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lunedì 29 aprile 2019

Tre analisi una situazione: 28 aprile, elezioni in Spagna




Le elezioni in Spagna hanno visto il Partito Socialista, alla guida del paese per decenni, e storicamente tra i più chiaramente neoliberali ed europeisti partiti del PSE, lievemente spostatosi nell’ultimo anno per coprirsi dalle formazioni radicali sue competitrici, accrescere il suo consenso. Si è giovato di un travaso da Unidas Podemos, che è sceso al 14%, da circa il 20%, mentre le destre nel loro complesso hanno conservato i loro 11 milioni di voti (ma nel contesto di una maggiore partecipazione, e dunque riducendoli in percentuale e seggi). Nel campo delle tre destre si è avuto un arretramento del Partito Popolare in favore del nuovo entrato Vox (partito neofranchista).
Ora, sul piano della politica istituzionale la questione è se Sanchez, che ha il pallino in mano, vorrà o potrà costituire un governo, e con chi. Sul piano, che mi preme di più, della politica come orizzonte di trasformazione del reale e di liberazione questo risultato è invece un disastro.



La situazione spagnola torna senza sbocchi.

L’unica, labile, speranza di avviare un percorso di uscita dalle secche che da oltre un decennio stanno stritolando la società spagnola, facendone uno degli esempi di consolidamento a danno dei più deboli e dei giovani d’Europa, si allontana. Continuerà ad ascoltarsi in Spagna il coro della tragedia intonare il ritornello: non ci sono alternative.

La maggiore colpa la porta su di sè Unidos Podemos (poi ‘femminilizzato’) che segnala in modo chiarissimo il fallimento senza remissione del “populismo di sinistra”. Il fallimento ha una causa vicina, la disastrosa alleanza “senza contropartite” con il PSOE di Sanchez nel governo uscente, ma ha ben più profonde cause remote nel modo stesso in cui è stato costruito e in quello in cui è stato pensato.
Quando la crisi (che ha avuto caratteristica da sudden stop[1] in particolare in Spagna) ha colpito una economia che era cresciuta negli anni di Gonzales al ritmo di bolle immobiliari e relativa corruzione gli effetti sono stati subito devastanti: al 2014 i poveri erano raddoppiati e 2,4 milioni di persone erano ormai senza lavoro da più di due anni e completamente senza risorse (il dato più alto insieme a quello della Grecia). Sempre nello stesso anno si stimava che 12 milioni di spagnoli soffrissero di ‘esclusione sociale’ e i Neet si collocavano al vertice europeo. In un post del novembre di quell’anno avevo scritto che si trattava di ‘un crimine che difficilmente resterà senza risposta’.

