In questo testo, forse troppo lungo (6.700 parole, 25
minuti di lettura), si compie un esercizio non facile, decisamente inattuale:
quello di provare a ripensare le condizioni nelle quali si può tentare di
oltrepassare l’impolitico neoliberale a partire dalla ricostruzione di un
collettivo ed insieme di un umano. Questo tema è limitato alla ‘questione del
partito’, ovvero dell’agente del politico concepito come trasformazione dell’esistente
e levatore del nuovo, e non come mimesi e aspirazione al mero successo. Il discorso
connette sistematicamente i mutamenti nel modo di produzione e della ‘piattaforma
tecnologica’ del capitalismo, e quindi dell’antropologia dominante e delle
forme di socializzazioni corrispondenti, con le forme-partito di volta in volta
funzionali.
Dopo alcuni indispensabili cenni storici, per lo più in nota per non appesantire il testo, e l’esplicitazione
delle condizioni abilitanti i ‘partiti leggeri’ che hanno molte applicazioni e
travestimenti, viene sviluppata una critica del primo populismo,
strutturalmente connesso alla ‘contro-democrazia’, a sua volta figlia della ‘accumulazione
flessibile’. Anche qui le forme ed i travestimenti sono numerosi.
Viene quindi avanzata l’ipotesi che la crisi del primo
populismo, in tutte le sue versioni, non sia episodica ma venga mossa nella
profondità da una estremizzazione-mutamento della ‘piattaforma tecnologica’
post-moderna e resti quindi non più allineata con l’estrema polarizzazione, da
un lato, e con l’interconnessione molecolare determinata dall’ambiente
tecnologico, dall’altra. La tesi è che il nuovo ambiente non si presti più alla
strategia “tutta testa e comunicazione” del populismo in stile sudamericano
(per quanto questo sia largamente fondato su una socialità popolare vitale) e/o
di prima generazione europeo (ben meno vitale), ma renda nuovamente necessaria
la presenza di attivisti, influencer, reti di comunicazione diffuse,
mobilitazioni politiche e quindi cultura comune e condivisa, ‘simpatia’,
coesione, responsabilità e mutuo sostegno.
Del resto nello spazio aperto dallo Shock del 4 marzo,
nel quale la lunga sostituzione della “base sociale” tra sinistra e destra, si
è allineata con la corrispondente sostituzione della “base di massa” (facendo
della sinistra tradizionale minoranza sociale e politica), tutte le sinistre
sono spiazzate inesorabilmente. Lo sono quelle ‘di governo’, ma anche quelle ‘radicali’
e per certi versi sembra esserlo anche parte del populismo (anche se questo
giudizio, nel caso italiano è soggetto a molte distinzioni).
Questo snodo lo leggeremo alla luce di quello che
chiamo “il dilemma Kuzmanovic-Autain”,
tra l’aspirazione alla riconquista e la difesa delle aree residue di consenso in
un insediamento che si restringe.
Lo scopo del testo è di provare a dissodare un poco il
terreno, e indicare cosa occorre ad una prospettiva neo-socialista per
liberarsi della lunga ipnosi e riprendere una certa dimenticata durezza. Lavorare
per rendere di nuovo leggibile il mondo, e la parte subalterna a politicizzarsi
e rappresentarsi, a simbolizzare il potere collettivo, individuando una diversa
costituente sociale capace di riorientare una nova politica di ‘classe’.
Pensiamo che per riuscirsi bisogna oltrepassare il populismo
di sinistra di prima generazione ed avviare un movimento che la faccia finita
con cosmopolitismo, retorica dei diritti solo civili e suprematismo morale. Ma anche
rifuggire la passione per l’agilità, la semplificazione, il governismo. Attraversare
quindi, con pazienza e determinazione, il faticoso lavoro di montaggio di
soggettività e di interpretazione del mondo, per produrre rottura ed indicare
le questioni dirimenti.
Stiamo, infatti, passando oltre quell’assetto
post-moderno che rendeva efficaci i vari tipi e travestimenti di partiti che
saltano il sociale, e disintermediano. Che cercano di produrre una ‘base di
massa’ senza più avere una ‘base sociale’ realmente tale, ma, al più, una
network funzionale di poteri e domande.
In altre parole, la tesi è che serve ora un “partito-comunità”,
che trova nelle discussioni molecolari sulle piattaforme e nelle pratiche di
mobilitazione anche plurali e federali la calda pesantezza di una nuova ‘base
sociale’ quanto più larga possibile. Facendo leva e mobilitando la capacità meno
esercitata dall’ambiente neoliberale: la capacità di essere-per-l’altro entro
comunità di discorso e di condivisione di obiettivi. La radice stessa del
socialismo.
Perché il socialismo è principalmente una nuova
antropologia più umana.
Resta il problema principale: come farlo. Ma questo va
oltre le parole, per saperlo bisogna farlo.
Il partito, cenni storici
Si tratta di un tema obiettivamente difficilissimo per
la vastità e la dispersione dei temi che evoca. Il principale organo della
democrazia è sempre stato soggetto a cambiamenti[1] in
concomitanza ai mutamenti della società e della forma che ha preso di volta in
volta il modo di produzione e la piattaforma tecnologica[2] ad
esso connessa.
A grandi linee il “partito” (da “parte”), dopo secoli
nei quali è stato visto come una degenerazione che distruggeva l’armonia e
l’ordine, trova uno spazio sistematico a partire dall’emergere, con il
suffragio universale, della democrazia di massa al principio del novecento.
Quindi si consolida quella ‘democrazia
dei partiti’ (in primis i partiti cattolici e socialisti di massa),
ancorati ad organizzazioni sociali intermedie fidelizzate, che hanno costituito
il nerbo della dinamica politica del secondo dopoguerra. Questo sistema è alla
fine entrato in crisi al passaggio dal modo di produzione ‘fordista’ a quello
‘flessibile’, con l’indebolimento delle predette organizzazioni e la mutazione
antropologica in senso individualista ed edonista nota come “consumismo”. Nella
lunga fase di degenerazione, che è quella che per lo più abbiamo vissuto
biograficamente, questi partiti hanno occupato lo Stato, “incistandosi” in
esso, e sono diventati sempre più chiusi ed autoreferenti, fino ad essere
dissolti in Italia dalla vicenda di “Mani pulite” a cui fa seguito l’avventura
del “Partito Piattaforma” populista
di Berlusconi e che segue alla firma del Trattato di Maastricht, da molteplici
punti di vista vero punto di svolta continentale.
