Su Il Manifesto,
che una volta era un giornale comunista, è pubblicato un interessante articolo
della filosofa Roberta De Monticelli[1] la
cui corposa biografia intellettuale è tutta spesa in direzione dell’approfondimento
della fenomenologia con una chiarissima ispirazione religiosa. In termini di
storia delle idee si tratta di una linea culturale illustre e pienamente
legittima, come le rivendicazioni che ne conseguono, ma, altrettanto
chiaramente, del tutto aliena alla tradizione socialista, come la chiusa dell’articolo
esprime con estrema nettezza. L’articolo va letto quindi come un cartello
stradale, si deve scegliere dove andare.
La sinistra storica vi è accusata senza mezzi termini di
cecità “all’orizzonte cosmopolitico della società giusta”; la rivendicazione
della tradizione cristiana nella costruzione europea (persino citando in
posizione strategica il riferimento di Spinelli, molto noto, ad uno dei padri
dell’ordoliberalismo tedesco) è netta, perfettamente legittima e storicamente
sostenibile. Certo, questa presa di posizione contro l’eurofederalismo di Lelio
Basso (che, richiesto, rifiuta di firmare il Manifesto per estraneità al socialismo),
di Nenni, Pertini e di Togliatti, ripetuta in modo netto negli anni cinquanta e
sessanta, e progressivamente attenuata nei settanta (per essere poi, nei
successori, rovesciata a partire dagli ottanta), e quindi di tutte le sinistre
socialiste e comuniste, è qualificata dall’autore enfaticamente come “la
tragedia”. Certo, svolge una funzione di cerniera essenziale un breve passaggio
di una lettera di Spinelli a Ropke, nella quale questi chiarisce sinteticamente
il suo abbandono del marxismo in favore del personalismo.
Tutto giusto e logico.
Potrebbe, casomai, sembrare curioso che un giornale che
si qualifica “comunista”, e viene da altra tradizione, pubblichi un articolo
che starebbe perfettamente a suo agio su “Civiltà
cattolica”. Del resto la confusione delle acque si manifesta anche nella
presenza della filosofa cattolica nel Consiglio di Presidenza di “Libertà e
Giustizia”[2], insieme a Zagrebelky,
Nadia Urbinati, Ginsborg, Veca. E, naturalmente, tutto ciò è perfettamente coerente
con le due principali linee di ispirazione dell’europeismo storico: il personalismo cattolico e il liberalismo illuminista.
L’idea di una nuova Europa, che alzi di un piano il luogo del potere, sostituendo al nazionalismo
del quale molti avevano appena fatto tragica esperienza una federazione
sovranazionale che renda impossibile la guerra (tra europei[3]),
nasce infatti da un groviglio complesso di sentimenti e incrocia linee di idee
ben più lontane, ma anche la decisiva situazione geopolitica. In questo
particolare connubio di progettualità politica, situazione di potenza e idealità
la costruzione europea prende la via trainata da intellettuali e politici di
ispirazione cristiana e spesso di fede ordoliberale, ma, storicamente, contro la resistenza delle sinistre
socialiste.
In grande sintesi si può ricordare che l’ispirazione
cristiana, e cattolica, sia quella liberale si incontrano in questo progetto
(la cui sostanza di potenza è comunque atlantica) su un punto condiviso e
comune: l’ostilità anti-statuale. In
particolare per il ruolo che questo, nel novecento, aveva avuto ovunque come
perno dello sforzo delle classi subalterne di partecipare alla distribuzione
delle ricchezze. Da una parte la cultura cristiana e cattolica è ovviamente ostile
alla redistribuzione via welfare, che depotenzia il tradizionale ruolo della
sussidiarietà e la mediazione delle associazioni sociali (Pio XI condurrà una
crociata contro la “religione secolarista” dello Stato, cercando di opporre al
trattamento politico dei bisogni sociali quello dei “vicini” e la “persona
concreta”), dall’altra anche il liberalismo punta su un Ordine de-politicizzato
e basato su regole e vincoli, in chiarissimo orientamento anti-maggioritario. Si
tratta, dunque, di un’alleanza di ex nemici, contro la pretesa delle classi
subalterne di scegliere il proprio destino. Alleanza alla quale, a partire dalla
svolta neoliberale si è aggiunta la brigata di rinforzo ex socialista, fattasi
ormai semplicemente “sinistra” (dissolvendo la vecchia distinzione tra la “sinistra
liberale”, illuminista e borghese, e il “socialismo”, illuminista e popolare).
