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domenica 5 maggio 2019

Circa Massimiliano Guareschi, “Nella complessa modernità di categorie ambivalenti”





Massimiliano Guareschi, che è docente a contratto di sociologia alla Bicocca a Milano ed autore di alcuni libri di vario argomento, scrive su “Il manifesto” questo articolo nel quale coraggiosamente si confronta con il libro sulla sovranità di Carlo Galli e quello di Alessandro Somma e con il libro di William Mitchell e Thomas Fazi.

Antony Gormley (Cambridge 2018)


Con una prosa non sempre facilissima l’autore scorre le definizioni correnti di “sovranismo” e le ancora a quelle di “sovranità”, ricordando in proposito la frettolosa (ed interessata) liquidazione degli anni a cavallo del crollo repentino del potere sovietico e i lavori da parte liberale che, con Kelsen e Luhmann, avevano lavorato per indebolirlo. Ancora, procedendo per cenni sommari, procede a ricordare Michel Foucault e la sua microfisica del potere.
Sulla base del richiamo di questo apparato divergente (ovvero di alcuni caposaldi della decostruzione operata nel corso degli anni settanta ed ottanta di ogni possibile prospettiva socialista, in favore di un liberalismo libero da ogni vincolo esterno politicamente orientato) l’autore avvia la lettura del libro di Carlo Galli “Sovranità”.
In proposito, confrontandosi con uno dei maggiori filosofi politici contemporanei, Guareschi procede a riassumere in modo molto scheletrico l’argomento storico-politico in questo modo: per Galli la ripresa della politica democratica può avvenire solo sulla base della triplice articolazione di “sovranità”, “popolo” e “territorio”, che è l’unico terreno nel quale storicamente si è data. Questa vigorosa posizione è riportata come una ‘suggestione’ ed una mera ‘possibilità’. In verità il libro di Galli sostiene che la presenza di un “momento Polanyi”, causata dalla compromissione del legame sociale, spiega la richiesta di sicurezza, Stato e protezione indispensabili per arginare “il potere immenso delle forze economiche private e corporate che non ha più una dimensione socialmente costruttiva e ordinativa”. Dunque non è una ‘possibilità’ ed una ‘suggestione’, ma una necessità.
Si passano, quindi, a descrivere “Sovranità e barbarie”, di Mitchell e Fazi, e “Sovranismi”, di Alessandro Somma, accomunati nella serrata critica all’Unione Europea che ha realizzato un potente dispositivo ordoliberista il cui scopo è spoliticizzare la sfera economica e facilitare l’egemonia economica tedesca.
L’orientamento della lettura dei testi cade qui e lì nelle aggettivazioni (come definire “controversa” la teoria economica di uno dei coautori) o nelle forme verbali[1], infatti a conclusione della sua scheletrica lettura afferma che sulle conclusioni “si possono nutrire perplessità”: anche se, seguendo gli autori, i fenomeni che si sono imposti negli ultimi decenni, la deregulation, l’autonomia dei mercati, non è un fenomeno naturale ma l’esito di decisioni, non implica che sia reversibile. Per dimostrarlo ricorre ad una battuta ad effetto: “Non è così facile fare rientrare il dentificio nel tubetto”.

Curiosamente l’affermazione è immediatamente riproposta in prosa, ma dietro un incongruo “inoltre”:

“se il combinato disposto sovranità, popolo e territorio ha permesso lo sviluppo di politiche di redistribuzione della ricchezza, consolidamento dei diritti sociali e imbrigliamento delle logiche capitaliste, le profonde trasformazioni che hanno interessato in questi decenni le componenti di quel triedro aprono un interrogativo radicale circa la possibilità di riproporlo”.

Il problema è il solito, a ben vedere. E’ quello che è stato alla radice della ritirata e poi rotta del pensiero socialista a partire dagli anni ottanta: il popolo si è frammentato, è diventato un “universo atomizzato e fluttuante”, privo di articolazione e di corpi intermedi. Lo stesso territorio si è differenziato nello spazio dei flussi e con essi i dispositivi confinari.

Insomma: la sinistra socialista ha perso, questa sconfitta è totale ed irreversibile, l’unica a questo punto è arrendersi ed adattarsi, e per questo scegliere tra le possibili varianti liberali.

Con buona pace per il “Momento Polanyi” indicato dal prof. Galli e dal prof. Somma.

Se, del resto, il dentifricio è uscito…
Questa immagine, a ben vedere, dice quasi tutto. L’autore non deve aver ben letto e ben compreso la parte decostruttiva dei tre libri, perché la sua immagine allude esattamente ad un fenomeno naturale ed irreversibile, che si dà per moto proprio e nella direzione della storia. Include in sé la visione provvidenzialistica tipica dell’illuminismo liberale[2] e della quale questo non si è mai liberato.

