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lunedì 27 maggio 2019

Paul Baran, “Il ‘surplus’ economico”




Il libro di Paul Alexander Baran è del 1957 ed è un classico del pensiero marxista americano dello sviluppo. Il sottotitolo in italiano dell’opera è “e la teoria marxista dello sviluppo” (in inglese “The political economy of growth”) ed è una delle matrici intellettuali della teoria dello sviluppo, ripresa da autori fondamentali come Andre Gunder Frank[1], Samir Amin[2], ed in parte Giovanni Arrighi[3]. Nel 1966, due anni dopo la morte, viene pubblicata l’opera per la quale è più famoso in Italia, ovvero “Il capitale monopolistico”, con Paul Sweezy”.  
Baran è negli anni sessanta l’unico economista di ruolo negli Stati Uniti ad ispirarsi alla teoria marxista, è ordinario a Stanford dal 1951 fino alla morte. Dalla sua biografia si ricava il padre menscevico che lascia la Russia nel 1917, gli studi ed il dottorato a Berlino nel 1933 (quando lui, nato nel 1909 ha 24 anni), quando incontra e discute con Rudolf Hilferding, la fuga a Parigi e poi in Urss. Poco prima dell’invasione tedesca l’arrivo negli Stati Uniti e l’iscrizione ad Harvard, il lavoro con Galbraith e poi al Dipartimento del Commercio ed alla Fed di New York. Dal 1949 è a Stanford e collabora con Monthly Review di Sweezy e Leo Huberman. Nel 1960, dopo questo libro, visita Cuba, poi Mosca, l’Iran e la Jugoslavia. Mentre lavora al “Capitale Monopolistico” muore improvvisamente per un attacco di cuore.




Questo libro, “The political economy of growt” ha esercitato a lungo un’influenza sulle forze anticapitaliste che operavano nei paesi in via di sviluppo, o, come Baran preferisce scrivere “sottosviluppati”, e si inserisce a pieno titolo in una linea genealogica di autori e saggi marxisti sull’imperialismo che vede superare ed inglobare l’analisi marxiana del colonialismo (che pure anticipa molti temi) con le analisi di Lenin, “L’imperialismo, fase suprema del capitalismo”, del 1916, anticipate da John Hobson, “Imperialism, a study”, del 1902, Rudolf Hilferding, “Il capitale finanziario”, del 1910, e Rosa Luxemburg, “L’accumulazione del capitale”, del 1913. Si può ricordare anche il libro di Henryk Grossmann “Il crollo del capitalismo”, 1929, che tra le controtendenze equilibranti indica il mercato mondiale, ovvero la “ricostruzione della redditività con il dominio del mercato mondiale”, e quindi la “funzione economica dell’imperialismo”.
Ma l’impatto più diretto il libro, oltre che sul suo coautore Sweezy, e per questa via su O’Connor, è sulla versione novecentesca della “teoria della dipendenza”, per la quale non è affatto la carenza di capitalismo a provocare il sottosviluppo, ma proprio la sua presenza. Il capitalismo, estendendo le sue pratiche di sfruttamento, determina infatti una gerarchia di centri di sviluppo organizzati in una catena con connessioni che rendono il sottosviluppo altra faccia necessaria dello sviluppo. In “Il capitale monopolistico”, in modo molto chiaro Baran e Sweezy torneranno su punto, sostenendo che il capitalismo è un sistema internazionale che determina ognuno degli anelli nazionali che lo compongono. Si legge: “la gerarchia delle nazioni che costituiscono il sistema capitalistico è caratterizzata da una complessa serie di rapporti di sfruttamento. I paesi che stanno al vertice sfruttano in varia misura tutti gli altri e allo stesso modo i paesi che stanno ad un dato livello sfruttano quelli che stanno più in basso, fino a che giungiamo all’ultimo paese che non ha nessuno da sfruttare. … abbiamo dunque una rete di rapporti antagonistici che pongono gli sfruttatori contro gli sfruttati e contro gli altri sfruttatori” (CM, p. 152). Gli autori che animano il revival della teoria dell’imperialismo in sudamerica sono l’economista argentino Raul Prebisch, Celso Furtado, Hans Singer, Theotonio Dos Santos, e, ovviamente, Andre Gunder Frank, con il suo “Capitalismo e sottosviluppo in America Latina”, del 1967.
Un’altra linea di sviluppo della teoria dello sviluppo ineguale (o dipendenza) è, con riferimento particolare all’Africa, quella di Samir Amin che nel 1973 pubblica “Lo sviluppo ineguale”, muovendo anche dalla scuola geografica francese di Perroux e dalle “scienze regionali” di Loesch, autori non marxisti. L’idea centrale è che lo sviluppo economico non è un processo lineare nel quale spontaneamente si realizza l’allocazione ottimale delle risorse e l’interesse economico degli attori, ma un processo discontinuo e squilibrante nel quale si producono diseguaglianze, e quindi potere. Ma per Amin il sottosviluppo non è un “ritardo”, piuttosto una dominazione. Potenzia questa linea anche Gunnar Myrdal, con il suo concetto di “causazione circolare cumulativa”, e successivamente una linea che arriva fino a noi con autori importanti come David Harvey, Richard Peet, Massimo Quaini, Yves Lacoste, Claude Raffestin, Jean-Bernard Racine, Michael Storper.

