Il libro di Paul
Alexander Baran è del 1957 ed è un classico del pensiero marxista americano
dello sviluppo. Il sottotitolo in italiano dell’opera è “e la teoria marxista dello sviluppo” (in inglese “The political economy of growth”) ed è una
delle matrici intellettuali della teoria dello sviluppo, ripresa da autori
fondamentali come Andre Gunder Frank[1],
Samir Amin[2],
ed in parte Giovanni Arrighi[3]. Nel
1966, due anni dopo la morte, viene pubblicata l’opera per la quale è più famoso
in Italia, ovvero “Il capitale monopolistico”,
con Paul Sweezy”.
Baran è negli anni sessanta l’unico economista di
ruolo negli Stati Uniti ad ispirarsi alla teoria marxista, è ordinario a
Stanford dal 1951 fino alla morte. Dalla sua biografia si ricava il padre
menscevico che lascia la Russia nel 1917, gli studi ed il dottorato a Berlino
nel 1933 (quando lui, nato nel 1909 ha 24 anni), quando incontra e discute con
Rudolf Hilferding, la fuga a Parigi e poi in Urss. Poco prima dell’invasione
tedesca l’arrivo negli Stati Uniti e l’iscrizione ad Harvard, il lavoro con
Galbraith e poi al Dipartimento del Commercio ed alla Fed di New York. Dal 1949
è a Stanford e collabora con Monthly
Review di Sweezy e Leo Huberman. Nel 1960, dopo questo libro, visita Cuba,
poi Mosca, l’Iran e la Jugoslavia. Mentre lavora al “Capitale Monopolistico” muore improvvisamente per un attacco di
cuore.
Questo libro, “The
political economy of growt” ha esercitato a lungo un’influenza sulle forze
anticapitaliste che operavano nei paesi in via di sviluppo, o, come Baran
preferisce scrivere “sottosviluppati”, e si inserisce a pieno titolo in una
linea genealogica di autori e saggi marxisti sull’imperialismo che vede
superare ed inglobare l’analisi marxiana del colonialismo (che pure anticipa
molti temi) con le analisi di Lenin, “L’imperialismo, fase suprema del capitalismo”,
del 1916, anticipate da John Hobson, “Imperialism, a study”, del 1902, Rudolf
Hilferding, “Il capitale finanziario”, del 1910, e
Rosa Luxemburg, “L’accumulazione del capitale”, del 1913.
Si può ricordare anche il libro di Henryk Grossmann “Il crollo del capitalismo”,
1929, che tra le controtendenze equilibranti indica il mercato mondiale, ovvero
la “ricostruzione della redditività con il dominio del mercato mondiale”, e quindi
la “funzione economica dell’imperialismo”.
Ma l’impatto più diretto il libro, oltre che sul suo
coautore Sweezy, e per questa via su O’Connor, è sulla versione novecentesca
della “teoria della dipendenza”, per
la quale non è affatto la carenza di capitalismo a provocare il sottosviluppo,
ma proprio la sua presenza. Il capitalismo, estendendo le sue pratiche di sfruttamento,
determina infatti una gerarchia di centri di sviluppo organizzati in una catena con
connessioni che rendono il sottosviluppo altra faccia necessaria dello
sviluppo. In “Il capitale monopolistico”,
in modo molto chiaro Baran e Sweezy torneranno su punto, sostenendo che il
capitalismo è un sistema internazionale che determina ognuno degli anelli
nazionali che lo compongono. Si legge: “la gerarchia delle nazioni che
costituiscono il sistema capitalistico è caratterizzata da una complessa serie
di rapporti di sfruttamento. I paesi che stanno al vertice sfruttano in varia
misura tutti gli altri e allo stesso modo i paesi che stanno ad un dato livello
sfruttano quelli che stanno più in basso, fino a che giungiamo all’ultimo paese
che non ha nessuno da sfruttare. … abbiamo dunque una rete di rapporti
antagonistici che pongono gli sfruttatori contro gli sfruttati e contro gli
altri sfruttatori” (CM, p. 152). Gli autori che animano il revival della teoria
dell’imperialismo in sudamerica sono l’economista argentino Raul Prebisch, Celso
Furtado, Hans Singer, Theotonio Dos Santos, e, ovviamente, Andre Gunder Frank,
con il suo “Capitalismo
e sottosviluppo in America Latina”, del 1967.
Un’altra linea di sviluppo della teoria dello sviluppo
ineguale (o dipendenza) è, con riferimento particolare all’Africa, quella di Samir Amin che nel 1973 pubblica “Lo
sviluppo ineguale”, muovendo anche dalla scuola geografica francese di
Perroux e dalle “scienze regionali” di Loesch, autori non marxisti. L’idea
centrale è che lo sviluppo economico non è un processo lineare nel quale
spontaneamente si realizza l’allocazione ottimale delle risorse e l’interesse
economico degli attori, ma un processo discontinuo e squilibrante nel quale si
producono diseguaglianze, e quindi potere. Ma per Amin il sottosviluppo non è
un “ritardo”, piuttosto una dominazione.
Potenzia questa linea anche Gunnar Myrdal, con il suo concetto di “causazione circolare cumulativa”, e
successivamente una linea che arriva fino a noi con autori importanti come
David Harvey, Richard Peet, Massimo Quaini, Yves Lacoste, Claude Raffestin,
Jean-Bernard Racine, Michael Storper.