Dal 2011 era insorta in Spagna una vasta protesta diretta contro il governo socialista di Zapatero, nota come Movimiento 15-M (o degli “Indignados”) e diretta in sostanza contro la politica nel suo complesso. La mobilitazione, che si estese subito in molte città del mondo, funzionava in modo orizzontale e rizomatico creando una rete senza leader e senza centro. Quando il Partito Popolare è poi tornato al potere, le politiche di austerità (peraltro mitigate da spazi di maggiore flessibilità concessi da Bruxelles) e di flessibilizzazione del mercato, hanno determinato ancora più ampie proteste organizzate anche dalle forze della sinistra, come i sindacati.
Alcuni di questi movimenti sono stati caratterizzati dal dichiararsi ‘né di destra, né di sinistra’, e da un pronunciato orizzontalismo che si è tradotto nell’incapacità o indisponibilità a elaborare specifiche piattaforme, o progetti.
Jason Hickel, in “Liberalism and the politics of Occupy Wall Street”, un paper del 2012, spiega il rapido declino del movimento americano (condiviso con quello spagnolo) con la somiglianza con le forme “apolitiche” dell’impegno politico che dominano da tempo il progressismo liberale. Il processo di cattura del consenso che ha funzionato in questi movimenti è, a suo parere, la “piattaforma senza domanda” che alla fine si appoggia su una etica liberale incapace di rappresentare realmente una alternativa allo status quo neoliberale. Questa etica è basata essenzialmente sulla “feticizzazione della diversità”, la “tolleranza”, la “cooperazione inclusiva”. Si tratta di una mobilitazione, dunque, in linea di perfetta continuità con la “politica della identità[2] che la dominante cultura neoliberale riuscì a partire dagli anni sessanta a dirigere per i suoi scopi e contro l’azione collettiva e lo Stato. Sono, quindi, sostanzialmente delle forme di “progressismo liberale” che si limitano a portare l’etica liberale al suo estremo, ma si dimostrano incapaci di esprimere posizioni nette ed efficaci e che tendono a riformulare problemi sistemici come personali. Al fondo lavora quella attitudine di coloro che Marx ed Engels, nel “Manifesto del Partito Comunista” chiamavano “socialisti borghesi” (o “conservatori”). Ovvero quella “parte della borghesia che desidera portare rimedio ai mali della società per assicurare l’esistenza della società borghese”. Essi “vogliono le condizioni di vita della società moderna senza le lotte e i pericoli che necessariamente le risultano. Vogliono la società attuale senza gli elementi che la rivoluzionano e la dissolvono. Vogliono la borghesia senza il proletariato”. E c’è una ragione: “è naturale che la borghesia ci rappresenti il mondo dove essa domina come il migliore dei mondi” (p.85).
Naturalmente, scrive Hickel: “la maggior parte dei progressisti oggi non sono così calcolatori; piuttosto, la loro politica procede da una credenza sincera nelle premesse egualitarie del liberalismo. La loro celebrazione dell'uguaglianza di tutti gli esseri umani rende difficile per loro di percepire gli schemi di violenza strutturale e gli interessi incommensurabili su cui si fonda il capitalismo”. Questo è il motivo per cui il rimedio proposto a tanti problemi sociali è la tolleranza - un appello alla comune umanità dell'altro, la semplice democrazia radicale o altre forme di post-politica. 



A gennaio 2014 da questo humus emerge Unidos Podemos che è subito conteso tra tre anime: i movimenti anticapitalisti di ispirazione post-operaista (negriani), alcuni esponenti del 15-M, e alcuni docenti di Madrid, tra i quali Pablo Iglesias e Inigo Errejon. Questi ultimi alla fine impostano un partito-movimento che è un misto di stile comunicativo populista e forte verticismo tecnocratico. L’idea sembra essere di saltare il livello organizzativo dei movimenti, e la necessaria mediazione di questi (favoriti dal loro carattere orizzontale), aggregando domande sociali sulla base di una comunicazione chiara, la figura del leader aggregante, e la costruzione di “catene di equivalenze” (Laclau[3]).
Il partito attraversa varie fasi, e combatte tra diverse opzioni, l’alleanza con Izquierda Unida o con il PSOE (rispettivamente caldeggiate da Iglesias e da Erreion) e poi la gravissima crisi politica ed istituzionale della Catalogna. Ma la crisi che lo porta all’attuale, deludente, risultato (peraltro meno del previsto), nasce dall’alleanza subita con il PSOE quando il PP viene travolto dagli scandali e dopo una tormentatissima tornata elettorale l’unico governo possibile viene stipulato.

Podemos perde quindi in queste elezioni ‘solo’ 6 punti, invece dei 10 previsti, ma è ormai confinato in una posizione marginale e sembra non avere margini di azione strategica per introdurre quella modifica della politica spagnola che aspirava ad essere.