Riassumiamo: può essere individuata una linea di interpretazione marxiana che concepisce il capitalismo come sistema sociale nel quale la valorizzazione deriva da produzione e circolazione su basi internazionali e finanziarizzate. Questa linea radicalizza elementi di critica già presenti al colonialismo come intrinseco all’accumulazione originaria capitalista (che non è un momento storico ma logico), e lo inquadra come controtendenza tra le più rilevanti per bilanciare la tendenza al crollo (ovvero alla riduzione del saggio di profitto, con conseguente crisi). Sviluppano questa linea di critica su segmenti diversi e con diverse accentuazioni alcuni cruciali autori all’avvio del secolo scorso, quando il colonialismo ottocentesco sale di scala e l’imperialismo contrapposto fa sentire venti di guerra crescenti, non per caso entro una crisi: Hobson, Grossmann, Hilferding, Luxemburg e Lenin. Questa è la base sulla quale nel secondo dopoguerra Paul Baran riassume elementi di analisi classica (la nozione di “surplus”) rileggendoli alla luce della prospettiva socialista reale, nella fase in cui appare come un successo, e inquadra una chiara e potente concettualizzazione del “surplus potenziale” nel contesto della trasformazione del capitalismo concorrenziale in monopolistico (già evidenziato da Hilferding ed altri) e questo nel contesto internazionale. Ne deriva una compatta teoria che spiega le difficoltà del modo di produzione del capitalismo monopolista, le deformazioni (in particolare il sistema militare-industriale che è il punto di equilibrio degli Usa del dopoguerra e prendono il testimone dal New Deal Roosveltiano) della società e la necessità della proiezione imperiale per stabilizzare il sistema economico. Nello spiegarlo inquadra, in aperta polemica alla “economia del benessere”, il sottosviluppo come una necessità sistemica. Questa è la base sulla quale, da una parte saranno sviluppare le tesi sul “capitalismo monopolistico” di Sweezy, e negli anni settanta, diagnosticata la “crisi fiscale dello Stato”, da O’Connor. Dall’altra si muoverà la critica allo sviluppo di Gunder Frank, in Sudamerica, e, pur con diversi contributi, di Amin o di Arrighi in Africa. Tutte linee di lavoro, altamente influenti nel contesto delle tensioni della decolonizzazione degli anni sessanta, che confluiranno, quando il richiamo di capitali brutalmente prodotto da Nixon e Volcker nel 1971 e seguenti, da una parte, e le altrettanto brutali controrivoluzioni a guida Usa (in primis in Cile) chiariranno gli esili spazi di manovra anche in considerazione del ripiegamento sovietico, nella “teoria del sistema mondo”, collettivamente elaborata dalla cosiddetta “gang dei quattro”. Gruppo che subirà, infine, la defezione di Gunder Frank di cui abbiamo già parlato[4] e la dissoluzione sia per morte dei protagonisti (tranne uno), sia per la presa di centralità del paradigma globalista, più o meno mascherato. Con ciò siamo arrivati all’oggi.



Ma torniamo al 1957.  

Per Baran lo sviluppo, oggetto primario della sua attenzione, non è una questione di mera moltiplicazione materiale delle risorse. Al contrario “storicamente, lo sviluppo economico ha sempre significato una vera e propria trasformazione della struttura economica, politica e sociale della società, della organizzazione prevalente della produzione, della distribuzione e del consumo. Lo sviluppo economico è stato sempre promosso dalle classi e dai gruppi interessati ad un nuovo ordine economico e sociale, ed è stato sempre contrastato e ostacolato da coloro che sono interessati alla conservazione dello status quo, da coloro che, abbarbicati alle strutture, alle abitudini, alle tradizioni e alle istituzioni della società esistente, ne traggono innumerevoli benefici oltre che il proprio modo di pensare. E' sempre stato contrassegnato da scontri più o meno violenti, si è svolto a sbalzi attraverso arresti ed avanzate, ha subito rovesci e guadagnato terreno - non è mai stato un processo armonioso, svolgentesi tranquillamente nel tempo e nello spazio”. Sulla base di questa semplice generalizzazione storica nelle prime pagine viene ripercorsa una vertiginosa ricostruzione dell’evoluzione della scienza economica ‘borghese’, in uno con lo sviluppo del capitalismo, che passa da essere uno ‘sforzo intellettuale rivoluzionario’ che cercava di “scoprire e fissare i principi operativi di un sistema economico più idoneo a far progredire l’umanità” al diventare lo sforzo di giustificare semplicemente lo status quo, oscurando il movimento storico.
Il rovesciamento di questa involuzione è il compito che si assumono Marx ed Engels i quali “accettano in sostanza l’esaltazione fatta dagli economisti classici del gigantesco contributo del capitalismo allo sviluppo economico”, ma ne percepiscono anche i limiti e quelli che risultano ostacoli all’ulteriore progresso connaturati al suo sviluppo. L’idea fondamentale diventa che il sistema capitalistico, lungi dall’essere il coronamento della storia, ha possibilità di sopravvivere solo fino a che non diviene di ostacolo all’ulteriore progresso economico e sociale. Questa idea mette a nudo la natura irrazionale ed antagonistica dell’ordinamento capitalistico.

Ma mentre gli economisti neoclassici si sforzavano di modellizzare l’analisi dell’equilibrio statico dell’economia competitiva tutto stava cambiando. Alla fine del XIX secolo, mentre Menger, Walras e Jevons, lavoravano ai loro modelli eleganti ed astratti, la prima fase dell’industrializzazione arrivava a compimento, producendo un’enorme espansione dell’industria pesante, basata su fonti energetiche e tecnologie nuove (il carbone ed il vapore), ma producendo anche un enorme processo di concentrazione e centralizzazione del capitale con la nascita di grandi imprese dominanti. Il capitalismo concorrenziale ne uscì distrutto e sorsero monopoli ed oligopoli, determinando al contempo rendimenti crescenti e occasioni di investimento declinanti. Su questa base le analisi di Hobson, Lenin, Hilferding e Rosa Luxemburg misero in evidenza una dinamica nuova: “l’armonioso fluire del capitale dai paesi progrediti a quelli meno sviluppati, che ci si aspettava fosse spinto dal movente del profitto, assunse in realtà la forma di lotte esasperate per assicurarsi sbocchi per gli investimenti, mercati e fonti di materie prime. La penetrazione occidentale nei paesi arretrati e coloniali, che si supponeva avrebbe diffuso i benefici della civiltà occidentale in ogni angolo sperduto del globo, significò in realtà spietata oppressione e sfruttamento delle nazioni assoggettate” (p.18).
Ne conseguì una violenta corsa agli armamenti tra le grandi potenze, che assorbì parti sempre maggiori dei loro prodotti nazionali, guadagnando una crescente centralità economica. Le guerre frizionali che ne seguirono sono: la guerra cino-giapponese, la guerra ispano-americana, la guerra dei Boeri, la repressione della rivolta dei boxer, la guerra russo-giapponese, la rivoluzione russa del 1905, la rivoluzione cinese del 1911-12 e, finalmente, la prima guerra mondiale.

