Le elezioni in Spagna hanno visto il Partito Socialista, alla guida del paese
per decenni, e storicamente tra i più chiaramente neoliberali ed europeisti
partiti del PSE, lievemente spostatosi nell’ultimo anno per coprirsi dalle
formazioni radicali sue competitrici, accrescere il suo consenso. Si è giovato
di un travaso da Unidas Podemos, che è
sceso al 14%, da circa il 20%, mentre le destre nel loro complesso hanno conservato
i loro 11 milioni di voti (ma nel contesto di una maggiore partecipazione, e
dunque riducendoli in percentuale e seggi). Nel campo delle tre destre si è
avuto un arretramento del Partito Popolare in favore del nuovo entrato Vox
(partito neofranchista).
Ora, sul piano della politica istituzionale la
questione è se Sanchez, che ha il pallino in mano, vorrà o potrà costituire un
governo, e con chi. Sul piano, che mi preme di più, della politica come
orizzonte di trasformazione del reale e di liberazione questo risultato è invece
un disastro.
La situazione spagnola torna senza sbocchi.
L’unica, labile, speranza di avviare un percorso di
uscita dalle secche che da oltre un decennio stanno stritolando la società
spagnola, facendone uno degli esempi di consolidamento a danno dei più deboli e
dei giovani d’Europa, si allontana. Continuerà ad ascoltarsi in Spagna il coro
della tragedia intonare il ritornello: non ci sono alternative.
La maggiore colpa la porta su di sè Unidos Podemos (poi ‘femminilizzato’)
che segnala in modo chiarissimo il fallimento senza remissione del “populismo di sinistra”. Il fallimento ha
una causa vicina, la disastrosa alleanza “senza contropartite” con il PSOE di
Sanchez nel governo uscente, ma ha ben più profonde cause remote nel modo stesso
in cui è stato costruito e in quello in cui è stato pensato.
Quando la crisi (che ha avuto caratteristica da sudden
stop[1] in
particolare in Spagna) ha colpito una economia che era cresciuta negli anni di
Gonzales al ritmo di bolle immobiliari e relativa corruzione gli effetti sono
stati subito devastanti: al 2014 i poveri erano raddoppiati e 2,4 milioni di persone
erano ormai senza lavoro da più di due anni e completamente senza risorse (il
dato più alto insieme a quello della Grecia). Sempre nello stesso anno si stimava
che 12 milioni di spagnoli soffrissero di ‘esclusione sociale’ e i Neet si
collocavano al vertice europeo. In un
post del novembre di quell’anno avevo scritto che si trattava di ‘un
crimine che difficilmente resterà senza risposta’.
Dal 2011 era insorta in Spagna una vasta protesta
diretta contro il governo socialista di Zapatero, nota come Movimiento 15-M (o degli “Indignados”) e diretta in sostanza contro
la politica nel suo complesso. La mobilitazione, che si estese subito in molte
città del mondo, funzionava in modo orizzontale e rizomatico creando una rete
senza leader e senza centro. Quando il Partito
Popolare è poi tornato al potere, le politiche di austerità (peraltro
mitigate da spazi di maggiore flessibilità concessi da Bruxelles) e di
flessibilizzazione del mercato, hanno determinato ancora più ampie proteste
organizzate anche dalle forze della sinistra, come i sindacati.
Alcuni di questi movimenti sono stati caratterizzati
dal dichiararsi ‘né di destra, né di
sinistra’, e da un pronunciato orizzontalismo che si è tradotto nell’incapacità
o indisponibilità a elaborare specifiche piattaforme, o progetti.