Ma questo processo non è solo italiano, bensì almeno
occidentale, in quanto ancorato al mutamento di fase del capitalismo e del suo
modo di produzione, ma anche dei nuovi media che lo accompagnano. Ad esempio
Manin[3],
con riferimento prevalente alla situazione americana, parla di “democrazia del pubblico”, quando gli
elettori, per una varietà di motivi, prendono a votare le persone candidate più
che i partiti o i loro programmi, che quindi perdono importanza. Nelle elezioni
locali, ad esempio, questa tendenza induce il fenomeno delle “liste civiche”,
con le deviazioni, il familismo, e le distorsioni che ne seguono. Quel che
accade è in sintesi che si rovescia il rapporto: i partiti tendono a mettersi a
servizio dei leader e ne vengono svuotati. Il Partito, con la sua inerzia culturale,
le sue regole non scritte, la densità delle norme sociali che ne individuano i
confini, comincia ad essere visto come un ostacolo alla necessaria flessibilità
e nascono i “partiti personali”.
Ci sono almeno due potenti cause:
-
i media generalisti
(televisione in primis) che consentono di saltare l’intermediazione della
struttura ed in qualche modo di farne a meno, per cui appare che, come scrive
appunto Manin, “l’epoca degli attivisti e degli uomini di partito è finita”.
-
La maggiore complessità delle scelte, ed i maggiori vincoli cui sono sottoposte (basti
pensare alla situazione europea) che induce a privilegiare programmi più vaghi
e a rendere necessario il frequente tradimento di questi nella fase di
implementazione. Sembra tornare il potere “prerogativo” teorizzato da Locke.
Ma c’è anche altro, ed è una parte del punto di Laclau[4]:
l’elevata frammentazione della struttura sociale, e la sua perdita di coesione,
fa sì che a priori non sia più possibile individuare una divisione
socioeconomica dominante. Il corpo sociale è attraversato da linee di divisione
che sono numerose, trasversali e in continuo mutamento a secondo di quale sia attivata
come principale. Allora bisogna decidere
quale divisione si propone come centrale, e l’elettorato assomiglia ad un
“pubblico” del quale catturare l’attenzione.
In Italia è abbastanza ovvio a quale modello questa
descrizione faccia riferimento: si tratta dell’irruzione nel 1994 del “Partito
Piattaforma” per eccellenza, Forza Italia di Silvio Berlusconi, costruita in
pochi mesi a partire da un piccolo, ma molto professionale, nucleo di venditori
di “Pubblitalia” uniti ad alcuni esperti professionisti cooptati tra i partiti
storicamente avversari al Partito Comunista e suoi successori (nel caso di
specie PdS).
La “controdemocrazia”: il primo populismo
Ma tutto è sempre in movimento, e già negli anni
precedenti la rottura del 2008 emerge una potente controcorrente, che
Rosanvallon chiama[5] “Controdemocrazia” (mentre Colin Crouch chiama “Post-democrazia”[6]),
ovvero il prendere il centro della scena di una serie di pratiche di
sorveglianza, interdizione e giudizio del politico che un sociale che si sente ormai
compiutamente decentrato esercita verso il potere formalizzato in organi
rappresentativi e di governo. Questa è quindi la fase di una “contro-rappresentanza”, imperniata
fortemente in gruppi autorganizzati che Crouch chiama di “self-help”, che non vogliono sostituirsi alle decisioni, ma contrastarle
da fuori in una sorta di “rivoluzione permanente” senza presa del Palazzo di Inverno. Questo mutamento è in qualche
modo l’effetto di una dissociazione tra “legittimità” e “fiducia” determinata
dalla perdita di speranza, ed è strettamente connesso ad una nuova centralità
tecnologica nel campo della comunicazione: quella
di internet.
Ci troviamo davanti una “democrazia della sorveglianza”, insomma, in cui le figure
essenziali diventano “vegliare”, “denunciare”, “verificare”; gli attori
centrali diventano le “organizzazioni reattive”, ma anche dal lato
istituzionale (neoliberale) le “autorità” e le “istanze di valutazione e loro
tecnostrutture”; le legittimità riconosciute sono quella “sociale procedurale”,
“sostanziale”, e da “imparzialità”.
Come scrive Rosanvallon, la “perdita di fiducia”
attiva in questo contesto una ricerca di forme di contropotere, che si manifestano tramite tre modalità principali:
-
la vigilanza,
il cui scopo è “mettere alla prova la reputazione del potere”; una
“reputazione” che in effetti ormai è la vera istituzione invisibile del nostro
tempo.
-
l’interdizione,
il cui scopo è bloccare il potere, non lasciarlo esprimere, revocarne i singoli
atti ed azioni. Si formano a questo scopo mobili “coalizioni negative” che sono
estremamente più facili e sono capaci di adattarsi molto bene alle loro
contraddizioni. Sono tenute insieme, infatti da ciò che rifiutano, non da ciò
che vogliono. Tramite la prevalenza di queste “coalizioni negative” la nuova democrazia del rifiuto si sovrappone e
prevale alla democrazia del programma.
Senza il quadro generale, ci si concentra sulle figure.
-
Il giudizio,
emerge una figura accigliata e censoria, il “popolo giudice”, il cui scopo è
additare ed accusare i fallimenti del potere, esporli al pubblico
disprezzo.
Al popolo-elettore
del contratto sociale si sono così sostituite in modo sempre più attivo le
figure del popolo-controllore, del popolo-veto e del popolo-giudice (R, p. 24).
