Nei Quaderni (6°, 1930-32, 97) c’è un piccolo e
prezioso frammento nel quale Gramsci si chiede in modo fulmineo se “può esistere politica, cioè storia in atto,
senza ambizione?”
Questa domanda va alla radice delle cose, conservando una
costante attualità. La parola “ambizione”
è la prima su cui si sofferma, e il primo compito è scrostare il suo senso, in
tempi nei quali come ora[1] il
discredito della politica liberale ha condotto ai frutti avvelenati dell’antipolitica
imperante. La seconda acquisizione è che la politica è la “storia in atto”, e
quindi, come vedremo bisogna alzarsi al suo livello per rispondervi. Il
discredito è quindi il primo ostacolo all’attivazione della storia tramite
la politica. Due ragioni, riflette l’autore, sono alla base di questa
disattivazione via discredito:
-
la confusione tra ‘grande
ambizione’ e ‘piccole ambizioni’;
-
il tradimento della
prima in favore di servizi più lucrativi e di “pronto rendimento”.
Cioè la riduzione della grande ambizione alle piccole
ambizioni, e l’abbandono della prima.
Con le parole di Gramsci:
“in
fondo anche questo motivo si può ridurre al primo: si tratta di piccole
ambizioni, poiché hanno fretta e non vogliono aver da superare soverchie
difficoltà o troppo grandi difficoltà, [o correre grandi pericoli]”
(p.771).
Dunque la ‘grande ambizione’ può essere tradita dalla
fretta, dalla paura, dal discredito e dalla sfiducia e precipitare in ‘piccole
ambizioni’.
Ma si può fare politica, si può fare storia in atto,
senza ambizione (grande)?
Gramsci pensa di
no. E pensa che l’ambizione
abbia a che fare con la questione del leader. Si esprime così: “è nel carattere
di ogni capo di essere ambizioso, cioè di aspirare con ogni sua forza all’esercizio
del potere statale”. Cioè aspirare ad affermare le proprie idee nel mondo,
concretamente, fattivamente. Aspirare a cambiarlo, questo mondo.
Cosa succede, invece, quando un “capo” non ha
ambizione (ma solo “piccole ambizioni”)? Succede che diventa un “elemento
pericoloso”, un “inetto o un vigliacco”. Chi, come Arturo Vella[2],
dice Gramsci, individuava nel Partito Socialista un ruolo di sola opposizione,
è accusato di “preparare i peggiori disastri”. Stare all’opposizione è infatti comodo,
ma inutile, e non ottiene neppure al partito che lo persegue il risultato di
essere lasciato in pace, perché “non è comodo per i dirigenti del governo”, e
quindi provoca alla fine comunque una risposta.
Antonio Gramsci al IV Congresso dell'Internazionale Comunista, 1922 |
La “grande ambizione” è dunque necessaria alla lotta. Ma
non è neppure moralmente spregevole, è anzi il contrario; ma c’è una importante
condizione, leggiamo:
“tutto sta nel vedere
se l’’ambizioso’ si eleva dopo aver fatto il deserto intorno a sé, o se il suo
elevarsi è condizionato [consapevolmente] dall’elevarsi di tutto uno strato
sociale e se l’ambizioso vede appunto la propria elevazione come elemento dell’elevazione
generale”.
Dunque si individua in sostanza la differenza tra ‘grande
ambizione’ e ‘piccole ambizioni’ come lotta tra ricerca del bene collettivo e “proprio
particulare”. E si connette il tutto alla questione della demagogia. Ma anche qui c’è una distinzione strutturale: quella tra
piccola demagogia e “demagogia superiore”, e tra demagoghi “deteriori” e non.
Non è la demagogia in sé ad essere accusata. La questione
è se ci si serve delle masse
popolari, eccitando e nutrendo
sapientemente le loro passioni, ma per i propri
fini particolari e le proprie piccole ambizioni (in questo modo l’accesso
alla tribuna, e il parlamentarismo, può tracimare in cesarismo e bonapartismo).
Oppure, al contrario, se non si considerano le masse
umane come “uno strumento servile, buono per raggiungere i propri scopi e poi
buttare via”, ma se la buona demagogia serve a “raggiungere fini politici organici
di cui queste masse sono il necessario protagonista storico”. Se, cioè, il capo
svolge “opera ‘costituente’ costrutttiva”. Questa è la “demagogia superiore”.
