Massimiliano Guareschi, che è docente a contratto di
sociologia alla Bicocca a Milano ed autore di alcuni
libri di vario argomento, scrive su “Il
manifesto” questo articolo
nel quale coraggiosamente si confronta con il libro sulla sovranità di Carlo
Galli e quello di Alessandro Somma e con il libro di William Mitchell e Thomas
Fazi.
Antony Gormley (Cambridge 2018) |
Con una prosa non sempre facilissima l’autore scorre
le definizioni correnti di “sovranismo” e le ancora a quelle di “sovranità”,
ricordando in proposito la frettolosa (ed interessata) liquidazione degli anni
a cavallo del crollo repentino del potere sovietico e i lavori da parte
liberale che, con Kelsen e Luhmann, avevano lavorato per indebolirlo. Ancora,
procedendo per cenni sommari, procede a ricordare Michel Foucault e la sua
microfisica del potere.
Sulla base del richiamo di questo apparato divergente (ovvero
di alcuni caposaldi della decostruzione operata nel corso degli anni settanta ed
ottanta di ogni possibile prospettiva socialista, in favore di un liberalismo
libero da ogni vincolo esterno politicamente orientato) l’autore avvia la
lettura del libro di Carlo Galli “Sovranità”.
In proposito, confrontandosi con uno dei maggiori
filosofi politici contemporanei, Guareschi procede a riassumere in modo molto
scheletrico l’argomento storico-politico in questo modo: per Galli la ripresa
della politica democratica può avvenire solo sulla base della triplice
articolazione di “sovranità”, “popolo” e “territorio”, che è l’unico terreno
nel quale storicamente si è data. Questa vigorosa posizione è riportata come
una ‘suggestione’ ed una mera ‘possibilità’. In verità il libro di Galli
sostiene che la presenza di un “momento Polanyi”, causata dalla compromissione
del legame sociale, spiega la richiesta di sicurezza, Stato e protezione indispensabili
per arginare “il potere immenso delle forze economiche private e corporate che
non ha più una dimensione socialmente costruttiva e ordinativa”. Dunque non è
una ‘possibilità’ ed una ‘suggestione’, ma una necessità.
Si passano, quindi, a descrivere “Sovranità
e barbarie”, di Mitchell e Fazi, e “Sovranismi”,
di Alessandro Somma, accomunati nella serrata critica all’Unione Europea che ha
realizzato un potente dispositivo ordoliberista il cui scopo è spoliticizzare
la sfera economica e facilitare l’egemonia economica tedesca.
L’orientamento della lettura dei testi cade qui e lì
nelle aggettivazioni (come definire “controversa” la teoria economica di uno
dei coautori) o nelle forme verbali[1],
infatti a conclusione della sua scheletrica lettura afferma che sulle conclusioni
“si possono nutrire perplessità”: anche se, seguendo gli autori, i fenomeni che
si sono imposti negli ultimi decenni, la deregulation, l’autonomia dei mercati,
non è un fenomeno naturale ma l’esito di decisioni, non implica che sia
reversibile. Per dimostrarlo ricorre ad una battuta ad effetto: “Non è così facile fare rientrare il
dentificio nel tubetto”.
Curiosamente l’affermazione è immediatamente riproposta
in prosa, ma dietro un incongruo “inoltre”:
“se il combinato disposto sovranità,
popolo e territorio ha permesso lo sviluppo di politiche di redistribuzione
della ricchezza, consolidamento dei diritti sociali e imbrigliamento delle
logiche capitaliste, le profonde trasformazioni che hanno interessato in questi
decenni le componenti di quel triedro aprono un interrogativo radicale circa la
possibilità di riproporlo”.
Il problema è il solito, a ben vedere. E’ quello che è
stato alla radice della ritirata e poi rotta del pensiero socialista a partire
dagli anni ottanta: il popolo si è frammentato, è diventato un “universo
atomizzato e fluttuante”, privo di articolazione e di corpi intermedi. Lo stesso
territorio si è differenziato nello spazio dei flussi e con essi i dispositivi
confinari.
Insomma: la sinistra socialista ha perso, questa
sconfitta è totale ed irreversibile, l’unica a questo punto è arrendersi ed adattarsi,
e per questo scegliere tra le possibili varianti liberali.
Con buona pace per il “Momento Polanyi” indicato dal
prof. Galli e dal prof. Somma.
Se, del resto, il
dentifricio è uscito…
Questa immagine, a ben vedere, dice quasi tutto. L’autore
non deve aver ben letto e ben compreso la parte decostruttiva dei tre libri,
perché la sua immagine allude esattamente ad un fenomeno naturale ed
irreversibile, che si dà per moto proprio e nella direzione della storia.
Include in sé la visione provvidenzialistica
tipica dell’illuminismo liberale[2] e
della quale questo non si è mai liberato.
