Pagine

giovedì 30 maggio 2019

Hosea Jaffe, “Era necessario il capitalismo?”



Proseguendo la lettura della “teoria della dipendenza” e delle sue diramazioni, ed in particolare in continuità con l’analisi della posizione, estesa su quattro decenni e soggetta a notevoli mutamenti, di Andre Gunder Frank, vale la pena affrontare questo libro del 2008 di Hosea Jaffe che individua, attraverso un serrato corpo-a-corpo con la tradizione marxiana, una questione decisiva e tenta di risolverla negando radicalmente la funzione progressiva del capitalismo. Vediamo però prima qualche consonanza con gli altri orientamenti teorici di cui abbiamo già parlato: come il suo amico Frank, in particolare dopo la svolta[1] degli anni zero, Jaffe pensa che sia l’eurocentrismo del XIX secolo ad aver portato fuori strada molta parte della tradizione marxista, ed è convinto che non sia tanto la presunta superiorità tecnologica o istituzionale ad aver consentito all’occidente di prevalere, ma il colonialismo[2]. Concorda quindi con la tesi di fondo della “teoria della dipendenza”, sin dalle prime formulazioni in Baran[3], per la quale non è affatto la carenza di capitalismo a provocare il sottosviluppo, ma la sua presenza. Il capitalismo, cioè, estendendo le sue pratiche di sfruttamento, determina per sua natura una gerarchia di centri di sviluppo organizzati in una catena di connessioni che rendono il sottosviluppo altra faccia necessaria dello sviluppo. Come concluderà, il capitalismo non è quindi progressivo, ma antagonistico dello sviluppo umano.




Hosea Jaffe è stato uno storico ed economista sudafricano nato a Città del Capo nel 1921 e morto in Italia, a San Martino Valle Caudina nel 2014. Ha insegnato in mezzo mondo e tre continenti, ed ha svolto una funzione critica verso l’evoluzione della globalizzazione prima e l’Unione Europea dopo. La prima è intrinseca al capitalismo (una tesi che è propria in qualche modo di tutta la scuola e che evolve a partire dalle analisi sull’imperialismo dei primi novecento), la seconda, che il nostro tratta in alcuni libri sulla Germania[4] già negli anni ottanta e poi nei primi anni novanta, è individuata come dispositivo concorrenziale ad egemonia tedesca. La sua posizione intransigente verso il colonialismo ed il neocolonialismo lo rende a lungo indigesto alla sinistra europea, verso la quale esprime una posizione molto critica, anche per posizioni dure con Israele e per la tesi della ‘disconnessione’ (che condivide con il primo Frank, fino al golpe cileno, e con Samir Amin).

Venendo al merito, nella sua ricostruzione storica ed argomentazione svolge una funzione centrale la nozione di “conflitto modale”, ovvero di conflitto tra “modi di produzione” diversi ed incompatibili. Se per Marx la Storia è lotta di classe, si potrebbe dire che per Jaffe è più “conflitto modale”. A grandi linee si tratta del conflitto tra il modo di produzione originario, diffuso più o meno nel mondo, del “comunismo primitivo” (riprendendo tesi di Pannikkar, in particolare sul Kerala), o del “modo comunitario”, che giudica più umani e più democratici delle forme successive, e il ‘modo di produzione schiavista’, limitato solo a Grecia e Roma, quindi con il ‘modo di produzione feudale’ con la variante del ‘dispotismo comunitario’, soprattutto orientale, ed infine con il ‘capitalismo’ ed il ‘socialismo’.
Una delle sue tesi chiave è che il capitalismo, in quanto tale, fu un modo di produzione peculiare della civiltà europea e intrinsecamente e necessariamente colonialista. Quel che fece il capitalismo, ad esempio all’Africa[5], fu di decivilizzare i modi di produzione preesistenti, per creare al loro posto il capitalismo in posizione di sfruttamento coloniale. In altre parole, gli elementi del modo di produzione ‘comunitario’, ovvero il tribalismo, o la relativa debolezza del modo ‘comunitario dispotico’ in altri casi, vengono sfruttati dalle potenze capitaliste (e per questo rivolte al sistematico sfruttamento ed all’espansione costante), per produrre forme di “dominazione indiretta”. Molto spesso la cosa avviene cooptando le élite locali ed asservendole agli stili di vita (e quindi di consumo) occidentali. Quel che crea quindi il capitalismo, nel passaggio dalla dominazione diretta ad indiretta è la stessa classe ‘compradora’ di cui si serve, dividendo e dominando e dissolvendo il modo di produzione tribale con le sue solidarietà verticali. Si tratta di un processo lento, che storicamente prende quasi quattrocento anni, ma che nel 1800 è ormai compiuto (a partire dall'invenzione della dominazione indiretta negli Stati Uniti, in Canada, Australia, Nuova Zelanda, con alterne fortune e vicende) e si tratta di un processo operante sempre in un contesto di apartheid razzistico.
Per Jaffe il “fondamento reale” del capitalismo non è la ‘rivoluzione industriale’ ma semplicemente “l’ipersfruttamento e l’oppressione razzistica dei lavoratori coloniali, che per tanto tempo hanno costituito la maggioranza del ‘proletariato’ globale (compresi i proletari contadini)”. Questa tesi, che condivide con Frank, implica anche che l’immane genocidio che l’imposizione del vincolo coloniale comportò per quasi tutti i paesi sottomessi (in pratica con la sola eccezione della Cina) fu causato principalmente da questo sfruttamento e dalla distruzione della struttura ‘modale’ autoctona (ovvero dalle istituzioni, dalle basi materiali di esistenza, dalle capacità di produzione autonoma). Ad esempio se nel 1500 si stima che 80 milioni, dei 500 totali, di persone abitavano in America, appena un secolo dopo sono ridotte ad un ottavo, ed in alcuni casi (Messico) ad un venticinquesimo. Questo disastro fu compiuto non dalle malattie, ma dall’acciaio e dal lavoro forzato (solo Cortez dominava una piantagione coloniale nella quale lavoravano 50.000 schiavi). Queste stime, prodotte da Todorov, sono basate sui ritrovamenti (e recentemente se sono stati fatti altri ed impressionanti, con resti di città di decine di milioni di abitanti) e sulle testimonianze documentali rimaste, come i resoconti di Las Casas.
In pratica dopo alcuni secoli di occupazione solo la civiltà cinese sopravvisse ad una ecatombe che può stimarsi in circa 300 milioni di persone. Si è trattato in sostanza di un apartheid su scala mondiale[6].