Del resto non ci sono altre vie: “le masse non possono
non essere aiutate a elevarsi attraverso l’elevarsi di singoli individui e di
interi strati ‘culturali’”.
Riepiloghiamo:
“il ‘demagogo’ deteriore
pone se stesso come insostituibile, crea il deserto intorno a sé,
sistematicamente schiaccia ed elimina i possibili concorrenti, vuole entrare in
rapporto con le masse direttamente (plebiscito, ecc, grande oratoria, colpi di
scena, apparato coreografico fantasmagorico: si tratta di ciò che Michels ha
chiamato ‘capo carismatico’)”.
oppure:
“Il capo politico
dalla grande ambizione invece tende a suscitare uno strato intermedio tra sé e
la massa, a suscitare possibili ‘concorrenti’ ed eguali, a elevare il livello
di capacità delle masse, a creare elementi che possano sostituirlo nella
funzione di capo. Egli pensa secondo gli interessi della massa e questi
vogliono che un apparecchio di conquista [o di dominio] non si sfasci per la
morte o il venire meno del singolo capo, ripiombando la massa nel caos e nell’impotenza
primitiva”.
E c’è anche una implicazione ulteriore, perché la
struttura intermedia deve essere anche in una relazione organica, e per quanto
possibile anche biografica, con la classe che si intende rappresentare; con la “massa”
che si fa “classe” attraverso la politica ed il partito: “se è vero che ogni
partito è partito di una sola classe, il capo deve poggiare su di questa ed elaborarne
uno stato maggiore e tutta la gerarchia”.
Detto in altri termini: se il partito è mosso da una “grande
ambizione”, e quindi dalla volontà di far affermare degli interessi, questi
interessi devono generarne la struttura.
Per comprendere meglio le implicazioni di questo
discorso gramsciano proverò ora a stagliarlo sullo sfondo di un discorso per
alcuni versi opposto, in continuità con il post sul “partito”[3] di
qualche giorno fa.
In “Come
organizzarsi in grande: la strategia di Sanders”, viene commentato un libro[4] di
due staffer della campagna di Bernie Sanders per la nomination democratica del 2016.
Nel libro si sostiene che in tempi nei quali l’antipolitica ha introdotto una
forte ostilità ad ogni organizzazione politica il successo della campagna (che,
tuttavia, ha perso ed ha mostrato obiettive difficoltà a conservare la
mobilitazione nella fase finale della tornata elettorale) derivi da un modello
di “militanza diffusa” non professionale, unita ad una direzione strategica
verticistica[5].
Ciò che avrebbe fatto, secondo gli staffisti e l’autore,
Sanders è stato di affidarsi ad una dinamica informale e flessibile, costruendo
più un movimento sociale che una
mobilitazione di partito. La cosa è nominata come “organizzarsi in grande”, in specifica opposizione al modello della “Community Organising”[6] di
Saul Alinsky, che è invece molto più coerente con l’ispirazione gramsciana.
Al di là della
causa contingente (costruire in poco tempo un movimento di massa finalizzato all’espressione
di un voto un dato giorno), l’idea sarebbe di unire l’energia di movimenti
anarcoidi come “Occupy Wall Street”, a leadership e unità d’azione verticistiche,
necessarie per prevalere nella competizione. È interessante questa indicazione
di obiettivo, limitato e specifico, che non sembra in grado di fare, in quanto
tale, la differenza tra “grande ambizione” e “piccole ambizioni”.
Per conseguire l’obiettivo, allora, bisogna:
1-
Distribuire il lavoro e centralizzare il piano. Costruire una “fabbrica di fiori”, invece di
lasciarli fiorire dal terreno.
2-
Deprofessionalizzare la campagna. Sia evitando che gli addetti siano pagati e quindi
facendo uso di volontari a rapida sostituzione, sia eliminando coloro i quali
si impegnano troppo, facendo scappare le persone normali che hanno poco tempo
ed attenzione (viene messo così: “evitare la dittatura degli esagitati”). Ed,
infine, forse soprattutto, eliminare tutti i militanti storici in favore di
persone “completamente nuove alla politica”[7].
