2013, nel quale Formenti prende le distanze dalla tradizione post-operaista, cui appartiene, ed in particolare nella versione ‘negriana’ di questa. Intanto la tesi centrale del pensiero di Panzieri e Tronti, punto seminale, che sarebbe la soggettività operaia a determinare lo sviluppo capitalistico, anziché essere il contrario, è ridotta ad accidente storico della sola fase fordista. Dunque i successivi concetti di “operaio sociale”, “moltitudine”, tutti rivolti a conservare questa centralità dalla morte dell’operaio massa per decadenza delle condizioni storico-sociali e tecnologiche che lo avevano determinato (ovvero la “fase monopolista” del capitalismo in presenza del pacchetto di tecnologie e pratiche sociali note come “Fordismo”).
[18] - Linea sulla quale si può riagganciare anche la parte più sensibile ed evoluta della riflessione femminista (o post-femminista), ad esempio nella tematizzazione di Nancy Fraser, sulla quale ci eserciteremo in seguito, e per la quale rimandiamo al suo “La fine della cura”. Per una critica del femminismo, in chiave di ripresa di un discorso socialista imperniato sulla differenza di classe si veda Fabrizio Marchi, “Contromano”.
[19] - Ovvero il femminismo, le lotte di genere e di liberazione sessuale, le lotte di liberazione della razza, e via dicendo.
[20] - “L’amore per il denaro come possesso, e distinto dall’amore per il denaro come mezzo per godere i piaceri della vita, sarà riconosciuto per quello che è: una passione morbosa, un pò ripugnante, una di quelle propensioni a metà criminali e a metà patologiche che di solito si consegnano con un brivido allo specialista di malattie mentali”.
[21] - “Un concetto che vale per ogni epoca umana e si esprime attraverso valori d’uso – contenuto in beni che soddisfano bisogni storicamente definiti e, quindi, segnati da una costitutiva variabilità; fonti della ricchezza sono in primo luogo la natura e in seconda istanza una sua particolare espressione, la forza-lavoro umana (o, in questo contesto, il lavoro in senso generico)” (p.35).
[22] - “Una categoria peculiare del modo di produzione capitalistico e si sostanzia in valore di scambio -oggettivato in merci prodotte non per soddisfare bisogni ma per essere vendute sul mercato; fonte del valore è il lavoro sociale astratto, così definito [da Marx] ‘non questo o quel lavoro, bensì lavoro puro e semplice […] assolutamente indifferente alla sua particolare determinatezza, ma capace di ogni determinatezza’. Esso si pone da un lato come lavoro in quanto risultato (lavoro morto inserito nella forma-merce) e dall’altro come lavoro in quanto attività (lavoro vivo, o in atto, prelevato dalla forza-lavoro)”. Definizioni riprese da Bellofiore.
[23] - Anche se è proprio del capitalismo di essere orientato, nell’azione dei soggetti in reciproca competizione, all’autoaccrescimento del ‘valore’, e non alla produzione sociale della ‘ricchezza’.
[24] - Ivan Illich, “Per una storia dei bisogni”, 1974.
[25] - Nel senso dell’inquadramento disciplinare, sociologo, filosofo, economista, senza avere nessuna delle rispettive specializzazioni accademiche, nato a Vienna nel 1923, figlio di un ebreo e di una cattolica e nato Hirsch, ingegnere chimico a Losanna, poi giornalista economico e vicino a Sartre ed al suo esistenzialismo. Gorz attraversa gli anni sessanta e settanta restando vicino alla Scuola di Francoforte (a partire da Marcuse) per superare l’economicismo marxista e la sottomissione della società alla ragione economica e funzionale. Si lega alla “nuova sinistra”, in campo sindacale, ovvero nel dibattito sul lavoro ed i “consigli”, che in Italia risale ai nomi di Trentin, Foa, Basso. Dal 1968 si avvicina a posizioni di antiautoritarismo radicale come quelle di Ivan Illich, e poi all’ecologia radicale.
[26] - Viene richiamata la “ecosofia” di Felix Guattari (“Le tre ecologie”, 1989).