Se questa è la situazione, vediamo le tre analisi che abbiamo annunciato:
1-     Da una parte quella di Carlo Formenti[4], per il quale Podemos è ridotto ad una pallida controfigura soprattutto perché ha sempre avuto il limite del “comunicazionismo”, vale a dire “l'idea che programmi e organizzazione politica contino meno delle abili strategie comunicative che consentono di aggregare velocemente consenso per approdare al governo”. Naturalmente poi “quando poi ci si arriva, vedi i 5 Stelle, sono guai seri...”. Un necessario corollario di questa impostazione, figlia dell’idea che l’essenza di un discorso “controegemonico” sia la ridefinizione del significato delle parole, e, tramite queste, dell’immaginario, è, da una parte, “l'assenza di un forte radicamento sui territori, nei luoghi di lavoro, nei quartieri dovuta alla scelta di costruire un partito ‘leggero’ fondato sul rapporto diretto fra leader carismatico e opinione pubblica” e, dall’altra, “l'affastellamento fra correnti ideologiche della nuova e vecchia sinistra sul modello di Syriza (trotzkisti, vetero comunisti, negriani, movimenti studenteschi, ecologisti, femministe, ecc.) al posto della costruzione di un blocco sociale”. Ovvero, più profondamente, “il riferimento alle teorie populiste di Laclau nella versione ‘debole’ di Chantal Mouffe (stretta sodale del numero due - nonché leader dell'ala moderata - del partito, Inigo Errejon) che prevede l'abbandono di una prospettiva antisistemica e l'accettazione totale delle regole del gioco liberal-democratico”, e, infine, “l'adozione di canoni linguistici politicamente corretti (fino alla ridicola femminilizzazione del nome del partito, che suona ora Unidas Podemos) tipici degli strati intellettuali e piccolo borghesi illuminati nonché del tutto alieni al linguaggio delle masse popolari”.
2-     Dall’altra, ed all’opposto, quella di Samuele Mazzolini, Presidente di Senso Comune, che scrive alcune annotazioni “sparse e sintetiche”. A suo parere: si torna all’asse destra/sinistra, determinando in qualche modo la fine in Spagna del “momento populista”, il cui principale marchio è la riclassificazione della frattura in “alto/basso”. La somma dei due partiti sistemici è ancora centrale (45%) e non sembra orientata a tramontare. Unidas Podemos resta, anche se “non sa far politica” nei tempi morti tra le elezioni, è ancora “una rarità bellissima in Europa
e gliene va dato atto”. Certo, continua, “in termini relativi, l'ipotesi iniziale di sparigliare le carte nel rifiuto delle vecchie dicotomie è ormai archiviata. Può giocare il ruolo di supporto a una governabilità progressista e di diga acciocché la politica economica inizi a cambiare registro”. Infine una apertura, molto significativa, al PSOE: “il PSOE ha una grandissima responsabilità in mano. Ha timidamente svoltato a sinistra con Pedro Sánchez: potrebbe confermare che non si è trattato di un mero espediente retorico, ritrovando la sua vocazione per la giustizia sociale. Potrebbe cercare di avviare la Spagna verso una risoluzione della questione nazionale, cercando una difficile intesa con ERC (ammesso che questi ultimi non continuino a giocare al tanto peggio, tanto meglio). Potrebbe dar rappresentanza ad alcune delle istanze di cambiamento più avanzate del paese, come quella rappresentata dal movimento femminista. Non il massimo della libidine, ben intesi. Ma è quanto si può fare nei limiti angusti della politica al giorno d'oggi in Spagna: così funziona d'altronde la ‘guerra di posizione’”.