In linea con questa tradizione di cui non può essere
sottovalutata l’influenza, la De Monticelli prende avvio indicando una coppia
che è giù scelta di campo tra “più sovranità” (democratica e nazionale) e “più
integrazione [sovranazionale] e solidarietà” (tra nazioni). L’Unione Europea è
letta quindi come passo intermedio di un “lungo, lento processo di costituzione
di una Federazione degli Stati uniti d’Europa, [che] è almeno virtualmente il
più grande e innovativo laboratorio politico del mondo”.
Con questa controfattuale affermazione l’autore
dimostra già in avvio l’astrazione e l’oggettiva funzione ideologica del suo
scritto, dato che l’Unione Europea scaturita dalla svolta neoliberale degli
anni ottanta e novanta, e definita a Maastricht, è un organismo compiuto e non
di transizione, perfettamente idoneo ad imporre l’anti-democrazia tecnocratica
vigente. Un organismo intergovernativo, nel quale un’accurata architettura di
organi pseudo-democratici inerti, come il Parlamento Europeo per il quale si vota
domenica, e potentissimi dispositivi neutralizzanti gli input politici residuali,
come la Corte di Giustizia Europea e la Bce, schermano in modo straordinariamente
efficiente la sostanza di una camera di compensazione e di imposizione di
potenza alla quale accedono, al riparo dell’opinione pubblica, solo le
cancellerie.
Ovviamente non è neppure, come invece vorrebbe, “il
vero e proprio cantiere di un edificio politico architettato dalla filosofia:
cioè dall’anima universalistica del pensiero politico, che è almeno
tendenzialmente cosmopolitica”.
Chiaramente “l’anima universalistica” di una parte
della cultura europea (o, per dirla meglio l’universalismo astratto di matrice
kantiana) è tendenzialmente cosmopolitica, coerentemente con la sua radice di
classe borghese, ma l’edificio politico concreto europeo è impastato di materia
ben più triviale e concreta della “filosofia”. E il cosmopolitismo, con tutto
il rispetto possibile, non può essere descritto imperialisticamente come “la
forma di una civiltà fondata in ragione, vale a dire, semplicemente, sulla
nostra capacità di chieder ragione agli altri e a noi stessi di ogni azione e
di ogni affermazione – e di chiederla in particolare a chi prende decisioni che
influiranno sulla vita e il destino di tutti”. Addirittura, proiettando la propria
forma di vita (inoltre la forma di poche élite disincarnate, per usare il termine di Sandel[4])
sulla natura umana, giungendo ad affermare che “la domanda di ragione e
giustificazione è quanto di più universale ci sia: è, potremmo dire,
costitutiva della mente umana, della stessa lingua umana, la sola fra i
linguaggi animali che possiede il tono e il simbolo dell’interrogativo: ‘Perché?’
Perché mi fai questo? Perché devo soffrire questo? Esser nato in un deserto, o
in una contrada afflitta da massacri e guerra, è un accidente: l’accidente
della nascita”.
L’accidente della nascita è ciò che ci fa uomini.