Riassumiamo: può essere individuata una linea di interpretazione
marxiana che concepisce il capitalismo come sistema sociale nel quale la
valorizzazione deriva da produzione e circolazione su basi internazionali e
finanziarizzate. Questa linea radicalizza elementi di critica già presenti al
colonialismo come intrinseco all’accumulazione originaria capitalista (che non
è un momento storico ma logico), e lo inquadra come controtendenza tra le più
rilevanti per bilanciare la tendenza al crollo (ovvero alla riduzione del
saggio di profitto, con conseguente crisi). Sviluppano questa linea di critica
su segmenti diversi e con diverse accentuazioni alcuni cruciali autori all’avvio
del secolo scorso, quando il colonialismo ottocentesco sale di scala e l’imperialismo
contrapposto fa sentire venti di guerra crescenti, non per caso entro una crisi:
Hobson, Grossmann, Hilferding, Luxemburg e Lenin. Questa è la base sulla quale
nel secondo dopoguerra Paul Baran riassume elementi di analisi classica (la
nozione di “surplus”) rileggendoli alla luce della prospettiva socialista reale,
nella fase in cui appare come un successo, e inquadra una chiara e potente
concettualizzazione del “surplus potenziale” nel contesto della trasformazione
del capitalismo concorrenziale in monopolistico (già evidenziato da Hilferding
ed altri) e questo nel contesto internazionale. Ne deriva una compatta teoria
che spiega le difficoltà del modo di produzione del capitalismo monopolista, le
deformazioni (in particolare il sistema militare-industriale che è il punto di
equilibrio degli Usa del dopoguerra e prendono il testimone dal New Deal Roosveltiano)
della società e la necessità della proiezione imperiale per stabilizzare il sistema
economico. Nello spiegarlo inquadra, in aperta polemica alla “economia del
benessere”, il sottosviluppo come una necessità sistemica. Questa è la base
sulla quale, da una parte saranno sviluppare le tesi sul “capitalismo
monopolistico” di Sweezy, e negli anni settanta, diagnosticata la “crisi
fiscale dello Stato”, da O’Connor. Dall’altra si muoverà la critica allo
sviluppo di Gunder Frank, in Sudamerica, e, pur con diversi contributi, di Amin
o di Arrighi in Africa. Tutte linee di lavoro, altamente influenti nel contesto
delle tensioni della decolonizzazione degli anni sessanta, che confluiranno, quando
il richiamo di capitali brutalmente prodotto da Nixon e Volcker nel 1971 e
seguenti, da una parte, e le altrettanto brutali controrivoluzioni a guida Usa
(in primis in Cile) chiariranno gli esili spazi di manovra anche in
considerazione del ripiegamento sovietico, nella “teoria del sistema mondo”,
collettivamente elaborata dalla cosiddetta “gang dei quattro”. Gruppo che subirà,
infine, la defezione di Gunder Frank di cui abbiamo già parlato[4] e
la dissoluzione sia per morte dei protagonisti (tranne uno), sia per la presa
di centralità del paradigma globalista, più o meno mascherato. Con ciò siamo
arrivati all’oggi.
Ma torniamo al 1957.
Per Baran lo
sviluppo, oggetto primario della sua attenzione, non è una questione di
mera moltiplicazione materiale delle risorse. Al contrario “storicamente, lo
sviluppo economico ha sempre significato una vera e propria trasformazione
della struttura economica, politica e sociale della società, della
organizzazione prevalente della produzione, della distribuzione e del consumo.
Lo sviluppo economico è stato sempre promosso dalle classi e dai gruppi
interessati ad un nuovo ordine economico e sociale, ed è stato sempre
contrastato e ostacolato da coloro che sono interessati alla conservazione
dello status quo, da coloro che, abbarbicati alle strutture, alle abitudini,
alle tradizioni e alle istituzioni della società esistente, ne traggono
innumerevoli benefici oltre che il proprio modo di pensare. E' sempre stato
contrassegnato da scontri più o meno violenti, si è svolto a sbalzi attraverso
arresti ed avanzate, ha subito rovesci e guadagnato terreno - non è mai stato
un processo armonioso, svolgentesi tranquillamente nel tempo e nello spazio”. Sulla
base di questa semplice generalizzazione storica nelle prime pagine viene
ripercorsa una vertiginosa ricostruzione dell’evoluzione della scienza
economica ‘borghese’, in uno con lo sviluppo del capitalismo, che passa da
essere uno ‘sforzo intellettuale rivoluzionario’ che cercava di “scoprire e
fissare i principi operativi di un sistema economico più idoneo a far
progredire l’umanità” al diventare lo sforzo di giustificare semplicemente lo
status quo, oscurando il movimento storico.
Il rovesciamento di questa involuzione è il compito
che si assumono Marx ed Engels i quali “accettano in sostanza l’esaltazione
fatta dagli economisti classici del gigantesco contributo del capitalismo allo
sviluppo economico”, ma ne percepiscono anche i limiti e quelli che risultano
ostacoli all’ulteriore progresso connaturati al suo sviluppo. L’idea fondamentale
diventa che il sistema capitalistico, lungi dall’essere il coronamento della
storia, ha possibilità di sopravvivere solo fino a che non diviene di ostacolo
all’ulteriore progresso economico e sociale. Questa idea mette a nudo la natura
irrazionale ed antagonistica dell’ordinamento capitalistico.
Ma mentre gli economisti neoclassici si sforzavano di
modellizzare l’analisi dell’equilibrio statico dell’economia competitiva tutto
stava cambiando. Alla fine del XIX secolo, mentre Menger, Walras e Jevons, lavoravano
ai loro modelli eleganti ed astratti, la prima fase dell’industrializzazione
arrivava a compimento, producendo un’enorme espansione dell’industria pesante,
basata su fonti energetiche e tecnologie nuove (il carbone ed il vapore), ma producendo
anche un enorme processo di concentrazione e centralizzazione del capitale con
la nascita di grandi imprese dominanti. Il capitalismo concorrenziale ne uscì
distrutto e sorsero monopoli ed oligopoli, determinando al contempo rendimenti
crescenti e occasioni di investimento declinanti. Su questa base le analisi di
Hobson, Lenin, Hilferding e Rosa Luxemburg misero in evidenza una dinamica
nuova: “l’armonioso fluire del capitale dai paesi progrediti a quelli meno
sviluppati, che ci si aspettava fosse spinto dal movente del profitto, assunse
in realtà la forma di lotte esasperate per assicurarsi sbocchi per gli
investimenti, mercati e fonti di materie prime. La penetrazione occidentale nei
paesi arretrati e coloniali, che si supponeva avrebbe diffuso i benefici della
civiltà occidentale in ogni angolo sperduto del globo, significò in realtà
spietata oppressione e sfruttamento delle nazioni assoggettate” (p.18).
Ne conseguì una violenta corsa agli armamenti tra le
grandi potenze, che assorbì parti sempre maggiori dei loro prodotti nazionali,
guadagnando una crescente centralità economica. Le guerre frizionali che ne
seguirono sono: la guerra cino-giapponese, la guerra ispano-americana, la
guerra dei Boeri, la repressione della rivolta dei boxer, la guerra
russo-giapponese, la rivoluzione russa del 1905, la rivoluzione cinese del 1911-12
e, finalmente, la prima guerra mondiale.