3-      La terza lettura è di Stefano Fassina, Presidente di Patria e Costituzione, la riporto per esteso:
“Buone notizie dalla Spagna: la sinistra che ha archiviato il blairismo e ricominciato a combattere per dignità del lavoro e per la giustizia sociale (nell’annetto di governo insieme a Podemos) sconfigge le nostalgie franchiste. Il Psoe conquista 2,1 milioni di voti in più rispetto al 2016. Unidos Podemos ne perde circa 1,3 milioni. Insieme, però, hanno circa 900.000 voti in più delle tre destre i cui voti rimangono, nonostante l’innalzamento dell’affluenza, nello stesso numero di tre anni fa. Ma il PP ‘trasferisce’ 3,1 milioni di voti a Ciudadanos (1 milione) e a Vox (2,1 milioni). Il Psoe è il primo partito in metà degli 8.000 comuni spagnoli. Un dato importante perché vuol dire che vince anche nei piccoli comuni lontani dalle grandi città. Sarà interessante leggere la distribuzione sociale e centro/periferia del voto.
Vedremo che vogliono dire le parole ‘è una vittoria per l’Europa’, pronunciate a caldo dal leader del Psoe. Sanchez non è Zapatero. Psoe e Unidos Podemos non sono Macron. Inoltre, va segnalato che, come da noi la Lega Nord (vedi Flat Tax e secessione ricchi), anche in Spagna la retorica anti Ue è usata per sostenere i padroni e allearsi con PPE. Bisognerebbe comunque stare attenti all’economicismo e riflettere sul fatto che, nei Paesi mediterranei a fresca memoria di regimi dittatoriali (vedi anche Grecia e Portogallo), l’europeismo anche liberista è preferito, per ora, a franchismi. Speriamo in un Governo Psoe con Unidos Podemos. Le sinistre in Spagna, grazie anche alla paura del franchismo, hanno un’altra chance per affermare, negli angusti spazi disponibili, un’alternativa all’europeismo liberista. Ma nessuna cambiale in bianco”.
Il commento, come si vede, è di tutti quello più positivo. La sinistra del PSOE è descritta come quella “che ha archiviato il blairismo e ricominciato a combattere per la dignità del lavoro e la giustizia sociale” (anche se sono esili le conferme di ciò[5]). Ma soprattutto c’è nella dichiarazione una netta presa di posizione in favore della Ue, non tanto nel richiamo ambiguo alla prima dichiarazione di Sanchez, quanto nella frase che segue, “va segnalato che, come da noi la Lega Nord (vedi Flat tax e secessione ricchi), anche in Spagna la retorica anti-Ue è usata per sostenere i padroni e allearsi con PPE”. Ed ancora, “nei Paesi mediterranei a fresca memoria di regimi dittatoriali (vedi anche Grecia e Portogallo), l’europeismo anche liberista è preferito, per ora, a franchismi”. Da ultimo, “Le sinistre in Spagna, grazie anche alla paura del franchismo, hanno un’altra chance per affermare, negli angusti spazi disponibili, un’alternativa all’europeismo liberista”.