In questa organizzazione, che per molti versi è l’esatto
opposto di quella immaginata da Gramsci, si immagina possibile un modo di fare
politica profondamente diverso da quello usuale:
-
il centralismo,
rivendicato, è letto come opposto alla discussione approfondita (che avviene, a
dire degli autori, “tra i soliti noti”, ovvero coloro i quali sono dediti alla
politica e ne sono quadri). E come opposto alla tendenza all’assemblearismo del
movimentismo che deriva dalla esperienza del ’68 e seguire.
-
La non-professionalizzazione, al contrario, tenta di recuperare la mobilitazione
spontanea propria di quelle esperienze, per impedire che le strutture intermedie
gramsciane esercitino la propria capacità di contendere la linea del “iperleader”.
L’organizzazione immaginata sarà, quindi, “aperta a chiunque possa dare una
mano”, ma sarà chiusa agli “attivisti superpoliticizzati, ai militanti duri e
puri”[8].
In questo modo l’idea è di costruire “fiducia nei
sostenitori e nei simpatizzanti e nella base sociale che si vuole rappresentare, e sviluppo di una
militanza attiva e effettivamente rappresentativa della società, in cui
giovani, e persone inserite in servizi chiave come infermiere, insegnanti,
lavoratori siano i veri protagonisti”. Ma, al contempo, è prevista la capacità
di operare in modo efficiente a larga scala, con una disciplina ferrea.
Due obiettivi difficili da tenere insieme. Per fare un
esempio, non è facile aggirare la necessità di persone motivate e formate, nel fare politica rivolta
alla costruzione della “storia in atto”, e non solo alla riproduzione del
presente al fine di farsi cooptare dai suoi poteri. La politica se non si riduce
alla mera competizione elettorale, ma punta ad accumulare le forze per spostare
l’equilibrio della società (ovvero se serve a qualcosa, oltre che alle ‘piccole
ambizioni’), necessita di un orizzonte di stabilità e pluriennale. Deve assomigliare
più ad una ‘lunga marcia’ che ad un incendio nella steppa. Allora gli attivisti[9]
nuovi, che non hanno mai fatto politica prima, sono ovviamente i benvenuti, ma
senza una forte comunità politica che li accolga ed indirizzi, e che socializzi
le loro migliori forze, aiutandoli a comprendere cosa sia davvero importante,
sono anche un rischio. Perché, bisognerebbe chiedersi, persone che sono “completamente
nuove alla politica”, ovvero che fino a quel momento se ne sono fregate di essa
e delle scelte pubbliche ora se ne occupano? Magari sarà che
attraversano un momento di difficoltà personale e sono molto arrabbiate? Quindi
non è che, oltre a non avere un radicamento culturale e portare con sé i segni
della egemonia dell'avversario, questi appena risolveranno i loro problemi
spariranno? E non è che se la congiuntura migliora, anche momentaneamente,
tutto il movimento si dissolve come neve al sole?
Un’organizzazione simile forse non è tanto “buona”, e
non per caso Alinsky, che ben conosceva l'instabilità del capitalismo ragionava
diversamente. Non per caso lo stesso Gramsci, nel passo che stiamo
commentando, teme che al venir meno della leadership, se questa è sola, si
ricada nel caos.
Torneremo tra poco su Gramsci, per provare ad
individuare somiglianze e differenze, ma conviene provare a dire prima qualcosa
di più generale. L’esempio portato è di una competizione elettorale di breve
durata, e l’intero testo si pone sul
piano della tecnica. È chiaro che lo fa per una questione di focus, ma c’è
anche un livello più profondo di coerenza[10].
Il tono è infatti ambizioso, ma sembra che tutto[11]
si debba interamente risolvere nella mobilitazione ai fini di prevalere in una
competizione (elettorale). In sé non è male, è infatti chiaro che la lotta per
il potere è una corretta ambizione, ma ciò che la qualifica, determinandone il
segno, non è il successo ma quella che Gramsci chiama la “storia in atto”,
ovvero la “politica”. Per rispondere alla domanda circa il senso e la qualità
dell’ambizione, e quindi anche della direzione, bisogna chiedersi insomma se il
mezzo proposto (questo curioso ibrido di verticalismo e destrutturazione) è
capace di contribuire a che la “massa” si faccia “classe” e si alzi al livello
della politica. Altrimenti la distanza, per fare un esempio recente, dalla “Leopolda”
renziana potrebbe essere difficile da individuare[12].