Seguì il sogno del ‘capitalismo organizzato’, ponendo,
come dice, “Ford contro Marx”, per un decennio, ma quasi subito la “grande
depressione” dalla quale emerge la “nuova economia” di Keynes che “ha compiuto
nei riguardi dell’economia neoclassica quel che Hegel ha effettuato nei
riguardi della filosofia classica tedesca”, spingendosi ai limiti della
teorizzazione economica borghese e facendone saltare l’intera struttura. Il punto
è “il riconoscimento che l’instabilità e la forte tendenza al ristagno ed a una
cronica utilizzazione parziale delle risorse umane e materiali sono connaturate
al sistema capitalistico” (p.20). Implicitamente questa ammissione riconosce l’importanza
della struttura della società, dei rapporti di classe, della distribuzione del
reddito, e del ruolo dello Stato. Tutti fattori “esogeni” al processo economico
“puro”.
A fronte di questo quadro Baran, oppone la visione che
alla metà degli anni cinquanta si ha del sistema sovietico: un grande successo. La prova definitiva,
come scrive, “della forza e vitalità di una società socialista. Oramai non può
più mettersi in dubbio la capacità di funzionare, di svilupparsi e di superare
le prove storiche più impegnative di un sistema economico-sociale basato sulla
pianificazione economica generale – che ha eliminato il profitto privato ed è
senza l’istituto della proprietà privata dei mezzi di produzione. Quel che più
conta, un gran numero di paesi soggetti, attraverso le rivoluzioni sociali del
dopoguerra, hanno imboccato la strada di un rapido progresso economico e
sociale. l’Europa orientale e sud-orientale e, ciò ch’è anche più notevole, la
Cina, sono uscite dall’orbita del capitalismo mondiale diventando fonti di
incoraggiamento e di ispirazione per tutti gli altri paesi coloniali e
dipendenti.” (p.22)
La tesi cruciale è dunque di natura comparata: lo sviluppo offerto dall’economia
pianificata è superiore, e più socialmente equilibrato e sostenibile, di quello
possibile nella disordinata economia capitalistica nella forma monopolistica.
Scrive: “sia il consumo, sia l’investimento privato sono piuttosto rigidamente
limitati dalle esigenze del massimo profitto in condizioni di monopolio e di
oligopolio, e la natura ed il volume della spesa pubblica sono non meno
rigidamente determinati dalla base sociale e dalla funzione dello Stato in una
società capitalistica”. Dunque in un sistema capitalistico non ci si può
aspettare né il massimo prodotto, razionalmente ripartito tra investimento e
consumo, né un bilanciamento tra livello di produzione ed “attenuazione del
peso del lavoro”. Precisamente, “ciò che appare maggiormente probabile è il
continuo riproporsi dello spaventoso dilemma di scegliere tra esplosioni di
attività produttiva d’origine bellica e ondate di disoccupazione aventi cause
depressive”.
Ma la situazione nei paesi “sottosviluppati” è anche
peggiore. Qui bisogna partire dal semplice fatto, per Baran, che “lo sviluppo
economico nei paesi sottosviluppati è profondamente ostile agli interessi
dominanti nei paesi capitalistici progrediti. Rifornendo di molte importanti
materie prime i paesi industrializzati, offrendo alle loro società vasti
profitti e sbocchi d’investimento, i paesi arretrati hanno sempre rappresentato
l’indispensabile hinterland dell’occidente
capitalistico altamente sviluppato”.
Ma cosa è lo “sviluppo
economico”? Si può partire da una
definizione semplice, “l’incremento nel tempo del prodotto pro capite di beni
materiali”. Le cause possibili sono le seguenti:
1-
Utilizzazione delle risorse complessive che si espande senza che si abbiano mutamenti nell’organizzazione o
nella tecnologia (es. aumento della manodopera messa al lavoro);
2-
Aumento della produttività unitaria a seguito di modifiche organizzative (spostando da
settori meno a più produttivi, aumentando la durata della giornata lavorativa,
razionalizzando l’impiego delle risorse);
3-
La forza tecnica che cresce (sostituendo attrezzature obsolete o introducendo
nuove macchine più efficienti).
Quando si tratta di aumentare l’investimento netto è
necessario che la produzione totale della società superi il suo consumo
corrente e la sostituzione dell’attrezzatura deperita. Dunque tutto dipende dal volume e dal modo di
utilizzazione del surplus economico prodotto. Entrambi sono il risultato
dello sviluppo delle forze produttive e della struttura sociale. Determinare,
quindi, i fattori che governano volume e modo di utilizzazione del surplus è il
compito dell’Economia Politica dello
Sviluppo.
Ora bisogna capire
che cosa è il “surplus economico”.
Si tratta di un concetto ingannevole, e di difficile
determinazione anche quantitativa, ma ciò non ferma Baran, infatti a suo parere
“è senz’altro desiderabile rompere la vetusta tradizione dell’economia
accademica che preferisce sacrificare gli aspetti fondamentali dell’argomento
in esame all’eleganza del metodo analitico; è meglio trattare imperfettamente
ciò che è importante, che raggiungere le vette del virtuosismo nella
trattazione di ciò che non interessa” (p.34).
Dunque per andare oltre introduce la sua distinzione
cruciale (fondata sulla valutazione generale dell’alternativa tra economie pianificate
e non) tra:
-
“il surplus economico effettivo, ossia la
differenza tra la produzione effettiva corrente e il consumo effettivo corrente
della società”,
e
-
“il surplus economico potenziale, vale a
dire la differenza fra il prodotto che si potrebbe ottenere in un dato ambiente
naturale e tecnologico con l’ausilio delle risorse produttive impiegabili, e
ciò che si potrebbe considerare come consumo indispensabile. Chiaramente la sua
realizzazione richiede una più o meno drastica riorganizzazione della
produzione e della distribuzione del prodotto sociale, e implica mutamenti radicali
nella struttura della società”.
Ci sono sulla base si queste definizioni, in sostanza quattro
fattori che limitano il surplus potenziale:
a-
L’eccesso di
consumi, in particolare delle classi superiori,
b-
La perdita di
produzione a causa di lavoratori improduttivi,
c-
Il prodotto che si
perde a causa di organizzazioni irrazionali,
d-
Il prodotto che si
perde a causa della disoccupazione determinata dall’anarchia della produzione
capitalistica e dalla carenza della domanda effettiva.
In quella che è un’osservazione contemporaneamente
onesta e cruciale, Baran ammette che la misurazione di questo “surplus
potenziale” è resa difficile non solo da ostacoli tecnici, quanto dal semplice
fatto che la nozione stessa trascende l’ordinamento
sociale esistente, e deve essere confrontato con un’immagine “meno
facilmente percepibile”, di una “società organizzata più razionalmente”. In altre
parole, la nozione di “surplus potenziale” è connessa necessariamente con l’idea
di una società socialista, nella quale si produca il pieno dispiegamento delle
potenzialità produttive insieme al minimo dello spreco possibile.