Seguì il sogno del ‘capitalismo organizzato’, ponendo, come dice, “Ford contro Marx”, per un decennio, ma quasi subito la “grande depressione” dalla quale emerge la “nuova economia” di Keynes che “ha compiuto nei riguardi dell’economia neoclassica quel che Hegel ha effettuato nei riguardi della filosofia classica tedesca”, spingendosi ai limiti della teorizzazione economica borghese e facendone saltare l’intera struttura. Il punto è “il riconoscimento che l’instabilità e la forte tendenza al ristagno ed a una cronica utilizzazione parziale delle risorse umane e materiali sono connaturate al sistema capitalistico” (p.20). Implicitamente questa ammissione riconosce l’importanza della struttura della società, dei rapporti di classe, della distribuzione del reddito, e del ruolo dello Stato. Tutti fattori “esogeni” al processo economico “puro”.


A fronte di questo quadro Baran, oppone la visione che alla metà degli anni cinquanta si ha del sistema sovietico: un grande successo. La prova definitiva, come scrive, “della forza e vitalità di una società socialista. Oramai non può più mettersi in dubbio la capacità di funzionare, di svilupparsi e di superare le prove storiche più impegnative di un sistema economico-sociale basato sulla pianificazione economica generale – che ha eliminato il profitto privato ed è senza l’istituto della proprietà privata dei mezzi di produzione. Quel che più conta, un gran numero di paesi soggetti, attraverso le rivoluzioni sociali del dopoguerra, hanno imboccato la strada di un rapido progresso economico e sociale. l’Europa orientale e sud-orientale e, ciò ch’è anche più notevole, la Cina, sono uscite dall’orbita del capitalismo mondiale diventando fonti di incoraggiamento e di ispirazione per tutti gli altri paesi coloniali e dipendenti.” (p.22)

La tesi cruciale è dunque di natura comparata: lo sviluppo offerto dall’economia pianificata è superiore, e più socialmente equilibrato e sostenibile, di quello possibile nella disordinata economia capitalistica nella forma monopolistica. Scrive: “sia il consumo, sia l’investimento privato sono piuttosto rigidamente limitati dalle esigenze del massimo profitto in condizioni di monopolio e di oligopolio, e la natura ed il volume della spesa pubblica sono non meno rigidamente determinati dalla base sociale e dalla funzione dello Stato in una società capitalistica”. Dunque in un sistema capitalistico non ci si può aspettare né il massimo prodotto, razionalmente ripartito tra investimento e consumo, né un bilanciamento tra livello di produzione ed “attenuazione del peso del lavoro”. Precisamente, “ciò che appare maggiormente probabile è il continuo riproporsi dello spaventoso dilemma di scegliere tra esplosioni di attività produttiva d’origine bellica e ondate di disoccupazione aventi cause depressive”.
Ma la situazione nei paesi “sottosviluppati” è anche peggiore. Qui bisogna partire dal semplice fatto, per Baran, che “lo sviluppo economico nei paesi sottosviluppati è profondamente ostile agli interessi dominanti nei paesi capitalistici progrediti. Rifornendo di molte importanti materie prime i paesi industrializzati, offrendo alle loro società vasti profitti e sbocchi d’investimento, i paesi arretrati hanno sempre rappresentato l’indispensabile hinterland dell’occidente capitalistico altamente sviluppato”.

Ma cosa è lo “sviluppo economico”? Si può partire da una definizione semplice, “l’incremento nel tempo del prodotto pro capite di beni materiali”. Le cause possibili sono le seguenti:
1-     Utilizzazione delle risorse complessive che si espande senza che si abbiano mutamenti nell’organizzazione o nella tecnologia (es. aumento della manodopera messa al lavoro);
2-     Aumento della produttività unitaria a seguito di modifiche organizzative (spostando da settori meno a più produttivi, aumentando la durata della giornata lavorativa, razionalizzando l’impiego delle risorse);
3-     La forza tecnica che cresce (sostituendo attrezzature obsolete o introducendo nuove macchine più efficienti).

Quando si tratta di aumentare l’investimento netto è necessario che la produzione totale della società superi il suo consumo corrente e la sostituzione dell’attrezzatura deperita. Dunque tutto dipende dal volume e dal modo di utilizzazione del surplus economico prodotto. Entrambi sono il risultato dello sviluppo delle forze produttive e della struttura sociale. Determinare, quindi, i fattori che governano volume e modo di utilizzazione del surplus è il compito dell’Economia Politica dello Sviluppo.


Ora bisogna capire che cosa è il “surplus economico”.  
Si tratta di un concetto ingannevole, e di difficile determinazione anche quantitativa, ma ciò non ferma Baran, infatti a suo parere “è senz’altro desiderabile rompere la vetusta tradizione dell’economia accademica che preferisce sacrificare gli aspetti fondamentali dell’argomento in esame all’eleganza del metodo analitico; è meglio trattare imperfettamente ciò che è importante, che raggiungere le vette del virtuosismo nella trattazione di ciò che non interessa” (p.34).
Dunque per andare oltre introduce la sua distinzione cruciale (fondata sulla valutazione generale dell’alternativa tra economie pianificate e non) tra:
-        “il surplus economico effettivo, ossia la differenza tra la produzione effettiva corrente e il consumo effettivo corrente della società”,
e
-        “il surplus economico potenziale, vale a dire la differenza fra il prodotto che si potrebbe ottenere in un dato ambiente naturale e tecnologico con l’ausilio delle risorse produttive impiegabili, e ciò che si potrebbe considerare come consumo indispensabile. Chiaramente la sua realizzazione richiede una più o meno drastica riorganizzazione della produzione e della distribuzione del prodotto sociale, e implica mutamenti radicali nella struttura della società”.

Ci sono sulla base si queste definizioni, in sostanza quattro fattori che limitano il surplus potenziale:
a-     L’eccesso di consumi, in particolare delle classi superiori,
b-     La perdita di produzione a causa di lavoratori improduttivi,
c-     Il prodotto che si perde a causa di organizzazioni irrazionali,
d-     Il prodotto che si perde a causa della disoccupazione determinata dall’anarchia della produzione capitalistica e dalla carenza della domanda effettiva.

In quella che è un’osservazione contemporaneamente onesta e cruciale, Baran ammette che la misurazione di questo “surplus potenziale” è resa difficile non solo da ostacoli tecnici, quanto dal semplice fatto che la nozione stessa trascende l’ordinamento sociale esistente, e deve essere confrontato con un’immagine “meno facilmente percepibile”, di una “società organizzata più razionalmente”. In altre parole, la nozione di “surplus potenziale” è connessa necessariamente con l’idea di una società socialista, nella quale si produca il pieno dispiegamento delle potenzialità produttive insieme al minimo dello spreco possibile.


