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mercoledì 22 maggio 2019

Circa A. Gramsci, “Passato e presente. Grande ambizione e piccole ambizioni”




Nei Quaderni (6°, 1930-32, 97) c’è un piccolo e prezioso frammento nel quale Gramsci si chiede in modo fulmineo se “può esistere politica, cioè storia in atto, senza ambizione?
Questa domanda va alla radice delle cose, conservando una costante attualità. La parola “ambizione” è la prima su cui si sofferma, e il primo compito è scrostare il suo senso, in tempi nei quali come ora[1] il discredito della politica liberale ha condotto ai frutti avvelenati dell’antipolitica imperante. La seconda acquisizione è che la politica è la “storia in atto”, e quindi, come vedremo bisogna alzarsi al suo livello per rispondervi.  Il discredito è quindi il primo ostacolo all’attivazione della storia tramite la politica. Due ragioni, riflette l’autore, sono alla base di questa disattivazione via discredito:
-        la confusione tra ‘grande ambizione’ e ‘piccole ambizioni’;
-        il tradimento della prima in favore di servizi più lucrativi e di “pronto rendimento”.
Cioè la riduzione della grande ambizione alle piccole ambizioni, e l’abbandono della prima.

Con le parole di Gramsci:

in fondo anche questo motivo si può ridurre al primo: si tratta di piccole ambizioni, poiché hanno fretta e non vogliono aver da superare soverchie difficoltà o troppo grandi difficoltà, [o correre grandi pericoli]” (p.771).

Dunque la ‘grande ambizione’ può essere tradita dalla fretta, dalla paura, dal discredito e dalla sfiducia e precipitare in ‘piccole ambizioni’.

Ma si può fare politica, si può fare storia in atto, senza ambizione (grande)?

Gramsci pensa di no. E pensa che l’ambizione abbia a che fare con la questione del leader. Si esprime così: “è nel carattere di ogni capo di essere ambizioso, cioè di aspirare con ogni sua forza all’esercizio del potere statale”. Cioè aspirare ad affermare le proprie idee nel mondo, concretamente, fattivamente. Aspirare a cambiarlo, questo mondo.

Cosa succede, invece, quando un “capo” non ha ambizione (ma solo “piccole ambizioni”)? Succede che diventa un “elemento pericoloso”, un “inetto o un vigliacco”. Chi, come Arturo Vella[2], dice Gramsci, individuava nel Partito Socialista un ruolo di sola opposizione, è accusato di “preparare i peggiori disastri”. Stare all’opposizione è infatti comodo, ma inutile, e non ottiene neppure al partito che lo persegue il risultato di essere lasciato in pace, perché “non è comodo per i dirigenti del governo”, e quindi provoca alla fine comunque una risposta.  

Antonio Gramsci al IV Congresso dell'Internazionale Comunista, 1922



La “grande ambizione” è dunque necessaria alla lotta. Ma non è neppure moralmente spregevole, è anzi il contrario; ma c’è una importante condizione, leggiamo:

“tutto sta nel vedere se l’’ambizioso’ si eleva dopo aver fatto il deserto intorno a sé, o se il suo elevarsi è condizionato [consapevolmente] dall’elevarsi di tutto uno strato sociale e se l’ambizioso vede appunto la propria elevazione come elemento dell’elevazione generale”.

Dunque si individua in sostanza la differenza tra ‘grande ambizione’ e ‘piccole ambizioni’ come lotta tra ricerca del bene collettivo e “proprio particulare”. E si connette il tutto alla questione della demagogia. Ma anche qui c’è una distinzione strutturale: quella tra piccola demagogia e “demagogia superiore”, e tra demagoghi “deteriori” e non.
Non è la demagogia in sé ad essere accusata. La questione è se ci si serve delle masse popolari, eccitando e nutrendo sapientemente le loro passioni, ma per i propri fini particolari e le proprie piccole ambizioni (in questo modo l’accesso alla tribuna, e il parlamentarismo, può tracimare in cesarismo e bonapartismo).
Oppure, al contrario, se non si considerano le masse umane come “uno strumento servile, buono per raggiungere i propri scopi e poi buttare via”, ma se la buona demagogia serve a “raggiungere fini politici organici di cui queste masse sono il necessario protagonista storico”. Se, cioè, il capo svolge “opera ‘costituente’ costrutttiva”. Questa è la “demagogia superiore”.