Ad esempio, nel quadro di un’economia organizzata dal
profitto non ha senso distinguere tra “consumo essenziale” e “consumo non
essenziale”, o “lavoro produttivo e improduttivo”. Si comprende, quindi, che
introdurre la nozione di “surplus potenziale”, insieme ai suoi presupposti (consumi
inutili e lavori improduttivi) attacca le radici stesse dell’economia del
benessere e si appoggia sulle due nozioni di “livello di vita decente” e “giudizio
razionale”.
Una delle cose più difficile è comunque identificare i
“lavoratori improduttivi”, perché dalla
prospettiva proposta la semplice convenienza o efficienza di un lavoro non può
essere giudicata dalla mera valutazione del mercato. Un dato lavoro può essere
valutato molto importante, e quindi essere remunerato di conseguenza, ma essere
egualmente “improduttivo”, quindi inutile e da eliminare. Che cosa lo è? “Parlando
in maniera generalissima, questa parte improduttiva è formata da tutto quel
lavoro che ha come risultato la produzione di beni e servizi la cui domanda si
possa attribuire alle condizioni e ai rapporti specifici del sistema
capitalistico, e che sarebbe assente in una società razionalmente ordinata” (p.44).
Alcuni esempi sono molti avvocati e consulenti, esperti di pubbliche relazioni,
“membri delle forze armate, ecclesiastici”, addetti alla produzione di
armamenti, articoli di lusso, oggetti di distinzione sociale. Ma anche “agenti
pubblicitari, mediatori, mercanti, speculatori e simili”.
D’altra parte scienziati, medici, artisti, insegnanti
che vivono anche essi sul surplus economico della società sarebbero
moltiplicati ed intensificati.
Nel novero delle inefficienze organizzative rientrano,
inoltre, i giganteschi monopoli che non hanno bisogni di minimizzare i costi.
Dunque questa nozione emerge interamente dal confronto
con l’alternativa di una collettività socialista “guidata dalla ragione e dalla
scienza”, che implica “una profonda razionalizzazione dell’apparato produttivo
della società (liquidazione delle unità inefficienti, massime economie di
scala, ecc), l’eliminazione di un’eccessiva differenziazione dei prodotti, l’abolizione
del lavoro improduttivo (secondo la precedente definizione), una politica scientifica
di conservazione delle risorse umane e naturali, e così via”. Ciò non implica,
naturalmente, che se un paese dovesse raggiungere l’ottimo, aumentando la
produzione quantitativa, resti preclusa la strada di ridurla coscientemente in
favore della riduzione delle ore di lavoro e di altre dimensioni della vita. Il
punto è un altro: “l’importante è che il volume della produzione non sarebbe
determinato dal risultato casuale di un certo numero di decisioni non
coordinate di singoli uomini d’affari e di singole società, ma da un piano
razionale esprimente ciò che la società vorrebbe produrre, consumare, risparmiare
e investire in ogni dato momento” (p.55).
La teoria termina
qui.
A questo punto il resto del libro, ovvero la gran
parte, si occupa di confrontare questa concezione con il materiale storico e le
situazioni mondiali vigenti.
Nel primo excursus è ricostruito il percorso storico del capitalismo,
gli economisti classici, la lotta alle rendite nobiliari, la descrizione dello
spirito del capitalismo in Max Weber[5] e
Werner Sombart[6]. Il culto della moneta e l’ascetismo
del denaro e l’economia di equilibrio classica. Quindi la fase di crescita dei
salari e la nascita di un’economia imperniata sulle grandi società durante gli
anni venti, con, in conseguenza, la relazione tra grande impresa, monopolio e
oligopolio (p. 75).
Quindi viene descritta la situazione che si determina
in relazione ai problemi emersi con la crisi del ’29 e la rivoluzione
keynesiana.
Nel consegue una tendenza al costante deficit di
investimento nella fase monopolistica, e, in conseguenza una costante sottoccupazione.
I “santuari privilegiati” dei grandi monopoli, anche a causa di ingentissime
barriere di ingresso, per il livello degli investimenti, determina così una
tendenza dei monopoli a minimizzare e rinviare gli investimenti, procrastinare
le spese e rinunciare alla leadership sui prezzi (p.99).
Vediamo come lo riassume in un brano fulminante che
mostra i meccanismi nascenti della finanziarizzazione e della carenza di
domanda aggregata con relativa tendenza
alla stagnazione:
“Quale è il succo di questa discussione? Esso
si può brevemente sintetizzare come segue. Nella fase monopolistica dello
sviluppo capitalistico il meccanismo del pareggiamento dei saggi di profitto
funziona soltanto nel ridottissimo settore concorrenziale del sistema
economico. Qui i saggi di profitto sono esigui e la massa dei profitti
disponibili per l'investimento relativamente ridotta. Nella sfera monopolistica
e oligopolistica dell'economia i saggi di profitto sui capitali investiti sono
disuguali ma generalmente elevati e la massa dei profitti disponibili per
l'investimento prodigiosamente ampia. Ciò tende a ridurre il volume
dell'investimento globale, perché le relativamente poche imprese monopolistiche
e oligopolistiche alle quali affluisce il grosso dei profitti non trovano redditizio
reinvestirli nelle proprie imprese e trovano sempre più difficile investirli
altrove nell'economia. Quest’ultima diventa sempre più ‘pesante’ a misura
che segmenti sempre più numerosi del settore concorrenziale diventano ‘oligopolizzati’
e le possibilità di fondare nuove industrie che non facciano concorrenza alle
imprese oligopolistiche già affermate diventano più ridotte. Così in ogni data situazione il volume
dell'investimento tende ad essere minore del volume del surplus economico che sarebbe prodotto in condizioni di piena
occupazione. Esiste dunque una tendenza verso la sottoccupazione e il ristagno,
una tendenza verso la sovrapproduzione che fu esattamente individuata da Marx cento
anni fa.” (p.99)
Dunque il monopolio ha preso a divenire un fattore di regresso (mentre non lo è
sempre, o necessariamente) per la sua dominazione relativa dell’intera
economia. In termini statici questo determina una tendenza alla realizzazione
di un equilibrio di sottoccupazione. Ma una produzione stagnante determina
necessariamente una disoccupazione uniformemente crescente.