Ad esempio, nel quadro di un’economia organizzata dal profitto non ha senso distinguere tra “consumo essenziale” e “consumo non essenziale”, o “lavoro produttivo e improduttivo”. Si comprende, quindi, che introdurre la nozione di “surplus potenziale”, insieme ai suoi presupposti (consumi inutili e lavori improduttivi) attacca le radici stesse dell’economia del benessere e si appoggia sulle due nozioni di “livello di vita decente” e “giudizio razionale”.

Una delle cose più difficile è comunque identificare i “lavoratori improduttivi”, perché dalla prospettiva proposta la semplice convenienza o efficienza di un lavoro non può essere giudicata dalla mera valutazione del mercato. Un dato lavoro può essere valutato molto importante, e quindi essere remunerato di conseguenza, ma essere egualmente “improduttivo”, quindi inutile e da eliminare. Che cosa lo è? “Parlando in maniera generalissima, questa parte improduttiva è formata da tutto quel lavoro che ha come risultato la produzione di beni e servizi la cui domanda si possa attribuire alle condizioni e ai rapporti specifici del sistema capitalistico, e che sarebbe assente in una società razionalmente ordinata” (p.44). Alcuni esempi sono molti avvocati e consulenti, esperti di pubbliche relazioni, “membri delle forze armate, ecclesiastici”, addetti alla produzione di armamenti, articoli di lusso, oggetti di distinzione sociale. Ma anche “agenti pubblicitari, mediatori, mercanti, speculatori e simili”.
D’altra parte scienziati, medici, artisti, insegnanti che vivono anche essi sul surplus economico della società sarebbero moltiplicati ed intensificati.
Nel novero delle inefficienze organizzative rientrano, inoltre, i giganteschi monopoli che non hanno bisogni di minimizzare i costi.


Dunque questa nozione emerge interamente dal confronto con l’alternativa di una collettività socialista “guidata dalla ragione e dalla scienza”, che implica “una profonda razionalizzazione dell’apparato produttivo della società (liquidazione delle unità inefficienti, massime economie di scala, ecc), l’eliminazione di un’eccessiva differenziazione dei prodotti, l’abolizione del lavoro improduttivo (secondo la precedente definizione), una politica scientifica di conservazione delle risorse umane e naturali, e così via”. Ciò non implica, naturalmente, che se un paese dovesse raggiungere l’ottimo, aumentando la produzione quantitativa, resti preclusa la strada di ridurla coscientemente in favore della riduzione delle ore di lavoro e di altre dimensioni della vita. Il punto è un altro: “l’importante è che il volume della produzione non sarebbe determinato dal risultato casuale di un certo numero di decisioni non coordinate di singoli uomini d’affari e di singole società, ma da un piano razionale esprimente ciò che la società vorrebbe produrre, consumare, risparmiare e investire in ogni dato momento” (p.55).

La teoria termina qui.



A questo punto il resto del libro, ovvero la gran parte, si occupa di confrontare questa concezione con il materiale storico e le situazioni mondiali vigenti.
Nel primo excursus è ricostruito il percorso storico del capitalismo, gli economisti classici, la lotta alle rendite nobiliari, la descrizione dello spirito del capitalismo in Max Weber[5] e Werner Sombart[6]. Il culto della moneta e l’ascetismo del denaro e l’economia di equilibrio classica. Quindi la fase di crescita dei salari e la nascita di un’economia imperniata sulle grandi società durante gli anni venti, con, in conseguenza, la relazione tra grande impresa, monopolio e oligopolio (p. 75).
Quindi viene descritta la situazione che si determina in relazione ai problemi emersi con la crisi del ’29 e la rivoluzione keynesiana.
Nel consegue una tendenza al costante deficit di investimento nella fase monopolistica, e, in conseguenza una costante sottoccupazione. I “santuari privilegiati” dei grandi monopoli, anche a causa di ingentissime barriere di ingresso, per il livello degli investimenti, determina così una tendenza dei monopoli a minimizzare e rinviare gli investimenti, procrastinare le spese e rinunciare alla leadership sui prezzi (p.99).

Vediamo come lo riassume in un brano fulminante che mostra i meccanismi nascenti della finanziarizzazione e della carenza di domanda aggregata con relativa tendenza alla stagnazione:

“Quale è il succo di questa discussione? Esso si può brevemente sintetizzare come segue. Nella fase monopolistica dello sviluppo capitalistico il meccanismo del pareggiamento dei saggi di profitto funziona soltanto nel ridottissimo settore concorrenziale del sistema economico. Qui i saggi di profitto sono esigui e la massa dei profitti disponibili per l'investimento relativamente ridotta. Nella sfera monopolistica e oligopolistica dell'economia i saggi di profitto sui capitali investiti sono disuguali ma generalmente elevati e la massa dei profitti disponibili per l'investimento prodigiosamente ampia. Ciò tende a ridurre il volume dell'investimento globale, perché le relativamente poche imprese monopolistiche e oligopolistiche alle quali affluisce il grosso dei profitti non trovano redditizio reinvestirli nelle proprie imprese e trovano sempre più difficile investirli altrove nell'economia. Quest’ultima diventa sempre più ‘pesante’ a misura che segmenti sempre più numerosi del settore concorrenziale diventano ‘oligopolizzati’ e le possibilità di fondare nuove industrie che non facciano concorrenza alle imprese oligopolistiche già affermate diventano più ridotte. Così in ogni data situazione il volume dell'investimento tende ad essere minore del volume del surplus economico che sarebbe prodotto in condizioni di piena occupazione. Esiste dunque una tendenza verso la sottoccupazione e il ristagno, una tendenza verso la sovrapproduzione che fu esattamente individuata da Marx cento anni fa.” (p.99)