Se avesse letto con attenzione, e quindi concepisse, invece, la storia come contingenza senza direzione determinata dalla provvidenza, come fatto umano, allora ne deriverebbero almeno due cose:
-        il dentifricio non “è uscito”, ma è stato spremuto;
-        e rimetterlo è semplicissimo, basta fare un altro tubetto.

Allora cosa conclude il nostro, dal momento in cui decide che la provvidenza spinge avanti la Storia e questa non può “tornare indietro”?
Finisce per rifugiarsi in uno dei suoi autori, Niklas Luhmann che enfatizza esattamente la mossa di ‘spremere’ il tubetto, e differenziare un diritto settoriale a-democratico (ovvero “non territoriale”) che è causa ed effetto ad un tempo “dell’emergere” (cruciale questo verbo) “di sistemi globali non statali ad alto livello di autoreferenzialità”.
Di fronte a questo fatto (ovvero dell’ambiente della mondializzazione), l’unica cosa da fare per l’autore è adattarsi.
Ovvero puntare:

“sulla autolimitazione dei sistemi parziali, di quelli globali e finanziari, in particolare di quelli economici e finanziari, legata alla possibilità di attivare «inibitori endogeni» nei loro stessi medium”.

Una frase in perfetto stile Luhmaniano, capace di alzare una cortina di fumo per qualcosa che è: semplice, noto, pervasivo, inefficace. L’insieme di codici di autoregolazione, di certificazioni, arbitrati e corti di giustizia, che ad essere cortesi corrispondono al “noblesse oblige” dell’ancienne regime: una mancia lasciata cadere dal piatto per sentirsi sollevati mentre si mangia tranquillamente tutto.

L’autore conclude così:
“In termini più generali, ci si potrebbe chiedere se anziché appellarsi a un ritorno alla messa in forma statale non sia preferibile scommettere sulla costruzione di istituzioni correlate alle nuove forme di spazialità politica. Si tratta di un auspicio teorico facile da formulare, verso cui paiono convergere lotte, conflitti e aggregazioni ma di cui tuttavia, al presente, si stenta a cogliere concrete emergenze”.

Tutto si può chiedere, ma rispondere è piuttosto facile: non è preferibile perché è impossibile.


[1] - Somma si muove su coordinate più storico-costituzionali, ponendo l’accento su una dialettica fra sovranità dello stato e sovranità popolare che troverebbe nel contesto nazionale una modalità di articolazione favorevole all’emergere di istanze emancipatorie e partecipative.
[2] - Si tratta di un rovesciamento potente, che fa del nascente liberalismo la versione laica e secolare della provvidenza religiosa. La ritroviamo nel settecento in autori non per caso di cultura religiosa come l’abate Genovesi a Napoli o Adam Smith a Edimburgo e che vede l’opera di una nascosta provvidenza nella interazione apparentemente caotica di uomini e organizzazioni, ciascuna agente per i propri fini.  così la esprime Ferdinando Galiani nel 1750: “questo equilibrio e la giusta abbondanza dè commodi della vita ed alla terrena felicità maravigliosamente confà, quantunque non dall’umana prudenza o virtù, ma dal vilissimo stimolo di sordido lucro derivi: avendo la provvidenza, per lo suo infinito amore per gli uomini, talmente congegnato l’ordine del tutto, che le vili passioni nostre spesso, quasi a nostro dispetto, al bene del tutto sono ordinate. … benedico al contrario la Suprema Mano, ognora che contemplo l’ordine, con cui il tutto è a nostra utilità costituito”. La “mano invisibile” è dunque una idea che “si sviluppa parassitariamente dal cristianesimo” (dirà Walter Benjamin), e sostituisce la ricerca del paradiso. Lo abbiamo provato a leggere sia attraverso Hirschmann, poi Weber, ma anche Genovesi.
Nella tarda versione marxiana, in particolare nelle sistemazioni degli anni cinquanta e sessanta, la trasposizione della idea di progressiva affermazione della provvidenza attraverso le interazioni umane, che ordina il creato all’emancipazione, si traduce in una progressiva, ma inevitabile in quanto espressione della tecnica, dissoluzione delle formazioni storico-sociali che si frappongono come ostacolo alla piena affermazione dello ‘spirito del capitalismo’. E quindi, a ben vedere, anche all’affermazione, parimenti inevitabile, ed anzi parusia (presenza ed avvento) di questo, del socialismo. In Marx questa idea semplicistica e consolante, di grandissima tradizione, inizia a cedere di fronte agli studi degli anni settanta (si vedano, ad esempio, gli studi sulla comune Russa), ma non farà in tempo a consolidarsi, e successivamente le necessità della lotta politica, in Engels e Kautsky prima, in Lenin poi, faranno preferire una teleologia più semplice e quindi più atta a mobilitare le forze. Almeno fino a che è stato possibile immaginare la possibilità di un soggetto storico. In effetti sotto questo profilo la mossa di questi post-post-marxisti è semplice: il soggetto storico torna ad essere la borghesia.

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