Questa evoluzione è spiegata da Rosanvallon come
effetto del terminale logoramento dell’idea della politica come scelta tra
modelli diversi (in ultimo “venuta giù” insieme al muro per molti). In
conseguenza ora i cittadini si organizzano in modo reattivo, cosa che –in
termini di modulo organizzativo- ha anche un vantaggio strutturale. Non si
tratta, però, di una passività: è più che altro una democrazia diretta regressiva, una sorta di “consenso per difetto”,
un “doloroso e impotente restringimento” (R. p. 174). Sicuramente anche una teatralizzazione,
una centralità del momento dell’accusa, dell’invettiva, dell’imputazione.
Cambia anche l’atteggiamento individuale, “è la percezione stessa della radicalità ad
avere cambiato natura. Essa ormai ha abbandonato la prospettiva di un grande avvenire,
immaginandosi invece con le modalità di una voce morale inflessibilmente
preposta a stigmatizzare i potenti o a risvegliare i dormienti” (R., p.
239). Non si può dire ci manchino gli esempi di questo abbandono di obiettivi
politici in favore di scopi morali o pratici, ed abbondano nella sinistra
“radicale” e nella postura del “politicamente corretto” che spesso prende.
Tutto ciò provoca indirettamente una certa atrofia, una
paralisi del campo politico, un sentimento di impotenza e di paura, che non è
naturalmente l’ambiente ottimale per agire e decidere in modo rapido ed
efficiente. Del resto l’obiettivo di questi contro
movimenti non è conquistare il potere, ma precisamente “contenerlo ed
inibirlo”. In qualche modo paralizzarlo.
Esempi di questa impostazione e cultura sono il primo Movimento 5 Stelle e ora gran parte
delle formazioni della sinistra radicale.
Ma ne è esempio in qualche modo anche la prima
insorgenza del “populismo di sinistra”, ovvero le esperienze di Podemos in Spagna, di France Insoumise in Francia, mentre è
abbastanza diversa la costruzione federale di Skyriza in Grecia (anche se ha
elementi in comune).
La crisi: mutamenti intorno alla piattaforma
tecnologica
Ma da più indizi si intravede la crisi di questa prima
generazione di populismo di nuovo conio, essenzialmente oppositivo, all’urto
con la necessità di stabilizzare l’attività (caso francese) o del governo
(spagnolo ed italiano). Del resto era molto ben espresso già nel 2016 in un
piccolo libro di Calise[7]:
chi cavalca la tigre della politica della sorveglianza fatica a mantenere
coerenza e aspettative. La stessa logica “contro-democratica” della
sorveglianza, veto e giudizio, si rivolta contro le sue proprie strutture, e,
le cattura con sospetto di inautenticità, condannandole incessantemente “a
spiegarsi e a giustificare la sua azione, mettendolo alla prova, giocando il
ruolo di testimone attento e scrupoloso, arrivando ad avvallare o a contestare
le decisioni prese” (Rosanvallon “La legittimità
democratica”, p.274). Il
ruolo decisivo, allora, nei confronti di un brulicante mondo di associazioni,
individui, new media, piccoli gruppi di discussione e condivisione, lo
riveste la giustificazione. Anzi
la “battaglia quotidiana per la
giustificazione”.
La “direttezza”
di cui parla Nadia Urbinati in un bellissimo libro[8]
mostra qui il suo rovescio.
Del resto rispetto al modello del “populismo” alla
Laclau, imperniato sulla narrativa e la costruzione di messaggi operanti sulle
linee di faglia plurime, unificandole, intorno al carisma di un leader e
facendo uso del minimo possibile di struttura di trasmissione, la cui più espressiva applicazione italiana,
come abbiamo detto, è Forza Italia di Berlusconi, negli ultimi anni è
intervenuta un’ulteriore variazione tecnologica.
Le elezioni del 2018 si sono tenute in un ambiente in
cui ormai il 65% degli italiani accede alla rete e tramite questa sempre più anche
(spesso via smartphone) ai media generalisti sui quali era concettualmente
imperniato il populismo di primo tipo. Nelle elezioni in oggetto risulta[9]
che il 60% degli elettori si sia informato prevalentemente su internet, con una
prevalenza per i siti di informazione e un 20% circa dai social, meno della
metà ha indicato invece la televisione come prima fonte di informazione. Tra i
contenuti incontrati un terzo ha indicato post di contatti e il 44% notizie di
stampa. Più in dettaglio si informano prevalentemente in rete gli elettori del
Movimento 5 stelle e quelli della sinistra non PD, ovvero gli elettori di forze
sottorappresentate nei media generalisti. Solo un terzo degli elettori
orientati al M5* ed alla Sinistra non PD si è informato su media generalisti.
Insomma, è
cambiato e sta cambiando il modo in cui si formano le opinioni politiche.
Il flusso non arriva più dall’alto al basso, veicolato con le tecniche gestite
per anni in modo efficace e raffinato da Berlusconi e poi in modo assai meno
competente ed efficace (ed effimero) da Renzi[10],
e da uno-a-tutti, ma peer-to-peer, tra pari, e quindi dal basso, o
orizzontalmente. Ed inoltre internet, oltre a produrre autonomamente
informazione, grazie ad una rete decentrata di ‘influencer’, definisce i frame
nei quali viene anche interpretata l’informazione ‘mainstream’ veicolata dai
media generalisti. L’effetto si dà nella discussione, nel commento, la
rilettura e la reintepretazione.
Fonte dell'influenza sulle opinioni politiche |
Non sembra neppure confermata la diffusa impressione che sui social si tendano a creare in particolar modo delle ‘bolle ideologiche’, dalle interviste: risulta che quasi quattro quinti degli utenti è solita incontrare sui social idee diverse dalle proprie con cui confrontarsi.
Il punto è che questo diverso ambiente, che ha la
potenzialità di attrarre/interessare anche una parte di coloro i quali non si
interessano di politica (60%) e quindi non seguono le relative trasmissioni e/o
giornali (in quanto le discussioni via social tendono a scivolare tra i temi), è ormai la principale arena da contendere.