Il punto proposto da Baran, di fronte a queste dinamiche,
è che non esiste alcuna tendenza
automatica che consenta di uscirne fuori. E’ precisamente su questa convinzione
che si fonda la necessità dell’azione razionale e quindi della pianificazione. Infatti
a livello micro nessuna impresa può muoversi come ‘babbo natale’, ma dovendo
tutte quante necessariamente seguire le leggi della valorizzazione dalle quali
dipende la loro individuale esistenza si determina una contraddizione fondamentale
tra ciò che è razionale per il singolo e ciò che lo è per tutti. La composizione
delle azioni individuali sconnesse, ma orientate dalla stessa necessaria logica
e quindi coordinate, induce ad un sovrasfruttamento di alcune risorse, alla
sottoutilizzazione di altre, e alla carenza degli investimenti rispetto al
potenziale. Tutto ciò può risolversi solo “per
mezzo di cambiamenti nella struttura economico-sociale che, a loro volta, si
risolvono in cambiamenti nei costumi e nei valori, che determinano i desideri e
il comportamento degli individui” (una straordinaria sintesi della
direzione di lettura materialista della società e della direzione nella quale
leggere il nesso struttura-sovrastruttura).
Ma un impulso del genere, se non può scaturire dall’adattamento
delle azioni individuali, costrette dalla logica a breve termine della loro
individuale sopravvivenza, può emergere solo dall’azione intenzionale di un
attore collettivo che può agire a lungo termine: lo Stato.
Ne è un esempio il crollo degli anni trenta e la
risposta data dal New Deal[7],
che ha “irrimediabilmente compromesso il concetto di automatismo di mercato”
(gli anni successivi mostreranno che non era irrimediabile), coinvolgendo pure
l’industria monopolistica, che si rivolse all’azione pubblica per il suo sostegno.
I gruppi dirigenti si acconciarono alla nuova posizione ideologica, ma appena
il peggio fu passato il grande capitale riprese il sopravvento. Tutti gli elementi
sospetti, portati al potere dalla ondata populista del 1932 furono quindi sostituiti
da elementi che godevano della fiducia della grande industria, anche se il
pieno controllo fu reistituito solo dopo la guerra, con Truman e Eisenhower e
grazie alla centralità del sistema militare-industriale enormemente cresciuto
(il quale produsse l’escamotage strategico ed economico della “guerra fredda”[8]).
Da questa circostanza deriva il ferreo controllo non tanto
sulle politiche di piena occupazione, alle quali il grande capitale si è
acconciato trovandole convenienti, quanto su “il modo e i mezzi con cui l’intervento
statale deve realizzarla e mantenerla”. Lo scontro degli anni cinquanta, e
quaranta, è dunque su alcune alternative destinazioni della spesa statale,
necessaria per contrastare la tendenza del capitalismo monopolistico alla stagnazione
per effetto del sottoinvestimento; alternative che Baran elenca in questo modo:
-
la necessità o
meno di conservare una “salutare” quota di disoccupazione, o di riassorbirla in
favore della riduzione delle ore di lavoro (p.117);
-
la possibilità di
prevedere una adeguata dimensione e ritmo di sussidi individuali, che invece, dal punto del capitale non possono
essere diretti fondamentalmente al consumo individuale, in quanto assolutamente
incompatibili con il suo spirito[9]. “Questi sussidi
comportano un certo numero di ripercussioni altamente dannose per il normale
funzionamento dell’ordinamento capitalistico. I sussidi senza corrispettivo
concessi ai singoli non soltanto tenderebbero a sollevare il ‘pavimento’ sotto
il livello dei salari, fornendo al lavoratore salariato un minimo di sussistenza
indipendente dall’occupazione e modificando perciò la sua valutazione relativa
del reddito e del tempo libero; ma, ciò che forse non è meno importante, queste
entrate non guadagnate sarebbero completamente estranee al fondamentale sistema
etico ed ai valori associati al sistema capitalistico. Il principio che l’uomo
comune deve guadagnarsi il pane col sudore della fronte è il cemento di un
ordine sociale, la coesione e il funzionamento del quale dipendono da pene e
ricompense pecuniarie. Facendo diminuire la necessità di lavorare per vivere,
la distribuzione di un largo volume di beni gratuiti minerebbe inevitabilmente
la disciplina sociale della società capitalistica e indebolirebbe le posizioni
di prestigio e di controllo sociale che coronano la sua piramide gerarchica”
(p.120).
-
in alternativa i sussidi al consumo collettivo che sono
molto meno pericolosi, ad esempio le costruzioni che impattano favorevolmente
sulle industrie pesanti, fornendogli economia ‘esterne’ e determinano
condizioni di infrastrutturazione utili all’iniziativa industriale. Ma ci sono,
anche in questo caso, resistenze delle classi superiori, sia alla necessaria
tassazione per finanziarle, sia per il disturbo ad interessi costituiti. “Le
case popolari e il risanamento degli slums, per esempio, sono aspramente combattuti
dal settore della proprietà immobiliare. Inoltre, la portata di un programma
del genere è, in ogni momento, rigidamente limitata dalla capacità produttiva
dell’industria delle costruzioni”.
-
Infine la
possibilità dell’investimento in attrezzature
produttive, ovvero l’espansione dell’investimento direttamente nella
capacità produttiva; questo è l’ultimo possibile metodo di intervento statale
in quanto se non si può procedere ad una riduzione pianificata della produzione
complessiva (abbassando l’orario di lavoro ed espandendo il tempo libero), né ad
un aumento del consumo corrente, l’unico altro modo di riallineare produzione e
consumo, risolvendo la tendenza al sottoinvestimento, è operarlo direttamente. In
questo modo “l’utilizzazione globale della produzione potrebbe portarsi al
livello dell’offerta globale in condizioni di piena occupazione”. Ma “di tutti
i concepibili metodi di spesa governativa, questo è l’unico assolutamente tabù
in regime di capitale monopolistico”. Se l’industria monopolistica non può
investire essa stessa i suoi profitti esuberanti non può tollerare che questi
vengano presi dallo Stato ed investiti da esso. Lo Stato può investire solo,
casomai, in settori lontani dallo sfruttamento commerciale, soprattutto se
serve ad aprire nuovi mercati correndo i rischi relativi.