Jason Hickel, in “Liberalism and the politics of Occupy Wall Street”, un paper del 2012, spiega il rapido declino del movimento
americano (condiviso con quello spagnolo) con la somiglianza con le forme “apolitiche”
dell’impegno politico che dominano da tempo il progressismo liberale. Il processo
di cattura del consenso che ha funzionato in questi movimenti è, a suo parere,
la “piattaforma senza domanda” che alla fine si appoggia su una etica liberale
incapace di rappresentare realmente una alternativa allo status quo
neoliberale. Questa etica è basata essenzialmente sulla “feticizzazione della
diversità”, la “tolleranza”, la “cooperazione inclusiva”. Si tratta di una
mobilitazione, dunque, in linea di perfetta continuità con la “politica della identità”[2]
che la dominante cultura neoliberale riuscì a partire dagli anni sessanta a
dirigere per i suoi scopi e contro l’azione collettiva e lo Stato. Sono, quindi,
sostanzialmente delle forme di “progressismo
liberale” che si limitano a portare l’etica liberale al suo estremo, ma si
dimostrano incapaci di esprimere posizioni nette ed efficaci e che tendono a
riformulare problemi sistemici come personali. Al fondo lavora quella
attitudine di coloro che Marx ed Engels, nel “Manifesto del Partito Comunista” chiamavano “socialisti borghesi”
(o “conservatori”). Ovvero quella “parte della borghesia che desidera portare
rimedio ai mali della società per assicurare l’esistenza della società borghese”.
Essi “vogliono le condizioni di vita della società moderna senza le lotte e i
pericoli che necessariamente le risultano. Vogliono la società attuale senza
gli elementi che la rivoluzionano e la dissolvono. Vogliono la borghesia senza
il proletariato”. E c’è una ragione: “è naturale
che la borghesia ci rappresenti il mondo dove essa domina come il migliore dei
mondi” (p.85).
Naturalmente, scrive Hickel: “la maggior parte dei
progressisti oggi non sono così calcolatori; piuttosto, la loro politica
procede da una credenza sincera nelle premesse egualitarie del liberalismo. La
loro celebrazione dell'uguaglianza di tutti gli esseri umani rende difficile per
loro di percepire gli schemi di violenza
strutturale e gli interessi
incommensurabili su cui si fonda il capitalismo”. Questo è il motivo
per cui il rimedio proposto a tanti problemi sociali è la tolleranza - un
appello alla comune umanità dell'altro, la semplice democrazia radicale o altre
forme di post-politica.
A gennaio 2014 da questo humus emerge Unidos Podemos che è subito conteso tra
tre anime: i movimenti anticapitalisti di ispirazione post-operaista
(negriani), alcuni esponenti del 15-M, e alcuni docenti di Madrid, tra i quali
Pablo Iglesias e Inigo Errejon. Questi ultimi alla fine impostano un
partito-movimento che è un misto di stile comunicativo populista e forte verticismo
tecnocratico. L’idea sembra essere di saltare il livello organizzativo dei
movimenti, e la necessaria mediazione di questi (favoriti dal loro carattere
orizzontale), aggregando domande sociali sulla base di una comunicazione chiara,
la figura del leader aggregante, e la costruzione di “catene di equivalenze” (Laclau[3]).
Il partito attraversa varie fasi, e combatte tra
diverse opzioni, l’alleanza con Izquierda
Unida o con il PSOE (rispettivamente caldeggiate da Iglesias e da Erreion)
e poi la gravissima crisi politica ed istituzionale della Catalogna. Ma la
crisi che lo porta all’attuale, deludente, risultato (peraltro meno del
previsto), nasce dall’alleanza subita con il PSOE quando il PP viene travolto dagli
scandali e dopo una tormentatissima tornata elettorale l’unico governo
possibile viene stipulato.
Podemos perde quindi in queste elezioni ‘solo’ 6 punti,
invece dei 10 previsti, ma è ormai confinato in una posizione marginale e sembra
non avere margini di azione strategica per introdurre quella modifica della
politica spagnola che aspirava ad essere.