Se avesse letto con attenzione, e quindi concepisse,
invece, la storia come contingenza senza direzione determinata dalla
provvidenza, come fatto umano, allora ne deriverebbero almeno due cose:
-
il dentifricio non “è uscito”, ma è stato spremuto;
-
e rimetterlo è semplicissimo, basta fare un altro
tubetto.
Allora cosa conclude il nostro, dal momento in cui decide
che la provvidenza spinge avanti la Storia e questa non può “tornare indietro”?
Finisce per rifugiarsi in uno dei suoi autori, Niklas
Luhmann che enfatizza esattamente la mossa di ‘spremere’ il tubetto, e
differenziare un diritto settoriale a-democratico (ovvero “non territoriale”)
che è causa ed effetto ad un tempo “dell’emergere” (cruciale questo verbo) “di sistemi
globali non statali ad alto livello di autoreferenzialità”.
Di fronte a questo fatto (ovvero dell’ambiente della mondializzazione),
l’unica cosa da fare per l’autore è adattarsi.
Ovvero puntare:
“sulla autolimitazione dei sistemi
parziali, di quelli globali e finanziari, in particolare di quelli economici e
finanziari, legata alla possibilità di attivare «inibitori endogeni» nei loro
stessi medium”.
Una frase in perfetto stile Luhmaniano, capace di
alzare una cortina di fumo per qualcosa che è: semplice, noto, pervasivo,
inefficace. L’insieme di codici di autoregolazione, di certificazioni,
arbitrati e corti di giustizia, che ad essere cortesi corrispondono al “noblesse
oblige” dell’ancienne regime: una mancia lasciata cadere dal piatto per
sentirsi sollevati mentre si mangia tranquillamente tutto.
L’autore conclude così:
“In termini più generali, ci si potrebbe
chiedere se anziché appellarsi a un ritorno alla messa in forma statale non sia
preferibile scommettere sulla costruzione di istituzioni correlate alle nuove
forme di spazialità politica. Si tratta di un auspicio teorico facile da
formulare, verso cui paiono convergere lotte, conflitti e aggregazioni ma di
cui tuttavia, al presente, si stenta a cogliere concrete emergenze”.
Tutto si può chiedere, ma rispondere è piuttosto
facile: non è preferibile perché è
impossibile.
[1] - Somma si muove su coordinate più
storico-costituzionali, ponendo l’accento su una dialettica fra sovranità dello
stato e sovranità popolare che troverebbe
nel contesto nazionale una modalità di articolazione favorevole all’emergere di
istanze emancipatorie e partecipative.
[2] - Si tratta di un rovesciamento
potente, che fa del nascente liberalismo la versione laica e secolare della
provvidenza religiosa. La ritroviamo nel settecento in autori non per caso di
cultura religiosa come l’abate Genovesi a Napoli o Adam Smith a Edimburgo e che
vede l’opera di una nascosta provvidenza nella interazione apparentemente
caotica di uomini e organizzazioni, ciascuna agente per i propri fini. così la esprime Ferdinando Galiani nel
1750: “questo equilibrio e la giusta abbondanza dè commodi della vita ed alla
terrena felicità maravigliosamente confà, quantunque non dall’umana prudenza o
virtù, ma dal vilissimo stimolo di sordido lucro derivi: avendo la provvidenza,
per lo suo infinito amore per gli uomini, talmente congegnato l’ordine del
tutto, che le vili passioni nostre spesso, quasi a nostro dispetto, al bene del
tutto sono ordinate. … benedico
al contrario la Suprema Mano, ognora che contemplo l’ordine, con cui il
tutto è a nostra utilità costituito”. La “mano invisibile” è dunque una idea che “si sviluppa
parassitariamente dal cristianesimo”
(dirà Walter Benjamin), e sostituisce la
ricerca del paradiso. Lo abbiamo provato a leggere sia attraverso Hirschmann, poi Weber, ma anche Genovesi.
Nella tarda versione marxiana, in particolare nelle
sistemazioni degli anni cinquanta e sessanta, la
trasposizione della idea di progressiva affermazione della provvidenza attraverso
le interazioni umane, che ordina il creato all’emancipazione, si traduce in una
progressiva, ma inevitabile in quanto espressione della tecnica, dissoluzione
delle formazioni storico-sociali che si frappongono come ostacolo alla piena
affermazione dello ‘spirito del capitalismo’. E quindi, a ben vedere, anche all’affermazione,
parimenti inevitabile, ed anzi parusia (presenza ed avvento) di questo, del
socialismo. In Marx questa idea semplicistica e consolante, di grandissima
tradizione, inizia a cedere di fronte agli studi degli anni settanta (si vedano,
ad esempio, gli
studi sulla comune Russa), ma non farà in tempo a consolidarsi, e
successivamente le necessità della lotta politica, in Engels e Kautsky prima,
in Lenin poi, faranno preferire una teleologia più semplice e quindi più atta a
mobilitare le forze. Almeno fino a che è stato possibile immaginare la
possibilità di un soggetto storico. In
effetti sotto questo profilo la mossa di questi post-post-marxisti è semplice:
il soggetto storico torna ad essere la borghesia.
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