-
La quinta possibilità sono le spese improduttive. Queste sono le più praticate e sono connesse con le
relazioni internazionali. Questa area di intervento è connessa intimamente con
il commercio estero che nella fase monopolistica si espande enormemente. Il tradizionale
limite posto dalla bilancia dei pagamenti internazionali, infatti, riesce ad
essere aggirato dalla grande impresa monopolistica che ha un interesse vitale a
diversificare i suoi mercati e garantirsi l’accesso alle materie prime
(precludendola alle altre). Le grandi imprese hanno leve indisponibili alle
piccole imprese concorrenziali, tra queste le aperture di credito, l’influenza sulla
politica locale dei paesi dai quali trarre le esportazioni di materie prime o l’importazione
dei propri prodotti, gli investimenti diretti, sia pure ostacolati da una serie
di fattori che invitano alla prudenza. Fattori che possono essere contenuti (in
particolare il rischio politico di rivoluzioni, nazionalizzazioni, movimenti
intenzionali dei cambi, dazi, etc.) grazie all’appoggio esplicito del proprio
paese, nei confronti della cui politica interna come estera essa esercita un
qualche controllo. Ciò si può spingere dalla pressione finanziaria a quella
militare, in questo modo “la concorrenza
fra gli oligopolisti nell’arena mondiale diventa, in misura sempre maggiore,
una gara di potenza tra i paesi imperialisti”.
Questa organizzazione economico-sociale nel suo
complesso condiziona il pubblico, i principali funzionari, i legislatori, i
leaders intellettuali, alle politiche dell’imperialismo. Come scriveva Hobson in
essa agiscono moventi finanziari ed industriali di gruppi ben precisi che si
assicurano l’attiva cooperazione della politica, ma anche l’appoggio di massa
garantito dagli appelli alla missione di civiltà della nazione (tradotti per lo
più, oggi, in appelli per la missione civilizzatrice della civiltà europea e
della sua forma politica) e speculando sugli “istinti primitivi della razza”. A
queste considerazioni Baran aggiunge il semplice fatto che questa politica
predatoria, su cui dirà meglio in seguito, è obiettivamente anche nell’interesse
materiale dell’uomo comune nei paesi imperialisti. Agli extra-profitti delle
imprese monopoliste partecipano infatti in tanti, contribuendo grandemente all’imborghesimento
anche delle “aristocrazie operaie”.
La questione è molto larga, e va anche oltre agli effetti
immediati delle attività economiche estere:
“i prestiti e i crediti ai così detti
governi amici di paesi dipendenti, le spese per l’apparato militare necessario
per ‘proteggere’ certi territori o per imporre certe politiche all’estero, le
spese per l’apparato irregolare destinato ad organizzare la propaganda, a sovversione
e lo spionaggio tanto nei territori soggetti che negli altri paesi imperialisti
concorrenti o ‘incerti’, assumono complessivamente dimensioni prodigiose. Sebbene
assorbano una larga quota del prodotto nazionale lordo, che negli Stati Uniti
per l’ultimo decennio si aggira in media intorno al 20%, la loro importanza non
si riflette interamente neppure in questa percentuale. Essa può diventare più
evidente quando si comprende che la quota del surplus economico che è assorbito
da queste spese è sostanzialmente maggiore. Così l’incidenza di questa forma di
utilizzazione del surplus economico sul livello del reddito e dell’occupazione
in un paese capitalistico progredito trascende di gran lunga l’effetto
generatore di reddito o di occupazione delle stesse attività economiche estere.
Quest’ultimo ha in realtà un’importanza soltanto secondaria rispetto al primo:
un masso erratico che mette in movimento un’enorme valanga.
Il fatto che i mezzi della politica
imperialista oscurino quasi completamente i suoi fini originari ha conseguenza
di enorme importanza. provvedendo un ampio sbocco per l’esuberante surplus
economico, questa stesa per gli strumenti della politica imperialista diventa
la forma principale delle ‘esaurienti spese’ statali, il nucleo centrale dell’intervento
statale a favore della ‘piena occupazione’. Invero questa forma di spesa
statale è l’unica pienamente accettabile al capitale monopolistico”. (p.133)
Su questa linea Baran produce un attacco anche alla
forma più ‘raffinata’ di questa impostazione, ovvero ai teorici keynesiani a
lui contemporanei (non a caso a volte questa pratica viene chiamata “keynesismo
militare”) che giustificano un enorme sperpero di risorse umane e materiali
grazie alla valorizzazione di un mero sottoprodotto: l’aumento dell’investimento.
Quindi sviluppa l’argomento, usato dopo di lui anche dai neoliberali, che
queste politiche sono come gli stupefacenti: ci si adatta e ce ne vuole sempre
di più. Infatti lo sperpero sistematico, nei termini delle sue definizioni, di
una quota adeguata di surplus economico per scopi militari, o per creare abbondanti
riserve, per moltiplicare i lavoratori improduttivi è proprio come uno stupefacente
anche se nell’immediato fornisce il necessario ‘impulso esterno’ per porre
rimedio alle depressioni e calma il dolore. Dura poco e a lungo andare aggrava
le condizioni.
Queste tensioni aggravano la situazione, dato che il
grosso della spesa pubblica si risolve in forniture militari e di simili “beni”
improduttivi, e provocano il continuo aumento del deficit delle spese pubbliche
e una continua minaccia di inflazione. Ciò amplia la frattura tra gli interessi
dei creditori e dei debitori, espropria i nuovi ceti medi ed i rentiers,
sgretola la coesione sociale. Insomma, alla fine vincono solo quelli che “fanno
i prezzi”, e perdono quelli che “subiscono i prezzi” (p.140).
In base a tutti questi meccanismi la stabilità del
capitalismo monopolistico è precaria, appare incapace di perseguire una genuina
politica di piena occupazione e di progresso economico.
Dal capitolo quinto il libro di Paul Baran si occupa
dell’altra metà del sistema capitalistico monopolistico: il ‘mondo libero’ ma sottosviluppato. Come aveva fatto per i paesi
sviluppati a tal fine si concentra sulle sue ‘leggi di movimento’ facendo
astrazione dalle particolarità dei singoli casi e quindi concentrandosi sulle
caratteristiche comuni ed essenziali.
Ma bisogna fare un passo indietro: la nuda impalcatura
dello sviluppo è visibile osservando tre processi distinti, anche se
interdipendenti che si sono storicamente dati nello sviluppo occidentale:
1-
Un lento aumento
della produzione agricola con la nascita di una forza lavoro industriale;
2-
La divisione del
lavoro;
3-
L’accumulazione
primitiva nei ceti mercantili.
Quindi la formazione del capitale in qualche modo
sgorga dalla ricchezza mercantile ed usuraia.
Nei paesi sottosviluppati, però, l’entrata in contatto
con i più potenti paesi sviluppati (questi squilibrio di potenza nel quale
avviene lo scambio ed il contatto è il punto centrale dell’analisi di Samir
Amin) avviene nella forma del puro e semplice saccheggio, o tramite forme di
colonialismo che costringono i paesi sottomessi a dedicare il loro surplus
secondo priorità esogene, alle infrastrutture che servono alle esportazioni dirette
dal capitale estero. In questo modo, di fatto, lo sviluppo viene deviato e
mutilato dall’imperialismo occidentale.