Quella nella quale si definisce la vittoria o sconfitta delle forze politiche.
Ma questa arena non si presta molto alla strategia
“tutta testa e comunicazione” del populismo in stile sudamericano e/o di prima
generazione.
In un certo senso rende invece di nuovo necessaria
l’attivazione di “influencer”, mobilitazioni politiche, reti di comunicazione
diffuse, quel che potrebbe somigliare nuovamente alla rete delle “sezioni” dei
vecchi partiti, ma immaterializzata (o distribuita).
Rispetto alle tipologie di partito che, a grandissimi
linee si sono sin qui viste, dal “Partito
dei notabili” di fine ottocento e primo novecento, spazzato via dal “Partito – massa” (o ‘reclutatore’) del
dopoguerra, e poi degenerato nel corso del mutamento dal fordismo all’accumulazione
flessibile in Partito “stratarchico” (o
dei cacicchi) e, contemporaneamente, in Partito
del leader, o “piattaforma” (o Partito populista prima maniera) che
esasperano la verticalità la nuova orizzontalità determinata dall’iperframmentazione
contemporanea, unita alle ubique tecnologie di messa in contatto farebbe
ipotizzare l’insorgenza di una possibile alternativa.
Ma prima di parlarne due parole sulla situazione, a
partire dallo shock del 4 marzo:
-
Ha preso il centro
della scena l’insostenibilità tendenziale
di un fenomeno migratorio (sia in ingresso, sia in uscita) che ridefinisce la
struttura del lavoro e preme sulle risorse scarse disponibili;
-
Quindi la rabbia,
molto ben giustificata, di una parte assolutamente maggioritaria della società
italiana che si sente ignorata,
marginalizzata e posta a rischio dalla trasformazione del sistema economico
e dalla più che evidente disgregazione in essere (una radicalizzazione della “piattaforma
tecnologica” post-moderna[11]);
-
l’impossibilità,
stante l’attuale divisione del lavoro istituzionale imposta dalla meccanica del
progetto europeo realmente esistente,
e progettato in anni ormai lontani ed in una fase di accecamento del quale oggi
paghiamo tutto il prezzo, di mobilitare le risorse del paese che, anzi,
continuano a defluire tramite plurimi meccanismi non solo finanziari;
-
questo è il contesto
nel quale l’impatto delle trasformazioni
del modo di produzione, sulla spinta di una crescente meccanizzazione,
interconnessione e dematerializzazione, che come è sempre avvenuto in passato
spiazza parte importante delle persone biograficamente fondate nel vecchio
modello in via obsolescenza crescente e quindi richiederebbe un maggiore
impegno di risorse collettive, e di adattamento alle specifiche esigenze
nazionali, inibite dalla struttura di governance multilivello nel frattempo
creata;
-
infine aggrava l’obsolescenza
di sistema anche la fragilità ecologica,
che è a sua volta spia della frattura tra produzione e riproduzione e che
richiede un’analisi strutturale che non si attardi in spiegazioni
neo-malthusiane, romantiche o in illusioni di gestione tecnocratica[12],
quando invece si tratta di un effetto della natura di classe del modello di
sviluppo e della tendenza del capitalismo a consumare senza alcun senso del
limite lo spazio nel quale cresce, determinando la sua crisi.
Di fronte a questi temi, ormai non aggirabili, la
cultura di tutte le sinistre, da quelle che hanno fatto del ‘riformismo’ ormai
un altro nome per l’adattamento ad un assetto del mondo pensato erroneamente
come inevitabile e moderno ad un tempo, a quelle che, definendosi come
‘antagoniste’ purtuttavia hanno incorporato profondamente il rifiuto
dell’azione collettiva (ovvero la politica della sorveglianza che abbiamo precedentemente
descritto) che è l’arma principale dell’eterno presente nel quale prosperano
sempre e solo i più forti, ha abbandonato di fatto il campo. Si è dunque
rifugiata nella critica morale e nella coltivazione della propria pretesa, ed
autoattribuita, superiorità.
Il campo è dunque interamente occupato da altri e dobbiamo
tornarci.
Il “Dilemma
Kuzmanovic-Autain”[13]
Ma per tornarci è necessario assumere qualche decisione e confrontarsi con un profondo dilemma: quello tra l’aspirazione alla riconquista storico-politica dei ceti popolari, contendendo l’egemonia consolidata alla destra sul campo largo, ed ormai maggioritario[14], delle classi marginali, e la difesa delle aree di consenso residue che alla fine possono essere conservate solo su temi morali, data la divergenza degli interessi. Di fatto uno scontro tra ‘nuvole verbali’[15] e scelte difficili.
Il populismo di sinistra di prima generazione,
fortemente connesso con il narrativismo post-moderno, e fondato su una logica “intersezionale”
e di aggregazione di minoranze sembra alla fine trovarsi senza terreno sociale
sotto i suoi piedi. La sua genetica vaghezza sui temi dirimenti, e la
incapacità di scegliere un livello strutturale di scontro, lo rende poco adatto
alla durezza estrema della polarizzazione in atto.
Gli esempi sono diversi: Podemos, naturalmente, giunto al governo ma, secondo alcuni suoi
rilevanti esponenti[16],
anche al termine della sua spinta propulsiva; quindi France Insoumise, dimostratasi incerta tra la linea rivolta alle
periferie ed alle masse popolari e quella tradizionale delle alleanze con le
espressioni della base sociale in via di restrizione, ma ancora forte, dei ceti
riflessivi metropolitani. Difficoltà ne incontra anche, nel determinare una
linea politica coerente, di fronte alla turbolenza indotta dal lacerante
dibattito della Brexit, il Labour di Jeremy Corbyn, che pure si trova in una
situazione diversa.