Del resto non ci sono altre vie: “le masse non possono non essere aiutate a elevarsi attraverso l’elevarsi di singoli individui e di interi strati ‘culturali’”.

Riepiloghiamo:

“il ‘demagogo’ deteriore pone se stesso come insostituibile, crea il deserto intorno a sé, sistematicamente schiaccia ed elimina i possibili concorrenti, vuole entrare in rapporto con le masse direttamente (plebiscito, ecc, grande oratoria, colpi di scena, apparato coreografico fantasmagorico: si tratta di ciò che Michels ha chiamato ‘capo carismatico’)”.

oppure:

“Il capo politico dalla grande ambizione invece tende a suscitare uno strato intermedio tra sé e la massa, a suscitare possibili ‘concorrenti’ ed eguali, a elevare il livello di capacità delle masse, a creare elementi che possano sostituirlo nella funzione di capo. Egli pensa secondo gli interessi della massa e questi vogliono che un apparecchio di conquista [o di dominio] non si sfasci per la morte o il venire meno del singolo capo, ripiombando la massa nel caos e nell’impotenza primitiva”.

E c’è anche una implicazione ulteriore, perché la struttura intermedia deve essere anche in una relazione organica, e per quanto possibile anche biografica, con la classe che si intende rappresentare; con la “massa” che si fa “classe” attraverso la politica ed il partito: “se è vero che ogni partito è partito di una sola classe, il capo deve poggiare su di questa ed elaborarne uno stato maggiore e tutta la gerarchia”.

Detto in altri termini: se il partito è mosso da una “grande ambizione”, e quindi dalla volontà di far affermare degli interessi, questi interessi devono generarne la struttura.


Per comprendere meglio le implicazioni di questo discorso gramsciano proverò ora a stagliarlo sullo sfondo di un discorso per alcuni versi opposto, in continuità con il post sul “partito”[3] di qualche giorno fa.

In “Come organizzarsi in grande: la strategia di Sanders”, viene commentato un libro[4] di due staffer della campagna di Bernie Sanders per la nomination democratica del 2016. Nel libro si sostiene che in tempi nei quali l’antipolitica ha introdotto una forte ostilità ad ogni organizzazione politica il successo della campagna (che, tuttavia, ha perso ed ha mostrato obiettive difficoltà a conservare la mobilitazione nella fase finale della tornata elettorale) derivi da un modello di “militanza diffusa” non professionale, unita ad una direzione strategica verticistica[5].
Ciò che avrebbe fatto, secondo gli staffisti e l’autore, Sanders è stato di affidarsi ad una dinamica informale e flessibile, costruendo più un movimento sociale che una mobilitazione di partito. La cosa è nominata come “organizzarsi in grande”, in specifica opposizione al modello della “Community Organising[6] di Saul Alinsky, che è invece molto più coerente con l’ispirazione gramsciana.

 Al di là della causa contingente (costruire in poco tempo un movimento di massa finalizzato all’espressione di un voto un dato giorno), l’idea sarebbe di unire l’energia di movimenti anarcoidi come “Occupy Wall Street”, a leadership e unità d’azione verticistiche, necessarie per prevalere nella competizione. È interessante questa indicazione di obiettivo, limitato e specifico, che non sembra in grado di fare, in quanto tale, la differenza tra “grande ambizione” e “piccole ambizioni”.

Per conseguire l’obiettivo, allora, bisogna:
1-     Distribuire il lavoro e centralizzare il piano. Costruire una “fabbrica di fiori”, invece di lasciarli fiorire dal terreno.
2-     Deprofessionalizzare la campagna. Sia evitando che gli addetti siano pagati e quindi facendo uso di volontari a rapida sostituzione, sia eliminando coloro i quali si impegnano troppo, facendo scappare le persone normali che hanno poco tempo ed attenzione (viene messo così: “evitare la dittatura degli esagitati”). Ed, infine, forse soprattutto, eliminare tutti i militanti storici in favore di persone “completamente nuove alla politica”[7].