Il miglior esempio di tutto questo è la raffinata e
spietata spoliazione sistematica operata dagli inglesi in India. Una catastrofe
che produsse danni enormi ancora persistenti (p.163).
Diverso è, invece, il caso del Giappone, dove una
rivoluzione locale, mossa da una coalizione di gruppi sociali eterogenei rovescerà
l’antico regime favorendo una autonoma transizione a forme capitaliste. Qui la
fonte principale dell’accumulazione primitiva è il villaggio “che nel corso di
tutta la sua storia moderna ebbe, per il capitalismo giapponese, la funzione di
colonia interna” (p.170). Il capitalismo emerse in modo autonomo perché lo
Stato costrinse la borghesia mercantile ad investire sullo sviluppo industriale,
grazie anche alla circostanza fortunata della contingente debolezza del quadro
imperialista occidentale in quell’area.
Attraverso questi pochi esempi Baran intende mostrare
le forze che hanno plasmato il destino del mondo sottosviluppato e mostrare che esse esercitano la stessa
potente influenza sul suo presente. Tramite questa influenza l’ordinamento
capitalistico ha rappresentato un sostegno potente per il ristagno economico, la
conservazione di tecnologie arcaiche e l’arretratezza sociale. La
caratteristica del sottosviluppo si vede in particolare nel modo di
utilizzazione del surplus economico, che viene per lo più impiegato per consumi
di lusso e identitari importati dai paesi sviluppati e verso i quali si
conserva una qualche soggezione non solo materiale. Persino le riforme agrarie
possono essere neutralizzate da queste classi parassitarie “compradores”, che “per
loro natura sono nemiche dello sviluppo progressivo”. In molti paesi (viene fatto
l’esempio storico della Cina), una pletorica classe di intermediari in drastica
concorrenza reciproca, causano un costante drenaggio che inibisce l’accumulazione
capitalistica, diffondendo le risorse in piccole mani. In altre parole, una
struttura sociale e di potere impedisce la fuoriuscita del capitale dalla sfera
della circolazione e quindi il suo ingresso in quella della produzione
industriale.
Ciò non necessariamente significa che nei paesi
soggetti al giogo coloniale non si sia prodotta una qualche divisione del
lavoro, e la fuoriuscita dalle forme economiche precapitaliste, ma di fatto
implica che questa divisione del lavoro “assomiglia alla divisione di funzioni che
si manifesta tra cavallo e cavaliere”. In sostanza il paese diventa inesorabilmente
“una appendice del mercato interno occidentale” (p. 189), stimolando in un
certo senso lo sviluppo, ma in occidente, e spegnendo invece la scintilla di
questo nei paesi sottosviluppati.
Quel che si provoca, sapendo che “l’investimento è
generato dall’investimento” è quindi uno sviluppo distorto, dove l’iniziativa
estera è responsabile di buona parte della produzione, e le infrastrutture sono
prodotte solo a suo servizio. Riprendendo e contrastando gli argomenti degli economisti
dello sviluppo Baran propone, quindi, i seguenti punti:
1-
l’investimento estero è molto meno importante di
quanto viene descritto, perché si tratta
a ben vedere per lo più di investimenti modesti in natura e sempre a vantaggio
del paese estero stesso (dove quasi tutto, dalle attrezzature al lavoro
qualificato, è acquistato in patria e non nel paese di destinazione);
2-
le attività correnti
messe in movimento dall’investimento sono solo una piccola parte del reddito,
in quanto la maggior parte dei profitti è estratta e riportata nei paesi sviluppati;
3-
vie è di peggio,
una parte del surplus è reinvestito e l’economia
locale diventa sempre più intrecciata e dipendente da quella estera, si
specializza e così diventa fragile. In altre parole, “una specializzazione
interna e internazionale, organizzata in modo che un partecipante si
specializza nell’indigenza mentre l’altro si assume il ‘fardello’ dell’uomo
bianco di raccogliere i profitti, può difficilmente considerarsi una sistemazione
soddisfacente per il raggiungimento della massima felicità per il maggior
numero di persone”.
4-
Anche gli investimenti
in infrastrutture, porti, ferrovie, strade, sono un ambiguo dono, perché bisogna
chiedersi “a chi servono”? Rischiano di essere delle cattedrali nel deserto,
del tutto inutili alla vita economica diversificata locale, ma utili a facilitare
la specializzazione e la sottrazione di
risorse naturali. Questi investimenti sono in sostanza corpi estranei
artificialmente innestati che non possono dare seguito ad uno sviluppo autonomo
perché non sono stati pensati, dimensionati, localizzati per questo. In effetti
per lo più servono ad accelerare la disintegrazione dell’economia ed
impediscono la crescita autonoma.
Questa situazione è utilizzata dagli elementi ‘compradores’
della locale borghesia che, a volte controllando i monopoli interni, temono l’ascesa
del capitale industriale autoctono. Si forma, quindi, “una coalizione politica
e sociale tra ricchi compradores, potentissimi monopolisti e grandi proprietari
terrieri rivolta alla difesa dell’esistente ordinamento”.
Tramite questi meccanismi, dall’epoca del primo
colonialismo, il saccheggio è stato razionalizzato e passa ora per la fredda razionalità del commercio e dei
contratti. Ma lo scopo resta lo stesso: “impedire, o se ciò è impossibile,
rallentare e controllare lo sviluppo economico dei paesi sottosviluppati”, perché
lo sviluppo porta necessariamente ad una riduzione dei profitti.
A questo punto viene compiuta una carrellata della
situazione dei principali paesi sottosviluppati: in Asia, Medio Oriente (dove
le spese voluttuarie delle élite assorbono i profitti del petrolio), Venezuela
(dove avviene lo stesso, appena in misura minore), Cile, Egitto, India.
In conclusione quel che manca ai paesi in “sottosviluppati” non è
affatto il capitale, ma la possibilità di utilizzare il proprio surplus economico
effettivo, dato che viene assorbito dalle élite ‘compradore’ e speso per importazioni
voluttuarie o tesaurizzato all’estero. Anche lo svantaggio delle ragioni di scambio (enfatizzato da Gunder
Frank) conta, ma è, per Baran, alla fine un elemento dubbio, quel che conta molto
più è chi si prende i soldi e cosa ne fa.