È qui che il discorso sulla “grande ambizione”, che è
nominata da Gramsci con un singolare molto espressivo, e sulle “piccole
ambizioni”, che sono invece plurali e sconnesse, entra nel merito. Una delle
spie utilizzare da Gramsci, oggi ancora più utile come diremo, è la fretta. Avere fretta e non voler
superare “soverchie difficoltà” (o pericoli), è una delle forme che può
prendere l’orientamento a ‘piccole ambizioni’, anche travestite da ‘grande ambizione’.
Ma c’è altro, e si annida nell’idea che si tratti solo
di competizione, ovvero di “agonismo” (con il linguaggio della Mouffe), e che
per prevalere sia essenziale restare agili e fluidi, somigliare al mondo del quale si vuole prendere la testa. La questione
non è se si ha una strategia, se si è capaci di piano, ma se questa e questo
servono ad elevare al potere una direzione (vincendo o meno una elezione), o se
si tratta di trasformare questo mondo su cui si vuole agire. O, con il linguaggio
di Gramsci, condizionare la propria crescita a quella dello strato sociale al
quale si vuole servire.
La seconda spia è il tipo di demagogia di cui si fa uso.
E qui è ancora più chiaro, bisogna capire chi
si serve di chi. Se ci si adatta al pensiero comune, al fine di nutrirlo ed
eccitarlo, mobilitandone le passioni al fine di raccogliere la forza per i
propri fini (scivolando nel cesarismo, più o meno democratico). O se la ricerca
di relazione con la massa è finalizzata a farne un protagonista storico, elevando insieme strati intermedi,
organizzazione e masse. La spia è quindi se tra il vertice ‘demagogico’ e la
massa c’è il vuoto (più o meno attivato episodicamente), o se da questa emerge
uno strato intermedio nel quale la linea sia contesa, i leader possano emergere
ed essere sostituiti, le discussioni restino vive.
[1]
- Con ciò, sia chiaro, non estendo un paragone tra cose e momenti storici
troppo lontani e non individuo nella risposta, che ha carattere ambivalente, al
degrado del liberalismo ed all’insorgere di un “momento Polanyi” una forma di roto-fascismo.
Metterla in questi termini significa impedirsi di capire.
[2]
- Politico antifascista nato nel 1886 e morto nel 1943, aderente al Partito
Socialista, vicesegretario nel 1919. Esponente del “massimalismo” (una corrente
molto rilevante del movimento socialista a cavallo del secolo, invalsa come
sinonimo di estremismo verbale, di velleitarismo rinunciatario, di
esasperazione ideologica, perfino di improvvisazione. Si tratta, comunque, di
una figura importante anche se dimenticata.
[3]
- “Appunti
sulla questione del partito: oltre il primo populismo”, 19 aprile.
[4] - Si tratta di “Rules for revolutionaries: How big
organizing can change everything” di Becky Bond and Zack Exley.
[5]
- Naturalmente ci sono circostanze congiunturali, di tempo e risorse (le campagne
americane sono quasi sempre caratterizzate da mobilitazioni e smobilitazioni,
in particolare quando si è un outsider di improvviso successo), e sono descritte
nell’articolo.
[6]
- Che viene descritta così: “negli anni ’60 e ’70 diede vita a una serie di
campagne sociali a livello locale, che mettevano assieme sindacati,
associazioni e gruppi religiosi. L’idea di Alinsky era che fossero necessario
puntare su un cambiamento lento e incrementale coltivando pazientemente nuovi
leader, che dopo un periodo di apprendistato sarebbero stati in grado di
radicare le strutture organizzative nelle comunità”.
[7]
- La frase completa è: “In un movimento entusiasmante e in crescita, la maggior
parte delle persone saranno completamente nuove alla politica. Non zavorrare
questi leader entusiasti con il vecchio bagaglio della nostalgia del
passato. Se non stiamo riesci a vincere con gli attivisti veterani di mille
sconfitte non è forse meglio accogliere attivisti nuovi?”