Tuttavia negli ultimi mesi di questo anno sono emersi
nel cuore dell’Europa nuove ipotesi di lavoro per una sinistra che vorrebbe
riprendere la strada abbandonata nel ’89 e non rassegnarsi all’ineluttabilità
della ritirata ed alla gestione della liquidazione. Sono ancora variamente
deboli, sfocate, incerte, ma credo abbiano il seme di una speranza: Ausfehen[17] di
Sahra Wagenknecht, capace da settembre ad oggi di radunare quasi 200.000
adesioni (oltre dieci volte i vari partitini della sinistra radicale italiana);
molto lontani Republique-Souveraine[18] di
Djiordie Kuzmanovic, appena uscito da France
Insoumise perché in disaccordo con la linea di sinistra tradizionale e
“intersezionale”.
È, ovviamente, presto per comprendere se questi nuovi
spunti potranno agire per liberare dalla sua lunga ipnosi una prospettiva
socialista rinnovata, ma è abbastanza chiaro che per riuscirvi occorre
riprendere una certa dimenticata durezza, ed escludere:
-
la “sorveglianza”,
il restare fuori (Rosanvallon) a fare l’eterno assedio (morale) al castello;
-
il partito
identitario che si separa dalla società, verso la quale assume il tono da
maestro;
-
di ‘restare nel
vuoto’[21],
il partito-élite, aristocratico.
Invece si deve cercare di compiere un lavoro rivolto:
-
a produrre un mondo leggibile, operando una dimensione fondamentalmente cognitiva
del politico, aiutando la parte
subalterna della società a rappresentarsi, costituendosi. Ma anche, con lo
stesso gesto, a mettere la parte dominante di fronte alle proprie responsabilità.
-
A simbolizzare il potere collettivo, trasformando un “popolo introvabile” in una
comunità viva.
Bisogna in sostanza individuare con nettezza una diversa costituente sociale, ben
distinta da quella della sinistra contemporanea che ha abbandonato quella della
sinistra storica, e capace di riorientare una nuova politica di classe (come
noto un costrutto).
Questo lavoro, avendo in mente il “dilemma Kuzmanovic-Autain”,
si può tentare in alcuni luoghi strategici:
1.
il lavoro,
la centralità della cultura, della civiltà e della prassi del lavoro,
2.
la Protezione Sociale come primo, ed essenziale, prodotto delle Istituzioni
e della Democrazia che le deve fondare,
3.
la riqualificazione dello Stato come luogo della democrazia e la Programmazione come
pratica necessaria per orientare le risorse al bene comune,
4.
l’Economia Mista
come orizzonte,
5.
la declinazione
del concetto di Sovranità nazionale
in senso Socialista e Costituzionale,
6.
Una nuova idea di
Europa come confederazione di Stati
sovrani e realmente democratici,
7.
La regolazione della immigrazione, come ineludibile conseguenza della regolazione del
lavoro e dell’espansione universalista dello Stato Sociale e della protezione, sul
quale dovrà necessariamente emergere una nostra posizione realmente autonoma e
non reattiva, ovvero antagonista sia ai nazionalisti della destra italiana ed
europea, sia ai “no border” inconsapevolmente borghesi.
Considerando la
completa inversione della “base sociale”[22]
tra destra e sinistra, poi seguita il 4 marzo dalla “base di massa”[23],
è necessario che sia oltrepassato anche il “populismo di sinistra di prima
generazione”, incapace di proporre autentica discontinuità nelle condizioni europee,
e sia avviato un movimento politico che non guardi più principalmente a
sinistra (ovviamente intendendo con ciò i totem identitari che nel tempo hanno
svolto l’essenziale funzione di nascondere agli stessi occhi dei militanti ed
elettori gli interessi perseguiti, e quindi il rovesciamento avvenuto: il cosmopolitismo, la liberazione individuale
del desiderio e quindi la retorica dei
diritti avulsa dalle condizioni della loro effettività, il suprematismo morale e quindi il “politicamente
corretto”, autentico marcatore di classe, anche se inconsapevole).
Occorre anche premiare il faticoso lavoro di montaggio
di soggettività e di interpretazione del mondo, e rifuggire alla passione per l’agilità,
la rapidità, la semplificazione, che è un ulteriore e chiaro segno dell’egemonia
neoliberale “governista”. Il punto cruciale è produrre una rottura, leggere il
tempo, le sue fratture e indicare le questioni dirimenti, quelle che hanno una
loro resistente permanenza.
La forma-partito adatta ad essere lievito e strumento di una ricomposizione che è processo molto più largo non può chiaramente più essere il partito-massa novecentesco, per il quale non ci sono le condizioni sociali (e non ci saranno a lungo), non ultimo per il drastico cambiamento della “piattaforma tecnologica” contemporanea. Ma non può essere neppure il “partito piattaforma” e/o “populista di prima generazione” (leaderistico e disattivante, incapace di produrre una coerente visione di futuro, tendente al nominalismo e all'adattamento mimetico), che rispondeva alla “piattaforma tecnologica” Post-moderna, in via di tramonto.
Bisogna superare quindi le varie forme di “partito snello”,
incluso quelle populiste, che cercano fondamentalmente di saltare il sociale
dandolo per perso nella trasformazione neoliberale delle soggettività, in
particolare borghesi, e si sforzano di disintermediarlo. In altri termini, forme
che cercano di aggregare nei momenti elettorali una “base di massa” (necessaria
per vincere) senza avere realmente una “base sociale”, ma al più disponendo di
un suo sostituto funzionale in network di poteri e domande.
E’ stata a lungo
la formula vincente, ma stiamo ormai passando oltre.
Ciò che serve è ben altro: un “partito-comunità”, capace di larghe discussioni molecolari (e qui
la “piattaforma tecnologica” in via di affermazione aiuta), condotte facendo
largo uso della capacità reticolare dei social -nei quali si forma buona parte
dell’opinione politica- e di mobilitazione anche plurale e federale (qui alcuni
difetti[24]
di France Insoumise devono avvertire).
Il punto cruciale è ritornare ad avere una “base
sociale”, con tutta la sua calda pesantezza, e cercare di mobilitare la
capacità dell’uomo di essere-per-l’altro
entro comunità di discorso e condivisione di obiettivi.