Dunque il monopolio ha preso a divenire un fattore di regresso (mentre non lo è sempre, o necessariamente) per la sua dominazione relativa dell’intera economia. In termini statici questo determina una tendenza alla realizzazione di un equilibrio di sottoccupazione. Ma una produzione stagnante determina necessariamente una disoccupazione uniformemente crescente.
Il punto proposto da Baran, di fronte a queste dinamiche, è che non esiste alcuna tendenza automatica che consenta di uscirne fuori. E’ precisamente su questa convinzione che si fonda la necessità dell’azione razionale e quindi della pianificazione. Infatti a livello micro nessuna impresa può muoversi come ‘babbo natale’, ma dovendo tutte quante necessariamente seguire le leggi della valorizzazione dalle quali dipende la loro individuale esistenza si determina una contraddizione fondamentale tra ciò che è razionale per il singolo e ciò che lo è per tutti. La composizione delle azioni individuali sconnesse, ma orientate dalla stessa necessaria logica e quindi coordinate, induce ad un sovrasfruttamento di alcune risorse, alla sottoutilizzazione di altre, e alla carenza degli investimenti rispetto al potenziale. Tutto ciò può risolversi solo “per mezzo di cambiamenti nella struttura economico-sociale che, a loro volta, si risolvono in cambiamenti nei costumi e nei valori, che determinano i desideri e il comportamento degli individui” (una straordinaria sintesi della direzione di lettura materialista della società e della direzione nella quale leggere il nesso struttura-sovrastruttura).

Ma un impulso del genere, se non può scaturire dall’adattamento delle azioni individuali, costrette dalla logica a breve termine della loro individuale sopravvivenza, può emergere solo dall’azione intenzionale di un attore collettivo che può agire a lungo termine: lo Stato.
Ne è un esempio il crollo degli anni trenta e la risposta data dal New Deal[7], che ha “irrimediabilmente compromesso il concetto di automatismo di mercato” (gli anni successivi mostreranno che non era irrimediabile), coinvolgendo pure l’industria monopolistica, che si rivolse all’azione pubblica per il suo sostegno. I gruppi dirigenti si acconciarono alla nuova posizione ideologica, ma appena il peggio fu passato il grande capitale riprese il sopravvento. Tutti gli elementi sospetti, portati al potere dalla ondata populista del 1932 furono quindi sostituiti da elementi che godevano della fiducia della grande industria, anche se il pieno controllo fu reistituito solo dopo la guerra, con Truman e Eisenhower e grazie alla centralità del sistema militare-industriale enormemente cresciuto (il quale produsse l’escamotage strategico ed economico della “guerra fredda”[8]).

Da questa circostanza deriva il ferreo controllo non tanto sulle politiche di piena occupazione, alle quali il grande capitale si è acconciato trovandole convenienti, quanto su “il modo e i mezzi con cui l’intervento statale deve realizzarla e mantenerla”. Lo scontro degli anni cinquanta, e quaranta, è dunque su alcune alternative destinazioni della spesa statale, necessaria per contrastare la tendenza del capitalismo monopolistico alla stagnazione per effetto del sottoinvestimento; alternative che Baran elenca in questo modo:
-        la necessità o meno di conservare una “salutare” quota di disoccupazione, o di riassorbirla in favore della riduzione delle ore di lavoro (p.117);
-        la possibilità di prevedere una adeguata dimensione e ritmo di sussidi individuali, che invece, dal punto del capitale non possono essere diretti fondamentalmente al consumo individuale, in quanto assolutamente incompatibili con il suo spirito[9]. “Questi sussidi comportano un certo numero di ripercussioni altamente dannose per il normale funzionamento dell’ordinamento capitalistico. I sussidi senza corrispettivo concessi ai singoli non soltanto tenderebbero a sollevare il ‘pavimento’ sotto il livello dei salari, fornendo al lavoratore salariato un minimo di sussistenza indipendente dall’occupazione e modificando perciò la sua valutazione relativa del reddito e del tempo libero; ma, ciò che forse non è meno importante, queste entrate non guadagnate sarebbero completamente estranee al fondamentale sistema etico ed ai valori associati al sistema capitalistico. Il principio che l’uomo comune deve guadagnarsi il pane col sudore della fronte è il cemento di un ordine sociale, la coesione e il funzionamento del quale dipendono da pene e ricompense pecuniarie. Facendo diminuire la necessità di lavorare per vivere, la distribuzione di un largo volume di beni gratuiti minerebbe inevitabilmente la disciplina sociale della società capitalistica e indebolirebbe le posizioni di prestigio e di controllo sociale che coronano la sua piramide gerarchica” (p.120).
-        in alternativa i sussidi al consumo collettivo che sono molto meno pericolosi, ad esempio le costruzioni che impattano favorevolmente sulle industrie pesanti, fornendogli economia ‘esterne’ e determinano condizioni di infrastrutturazione utili all’iniziativa industriale. Ma ci sono, anche in questo caso, resistenze delle classi superiori, sia alla necessaria tassazione per finanziarle, sia per il disturbo ad interessi costituiti. “Le case popolari e il risanamento degli slums, per esempio, sono aspramente combattuti dal settore della proprietà immobiliare. Inoltre, la portata di un programma del genere è, in ogni momento, rigidamente limitata dalla capacità produttiva dell’industria delle costruzioni”.  
-        Infine la possibilità dell’investimento in attrezzature produttive, ovvero l’espansione dell’investimento direttamente nella capacità produttiva; questo è l’ultimo possibile metodo di intervento statale in quanto se non si può procedere ad una riduzione pianificata della produzione complessiva (abbassando l’orario di lavoro ed espandendo il tempo libero), né ad un aumento del consumo corrente, l’unico altro modo di riallineare produzione e consumo, risolvendo la tendenza al sottoinvestimento, è operarlo direttamente. In questo modo “l’utilizzazione globale della produzione potrebbe portarsi al livello dell’offerta globale in condizioni di piena occupazione”. Ma “di tutti i concepibili metodi di spesa governativa, questo è l’unico assolutamente tabù in regime di capitale monopolistico”. Se l’industria monopolistica non può investire essa stessa i suoi profitti esuberanti non può tollerare che questi vengano presi dallo Stato ed investiti da esso. Lo Stato può investire solo, casomai, in settori lontani dallo sfruttamento commerciale, soprattutto se serve ad aprire nuovi mercati correndo i rischi relativi.
-        La quinta possibilità sono le spese improduttive. Queste sono le più praticate e sono connesse con le relazioni internazionali. Questa area di intervento è connessa intimamente con il commercio estero che nella fase monopolistica si espande enormemente. Il tradizionale limite posto dalla bilancia dei pagamenti internazionali, infatti, riesce ad essere aggirato dalla grande impresa monopolistica che ha un interesse vitale a diversificare i suoi mercati e garantirsi l’accesso alle materie prime (precludendola alle altre). Le grandi imprese hanno leve indisponibili alle piccole imprese concorrenziali, tra queste le aperture di credito, l’influenza sulla politica locale dei paesi dai quali trarre le esportazioni di materie prime o l’importazione dei propri prodotti, gli investimenti diretti, sia pure ostacolati da una serie di fattori che invitano alla prudenza. Fattori che possono essere contenuti (in particolare il rischio politico di rivoluzioni, nazionalizzazioni, movimenti intenzionali dei cambi, dazi, etc.) grazie all’appoggio esplicito del proprio paese, nei confronti della cui politica interna come estera essa esercita un qualche controllo. Ciò si può spingere dalla pressione finanziaria a quella militare, in questo modo “la concorrenza fra gli oligopolisti nell’arena mondiale diventa, in misura sempre maggiore, una gara di potenza tra i paesi imperialisti”.