[8]
- L’argomentazione completa è: “Perché adottano una postura massimalista, e
pensano di sapere già tutto sull’attività politica, quando una forma
organizzativa efficace necessita invece di umiltà, duttilità e capacità di
adattamento rapido a uno spazio in continuo spostamento. Meglio reclutare
persone alla prima esperienza, che fare affidamento su militanti incattiviti da
mille sconfitte, e l’innumerevole serie di scissioni che ha costellato
l’evoluzione della nostra sinistra parlamentare e extraparlamentare negli
ultimi decenni. Spesso l’esperienza di lungo corso, corredata di risentimento e
di sospetto previo nell’anticipazione dell’ennesima delusione, si dimostra una
zavorra insuperabile per ogni progetto politico. Meglio allora iniziare da zero
con coloro, che magari sia pure solo per inesperienza o ingenuità, almeno
nutrono ancora qualche speranza e entusiasmo nella possibilità di cambiare le
cose”.
[9]
- Chiaramente qui il termine scelto nell’articolo,
“attivista”, indica un grado intermedio di coinvolgimento tra il votante (“base
di massa” del partito), gli iscritti ed i militanti veri e propri. Spesso indica
anche la scarsa formazione politica e l’adesione alle idee circolanti nell’ambito
politico più per una sorta di orecchiamento. La disponibilità alla militanza,
talvolta eroica, e l’odio per le discussioni che non riesce a seguire, ne fanno
un indispensabile complemento di una leadership dirigista ed isolata.
[10]
- Detto per ora in sintesi, affonda nella particolare versione del laclauismo
che è portata avanti da Chantal Mouffe, principale riferimento teorico dell’autore,
la quale depotenzia la carica critica del marito, trasformandone il post-marxismo
in una versione di liberalismo.
[11]
- La Mouffe individua una versione dell’anti-essenzialismo che condivideva con
il coniuge particolarmente radicale. Per lei quella che chiama “negatività
radicale” non può essere superata dialetticamente ed impedisce qualsiasi
elusione della contingenza. Se tutto è contingente ogni questione si riduce a
questione di egemonia, ovvero di prevalenza nella lotta per le nominazioni e le
rappresentazioni. Questa affermazione ontologica (la negatività radicale)
induce di necessità all’abbandono di ogni possibile idea di società
riconciliata e traduce, qui il punto, la forma politica antagonista (che era,
ad esempio, di Gramsci) in una forma meramente “agonistica”. Il conflitto è
sempre questione di affermazione di potere e questo risiede nella nominazione.
L’unico orizzonte residuale è quindi liberale, si tratta di lottare per la
piena affermazione della democrazia radicale. Una posizione che assomiglia
abbastanza, nella sua forma ma non nel linguaggio, all’Habermas degli anni ottanta
e novanta. Con il suo linguaggio “non si tratta mai della manifestazione di una
oggettività più profonda, esterna alle politiche che la portano all’esistenza”
(“Il conflitto democratico”, p. 22).
[12]
- Il primo Renzi, come si ricorderà, era caratterizzato da un chiarissimo
impulso populista “di centro”. Fu spinto al successo dal sommarsi di alcune
onde “in fase”, magari trovate un poco per caso (o per ‘istinto politico’): la
potente spinta verso il “nuovo”, che non deve essere stato coinvolto nei numerosi
fallimenti del passato e con l’insopportabile sensazione di impotenza che ne
promana; l’assenza di una forma definita, che non è un peso se si vuole tenersi
le mani libere e sfruttare ogni alito di vento, e che si è rivelata come complemento
indispensabile per poter effettuare quel che Laclau chiama una “catena
equivalenziale” potente, ottenendo da parte di tanti segmenti sociali diversi,
il necessario “investimento identitario” richiesto per mobilitarsi; all’inizio
anche l’umanità e la personale debolezza, che si intravede (o che viene
abilmente fatta filtrare) in un personaggio che non si presenta come “esemplare”,
come “di successo”, come “superiore”; l’aura del ‘vincente
predestinato’ che è stata costruita dai media, dalla stessa forza del percorso
dell’outsider che non viene fermato, dalla speranza disperata di trovare,
infine, una nuova apertura al futuro.
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