È per questo che Jaffe, che provò sulla sua pelle gli effetti in Africa del neocolonialismo nei turbolenti anni settanta, si indigna rileggendo i giudizi di Karl Marx sulla schiavitù, e ancora più quelli di Engels. Il primo individua “la principale relazione di classe nel periodo della genesi colonialista del capitalismo”, ma, in una lettera del 1846 in base ad un ragionamento alquanto sommario[7], ne giudica il “lato buono” nel fatto che questa fu la “condizione necessaria” per l’industria su larga scala, e quindi per il capitalismo.

Da qui la domanda che dà il titolo al libro: ma il capitalismo fu necessario? Fu, esso, la “condizione necessaria” al progresso umano? Fosse anche questo orientato al socialismo?

La risposta che darà è, ovviamente, negativa. Per arrivarvi il testo sottopone a critica anche la posizione di Braudel ed il modello della gravitazione concentrica (derivato da von Thunen) che è alla radice della sua versione di sistema-mondo. Per questa via, Jaffe, che è più vicino a Frank rispetto ad altri autori del gruppo del sistema mondo, prende le distanze anche da Wallerstein. Sostiene infatti, come Frank, che la cosiddetta superiorità occidentale (anche tecnologica, nonché economica, sociale, politica e culturale) è solo un’immagine retrospettiva. Invece sono le civiltà comunitario-dispotiche ad aver avuto il primato per secoli, quelle precolombiane degli Inca, degli Atzechi, dei Toltechi e dei Maya, le civiltà dell’Egitto post-faraonico, del Mediterraneo Arabo, della Spagna moreschi, degli Stati ottomani, del nord Africa, dei balcani, di Baghdad, di Damaso, degli stati Moghul e indù, delle Filippine, dell’Indonesia, della Corea, del Giappone shogunita, della Cina. “Tale superiorità riguardava tra l’altro la tecnologia, la matematica pura e altre scienze esatte, in particolare nel caso di Moghul in India (che già nel XVII secolo avevano costruito un osservatorio astronomico), degli obelischi di ferro indiani e dell’industria del ferro cinese” (p.31). Questa arretratezza modale europea che durò millenni fu superata solo attraverso la ‘accumulazione primitiva’ basata sul sistematico genocidio in America, Oceania, Africa ed Asia, a partire dal XV secolo.

“questo processo coloniale costituì al tempo stesso la genesi del modo di produzione capitalistico e la sua strutturazione di classe (la sua ‘struttura sociale’). Il nuovo modo di produzione capitalistico, che aveva guadagnato e manteneva la propria posizione dominante per mezzo del colonialismo e del suo acme, l’imperialismo, peggiorò sotto ogni aspetto le condizioni di vita rispetto a quelle date in precedenza nell’ambito delle grandi e anche delle piccole civiltà improntate al modo di produzione comunitario dispotico”.