Come scrive Axel Honneth, in un bel libro sul
socialismo[25], è infatti solo nello
scontro tra gruppi sociali che portano interamente se stessi in campo, dunque impegnano
le proprie visioni, esigenze e storie diverse, la propria situatività e intera
personalità, ovvero si potrebbe dire la propria concreta materialità, che si può
dare una forma di “progresso normativo” fatto concretamente nella storia e non
metafisicamente presupposto in essa dall’alto di una teoria.
Del resto il socialismo, scrive Honneth, “rimanda fin
dalle sue origini a un movimento di critica immanente del moderno ordinamento
sociale di tipo capitalistico. Di quest’ultimo vengono sì accettati i
fondamenti normativi ancorati ai principi di libertà, eguaglianza e fraternità che lo
legittimano, ma viene messo in dubbio che essi possano essere realizzati in
modo non contraddittorio se la libertà non viene ripensata in senso meno
individualistico, e dunque insistendo con maggior decisione in direzione di una
sua applicazione di taglio intersoggettivo” (H. p.27). questo è il fulcro e
caposaldo dell’intero movimento. Nell’unico punto in cui, nel lavoro di questi
autori seminali, la cosa è enunciata da Proudhon (1849) viene affermato che la
“libertà di ciascuno” non deve essere intesa come “limite”, ma come “ausilio”
di quella degli altri.
Il passo decisivo per la messa a fuoco di questo
concetto (che Honneth chiama hegelianamente “libertà sociale”) lo compie il giovane Marx, come noto vicino sia a
Proudhon, che conobbe in Francia, sia alle letture di Hegel. Data la sua
posizione esterna all’ambiente francese, impregnato dello sforzo di fare i
conti con la sua tradizione, il giovane filosofo lascia sullo sfondo i concetti
di “libertà” e “fraternità” e, già negli anni quaranta ragiona principalmente
su cosa possa essere una “comunità
integra”. In essa principalmente gli attori non si riferiscono gli uni agli
altri come “commercianti” (in ironica polemica con la formula di Adam Smith),
ma sono uniti dal riconoscimento
reciproco non del rispettivo privato egoismo, ma dei rispettivi bisogni. In un’associazione di liberi produttori
quindi si agisce, attraverso una certa divisione del lavoro non coatta, l’uno-per-l’altro (H. p.32). Dunque
in essa i rispettivi piani di vita non si intrecciano solo per mezzo di
un’anonima intersezione di scopi, ma per un’effettiva condivisione della
preoccupazione che tutti possano
giungere all’autorealizzazione.
La “libertà” non è quindi più realizzabile dai singoli,
“ma solo da una formazione collettiva adeguata”. Il medium della libertà è il
gruppo sociale in quanto totalità che, però, si costituisce a partire dall’orientamento
comportamentale dei suoi membri. La questione è rilevante, la
libertà sociale non cade dall’alto, ma sorge per impulso degli stessi membri;
si tratta di sviluppare una capacità di orientarsi spontaneamente gli uni verso
gli altri, realizzando contemporaneamente i tre ideali di “libertà”, “eguaglianza”
e “fraternità”. Un sistema distributivo più giusto è quindi da concepire
insieme e per effetto di una nuova forma di vita comunitaria[26].
Dunque, dopo questa piccola divagazione, torniamo all’ipotesi
proposta:
-
è necessaria una
nuova capacità di costituire “parte”, ma questa volta “parte-comunità”, ancorandosi:
o sia alla capacità reticolare dei social (e quindi investendo
nuovamente sulla militanza, l’adesione), per vivere in larghe discussioni
molecolari ed orizzontali (pensandosi a partire dalla “piattaforma tecnologica”
in via di affermazione e non sulla base di una che tramonta),
o sia, e contemporaneamente, alla mobilitazione anche
plurale e federale faccia-a-faccia e nei luoghi.
-
Le due vie
convergono nello sforzo di ricostruire la
socialità, oltrepassando l’individualismo liberale e il suo non-umano,
ritrovando la capacità di essere umano nell’essere-per-l’altro
entro comunità di discorso e condivisione di obiettivi.
Bisogna ricordare che il socialismo è principalmente
una nuova antropologia, più umana.
Come farlo è domanda completamente aperta e certamente
non facile.
[1] - Ma quale è la legittimità che i
Partiti Politici stanno perdendo? Quale era la sua origine e dinamica? Il Partito Politico non ha mai
avuto buona fama, molti degli argomenti che risuonano nella nostra sfera pubblica
sono stati formulati nel corso della lunga storia politica del continente. La
caratteristica preminente del Partito è stata spesso vista come l’azione di
separare, parzializzare, e dunque come fonte di scontri, divisione e odio
distruttivo. Il clima cambia solo dopo la fine delle guerre di religione, e
cominciano ad essere sdoganati nel pensiero politico continentale con David
Hume e Edmund Burke, che ammettono la possibilità che i Partiti possano
fondarsi anche su “principi” e non solo su interessi divisivi. Ma, appunto, per
loro solo il Partito orientato al “bene comune” è accettabile, solo se va oltre
gli interessi particolari “connessi allo spirito di fazione”. Dunque in qualche
modo i Partiti non sono ammessi e saranno legittimati pienamente solo dalle
rivoluzione (francese ed americana), come corollario dell’impulso di libertà.
Nella voce dell’Enciclopedie di Rousseau sono citati senza critiche
e anche in Voltaire. Ma quando la rivoluzione prende piede ricompaiono le
esitazioni. I rivoluzionari temono “i corpi intermedi”, scriverà l’abate Seyes:
“l’assemblea di una nazione deve essere sempre costituita in modo da isolare
gli interessi particolari e rendere conforme al bene generale le decisioni
della maggioranza” (S. p.9). In altre parole, la fazione è un attacco alla
sovranità. Malgrado questi dubbi nel 1790 sono autorizzate le “libere società”,
e già un anno dopo, grazie ad un intelligente modulo organizzativo, il “club
dei giacobini” vede mille organizzazioni sul territorio francese.