Se questa è la situazione, vediamo le tre analisi che
abbiamo annunciato:
1-
Da una parte quella
di Carlo Formenti[4], per il quale Podemos è
ridotto ad una pallida controfigura soprattutto perché ha sempre avuto il
limite del “comunicazionismo”, vale a
dire “l'idea che programmi e organizzazione politica contino meno delle abili
strategie comunicative che consentono di aggregare velocemente consenso per
approdare al governo”. Naturalmente poi “quando poi ci si arriva, vedi i 5
Stelle, sono guai seri...”. Un necessario corollario di questa impostazione,
figlia dell’idea che l’essenza di un discorso “controegemonico” sia la
ridefinizione del significato delle parole, e, tramite queste, dell’immaginario,
è, da una parte, “l'assenza di un
forte radicamento sui territori, nei luoghi di lavoro, nei quartieri dovuta alla
scelta di costruire un partito ‘leggero’ fondato sul rapporto diretto fra
leader carismatico e opinione pubblica” e, dall’altra,
“l'affastellamento fra correnti ideologiche della nuova e vecchia sinistra sul
modello di Syriza (trotzkisti, vetero comunisti, negriani, movimenti
studenteschi, ecologisti, femministe, ecc.) al posto della costruzione di un
blocco sociale”. Ovvero, più profondamente, “il riferimento alle teorie
populiste di Laclau nella versione ‘debole’ di Chantal Mouffe (stretta sodale
del numero due - nonché leader dell'ala moderata - del partito, Inigo Errejon)
che prevede l'abbandono di una prospettiva antisistemica e l'accettazione
totale delle regole del gioco liberal-democratico”, e, infine, “l'adozione di canoni linguistici politicamente corretti (fino alla ridicola femminilizzazione del
nome del partito, che suona ora Unidas Podemos) tipici degli strati
intellettuali e piccolo borghesi illuminati nonché del tutto alieni al
linguaggio delle masse popolari”.
2-
Dall’altra, ed all’opposto,
quella di Samuele Mazzolini, Presidente di Senso
Comune, che scrive alcune
annotazioni “sparse e sintetiche”. A suo parere: si torna all’asse
destra/sinistra, determinando in qualche modo la fine in Spagna del “momento
populista”, il cui principale marchio è la riclassificazione della frattura in “alto/basso”.
La somma dei due partiti sistemici è ancora centrale (45%) e non sembra
orientata a tramontare. Unidas Podemos
resta, anche se “non sa far politica” nei tempi morti tra le elezioni, è ancora
“una rarità bellissima in Europa
e gliene va dato atto”. Certo, continua, “in termini
relativi, l'ipotesi iniziale di sparigliare le carte nel rifiuto delle vecchie
dicotomie è ormai archiviata. Può giocare il ruolo di supporto a una
governabilità progressista e di diga acciocché la politica economica inizi a
cambiare registro”. Infine una apertura, molto significativa, al PSOE: “il PSOE
ha una grandissima responsabilità in mano. Ha timidamente svoltato a sinistra
con Pedro Sánchez: potrebbe confermare che non si è trattato di un mero
espediente retorico, ritrovando la sua
vocazione per la giustizia sociale. Potrebbe cercare di avviare la Spagna
verso una risoluzione della questione nazionale, cercando una difficile intesa
con ERC (ammesso che questi ultimi non continuino a giocare al tanto peggio,
tanto meglio). Potrebbe dar rappresentanza ad alcune delle istanze di cambiamento più avanzate del paese, come
quella rappresentata dal movimento femminista. Non il massimo della
libidine, ben intesi. Ma è quanto si può
fare nei limiti angusti della politica al giorno d'oggi in Spagna: così
funziona d'altronde la ‘guerra di posizione’”.
3-
La terza
lettura è di Stefano Fassina, Presidente di Patria e Costituzione, la riporto per esteso:
“Buone notizie dalla Spagna: la sinistra che ha
archiviato il blairismo e ricominciato a combattere per dignità del lavoro e
per la giustizia sociale (nell’annetto di governo insieme a Podemos) sconfigge
le nostalgie franchiste. Il Psoe conquista 2,1 milioni di voti in più rispetto
al 2016. Unidos Podemos ne perde circa 1,3 milioni. Insieme, però, hanno circa
900.000 voti in più delle tre destre i cui voti rimangono, nonostante
l’innalzamento dell’affluenza, nello stesso numero di tre anni fa. Ma il PP ‘trasferisce’
3,1 milioni di voti a Ciudadanos (1 milione) e a Vox (2,1 milioni). Il Psoe è
il primo partito in metà degli 8.000 comuni spagnoli. Un dato importante perché
vuol dire che vince anche nei piccoli comuni lontani dalle grandi città. Sarà
interessante leggere la distribuzione sociale e centro/periferia del voto.