[27] - La lotta di classe operaia determina lo sforzo da parte del capitale di recuperare le condizioni di redditività e disciplina e lo induce quindi ad alzare il proprio livello di efficienza e quindi a sviluppare le forze produttive complessive. Una descrizione (in “Operai e Capitale”, 1966) molto aderente agli anni in cui fu formulata, e poi aggiornata nel Post-Operaismo in termini di sviluppo del ‘lavoro cognitivo’. Per una critica interna ma netta di questa posizione si veda Carlo Formenti, “Utopie letali”, 2014, p.73 e seg.
[28] - Si tratta dello schema di pensiero della trilogia di Negri e Hardt: “Impero”, 2001; “Moltitudine”, 2004; “Comune”, 2010.
[29] - Ovvero il nesso tra la trasformazione delle attività vitali di cui la natura è espressione e la loro trasformazione in astrazioni necessarie, perché conformi alla logica del valore.
[30] - Qui sembra di leggere l’effetto di lungo periodo dell’interiorizzazione della tesi di James O’Connor sulla “Crisi fiscale dello Stato”, come inseguimento costante tra stimolo e tassazione.
[31] - In questa parte storico-ricostruttiva del testo, Leonardi ricorda la posizione di Gorz in “Addio al proletariato”, quella di Trentin (si veda “La città del lavoro”), e la posizione di Potere Operaio.
[32] - Carlo Formenti, “Utopie letali”, p.81.
[34] - Si veda, ad esempio “Industria 4.0
[35] - Si veda, ad esempio “Limite”, 2012.
[36] - In altri termini una de-complessificazione della società ed un certo spirito ostile alle soluzioni tecnologiche, viste come intrinsecamente tecnocratiche, di grande problematicità.
[37] - Sono citati Joseph de Maistre, Edmund Burke, Louis de Bonald.
[38] - Si può citare, per documentare le radici culturali, più che significative, di questo approccio la posizione del geografo e territorialista americano John Friedman, un “socialista anarchico”, che a sua volta riprende posizioni come quelle di Geddes e Mumford, negli anni venti del secolo scorso, recuperando una idea di “comunità” come “aggregazione spontanea di soggetti che manifestano un approccio unitario, che non hanno bisogno di un’autorità esterna per preservare uno stato di coesione”.  La comunità, in altre parole, si fonda su princìpi morali liberamente assunti. Nell’articolo “The good society” Friedman afferma che la “buona società” è una rete di “buone comunità” dove, cioè, le relazioni tra i soggetti, che si riconoscono vicendevolmente come tali, sono nella pratica fondate su azioni dialogiche che prescindono da ordinamenti gerarchici e consentono relazioni dirette (faccia - a - faccia). Esse devono essere costituite da piccoli gruppi che operano negli interstizi della società amministrata, attraverso la “pratica radicale”; trasformando alla lunga, e in modo non sistematico, le stesse istituzioni.  Insomma, la costruzione di una società diversa si traduce nella ricerca della persona reale, nascosta sotto i condizionamenti, le aspettative e gli obblighi delle istituzioni e dei ruoli sociali ed emerge anche una concezione relazionale del soggetto stesso, che fa riferimento all’idea normativa della “comunità morale”, intorno alla quale costruire il “bene pubblico”.  Un “bene” che scaturisce da una rete concreta di riconoscimenti reciproci e di solidarietà, in polemica con l’atomistica concezione dell’ “interesse collettivo” di derivazione utilitarista. Il “bene pubblico” in questo caso si definisce in termini di processo. Prevale un’immagine della comunità in cui il riferimento è, in modo molto tradizionale, Tönnies e in cui il sociale è espressione di una volontà comune, direttamente emergente dalle relazioni interpersonali che i soggetti stabiliscono vicendevolmente.  Il sociale è, cioè, un effetto della sola comunità, dove i rapporti sono diretti, non sono mediati dal rapporto con il mercato e sono esenti dal dominio.  Un’idea della massima importanza, interesse ma anche pericolosità. L’utopia, senza dimensione spaziale, della “buona società”, della prima fase trova quindi una sua specificazione nel cosiddetto “sviluppo agropolitano”.  Si tratta di una strategia di sviluppo territoriale delle regioni periferiche basata essenzialmente sul soddisfacimento dei “bisogni primari”.  