Sarà successivamente la controrivoluzione a vedere la
cosa in modo totalmente negativo: per essa la buona società è organica e
gerarchica, ognuno ha il suo posto, desunto dalla tradizione, ed è la
tradizione che ‘interpreta’ il volere divino e informa di sé la società. Alla
fine quindi il pluralismo è il male sia per chi difende il contratto sociale
sia per chi vuole un ordine teocratico.
Dall’altra parte dell’oceano i Partiti sono accettati,
ma cercando di contenerne la “violenza devastatrice” (come dirà Madison).
Una sintesi è tentata nell’ottocento da Alexis de
Tocqueville, che propone di distinguere tra “grandi” e “piccoli” Partiti. I
primi sono diretti al bene comune e vanno considerati legittimi, i secondi
vanno assimilati alle “fazioni” e da combattere.
Man mano che il secolo va avanti, però, i Partiti
Politici prendono il centro della scena, questo avviene con due percorsi
paralleli: nei Parlamenti gli eletti, che inizialmente sono “notabili” dotati
di un potere locale nella società che traducono in potere politico, costituiscono
Partiti con un basso livello di coesione interna, fuori si addensano movimenti
di massa più identitari che premono per essere rappresentati e far sentire la
propria voce organizzandosi in Partiti.
Tra “Partito dei notabili” (liberale) e “Partiti
di massa” (cattolici, socialisti e poi fascisti) precipita la crisi degli
anni venti. Il concetto e la prassi di Partito pluralista si trova schiacciato
tra l’esaltazione della Nazione (in Francia) e dello Stato (in Germania ed
Italia). Ciò che hanno in comune entrambe le nuove soluzioni è l’essere
incentrate su entità superiori e la natura sia monista che organicista. Si
tratta di un’aspirazione all’armonia ed alla totalità che identifica come
nemico il pluralismo e quindi la divisione. In conseguenza viene negata
la legittimità dei Partiti.
Si entra per questa via nell’età dei totalitarismi, in
cui “i” Partiti mutano “nel” Partito, che sussume in sé la Nazione e si
affianca (nel caso italiano e tedesco) o sostituisce (nel caso russo) allo
Stato. Si passa per una brevissima stagione di Partiti confessionali di massa
(socialisti per lo più) che trovano nel suffragio universale l’arma per
affermarsi. Ma si sbocca, quasi subito, nella creazione di un solo Partito che
prende tutto, è il caso ovviamente del Partito
Nazionale Fascista. Nel 1942, al termine della fase espansiva dei
totalitarismi, sono rimasti solo quattro paesi pluripartitici (Gran Bretagna,
Irlanda, Svezia e Svizzera), ovunque nel continente ci sono Partiti Unici
totalitari. Dirà Roberto Michels “ogni partito cerca, inevitabilmente, di
imbrigliare lo Stato, di assorbirlo, di fagocitarlo e di adattarlo agli
obiettivi e alle idealità del partito stesso”
Dunque sorgono, al posto dei vecchi “Partiti dei
notabili” dei “Partiti di massa” che si considerano interpreti dell’interesse
generale e non di interessi settoriali e limitati. Questa nuova forma cresce
insieme ai vasti movimenti connessi con il processo di industrializzazione ed
alla formazione collaterale di leghe, associazioni, movimenti cooperativi,
sindacati, …
Ora, tuttavia, questo modello che ha informato di sé
buona parte del novecento, “è morto”.
Ci sono fondamentalmente tre cause:
- la
società è diventata post-industriale;
- in
parte prevalente è diventata “opulenta” (termine di Galbraight);
- si
sono diffusi, ed hanno raggiunto diffusione capillare, nuovi media
potentissimi.
Sotto la pressione di questi tre fattori tutti i
partiti (ed in particolare quelli confessionali e socialisti) si secolarizzano
gradualmente a partire dagli anni sessanta fino agli ottanta. Dopo questa data
tentano di diventare “pigliatutto” (schema sul quale si dilunga in particolare
Colin Crouch) e in certi casi (in particolare francese) si leaderizzano.
In Italia il processo è frenato dalla grande forza del PCI, fino alla “catarsi”
del 1989 dopo la quale anche la sinistra affronta una “grande trasformazione”.
Gli effetti sono che l’iscritto perde la sua capacità
(attraverso le gerarchie del partito e nei congressi) di influenzare e
condizionare l’azione e diventa centrale il media televisivo. Un altro,
nell’allontanamento dalla base e dai territori, non più necessari, è che inizia
il “Partito cartellizzato” o “Stato-centrico”. Finiscono le grandi
concentrazioni omogeneizzanti, connesse con la produzione, e inizia l’invasione
capillare dei new-media, l’atomizzazione della vita quotidiana ed il declino
delle appartenenze collettive. È il trionfo dell’individualismo “con tinte di
narcisismo” (Ignazi, p.38). Spinge in questa direzione anche il movimento
ecologista-libertario, figlio delle rivoluzioni sociali del 1968, che sposta
l’attenzione sulla sicurezza fisica e il sostegno a valori “postmaterialisti”
(come proporrà di considerare la cosa sia Giddens sia Inglehart).
Nel frattempo anche le socialdemocrazie si sclerotizzano e i Partiti tornano
quindi entro il campo di attrazione dello Stato. Man mano che perdono il
contatto con la società, e riescono a “saltare” il livello locale nella
costruzione del consenso grazie ai media, questi si riportano nella posizione
che avevano guadagnato in passato (ovviamente in modo meno cruento ed anche
massivo) occupando i ruoli ed i posti dell’amministrazione statale per
sfruttarne le risorse. Ci sono molte conseguenze strutturali: la unità centrale
di direzione dei maggiori partiti diventa più indipendente e isolata (anche
finanziariamente), mentre le strutture locali si autonomizzano (andando in
qualche modo verso un nuovo notabilato).