Vedremo che vogliono dire le parole ‘è una vittoria
per l’Europa’, pronunciate a caldo dal leader del Psoe. Sanchez non è Zapatero.
Psoe e Unidos Podemos non sono Macron. Inoltre, va segnalato che, come da noi
la Lega Nord (vedi Flat Tax e secessione ricchi), anche in Spagna la retorica
anti Ue è usata per sostenere i padroni e allearsi con PPE. Bisognerebbe
comunque stare attenti all’economicismo e riflettere sul fatto che, nei Paesi
mediterranei a fresca memoria di regimi dittatoriali (vedi anche Grecia e
Portogallo), l’europeismo anche liberista è preferito, per ora, a franchismi.
Speriamo in un Governo Psoe con Unidos Podemos. Le sinistre in Spagna, grazie
anche alla paura del franchismo, hanno un’altra chance per affermare, negli
angusti spazi disponibili, un’alternativa all’europeismo liberista. Ma nessuna
cambiale in bianco”.
Il commento, come si vede, è di tutti quello più
positivo. La sinistra del PSOE è descritta come quella “che ha archiviato il
blairismo e ricominciato a combattere per la dignità del lavoro e la giustizia
sociale” (anche se sono esili le conferme di ciò[5]). Ma
soprattutto c’è nella dichiarazione una netta presa di posizione in favore
della Ue, non tanto nel richiamo ambiguo alla prima dichiarazione di Sanchez,
quanto nella frase che segue, “va segnalato che, come da noi la Lega Nord (vedi
Flat tax e secessione ricchi), anche in Spagna la retorica anti-Ue è usata per
sostenere i padroni e allearsi con PPE”. Ed ancora, “nei Paesi mediterranei a
fresca memoria di regimi dittatoriali (vedi anche Grecia e Portogallo),
l’europeismo anche liberista è preferito, per ora, a franchismi”. Da ultimo, “Le
sinistre in Spagna, grazie anche alla paura del franchismo, hanno un’altra
chance per affermare, negli angusti spazi
disponibili, un’alternativa all’europeismo liberista”.
Si tratta di letture
fortemente divergenti.
La prima, concentrata sul fallimento di Podemos e del
primo populismo di sinistra, pone in evidenza la scarsa capacità di individuare
una visione realmente alternativa all’ordine esistente che non sia meramente
enunciata.
Le altre due individuano nel PSOE, il vincitore, una forza comunque capace di muoversi “nei limiti angusti” (o negli “angusti spazi
disponibili”, usando la medesima parola), e di rilanciare “la giustizia sociale” (per Fassina anche la “dignità del lavoro”),
dando rappresentanza a quelle che Mazzolini chiama “le istanze di cambiamento
più avanzate” (il femminismo, ovviamente). Entrambe le letture di fatto archiviano
il “momento populista”, ovvero la dualità élite/popolo, o centro/periferia, in
favore della solita dualità sinistra/destra che ritorna al centro. Con essa, ed
è la cosa forse più rilevante, torna in Fassina la dualità europeismo/reazione,
oltrepassando abbastanza bruscamente le sue più recenti posizioni eurocritiche.