In questa organizzazione, che per molti versi è l’esatto opposto di quella immaginata da Gramsci, si immagina possibile un modo di fare politica profondamente diverso da quello usuale:
-        il centralismo, rivendicato, è letto come opposto alla discussione approfondita (che avviene, a dire degli autori, “tra i soliti noti”, ovvero coloro i quali sono dediti alla politica e ne sono quadri). E come opposto alla tendenza all’assemblearismo del movimentismo che deriva dalla esperienza del ’68 e seguire.
-        La non-professionalizzazione, al contrario, tenta di recuperare la mobilitazione spontanea propria di quelle esperienze, per impedire che le strutture intermedie gramsciane esercitino la propria capacità di contendere la linea del “iperleader”. L’organizzazione immaginata sarà, quindi, “aperta a chiunque possa dare una mano”, ma sarà chiusa agli “attivisti superpoliticizzati, ai militanti duri e puri”[8].

In questo modo l’idea è di costruire “fiducia nei sostenitori e nei simpatizzanti e nella base sociale che si vuole rappresentare, e sviluppo di una militanza attiva e effettivamente rappresentativa della società, in cui giovani, e persone inserite in servizi chiave come infermiere, insegnanti, lavoratori siano i veri protagonisti”. Ma, al contempo, è prevista la capacità di operare in modo efficiente a larga scala, con una disciplina ferrea.

Due obiettivi difficili da tenere insieme. Per fare un esempio, non è facile aggirare la necessità di persone motivate e formate, nel fare politica rivolta alla costruzione della “storia in atto”, e non solo alla riproduzione del presente al fine di farsi cooptare dai suoi poteri. La politica se non si riduce alla mera competizione elettorale, ma punta ad accumulare le forze per spostare l’equilibrio della società (ovvero se serve a qualcosa, oltre che alle ‘piccole ambizioni’), necessita di un orizzonte di stabilità e pluriennale. Deve assomigliare più ad una ‘lunga marcia’ che ad un incendio nella steppa. Allora gli attivisti[9] nuovi, che non hanno mai fatto politica prima, sono ovviamente i benvenuti, ma senza una forte comunità politica che li accolga ed indirizzi, e che socializzi le loro migliori forze, aiutandoli a comprendere cosa sia davvero importante, sono anche un rischio. Perché, bisognerebbe chiedersi, persone che sono “completamente nuove alla politica”, ovvero che fino a quel momento se ne sono fregate di essa e delle scelte pubbliche ora se ne occupano? Magari sarà che attraversano un momento di difficoltà personale e sono molto arrabbiate? Quindi non è che, oltre a non avere un radicamento culturale e portare con sé i segni della egemonia dell'avversario, questi appena risolveranno i loro problemi spariranno? E non è che se la congiuntura migliora, anche momentaneamente, tutto il movimento si dissolve come neve al sole?
Un’organizzazione simile forse non è tanto “buona”, e non per caso Alinsky, che ben conosceva l'instabilità del capitalismo ragionava diversamente. Non per caso lo stesso Gramsci, nel passo che stiamo commentando, teme che al venir meno della leadership, se questa è sola, si ricada nel caos.


Torneremo tra poco su Gramsci, per provare ad individuare somiglianze e differenze, ma conviene provare a dire prima qualcosa di più generale. L’esempio portato è di una competizione elettorale di breve durata, e l’intero testo si pone sul piano della tecnica. È chiaro che lo fa per una questione di focus, ma c’è anche un livello più profondo di coerenza[10].