Questa organizzazione economico-sociale nel suo complesso condiziona il pubblico, i principali funzionari, i legislatori, i leaders intellettuali, alle politiche dell’imperialismo. Come scriveva Hobson in essa agiscono moventi finanziari ed industriali di gruppi ben precisi che si assicurano l’attiva cooperazione della politica, ma anche l’appoggio di massa garantito dagli appelli alla missione di civiltà della nazione (tradotti per lo più, oggi, in appelli per la missione civilizzatrice della civiltà europea e della sua forma politica) e speculando sugli “istinti primitivi della razza”. A queste considerazioni Baran aggiunge il semplice fatto che questa politica predatoria, su cui dirà meglio in seguito, è obiettivamente anche nell’interesse materiale dell’uomo comune nei paesi imperialisti. Agli extra-profitti delle imprese monopoliste partecipano infatti in tanti, contribuendo grandemente all’imborghesimento anche delle “aristocrazie operaie”.

La questione è molto larga, e va anche oltre agli effetti immediati delle attività economiche estere:

“i prestiti e i crediti ai così detti governi amici di paesi dipendenti, le spese per l’apparato militare necessario per ‘proteggere’ certi territori o per imporre certe politiche all’estero, le spese per l’apparato irregolare destinato ad organizzare la propaganda, a sovversione e lo spionaggio tanto nei territori soggetti che negli altri paesi imperialisti concorrenti o ‘incerti’, assumono complessivamente dimensioni prodigiose. Sebbene assorbano una larga quota del prodotto nazionale lordo, che negli Stati Uniti per l’ultimo decennio si aggira in media intorno al 20%, la loro importanza non si riflette interamente neppure in questa percentuale. Essa può diventare più evidente quando si comprende che la quota del surplus economico che è assorbito da queste spese è sostanzialmente maggiore. Così l’incidenza di questa forma di utilizzazione del surplus economico sul livello del reddito e dell’occupazione in un paese capitalistico progredito trascende di gran lunga l’effetto generatore di reddito o di occupazione delle stesse attività economiche estere. Quest’ultimo ha in realtà un’importanza soltanto secondaria rispetto al primo: un masso erratico che mette in movimento un’enorme valanga.
Il fatto che i mezzi della politica imperialista oscurino quasi completamente i suoi fini originari ha conseguenza di enorme importanza. provvedendo un ampio sbocco per l’esuberante surplus economico, questa stesa per gli strumenti della politica imperialista diventa la forma principale delle ‘esaurienti spese’ statali, il nucleo centrale dell’intervento statale a favore della ‘piena occupazione’. Invero questa forma di spesa statale è l’unica pienamente accettabile al capitale monopolistico”. (p.133)

Su questa linea Baran produce un attacco anche alla forma più ‘raffinata’ di questa impostazione, ovvero ai teorici keynesiani a lui contemporanei (non a caso a volte questa pratica viene chiamata “keynesismo militare”) che giustificano un enorme sperpero di risorse umane e materiali grazie alla valorizzazione di un mero sottoprodotto: l’aumento dell’investimento. Quindi sviluppa l’argomento, usato dopo di lui anche dai neoliberali, che queste politiche sono come gli stupefacenti: ci si adatta e ce ne vuole sempre di più. Infatti lo sperpero sistematico, nei termini delle sue definizioni, di una quota adeguata di surplus economico per scopi militari, o per creare abbondanti riserve, per moltiplicare i lavoratori improduttivi è proprio come uno stupefacente anche se nell’immediato fornisce il necessario ‘impulso esterno’ per porre rimedio alle depressioni e calma il dolore. Dura poco e a lungo andare aggrava le condizioni.

Queste tensioni aggravano la situazione, dato che il grosso della spesa pubblica si risolve in forniture militari e di simili “beni” improduttivi, e provocano il continuo aumento del deficit delle spese pubbliche e una continua minaccia di inflazione. Ciò amplia la frattura tra gli interessi dei creditori e dei debitori, espropria i nuovi ceti medi ed i rentiers, sgretola la coesione sociale. Insomma, alla fine vincono solo quelli che “fanno i prezzi”, e perdono quelli che “subiscono i prezzi” (p.140).

In base a tutti questi meccanismi la stabilità del capitalismo monopolistico è precaria, appare incapace di perseguire una genuina politica di piena occupazione e di progresso economico.




Dal capitolo quinto il libro di Paul Baran si occupa dell’altra metà del sistema capitalistico monopolistico: il ‘mondo libero’ ma sottosviluppato. Come aveva fatto per i paesi sviluppati a tal fine si concentra sulle sue ‘leggi di movimento’ facendo astrazione dalle particolarità dei singoli casi e quindi concentrandosi sulle caratteristiche comuni ed essenziali.

Ma bisogna fare un passo indietro: la nuda impalcatura dello sviluppo è visibile osservando tre processi distinti, anche se interdipendenti che si sono storicamente dati nello sviluppo occidentale:
1-     Un lento aumento della produzione agricola con la nascita di una forza lavoro industriale;
2-     La divisione del lavoro;
3-     L’accumulazione primitiva nei ceti mercantili.
Quindi la formazione del capitale in qualche modo sgorga dalla ricchezza mercantile ed usuraia.