Nessuno nasce nel vuoto, e nessun soggetto precede i
suoi fini, o, in altre parole, può essere antecedente e indipendente dalla
propria esperienza. Ovvero da suo essere situato. Questa posizione è fondata su
un’illusione, su alcuni valori, di qualcuno, imposti a tutti tramite la postulazione
della loro universalità. È anche una concezione, lungo dall’essere “natura”,
antropologicamente e socialmente incoerente con ciò che abbiamo intorno e sotto
i piedi. L’individuo del liberalismo, che qui si interseca con la “persona”
della tradizione cattolica, dovrebbe essere, per poter essere coerente,
antecedente ai propri interessi e privo di coinvolgimenti, deve essere distinto
e poi impegnarsi in accordi di cooperazione la cui principale caratteristica è
di consolidare questa reciproca distinzione. Non sfugge la connessione di
questo ideale con la posizione esistenziale di possidenti assediati da una
massa percepita come potenzialmente ostile.
Del resto il naturalismo inconsapevolmente
imperialista, che proietta l’autrice, in linea con una radicata tradizione che
viene dall’illuminismo europeo e trova coerente applicazione nel colonialismo
sette-ottocentesco, si manifesta (segnalando la sua profonda coerenza con il
progetto europeo) ancora meglio esplicitato nel passaggio, filosoficamente
dirimente, successivo:
“Ma la capacità di chiedere ‘perché’ e di
dire ‘non è giusto’, è universale, la vediamo risvegliarsi prestissimo in ogni
infanzia umana, a qualunque latitudine. Può l’accidente della nascita
determinare il destino di un uomo? E’ lecito? E’ questa l’ultima frontiera
della domanda di giustizia, e quindi della ragione pratica. Ogni ingiustizia si
lega all’accidente della nascita: per questo nessun verbo è più normativo e
meno descrittivo, più razionale e meno fattuale di quel ‘nascono liberi e
uguali in dignità e diritti’ che definisce gli umani nel primo articolo delle
Dichiarazione Universale del ’48. La (pari) dignità: il primo dei sei valori
intorno a cui si organizza la Carta dei Diritti dell’Ue (2000), che insieme
all’ultimo – giustizia – racchiude e riassume le generazioni dei diritti e le
epoche della loro conquista: libertà (i diritti civili), eguaglianza (i diritti
politici), solidarietà (i diritti sociali) – e infine il diritto di avere dei
diritti, una cittadinanza. Che spetta in linea di principio agli umani come
tali, non agli italiani o ai turchi”.
La citazione storica al documento
redatto nell’immediato dopoguerra, in perfetta continuità con la retorica
wilsoniana, dall’assemblea della Nazioni Unite, e della Carta
dei Diritti della Ue (documento inserito nella svolta neoliberale)
meriterebbe ovviamente una trattazione specifica, ma la conclusione del nostro
autore è forzata: è ovvio che ognuno ha diritto ad una “cittadinanza”, ma quella
mondiale ancora non esiste. E il “nascono liberi ed uguali” viene interpretato
in modo molto diverso dalle diverse culture e civiltà; in effetti non esiste
solo quella nata dall’illuminismo scozzese, francese o tedesco.
Anche il suo “in linea di principio” andrebbe tradotto
piuttosto “in linea con i nostri principi
[europei]”, ma a ben vedere anche il “nostri”, designa una specifica tradizione
con ben chiare provenienze politiche e di ceto.
È chiaro che sulla base di questa provincialistica chiusura
nella cittadella assediata delle élite sprezzantemente convinte della propria
superiorità morale, la De Monticelli può quindi finire per dire che “l’anima
d’Europa è in questo senso essenzialmente cosmopolitica: nasce dall’idea più
illuminata della Modernità – che là dove c’è la selva geopolitica delle
potenze, regolata da rapporti di forza e di precario equilibrio, dovrà vivere
l’imperio della legge”.
Qui si viene subito alla più pura utopia liberale:
aspettandosi che il dominio della legge, salvaguardando la provvidenziale (in
senso proprio) mano invisibile del mercato, possa far venire meno la necessità
del potere sovrano politico (ovvero “il leviatano”).
La scelta liberale di opporre i diritti di proprietà,
e le relative ‘libertà’, all’autodeterminazione collettiva sovrana, sulla quale
è costruito lo Stato Nazionale moderno (progressivamente democratizzatosi[5]) è
rivendicata con netta forza e ricondotta, direi correttamente, al Manifesto di Ventotene.