Il tono è infatti ambizioso, ma sembra che tutto[11] si debba interamente risolvere nella mobilitazione ai fini di prevalere in una competizione (elettorale). In sé non è male, è infatti chiaro che la lotta per il potere è una corretta ambizione, ma ciò che la qualifica, determinandone il segno, non è il successo ma quella che Gramsci chiama la “storia in atto”, ovvero la “politica”. Per rispondere alla domanda circa il senso e la qualità dell’ambizione, e quindi anche della direzione, bisogna chiedersi insomma se il mezzo proposto (questo curioso ibrido di verticalismo e destrutturazione) è capace di contribuire a che la “massa” si faccia “classe” e si alzi al livello della politica. Altrimenti la distanza, per fare un esempio recente, dalla “Leopolda” renziana potrebbe essere difficile da individuare[12].
È qui che il discorso sulla “grande ambizione”, che è nominata da Gramsci con un singolare molto espressivo, e sulle “piccole ambizioni”, che sono invece plurali e sconnesse, entra nel merito. Una delle spie utilizzare da Gramsci, oggi ancora più utile come diremo, è la fretta. Avere fretta e non voler superare “soverchie difficoltà” (o pericoli), è una delle forme che può prendere l’orientamento a ‘piccole ambizioni’, anche travestite da ‘grande ambizione’.

Ma c’è altro, e si annida nell’idea che si tratti solo di competizione, ovvero di “agonismo” (con il linguaggio della Mouffe), e che per prevalere sia essenziale restare agili e fluidi, somigliare al mondo del quale si vuole prendere la testa. La questione non è se si ha una strategia, se si è capaci di piano, ma se questa e questo servono ad elevare al potere una direzione (vincendo o meno una elezione), o se si tratta di trasformare questo mondo su cui si vuole agire. O, con il linguaggio di Gramsci, condizionare la propria crescita a quella dello strato sociale al quale si vuole servire.

La seconda spia è il tipo di demagogia di cui si fa uso. E qui è ancora più chiaro, bisogna capire chi si serve di chi. Se ci si adatta al pensiero comune, al fine di nutrirlo ed eccitarlo, mobilitandone le passioni al fine di raccogliere la forza per i propri fini (scivolando nel cesarismo, più o meno democratico). O se la ricerca di relazione con la massa è finalizzata a farne un protagonista storico, elevando insieme strati intermedi, organizzazione e masse. La spia è quindi se tra il vertice ‘demagogico’ e la massa c’è il vuoto (più o meno attivato episodicamente), o se da questa emerge uno strato intermedio nel quale la linea sia contesa, i leader possano emergere ed essere sostituiti, le discussioni restino vive.