Bisogna fare una precisazione: ovunque c’erano singoli capitalisti, ma solo in Europa questi diventarono dominanti, e lo diventarono per effetto del colonialismo. Gli altri modi di produzione non poterono seguire lo stesso sentiero perché i capitalisti erano ‘incorporati’ nella società (“dispotica”) e non potevano prendere il sopravvento sulla direzione sociale e politica. In Europa invece iniziarono a prendere il sopravvento e gradualmente si affrancarono grazie all’accumulazione avviata con le crociate, e poi proseguita, saltando di scala, con i conquistadores che guadagnarono interi continenti e popolazioni superiori di molte volte a quelle europee. Allargando la manodopera di molte volte.

Da questa ricostruzione ne deriva che se “la storia di tutte le società fino ad oggi esistite è storia delle lotte di classe”[8], allora sono esistite soprattutto lotte di classe internazionali e coloniali. In effetti, diversamente da Engels, che inclinava abbastanza al razzismo ed al colonialismo, Marx riconosceva che il colonialismo è la vera genesi del modo di produzione capitalista e ne costituisce la sua struttura sociale. Ma qui c’è una divergenza nelle tradizioni marxiste, perché resta da stabilire se i modi di produzione “comunitario” e “comunitario dispotico” abbiano ceduto al capitalismo, offrendosi al colonialismo che li ha distrutti, perché incapaci di sviluppare le forze produttive o per altre ragioni, ovvero il semplice genocidio condotto con mezzi militari. È in realtà qui che poggia la domanda cruciale: quella che si chiede se, sotto molti profili, fu un progresso.

La risposta di Jaffe è che dal punto di vista della somma delle sofferenze fu certamente un regresso. Ma dalla prospettiva della lotta modale tutto dipende dall’eventuale passaggio ad un ‘modo’ irreconciliabile e superiore, come il socialismo. Mentre se il processo si ferma al capitalismo rappresenta sicuramente un arretramento. La forma ‘comunitaria’, era, infatti, progressiva sotto il profilo etico, e venne inibita e spezzata dallo spirito anticomunitario del “modo di produzione borghese”. Questo processo non fu quindi progressivo, ma reazionario e comportò l’inibizione individualista che ha, alla fine, paralizzato anche le forze lavoratrici nell’occidente.
Rileggendo famosi passi del “Manifesto”, Jaffe richiama un punto decisivo. Scrive Marx:

“…la borghesia, attraverso lo sfruttamento del mercato globale, ha conferito un carattere cosmopolita alla produzione e al consumo in ogni paese […] tutte le industrie nazionali di antica fondazione sono state e sono quotidianamente distrutte. Vengono rimpiazzate da nuove industrie, la cui realizzazione diviene questione di vita o di morte per tutte le nazioni civilizzate, che lavorano materiali grezzi non più autoctoni ma importati dalle zone più remote”.

Dunque, usando “cosmopolita” come sinonimo di “planetario”, Marx ricorda che “al posto dell’antico isolamento e della vecchia autosufficienza locale e nazionale abbiamo relazioni in ogni direzione, un’interdipendenza universale delle nazioni”. Nel 1848, dunque questi si aspetta che l’esperienza coloniale, che ha determinato la rovina delle industrie nazionali di antica fondazione (ad esempio la floridissima industria indiana dei tessuti), si trasformi in una ‘interdipendenza’, tratteggiata con impliciti toni positivi.
Ma per Jaffe “la verità storica è che il capitalismo contraddisse le aspettative di Marx secondo cui sarebbe divenuto cosmopolita. Invece di uno sviluppo cosmopolita dell’interdipendenza delle nazioni si ebbe solo la prosecuzione del colonialismo”, anzi una sua intensificazione in “imperialismo”. E qui il termine adoperato da Marx ed Engels, di “nazioni civilizzate” suona particolarmente stridente. E fa dire, pochi anni dopo, allo stesso Lenin che “il capitalismo è cresciuto fino a diventare un sistema mondiale di oppressione coloniale e di strangolamento finanziario della grande maggioranza della popolazione ad opera di un pugno di paesi ‘avanzati’”.
Invece per Marx la borghesia avrebbe costretto e trascinato le nazioni “più barbare” nella “civiltà”, e costretto, pena l’estinzione, “ad adottare il modo di produzione borghese” creando un mondo a sua immagine e somiglianza. Ma di più, la borghesia “come determinò la dipendenza del paese dalle città, determinò anche quella dei paesi barbari e semibarbari da quelli civilizzati, quella delle nazioni contadine dalle nazioni borghesi, quella dell’oriente dall’occidente”.

Come sostiene anche Losurdo, in questi toni si rintraccia lo spirito del tempo, il generale ambiente razzistico dal quale era molto difficile sottrarsi, e l’industrialismo che ne fa parte.