Dunque alla fine il sistema capitalistico, che una
volta era un potente strumento di sviluppo economico, si è trasformato in un
freno, del progresso umano. Il capitalismo, nella fase monopolistica, è cioè in
bancarotta morale.
Resta alla fine solo la prospettiva del socialismo per
contribuire alla nascita di una nuova società, nella quale le condizioni di
vita che circondano gli uomini e che finora li hanno dominati possa “passare
ora sotto il dominio ed il controllo degli uomini che adesso, per la prima
volta, diventano coscienti ed effettivi padroni della natura, perché e in
quanto diventano padroni della loro propria organizzazione della società”
(p.283).
Non manca neppure una forma di universalismo, che
fornisce una versione socialista del cosmopolitismo borghese: “in una comunità
socialista progredita la collaborazione fra i paesi partecipati andrà molto
avanti, fino ad assumere una nuova fisionomia. Man mano che l'epoca del
capitalismo sparirà all'orizzonte, entrando a far parte della 'preistoria
dell'umanità', una delle sue eredità più rilevanti incomincerà a sparire dalla
scena della storia. Il fenomeno economico e politico della nazione seguirà
lentamente, ma sicuramente, il declino dell'ordinamento economico e sociale al
quale esso deve la sua genesi e cristallizzazione” (p.310).
Certo le condizioni di questo ottenimento utopico sono
il superamento della legge del valore, e presuppongono la creazione di un tipo
umano abituato ai doveri di una società di cooperazione socialista, anziché alla
lotta fratricida nel mercato capitalistico.
Sarà questo, in un certo senso, il punto nel quale,
tramontata la speranza sovietica, si orienteranno le energie utopiche della “gang
dei quattro”, e dopo la fine del millennio divergeranno. Come abbiamo visto
seguendo la parabola di Gunder Frank da una parte si troveranno coloro i quali
continueranno a puntare sul “delinking” (la disconnessione che era stata la
parola d’ordine, diversamente declinata, fino ai traumi degli anni settanta),
come Samir Amin e Hosea Jaffe, dall’altra Arrighi, che punterà prima sul
Giappone e poi sulla Cina per immaginare una transizione di potenza allargante
in grado di uscire dalla mondializzazione imperiale statunitense, ed infine,
appunto, l’ultimo Gunder Frank[10]
che, pur puntando un poco confusamente sui “movimenti” per salvare un residuo
di energia utopica, propone di riconoscere l’interconnessione e la dipendenza
delle parti dal tutto come la fisiologia del mondo (una sorta di
positivizzazione della vecchia lezione del suo maestro, Baran, ambiguamente
fusa con quella dell’altro maestro, Milton Friedman), dal quale deriva da una
parte una radicale confutazione dell’eurocentrismo (in questo simile a quella
di Hosea Jaffe) ma dall’altra la “totalità mondiale” dissolve la dialettica tra
“centri” e “periferie” e la stessa nozione di “capitalismo”. Ne deriva “la
morte della dipendenza”, non come diagnosi, ma come prescrizione.
Ma, però ora siamo nel 1957, la sconfitta deve ancora
darsi e lo spirito dei ‘lumi’ è ancora vivo; Paul Baran cerca, come faranno
sempre Amin ed Arrighi, di trovare discontinuità e differenze e non continuità
in un tutto che non si può cambiare. Nelle ultime pagine va molto oltre l’economia
e il mondano, e quindi possiamo chiudere questa lettura con esse:
“contribuire alla nascita di una società
in cui lo sviluppo sostituirà il ristagno, il progresso prenderà il posto della
decadenza; in cui la cultura metterà fine alla barbarie, è la più nobile, e invero
l’unica funzione dello sforzo intellettuale. L’esigenza di far trionfare la
ragione sul mito, la vita sulla morte, non può dimostrarsi per deduzione
logica. Come ha detto una volta un grande fisico, ‘la sola logica è incapace di
portarci oltre i confini delle nostre percezioni; essa non è neppure capace di
costringerci a riconoscere l’esistenza del nostro prossimo’. Questa esigenza
deve basarsi sulla proposizione che il diritto dell’umanità alla vita, allo
sviluppo e alla felicità non ha bisogno di alcuna giustificazione. Essa cade o
si regge con questa proposizione. La quale, tuttavia, è l’unica sua
indimostrabile e irrefutabile premessa”.
[1]
- Di cui abbiamo letto il libro del 1967 “Capitalismo
e sottosviluppo in America Latina”, quello successivo, del 1969, “America
Latina: sottosviluppo o rivoluzione”, e “Per
una storia orizzontale della globalizzazione”.
[2]
- Di cui abbiamo letto, “Lo
sviluppo ineguale”, “La
crisi”, “Oltre
la mondializzazione”, “Per
un mondo multipolare”, “Il
virus liberale”.
[3]
- Di cui abbiamo letto, “Caos
e governo del mondo”, ed “Il
lungo XX secolo”.
[4]
- A partire da “Re-Oriented”, nel
1999. In “Per
una storia orizzontale della globalizzazione”, parte II.
[5]
- Si veda Max Weber, “L’etica
protestante e lo spirito del capitalismo”, 1904.
[6]
- Cfr. Werner Sombart, “Il
capitalismo moderno”, 1902.
[7]
- Su cui si veda, Kiran Patel , “Il
New Deal”
[8]
- La guerra fredda emerge come necessità sistemica interna del sistema produttivo
statunitense anche prima che si imponga per effetto della presunta “minaccia”
sovietica (sulla quale la direzione dell’Urss tenta di mettere la sordina). L’equilibrio
economico e sociale si era infatti abituato alla stimolazione del New Deal e
quello della guerra stessa, e la massima preoccupazione di quegli anni di
transizione diventa l’incubo della ricaduta nella crisi-stagnazione degli anni
trenta. Soccorre il piano di aiuti all’Europa e quindi, in una staffetta perfetta
la guerra fredda, la quale impone un vincolo esterno alla spesa in grado di
piegare le resistenze dei settori del capitale che, ben rappresentati nel
Congresso, avrebbero voluto magari tornare ad una economia “normale” e non dirigista.
[9]
- La nozione di “spirito del capitalismo” rinvia alla elaborazione di Weber e
Sombart, ma anche a importanti testi come Alberti Hirschman “Le
passioni e gli interessi”, 1975, ed al frammento di Walter Benjamin “Il
capitalismo come religione” del 1921, o al capolavoro di Polanyi “La
grande trasformazione”.
[10]
- Si veda “Per
una storia orizzontale della globalizzazione” Parte III.
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