Si tratta di letture fortemente divergenti.

La prima, concentrata sul fallimento di Podemos e del primo populismo di sinistra, pone in evidenza la scarsa capacità di individuare una visione realmente alternativa all’ordine esistente che non sia meramente enunciata.


Le altre due individuano nel PSOE, il vincitore, una forza comunque capace di muoversi “nei limiti angusti” (o negli “angusti spazi disponibili”, usando la medesima parola), e di rilanciare “la giustizia sociale” (per Fassina anche la “dignità del lavoro”), dando rappresentanza a quelle che Mazzolini chiama “le istanze di cambiamento più avanzate” (il femminismo, ovviamente). Entrambe le letture di fatto archiviano il “momento populista”, ovvero la dualità élite/popolo, o centro/periferia, in favore della solita dualità sinistra/destra che ritorna al centro. Con essa, ed è la cosa forse più rilevante, torna in Fassina la dualità europeismo/reazione, oltrepassando abbastanza bruscamente le sue più recenti posizioni eurocritiche.


Insomma, la vicenda si può rileggere in quello che ho ripetutamente chiamato “il dilemma Kuzmanovic-Autain[6]; mentre il populismo di prima generazione, per profonde ragioni che bisognerà indagare, arretra, probabilmente per il rifluire di alcuni movimenti propulsivi la sua logica “intersezionale” e certamente per il discredito derivante da fallimentari esperienze di governo (anche se parziali) nella sua incapacità costitutiva di presidiare il terreno sociale, anche i Partiti che lo hanno incarnato (Skyriza, France Insoumise e Unidos Podemos), ripiegano nel tradizionale insediamento della sinistra. Si manifesta così in piena luce, anche nelle tre descrizioni proposte, ma diversamente interpretata, la genetica vaghezza sui temi dirimenti e l’incapacità di scegliere un livello fondamentale, o strutturale, dello scontro.

Movimenti in fondo liberali, in particolare quello spagnolo, e progressisti, finiscono per dare ragione postuma a Marx, quando chiariva che i “socialisti borghesi”: “vogliono le condizioni di vita della società moderna senza le lotte e i pericoli che necessariamente le risultano. Vogliono la società attuale senza gli elementi che la rivoluzionano e la dissolvono”.


Serve ben altro per superare la crisi europea, nel suo undicesimo anno.


[1] - Una improvvisa riduzione dei capitali esteri in ingresso ed il richiamo dei prestiti sul sistema bancario del paese in presenza di un disavanzo di parte corrente della bilancia dei pagamenti. In paesi, come quelli aderenti all’Euro, in cui il naturale bilanciamento tramite la svalutazione del cambio nominale non si può dare gli spazi di manovra sono molto limitati.
[2] - Il testo più rilevante per questa lettura è Luc Bontanski, Eve Chiappello, “Il nuovo spirito del capitalismo”.
[3] - Si veda Ernesto Laclau, “La ragione populista
[4] - Autore di alcuni importanti libri, come “Utopie letali”, 2013; “La variante populista”, 2016; “Oligarchi e plebei”, 2018;  Il socialismo e morto. Viva il socialismo” 2019.
[5] - Sanchez è al governo da 2 giugno 2018 ed entra in crisi nel febbraio 2019 per la mancata votazione della Legge di Bilancio da parte dei due partiti indipendentisti catalani (ERC e PDeCAT). Si tratta di un governo di minoranza del solo PSOE con l’appoggio esterno di Podemos (67 deputati) e di altri 6 partiti minori.
[6] - Kuzmanovic e Autain sono due noti esponenti di France Insoumise, che incarnano una radicale differenza di linea e di prospettiva politica. Da tempo tra la linea popolare, rivolta a tentare di ricostruire un rapporto affettivo e di sostegno reciproco con i ceti popolari da decenni abbandonati dalla sinistra, e la linea intersezionale e multiculturalista, basata sull’insediamento sociale residuale della sinistra, ovvero parte dei ceti “riflessivi” provenienti dalle medie borghesie professional e renditiere urbane, si era aperto un conflitto. All’avvicinarsi delle elezioni europee, e in concomitanza con la ricerca, da parte della direzione del movimento, di un accordo con i residui organizzati dell’area socialista (il movimento di Chenènement e quello di Mauriel), ad inizio di settembre alcuni articoli sull’immigrazione e sulla posizione di svolta della Wagenknecht in Germania, hanno determinato l’avvio della rottura. Come ricostruivo in questo post, Kuzmanovic ha dichiarato che temi, anche importanti, come il femminismo, i migranti ed i diritti LGBT, non hanno a che fare specificamente con la ‘sinistra’, ma sono temi di lotta tipicamente liberali. Il punto è che la sinistra o è popolare o non è, e dunque ha quale suo specifico “la difesa delle classi popolari e la lotta contro il capitale”. Parte di questa lotta è la necessità di ridurre l’esposizione di queste agli effetti negativi collaterali implicati dalle immigrazioni, se eccessive in termini di ritmo e caratteristiche. Clémentine Autain, deputata di Parigi, oppone a questi argomenti un punto di vista identitario che teme di perdere “anima ed immagine”. Kuzmanovic ha finito per doversi dimettere.

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