Nei paesi sottosviluppati, però, l’entrata in contatto con i più potenti paesi sviluppati (questi squilibrio di potenza nel quale avviene lo scambio ed il contatto è il punto centrale dell’analisi di Samir Amin) avviene nella forma del puro e semplice saccheggio, o tramite forme di colonialismo che costringono i paesi sottomessi a dedicare il loro surplus secondo priorità esogene, alle infrastrutture che servono alle esportazioni dirette dal capitale estero. In questo modo, di fatto, lo sviluppo viene deviato e mutilato dall’imperialismo occidentale.

Il miglior esempio di tutto questo è la raffinata e spietata spoliazione sistematica operata dagli inglesi in India. Una catastrofe che produsse danni enormi ancora persistenti (p.163).
Diverso è, invece, il caso del Giappone, dove una rivoluzione locale, mossa da una coalizione di gruppi sociali eterogenei rovescerà l’antico regime favorendo una autonoma transizione a forme capitaliste. Qui la fonte principale dell’accumulazione primitiva è il villaggio “che nel corso di tutta la sua storia moderna ebbe, per il capitalismo giapponese, la funzione di colonia interna” (p.170). Il capitalismo emerse in modo autonomo perché lo Stato costrinse la borghesia mercantile ad investire sullo sviluppo industriale, grazie anche alla circostanza fortunata della contingente debolezza del quadro imperialista occidentale in quell’area.

Attraverso questi pochi esempi Baran intende mostrare le forze che hanno plasmato il destino del mondo sottosviluppato e mostrare che esse esercitano la stessa potente influenza sul suo presente. Tramite questa influenza l’ordinamento capitalistico ha rappresentato un sostegno potente per il ristagno economico, la conservazione di tecnologie arcaiche e l’arretratezza sociale. La caratteristica del sottosviluppo si vede in particolare nel modo di utilizzazione del surplus economico, che viene per lo più impiegato per consumi di lusso e identitari importati dai paesi sviluppati e verso i quali si conserva una qualche soggezione non solo materiale. Persino le riforme agrarie possono essere neutralizzate da queste classi parassitarie “compradores”, che “per loro natura sono nemiche dello sviluppo progressivo”. In molti paesi (viene fatto l’esempio storico della Cina), una pletorica classe di intermediari in drastica concorrenza reciproca, causano un costante drenaggio che inibisce l’accumulazione capitalistica, diffondendo le risorse in piccole mani. In altre parole, una struttura sociale e di potere impedisce la fuoriuscita del capitale dalla sfera della circolazione e quindi il suo ingresso in quella della produzione industriale.
Ciò non necessariamente significa che nei paesi soggetti al giogo coloniale non si sia prodotta una qualche divisione del lavoro, e la fuoriuscita dalle forme economiche precapitaliste, ma di fatto implica che questa divisione del lavoro “assomiglia alla divisione di funzioni che si manifesta tra cavallo e cavaliere”. In sostanza il paese diventa inesorabilmente “una appendice del mercato interno occidentale” (p. 189), stimolando in un certo senso lo sviluppo, ma in occidente, e spegnendo invece la scintilla di questo nei paesi sottosviluppati.
Quel che si provoca, sapendo che “l’investimento è generato dall’investimento” è quindi uno sviluppo distorto, dove l’iniziativa estera è responsabile di buona parte della produzione, e le infrastrutture sono prodotte solo a suo servizio. Riprendendo e contrastando gli argomenti degli economisti dello sviluppo Baran propone, quindi, i seguenti punti:
1-     l’investimento estero è molto meno importante di quanto viene descritto, perché si tratta a ben vedere per lo più di investimenti modesti in natura e sempre a vantaggio del paese estero stesso (dove quasi tutto, dalle attrezzature al lavoro qualificato, è acquistato in patria e non nel paese di destinazione);
2-     le attività correnti messe in movimento dall’investimento sono solo una piccola parte del reddito, in quanto la maggior parte dei profitti è estratta e riportata nei paesi sviluppati;
3-     vie è di peggio, una parte del surplus è reinvestito e l’economia locale diventa sempre più intrecciata e dipendente da quella estera, si specializza e così diventa fragile. In altre parole, “una specializzazione interna e internazionale, organizzata in modo che un partecipante si specializza nell’indigenza mentre l’altro si assume il ‘fardello’ dell’uomo bianco di raccogliere i profitti, può difficilmente considerarsi una sistemazione soddisfacente per il raggiungimento della massima felicità per il maggior numero di persone”.
4-     Anche gli investimenti in infrastrutture, porti, ferrovie, strade, sono un ambiguo dono, perché bisogna chiedersi “a chi servono”? Rischiano di essere delle cattedrali nel deserto, del tutto inutili alla vita economica diversificata locale, ma utili a facilitare la specializzazione e la sottrazione di risorse naturali. Questi investimenti sono in sostanza corpi estranei artificialmente innestati che non possono dare seguito ad uno sviluppo autonomo perché non sono stati pensati, dimensionati, localizzati per questo. In effetti per lo più servono ad accelerare la disintegrazione dell’economia ed impediscono la crescita autonoma.

Questa situazione è utilizzata dagli elementi ‘compradores’ della locale borghesia che, a volte controllando i monopoli interni, temono l’ascesa del capitale industriale autoctono. Si forma, quindi, “una coalizione politica e sociale tra ricchi compradores, potentissimi monopolisti e grandi proprietari terrieri rivolta alla difesa dell’esistente ordinamento”.

Tramite questi meccanismi, dall’epoca del primo colonialismo, il saccheggio è stato razionalizzato e passa ora per la fredda razionalità del commercio e dei contratti. Ma lo scopo resta lo stesso: “impedire, o se ciò è impossibile, rallentare e controllare lo sviluppo economico dei paesi sottosviluppati”, perché lo sviluppo porta necessariamente ad una riduzione dei profitti.
A questo punto viene compiuta una carrellata della situazione dei principali paesi sottosviluppati: in Asia, Medio Oriente (dove le spese voluttuarie delle élite assorbono i profitti del petrolio), Venezuela (dove avviene lo stesso, appena in misura minore), Cile, Egitto, India.




In conclusione quel che manca ai paesi in “sottosviluppati” non è affatto il capitale, ma la possibilità di utilizzare il proprio surplus economico effettivo, dato che viene assorbito dalle élite ‘compradore’ e speso per importazioni voluttuarie o tesaurizzato all’estero. Anche lo svantaggio delle ragioni di scambio (enfatizzato da Gunder Frank) conta, ma è, per Baran, alla fine un elemento dubbio, quel che conta molto più è chi si prende i soldi e cosa ne fa.