[1] - Con ciò, sia chiaro, non estendo un paragone tra cose e momenti storici troppo lontani e non individuo nella risposta, che ha carattere ambivalente, al degrado del liberalismo ed all’insorgere di un “momento Polanyi” una forma di roto-fascismo. Metterla in questi termini significa impedirsi di capire.
[2] - Politico antifascista nato nel 1886 e morto nel 1943, aderente al Partito Socialista, vicesegretario nel 1919. Esponente del “massimalismo” (una corrente molto rilevante del movimento socialista a cavallo del secolo, invalsa come sinonimo di estremismo verbale, di velleitarismo rinunciatario, di esasperazione ideologica, perfino di improvvisazione. Si tratta, comunque, di una figura importante anche se dimenticata.
[4] - Si tratta di “Rules for revolutionaries: How big organizing can change everything” di Becky Bond and Zack Exley.
[5] - Naturalmente ci sono circostanze congiunturali, di tempo e risorse (le campagne americane sono quasi sempre caratterizzate da mobilitazioni e smobilitazioni, in particolare quando si è un outsider di improvviso successo), e sono descritte nell’articolo.
[6] - Che viene descritta così: “negli anni ’60 e ’70 diede vita a una serie di campagne sociali a livello locale, che mettevano assieme sindacati, associazioni e gruppi religiosi. L’idea di Alinsky era che fossero necessario puntare su un cambiamento lento e incrementale coltivando pazientemente nuovi leader, che dopo un periodo di apprendistato sarebbero stati in grado di radicare le strutture organizzative nelle comunità”.
[7] - La frase completa è: “In un movimento entusiasmante e in crescita, la maggior parte delle persone saranno completamente nuove alla politica. Non zavorrare questi leader entusiasti con il vecchio bagaglio della nostalgia del passato. Se non stiamo riesci a vincere con gli attivisti veterani di mille sconfitte non è forse meglio accogliere attivisti nuovi?”
[8] - L’argomentazione completa è: “Perché adottano una postura massimalista, e pensano di sapere già tutto sull’attività politica, quando una forma organizzativa efficace necessita invece di umiltà, duttilità e capacità di adattamento rapido a uno spazio in continuo spostamento. Meglio reclutare persone alla prima esperienza, che fare affidamento su militanti incattiviti da mille sconfitte, e l’innumerevole serie di scissioni che ha costellato l’evoluzione della nostra sinistra parlamentare e extraparlamentare negli ultimi decenni. Spesso l’esperienza di lungo corso, corredata di risentimento e di sospetto previo nell’anticipazione dell’ennesima delusione, si dimostra una zavorra insuperabile per ogni progetto politico. Meglio allora iniziare da zero con coloro, che magari sia pure solo per inesperienza o ingenuità, almeno nutrono ancora qualche speranza e entusiasmo nella possibilità di cambiare le cose”.
[9] - Chiaramente qui il termine scelto nell’articolo, “attivista”, indica un grado intermedio di coinvolgimento tra il votante (“base di massa” del partito), gli iscritti ed i militanti veri e propri. Spesso indica anche la scarsa formazione politica e l’adesione alle idee circolanti nell’ambito politico più per una sorta di orecchiamento. La disponibilità alla militanza, talvolta eroica, e l’odio per le discussioni che non riesce a seguire, ne fanno un indispensabile complemento di una leadership dirigista ed isolata.
[10] - Detto per ora in sintesi, affonda nella particolare versione del laclauismo che è portata avanti da Chantal Mouffe, principale riferimento teorico dell’autore, la quale depotenzia la carica critica del marito, trasformandone il post-marxismo in una versione di liberalismo.
[11] - La Mouffe individua una versione dell’anti-essenzialismo che condivideva con il coniuge particolarmente radicale. Per lei quella che chiama “negatività radicale” non può essere superata dialetticamente ed impedisce qualsiasi elusione della contingenza. Se tutto è contingente ogni questione si riduce a questione di egemonia, ovvero di prevalenza nella lotta per le nominazioni e le rappresentazioni. Questa affermazione ontologica (la negatività radicale) induce di necessità all’abbandono di ogni possibile idea di società riconciliata e traduce, qui il punto, la forma politica antagonista (che era, ad esempio, di Gramsci) in una forma meramente “agonistica”. Il conflitto è sempre questione di affermazione di potere e questo risiede nella nominazione. L’unico orizzonte residuale è quindi liberale, si tratta di lottare per la piena affermazione della democrazia radicale. Una posizione che assomiglia abbastanza, nella sua forma ma non nel linguaggio, all’Habermas degli anni ottanta e novanta. Con il suo linguaggio “non si tratta mai della manifestazione di una oggettività più profonda, esterna alle politiche che la portano all’esistenza” (“Il conflitto democratico”, p. 22).
[12] - Il primo Renzi, come si ricorderà, era caratterizzato da un chiarissimo impulso populista “di centro”. Fu spinto al successo dal sommarsi di alcune onde “in fase”, magari trovate un poco per caso (o per ‘istinto politico’): la potente spinta verso il “nuovo”, che non deve essere stato coinvolto nei numerosi fallimenti del passato e con l’insopportabile sensazione di impotenza che ne promana; l’assenza di una forma definita, che non è un peso se si vuole tenersi le mani libere e sfruttare ogni alito di vento, e che si è rivelata come complemento indispensabile per poter effettuare quel che Laclau chiama una “catena equivalenziale” potente, ottenendo da parte di tanti segmenti sociali diversi, il necessario “investimento identitario” richiesto per mobilitarsi; all’inizio anche l’umanità e la personale debolezza, che si intravede (o che viene abilmente fatta filtrare) in un personaggio che non si presenta come “esemplare”, come “di successo”, come “superiore”;  l’aura del ‘vincente predestinato’ che è stata costruita dai media, dalla stessa forza del percorso dell’outsider che non viene fermato, dalla speranza disperata di trovare, infine, una nuova apertura al futuro.

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