Richiama, chiaramente, la cultura regionalista dei primi decenni del secolo; sono indicate alcune condizioni: la chiusura territoriale selettiva; la socializzazione della ricchezza; l’eguale accesso all’uso delle risorse. Il princìpio dominante è quello dello sviluppo autosufficiente, in cui unità autogovernate (distretti) promuovono le relazioni interpersonali e lo sviluppo spontaneo.  I “distretti” sono “ambiti culturalmente e politicamente omogenei nei quali le funzioni di governo sono esercitate dalla collettività”. Lo Stato deve svolgere solo funzioni protettive dei confini territoriali, facilitazione dello sviluppo coordinando qualche politica e redistribuzione in favore delle “unità” meno forti. In questo contesto che risente della fusione di motivi anarchici e libertari la pianificazione diventa “pratica sociale”. Successivamente il modello è trasposto anche alle aree non periferiche, attraverso l’idea di un sistema come insieme di cellule “despecializzate, centrate su se stesse e autonome”.  Si assume, inoltre, che un tale sistema, oltre ad essere despecializzato, possa divenire anche “destrutturato”. L’idea è di “ritrovare” un “equilibrio organico, un ordine naturale”. In “Pianificazione e dominio pubblico”, uno dei suoi ultimi lavori, del 1987, l’obiettivo diventa il cambiamento della stessa vita quotidiana e delle basi organizzative dell’esistenza, secondo gli scopi di fondo di rendere equo l’accesso alle basi del potere; cioè affermare la sovranità popolare a tutti i livelli territoriali subordinando lo stato e l’economia alle esigenze della comunità politica, e per questa via, disconnettersi dal sistema dominante delle relazioni di mercato sostituendogli un ricco mix di obiettivi di sviluppo attraverso azioni autoaffidanti entro ciascuna comunità territoriale. Ciò è ricondotto alle “arene” della famiglia, della comunità locale, della “periferia contadina” (il terzo mondo), della “comunità globale” (internazionale in relazione a qualche isolato tema come l’ambiente).   Dove, però, nei paesi occidentali il progetto di trasformazione si ferma al livello locale, salvo che per qualche occasionale scelta che consenta di legare fra loro esperienze separate di movimenti locali. La “comunità locale” è, dunque, l’ambito della Comunità Politica, essa, secondo la diagnosi  di Friedmann, è stata frantumata dallo spazio economico (senza confini) e dall’articolazione burocratica dello stato.  Ciò porta alla necessità di “domare” lo spazio economico e la mobilità del capitale, riconducendoli sotto il controllo della Comunità Politica, e di mutare gli orientamenti al consumo a livelli comunali verso l’autoproduzione della vita.  Occorre, quindi, estendere lo “spazio politico” e contenere quello “economico”, riportandoli alla stessa scala (metropolitana) indicata in una taglia dimensionale che trova i suoi massimi tra le 100.000 e le 250.000 unità di popolazione. Friedmann si spinge in questa direzione fino a proporre tasse differenziate e vincoli allo spostamento delle imprese.
Viene comunque riconosciuto che il problema ha natura politica e consiste nel “ricostruire la via di ogni giorno”.  Riprendendo motivi anarchici Friedmann afferma, in questo contesto, che “si tratta di spostare l’asse dell’accumulazione di potere nella società dalla verticale, che riconnette allo stato il dominio delle corporazioni economiche, all’orizzontale, che riporta la società civile alla comunità politica. ... Al di sopra del livello della famiglia, la comunità politica assume la forma specifica di libere associazioni politiche che, quando si riuniscono in assemblea, possono affermare di esprimere la volontà sovrana del popolo in materia di questioni comuni. Questo desiderio universale di autonoma vita politica nasce dall’interno di un gruppo di persone che, abitando lo stesso spazio fisico, si attribuiscono il potere di rappresentare l’unica fonte legittima in quello spazio”.  Una frase di grande interesse e densità che presenta, abbastanza chiaramente, un’idea della legittimazione democratica di stampo assembleare e plebiscitario, consensualista e organica in senso spaziale. Un’idea che, secondo il modo di vedere di chi scrive, appare troppo indifferenziata e “volontaristica” per poter costruire la base di una credibile teoria dell’azione (politica) capace di affrontare i nodi di sapere e potere concretamente presenti davanti a noi.