Dunque alla fine il sistema capitalistico, che una volta era un potente strumento di sviluppo economico, si è trasformato in un freno, del progresso umano. Il capitalismo, nella fase monopolistica, è cioè in bancarotta morale.

Resta alla fine solo la prospettiva del socialismo per contribuire alla nascita di una nuova società, nella quale le condizioni di vita che circondano gli uomini e che finora li hanno dominati possa “passare ora sotto il dominio ed il controllo degli uomini che adesso, per la prima volta, diventano coscienti ed effettivi padroni della natura, perché e in quanto diventano padroni della loro propria organizzazione della società” (p.283).
Non manca neppure una forma di universalismo, che fornisce una versione socialista del cosmopolitismo borghese: “in una comunità socialista progredita la collaborazione fra i paesi partecipati andrà molto avanti, fino ad assumere una nuova fisionomia. Man mano che l'epoca del capitalismo sparirà all'orizzonte, entrando a far parte della 'preistoria dell'umanità', una delle sue eredità più rilevanti incomincerà a sparire dalla scena della storia. Il fenomeno economico e politico della nazione seguirà lentamente, ma sicuramente, il declino dell'ordinamento economico e sociale al quale esso deve la sua genesi e cristallizzazione” (p.310). 

Certo le condizioni di questo ottenimento utopico sono il superamento della legge del valore, e presuppongono la creazione di un tipo umano abituato ai doveri di una società di cooperazione socialista, anziché alla lotta fratricida nel mercato capitalistico.

Sarà questo, in un certo senso, il punto nel quale, tramontata la speranza sovietica, si orienteranno le energie utopiche della “gang dei quattro”, e dopo la fine del millennio divergeranno. Come abbiamo visto seguendo la parabola di Gunder Frank da una parte si troveranno coloro i quali continueranno a puntare sul “delinking” (la disconnessione che era stata la parola d’ordine, diversamente declinata, fino ai traumi degli anni settanta), come Samir Amin e Hosea Jaffe, dall’altra Arrighi, che punterà prima sul Giappone e poi sulla Cina per immaginare una transizione di potenza allargante in grado di uscire dalla mondializzazione imperiale statunitense, ed infine, appunto, l’ultimo Gunder Frank[10] che, pur puntando un poco confusamente sui “movimenti” per salvare un residuo di energia utopica, propone di riconoscere l’interconnessione e la dipendenza delle parti dal tutto come la fisiologia del mondo (una sorta di positivizzazione della vecchia lezione del suo maestro, Baran, ambiguamente fusa con quella dell’altro maestro, Milton Friedman), dal quale deriva da una parte una radicale confutazione dell’eurocentrismo (in questo simile a quella di Hosea Jaffe) ma dall’altra la “totalità mondiale” dissolve la dialettica tra “centri” e “periferie” e la stessa nozione di “capitalismo”. Ne deriva “la morte della dipendenza”, non come diagnosi, ma come prescrizione.

Ma, però ora siamo nel 1957, la sconfitta deve ancora darsi e lo spirito dei ‘lumi’ è ancora vivo; Paul Baran cerca, come faranno sempre Amin ed Arrighi, di trovare discontinuità e differenze e non continuità in un tutto che non si può cambiare. Nelle ultime pagine va molto oltre l’economia e il mondano, e quindi possiamo chiudere questa lettura con esse:

“contribuire alla nascita di una società in cui lo sviluppo sostituirà il ristagno, il progresso prenderà il posto della decadenza; in cui la cultura metterà fine alla barbarie, è la più nobile, e invero l’unica funzione dello sforzo intellettuale. L’esigenza di far trionfare la ragione sul mito, la vita sulla morte, non può dimostrarsi per deduzione logica. Come ha detto una volta un grande fisico, ‘la sola logica è incapace di portarci oltre i confini delle nostre percezioni; essa non è neppure capace di costringerci a riconoscere l’esistenza del nostro prossimo’. Questa esigenza deve basarsi sulla proposizione che il diritto dell’umanità alla vita, allo sviluppo e alla felicità non ha bisogno di alcuna giustificazione. Essa cade o si regge con questa proposizione. La quale, tuttavia, è l’unica sua indimostrabile e irrefutabile premessa”.





[1] - Di cui abbiamo letto il libro del 1967 “Capitalismo e sottosviluppo in America Latina”, quello successivo, del 1969, “America Latina: sottosviluppo o rivoluzione”, e “Per una storia orizzontale della globalizzazione”.
[2] - Di cui abbiamo letto, “Lo sviluppo ineguale”, “La crisi”, “Oltre la mondializzazione”, “Per un mondo multipolare”, “Il virus liberale”.
[3] - Di cui abbiamo letto, “Caos e governo del mondo”, ed “Il lungo XX secolo”.
[4] - A partire da “Re-Oriented”, nel 1999. In “Per una storia orizzontale della globalizzazione”, parte II.
[5] - Si veda Max Weber, “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo”, 1904.
[6] - Cfr. Werner Sombart, “Il capitalismo moderno”, 1902.
[7] - Su cui si veda, Kiran Patel , “Il New Deal
[8] - La guerra fredda emerge come necessità sistemica interna del sistema produttivo statunitense anche prima che si imponga per effetto della presunta “minaccia” sovietica (sulla quale la direzione dell’Urss tenta di mettere la sordina). L’equilibrio economico e sociale si era infatti abituato alla stimolazione del New Deal e quello della guerra stessa, e la massima preoccupazione di quegli anni di transizione diventa l’incubo della ricaduta nella crisi-stagnazione degli anni trenta. Soccorre il piano di aiuti all’Europa e quindi, in una staffetta perfetta la guerra fredda, la quale impone un vincolo esterno alla spesa in grado di piegare le resistenze dei settori del capitale che, ben rappresentati nel Congresso, avrebbero voluto magari tornare ad una economia “normale” e non dirigista.
[9] - La nozione di “spirito del capitalismo” rinvia alla elaborazione di Weber e Sombart, ma anche a importanti testi come Alberti Hirschman “Le passioni e gli interessi”, 1975, ed al frammento di Walter Benjamin “Il capitalismo come religione” del 1921, o al capolavoro di Polanyi “La grande trasformazione”.

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