Insomma, la vicenda si può rileggere in quello che ho
ripetutamente chiamato “il dilemma Kuzmanovic-Autain”[6];
mentre il populismo di prima generazione, per profonde ragioni che bisognerà
indagare, arretra, probabilmente per il rifluire di alcuni movimenti propulsivi
la sua logica “intersezionale” e certamente per il discredito derivante da
fallimentari esperienze di governo (anche se parziali) nella sua incapacità
costitutiva di presidiare il terreno sociale, anche i Partiti che lo hanno
incarnato (Skyriza, France Insoumise e Unidos Podemos), ripiegano nel
tradizionale insediamento della sinistra. Si manifesta così in piena luce, anche
nelle tre descrizioni proposte, ma diversamente interpretata, la genetica
vaghezza sui temi dirimenti e l’incapacità di scegliere un livello
fondamentale, o strutturale, dello scontro.
Movimenti in fondo
liberali, in particolare quello
spagnolo, e progressisti, finiscono
per dare ragione postuma a Marx, quando chiariva che i “socialisti borghesi”: “vogliono
le condizioni di vita della società moderna senza le lotte e i pericoli che
necessariamente le risultano. Vogliono la società attuale senza gli elementi
che la rivoluzionano e la dissolvono”.
Serve ben altro per superare la crisi europea, nel suo
undicesimo anno.
[1] - Una improvvisa riduzione dei
capitali esteri in ingresso ed il richiamo dei prestiti sul sistema bancario
del paese in presenza di un disavanzo di parte corrente della bilancia dei
pagamenti. In paesi, come quelli aderenti all’Euro, in cui il naturale
bilanciamento tramite la svalutazione del cambio nominale non si può dare gli
spazi di manovra sono molto limitati.
[2] - Il testo più rilevante per
questa lettura è Luc Bontanski, Eve Chiappello, “Il nuovo spirito del capitalismo”.
[3] - Si veda Ernesto Laclau, “La
ragione populista”
[4] - Autore di alcuni importanti libri,
come “Utopie
letali”, 2013; “La
variante populista”, 2016; “Oligarchi e plebei”, 2018; “Il socialismo e morto. Viva il socialismo”
2019.
[5] - Sanchez è al governo da 2 giugno
2018 ed entra in crisi nel febbraio 2019 per la mancata votazione della Legge
di Bilancio da parte dei due partiti indipendentisti catalani (ERC e PDeCAT).
Si tratta di un governo di minoranza del solo PSOE con l’appoggio esterno di
Podemos (67 deputati) e di altri 6 partiti minori.
[6] - Kuzmanovic
e Autain sono due noti esponenti di France Insoumise, che incarnano una
radicale differenza di linea e di prospettiva politica. Da tempo tra la linea
popolare, rivolta a tentare di ricostruire un rapporto affettivo e di sostegno
reciproco con i ceti popolari da decenni abbandonati dalla sinistra, e la linea
intersezionale e multiculturalista, basata sull’insediamento sociale residuale
della sinistra, ovvero parte dei ceti “riflessivi” provenienti dalle medie
borghesie professional e renditiere urbane, si era aperto un conflitto. All’avvicinarsi
delle elezioni europee, e in concomitanza con la ricerca, da parte della
direzione del movimento, di un accordo con i residui organizzati dell’area socialista
(il movimento di Chenènement e quello di Mauriel), ad inizio di settembre
alcuni articoli sull’immigrazione e sulla posizione di svolta della Wagenknecht
in Germania, hanno determinato l’avvio della rottura. Come ricostruivo in questo post, Kuzmanovic
ha dichiarato che temi, anche importanti, come il femminismo, i migranti ed i
diritti LGBT, non hanno a che fare specificamente con la ‘sinistra’, ma sono temi
di lotta tipicamente liberali. Il punto è che la sinistra o è popolare o non è,
e dunque ha quale suo specifico “la difesa delle classi popolari e la lotta
contro il capitale”. Parte di questa lotta è la necessità di ridurre
l’esposizione di queste agli effetti negativi collaterali implicati dalle
immigrazioni, se eccessive in termini di ritmo e caratteristiche. Clémentine
Autain, deputata di Parigi, oppone a questi argomenti un punto di vista
identitario che teme di perdere “anima ed immagine”. Kuzmanovic ha finito per
doversi dimettere.
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