1 commento:

  1. Risposta dell'autore su Fb: caro Alessandro,
    perdona il grande ritardo: sono state settimane impegnative.
    torno a ringraziarti (l'ho fatto anche nel simposio dedicato al libro sulla rivista Etica e Politica [http://www2.units.it/etica/]) e butto giù qualche considerazione:
    1. hai colto perfettamente lo spirito del libro: togliere le pietre, non arare (meglio: proporre ragionamenti solidi per togliere le pietre e intuizioni forse-utili-forse-no per l'aratura a venire);
    2. giusto anche situare il mio studio sia 'dentro' la riflessione sul keynesismo ambientale sia 'oltre' esso; su questo tema credo bisognerà insistere in vista del prossimo sciopero del clima e dell'auspicabile rafforzamento dei Fridays for Future (incoraggianti le notizie che giungono dall'assemblea nazionale di Milano);
    3. sul 'connubio' tra neo-operaismo e via catalana alla decrescita temo di non essere stato sufficiente chiaro: l'idea non era quella di "unire in qualche modo un utopismo venato di toni reazionari con un tecnottimismo piuttosto contraddetto dai fatti", bensì quella di proporre un nuovo terreno capace isolare e mantenere alcuni nuclei teorici per me importanti legati al metabolismo sociale e al general intellect senza ricadere negli estremi che indichi. può ben darsi che non sia riuscito, ma l'intenzione dell'autore conta, checché se ne dica :-) .
    4. temo ci sia un malinteso rispetto al mio rapporto da un lato con il post-operaismo (anzi, diciamolo chiaramente: con il pensiero di Toni Negri) e dall'altro con l'ipotesi del capitalismo cognitivo. Sono rimasto sorpreso quando, nel primo paragrafo, hai connesso la centralità del "cognitivismo + commons" all'ipotesi dell'operaio sociale e della "moltitudine". Ora, il termine 'moltitudine' nel libro non appare mai, e non per caso: esso rappresenta infatti la derivazione di una teoria politica centrata sull'autonomia della cooperazione sociale nel post-fordismo dalla descrizione di un quadro economico contemporaneo segnato da tre fenomeni convergenti: divenire-produttivo della riproduzione sociale + finanziarizzazione dell'economia + cognitivizzazione del lavoro. Si tratta di una derivazione impropria, a mio avviso.
    Che la descrizione basata sul general intellect sia considerata smentita dai fatti proprio mentre si versano ettolitri d'inchiostro per comprendere la datificazione dell'esperienza umana e la sua integrale messa a valore mi sorprende e mi lascia interdetto. Che invece si segnali la totale assenza di controllo operaio sul processo mi pare ragionevole e conferma le ipotesi contenute implicitamente in questo libro ed esplicitamente in 'Logiche dello sfruttamento'. Insomma: sì alla descrizione, no all'automatismo produttore di valore = soggetto rivoluzionario "pronto all'azione".
    5. chiudo con una battuta: il gioco della polarizzazione tra il Messia de "il-comunismo-è-già-qui!" e l'Apostata del "tutto-a-mare!" è a mio avviso una iattura per chi si interessa di operaismo (per chi vi aderisce, come me, e per chi ha voglia di criticarlo seriamente, e ce ne sono tanti in giro). per quanto mi riguarda nel libro ho provato a seguire una doppia strada alternativa: riprendere, riportare e approfondire figure o momenti di un operaismo poco conosciuto (Primo Maggio e in particolare Sergio Bologna sulla questione ambientale) e porre al nucleo fondante dell'impostazione teorica questioni "esterne" a quelle che ne segnarono la genesi. anche qui, l'esito può tranquillamente non essere all'altezza, ma l'ambizione era quella di lasciarmi alle spalle un dibattito che ritengo esaurito e sterile.
    grazie ancora, è un piacere confrontarsi con te,
    Emanuele

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