Si tratta di uno dei testi più equivocati della storia
recente. Letto da sinistra come progetto socialista, mentre si tratta di un
documento intessuto del dialogo degli autori con il vertice della cultura liberista
ed ordoliberale a loro contemporanea (Rossi con Luigi Einaudi[6] e
Spinelli con Ropke), viene subito rigettato da Lelio Basso[7] ma
è coerente con le antecedenti proposte
di Hayek nel 1939, e ancora prima di parecchi altri scrittori liberali, spaventati
dall’espansione del welfare state a seguito della prima rivolta antimercatista
seguita al crollo del golden standard ed al ripiegamento della prima mondializzazione.
La nostra ricorda quindi l’incipit del Manifesto: “La
civiltà moderna ha posto come proprio fondamento il principio della libertà,
secondo il quale l’uomo non deve essere un mero strumento altrui, ma un autonomo centro di vita. Con questo
codice alla mano si è venuto imbastendo un grandioso processo storico a tutti
gli aspetti della vita sociale, che non lo rispettassero”.
È chiaro, a chi comprende le coppie fondative del
politico europeo moderno, quale campo si sceglie con queste parole. Infatti
viene qualificato come una versione particolarmente “profonda” di liberalismo
politico. E viene ricondotto all’autore probabilmente più importante e coerente
dell’ordoliberismo tedesco, molto ammirato anche dal nostro Luigi Einaudi,
leggiamo:
“Troppo poco si è compreso, a mio avviso,
della profondità di questa versione di liberalismo politico, che qui chiamerò,
riutilizzando questo termine in senso completamente autonomo da quelli in cui è
finora comparso, personalismo politico. Ne traluce un barlume da una lettera
che Spinelli scrisse a Wilhelm Röpke (più tardi ispiratore di Konrad Adenauer)
il 24 novembre 1943:
‘Quando sono andato in prigione io ero un
marxista ortodosso, pieno di quel fervore e intolleranza che è caratteristico
di tutti quelli che credono di aver trovato la chiave che apre tutti i segreti
(…) In prigione ho avuto modo di studiare, di riflettere, di guardare con un
certo distacco le cose degli uomini. Gli studi storici e gli avvenimenti
contemporanei dell’Italia, della Germania, della Russia mi hanno fatto comprendere
che vi era nella nostra civiltà qualcosa di molto importante che minacciava di
crollare e che bisognava, al contrario, difendere e salvare a tutti i costi:
quella che lei ha chiamato la Persönlichkheitszivilisation’”.
Tutto è stato
detto.
Il resto sono glosse, e retoriche (ma significative). La
solita diagonale allusione al disastro novecentesco (del resto è il mito
fondativo) e la reductio ad hitlerum, dei
leader popolari (ovvero populisti) espressi dalla destra sociale, in quanto la
sinistra ha da tempo abbandonato il campo. L’inconsapevole, ma brutale,
disconoscimento dell’umanità dell’altro, che non si comprende, prodromo di ogni
possibile guerra civile. Il richiamo di autorità ai “padri”.
“La civiltà della persona, cos’è?
Guardiamoci intorno. Come deve essere ridotta una democrazia in cui non è
permesso, durante una pubblica manifestazione, esporre una bandiera dalla
scritta innocua come “restiamo umani”, se sgradita ai capi-popolo di turno al
governo? Non è una bella umanità quella espressa dalle urla dei capi e del
popolo di queste piazze. Ecco cosa videro i padri iniziatori di quel processo
di costituzione degli Stati uniti d’Europa che si è inceppato”.