E, come nell’altro passaggio storico ricordato, ci
sono rischi connessi strettamente con la sfiducia ed il discredito della
rappresentanza e del pluralismo: la delega diretta ed individuale, “affidata ad
un capo, un leader, un duce” (I. p.127). Si tratta di un esito insieme logico e
ricorrente, che malgrado gli esiti disastrosi (incluso la guerra) “continua ad
esercitare un certo fascino”. Il motivo è che ha il pregio della semplicità,
della riduzione dei costi di decisione.
[2] - Chiamo “Piattaforma tecnologica” un set di funzionamenti essenziali, punti
di convenienza e vantaggio per i diversi gruppi e ceti sociali, determinati da network
di tecnologie convergenti e reciprocamente rafforzanti, quindi dall’insieme di
skill favorite da queste e di know how privilegiati, ma anche da norme sociali
e giuridiche che si affermano nella sfera pubblica e privata, e infine da
pacchetti di incentivi pubblici e privati (entrambi coinvolti nella
affermazione del network di tecnologie). Una “Piattaforma Tecnologica” è, inoltre sempre connessa con un assetto
geopolitico che la rende vincente (ed in ultima analisi possibile).
[3] - Bernard Manin, “Principi del governo rappresentativo”,
1997
[4] - Si veda, Ernesto Laclau, “La
ragione populista”
[5] - Pierre Rosanvallon “La politica nell’età della sfiducia”,
[6] - Colin Crouch, “Post-democrazia”
[7] - Mauro Calise, “La democrazia dei leader”
[8] - Nadia Urbinati “La democrazia in diretta”
[9] - “Vox populi”, Il Mulino 2019.
[10] - Si veda, Marco Revelli, “Dentro e contro”
[11] - Qualche spunto nel post “Appunti
sul mutamento della piattaforma tecnologica”.
[12] - Si veda su questo punto, “Greta
Thunberg la posta egemonica”
[13] - Kuzmanovic e Autain sono due noti esponenti di France
Insoumise, che incarnano una radicale differenza di linea e di prospettiva
politica. Da tempo tra la linea popolare, rivolta a tentare di ricostruire un
rapporto affettivo e di sostegno reciproco con i ceti popolari da decenni
abbandonati dalla sinistra, e la linea intersezionale e multiculturalista,
basata sull’insediamento sociale residuale della sinistra, ovvero parte dei
ceti “riflessivi” provenienti dalle medie borghesie professional e renditiere
urbane, si era aperto un conflitto. All’avvicinarsi delle elezioni europee, e
in concomitanza con la ricerca, da parte della direzione del movimento, di un
accordo con i residui organizzati dell’area socialista (il movimento di
Chenènement e quello di Mauriel), ad inizio di settembre alcuni articoli
sull’immigrazione e sulla posizione di svolta della Wagenknecht in Germania,
hanno determinato l’avvio della rottura. Come ricostruivo in questo post, Kuzmanovic ha dichiarato che temi, anche
importanti, come il femminismo, i migranti ed i diritti LGBT, non hanno a che
fare specificamente con la ‘sinistra’, ma sono temi di lotta tipicamente
liberali. Il punto è che la sinistra o è popolare o non è, e dunque ha quale
suo specifico “la difesa delle classi popolari e la lotta contro il capitale”.
Parte di questa lotta è la necessità di ridurre l’esposizione di queste agli
effetti negativi collaterali implicati dalle immigrazioni, se eccessive in termini
di ritmo e caratteristiche. Clémentine Autain, deputata di Parigi, oppone a
questi argomenti un punto di vista identitario che teme di perdere “anima ed
immagine”. Kuzmanovic ha finito per doversi dimettere.
[14] - La base di tutto che si fatica
davvero ad assumere è che lo slittamento dalla “piattaforma tecnologica”
fordista a quella post-fordista, e la sua radicalizzazione determinata dalla
ristrutturazione capitalista del 2007-18 ha determinato una dualizzazione
pronunciata e la divaricazione tra una minoranza sempre più tale di abbienti,
soddisfatti e chiusi nelle torri d’avorio della propria presunzione ed una
maggioranza, sempre più larga, di periferici o di spaventati.
[15] - Il riferimento è al giudizio da parte di Karl Marx di parte
del programma della sinistra socialista francese di Guesde.
[16] - Ovvero Manolo Monereo,
conversazione privata.
[18] - Si veda “Circa
le dimissioni di Djiordie Kuzmanovic”
[19] - Metafora calcistica, riferita al
movimento di un attaccante che entra ed esce dalla linea dei difensori.
[20] - Un esempio, forse sgradevole, è
il Renzi di lotta e di governo che monta, sulle orme dell’esempio berlusconiano
un “populismo di governo” (cfr, Marco Revelli, “Dentro
e contro. Quando il populismo è di governo”)
[21] - Per la metafora del “vuoto”, si
veda Peter Mair, “Governare
il vuoto, la fine della democrazia dei partiti”
[22]
- Si intende
per “base sociale” i ceti, o frazione di questi, che forniscono il consenso di
base, l’identificazione a due vie, il supporto economico e la base di
reclutamento principale, di un movimento politico. Un esempio di analisi che fa
uso di questa concettualizzazione in riferimento a politiche della destra
italiana sono in questo post.
[23] - Si intende per
“base di massa” l’area di più largo consenso di massa, che si manifesta in
occasione del voto o dei momenti di mobilitazione allargata.
[24] - Per questo aspetto segnalo l’intervento
di Lenny Benbara “La
France Insoumise, dal partito al movimento”.
[25] - Axel Honneth, “L’idea
di socialismo”.
[26] - La cosa è abbastanza semplice da
capire: noi stessi usiamo spesso il termine comunità, intendendo una
condivisione di finalità ed un senso di comunanza e reciproca simpatia (che si
manifesta automaticamente, ad esempio, quando due connazionali si incontrano in
un paese estero non familiare) che porta ad un certo grado di disponibilità a
farsi carico dei bisogni dell’altro, ovvero un certo grado di essere-sé
nell’altro (secondo una fulminante formula di Hegel) nel quadro di unità
anonime.
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