Dunque si viene ad identificare la propria forma
democratica (che Dahl correttamente chiamava “poliarchia”) nientedimeno che ne “l’aspetto
politico di una civiltà umanistica”, e “il” mezzo per dare seguito ad un
individualismo radicale definito come “sovranità esistenziale”, ovvero “libertà
responsabile” e plurale. Certo, anche radicato e passionale, purché non ci sia
un “politico” che dipende da un collettivo autodeterminato. Nella visione della
nostra, e dei suoi autori preferiti, la democrazia ha bisogno, cioè, di far
maturare i cittadini, non promana da essi come sono ma ne determina
normativamente la forma di esistenza. Viene lamentata “La ‘mancata rimozione’
degli ostacoli che bloccano lo sviluppo umano, cioè non soltanto economico, ma
anche morale e civile, di larghi strati di persone, minaccia le democrazie di
degenerazione illiberale, e la civiltà umanistica di implosione”.
Dunque ciò che serve è, in linea con l’intuizione spinelliana,
è la dissociazione della idea di sovranità da quella di nazione. Per costruire
una forma di democrazia molto più austera e lontana, sopranazionale, che non
sia a contatto con i caldi umori popolari, ma li possa raffreddare e
distillare. Costringerli in una forma.
La chiusa è scelta di campo:
“Forse troppo poco si è compreso, ancora
oggi, della tragedia che fu la scelta contraria al federalismo europeo, e poi
solo marginalmente filoeuropeista, delle sinistre. Della tragedia che è ancora
oggi la cecità all’orizzonte cosmopolitico della società giusta”.
Indubbiamente si è
compreso poco, ma la tragedia da
lamentare è l’adesione della sinistra attuale a questo orizzonte cosmopolita,
che la ascrive inevitabilmente al linguaggio, ai sentimenti ed alle idee della
borghesia una volta (forse) progressiva ed ora abbarbicata disperatamente ai propri
privilegi. E, con lo stesso gesto, allontana il popolo utilizzando le stesse
armi di sempre: la paura per esso ed l’esibito disprezzo.
[1] -
Roberta de Monticelli è una filosofa accademica italiana la cui biografia
intellettuale ed umana incrocia Edmund Husserl e studi in numerose città
europee. Dal 2003 insegna “filosofia della persona” all’Università cattolica “Vita-Salute
San Raffaele”, università privata fondata da don Luigi Maria Verzé nel 1996.
Nella sua biografia intellettuale ricerche su Husserl, Wittgenstein, Frege, l’ascesi
filosofica in Platone, Agostino, Hersch, Stein.
[2] -
Associazione inaugurata nel 2002 con Enzo Biagi, Umberto Eco, ed altri, ed
impegnata in numerose battaglie che articolano la sensibilità di sinistra, con
una forte ispirazione liberale.
[3] -
Mentre, con quello che sempre più appare un nazionalismo di scala superiore,
magari la prepara verso “i barbari” di turno, siano essi russi, cinesi o magari
americani. Tutto purché l’Europa torni al centro del mondo.
[4] - Su
veda, ad esempio, Michael Sandel “Il
liberalismo e i limiti della giustizia”, 1982.
[5] - Per
una sintetica presentazione si veda il recente libro di Carlo Galli “Sovranità”.
[6]
- Ne abbiamo fatto menzione in “Luigi
Einaudi, ‘Il paradosso della concorrenza’”, in esso è chiaramente
individuato da Einaudi l’obiettivo di una Confederazione di Stati nella quale
il potere sia raccolto e messo al sicuro dalla democrazia, del resto in linea
con i
progetti Hamiltoniani scriverà, infatti: “Oggi, vi è in Italia un gruppo di giovani, temprati alla dura scuola
della galera e del confino nelle isole, il quale è deliberato a mettere il
problema della federazione in testa a tutti quelli i quali debbono essere
discussi nel nostro paese. Non senza viva commozione ricevetti, durante i
lunghi trascorsi anni oscuri, una lettera scrittami dal carcere da Ernesto
Rossi, nella quale mi si ricordava l'antica lettera e mi si diceva il suo
deliberato proposito di volere operare per tradurre in realtà l'idea
federalistica. L'opera sinora si è forzatamente limitata, dentro e fuor del
confino, in Italia ed all'estero, a convegni, ad opuscoli, fogli tiposcritti e
giornaletti a stampa”.
[7] - Si
veda “Consensi
e riserve sul federalismo”, 1973.
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