Jaffe va oltre, e ricorda l’articolo che Marx scrisse per il “New York Tribune” nel 1853 sulla “rivoluzione in Cina ed in Europa”. In esso prevedeva che “le prossime insorgenze dei popoli europei e il loro movimento per la libertà repubblicana e un’economia di governo dipendono probabilmente più da ciò che avviene nel Celeste Impero – antitesi di ciò che è l’Europa – che da qualsiasi altra spinta politica in atto, comprese le minacce della Russia e il rischio conseguentemente plausibile di una guerra europea”. Ma “ciò che avviene nel Celeste Impero” era in effetti la rivoluzione Taiping (1851-1864) piegata solo dalle truppe inglesi del generale Gordon, ed era, niente di meno che, “la più grande lotta di classe della storia”. Basata nella città di Nanchino ebbe come bersaglio la libertà delle donne, la terra ai contadini, l’espulsione delle potenze straniere, l’educazione popolare e l’eguaglianza dei cittadini. E come antitesi i poteri coloniali. Malgrado questo esempio che giudica lui stesso “formidabile”, però Marx alla fine sembra contrario. Il dilemma sembra essere il seguente: la rivoluzione Taiping, in caso di successo, avrebbe potuto rovesciare il modo di produzione del dispotismo asiatico dall’interno? Senza, cioè, passare per il modo di produzione capitalistico e per la conseguente dominazione coloniale?

Il Manifesto dei Taiping, che al loro massimo ebbero oltre due milioni di combattenti, prevedeva una società senza classi e l’eguaglianza universale, inoltre l’abolizione della proprietà privata sui terreni, e l’espropriazione dei beni dei proprietari per accedere ad una proprietà comunitaria della terra, inoltre l’abolizione del commercio privato e l’eguaglianza tra i sessi, con messa al bando di schiavitù, oppio, tabacco, alcol, poligamia, monarchia ed espulsione dei colonialisti stranieri. Purtroppo, quando questi furono sconfitti e sterminati dai cannoni inglesi, in un articolo del 1862 Marx dichiarò che “nella lotta contro il marasma conservatore non sembrano avere introdotto altro che forme grottesche di distruzione, senza alcun germe di rigenerazione” (p.102).

Una visione dunque eurocentrica della Cina, che confliggeva con lo spirito anti-coloniale che in molti luoghi lo stesso Marx coltivò. Ma la radice di questa contraddizione sta nel modo di concepire il ‘progresso’ che parte dal pregiudizio per il quale ogni nuovo ‘modo di produzione’ si afferma come negazione della negazione ed è necessariamente superiore al precedente. Jaffe, al contrario, pensa che ogni situazione debba essere giudicata in relazione al miglioramento effettivo e storico-concreto delle condizioni della maggioranza. Questo miglioramento, radicale “qualsiasi cosa ciò possa significare” (come diceva Gunder Frank) è l’unico punto di vista possibile. Dunque è possibile che la rivolta Taiping, serbasse il seme di una rivoluzione sociale capace di scaturire direttamente dalla contraddizione tra la base lavorativa comunitaria e la classe statale burocratica e autocratica che sottraeva e redistribuiva il surplus.

Una vicenda simile riguarda l’India, nella quale l’ambiguità e la lotta interiore tra acuta percezione della distruzione sistematica di un secolare modo di vita e di tutte le sue strutture fisiche ed umane da parte dei Vicerè inglesi, che si incunearono abilmente nelle guerre e scontri interclasse indiani, e il pregiudizio etnografico, si manifesta con chiarezza. Per Marx, infatti l’India non ha storia, ed è destinata sempre ad essere conquistata. Ne conseguiva che “l’Inghilterra deve compiere una doppia missione in India: una distruttiva, l’altra rigenerativa: l’annientamento della vecchia società asiatica e la posa delle fondamenta materiali della società occidentale in Asia”. Sfortunatamente l’unica fondamenta materiale che fu posta è quella della società occidentale in Inghilterra. Tutti gli investimenti condotti dalla potenza coloniale furono a favore solo di questa, tutte le ferrovie, tutto il materiale rotabile fu acquistato in Inghilterra, tutti i ruoli più importanti e remunerati furono tenuti da inglesi, e via dicendo.
In altre parole per Jaffe “Marx non comprese che il capitalismo non avrebbe risanato ma piuttosto rinnovato la divisione del lavoro del mondo messo in atto dal sistema coloniale”. Il risultato principale che ottenne l’imperialismo fu la borghesizzazione dei lavoratori europei, che ricevettero il dividendo coloniale, e una pseudoindustrializzazione completamente dominata nei paesi coloniali.

L’intero meccanismo immaginato ha girato quindi in un’altra direzione. C’è voluta la decolonizzazione, di cui la prima e fondamentale azione fu la rivoluzione russa e poi quella cinese, perché l’autonomia relativa iniziasse a creare una qualche industrializzazione meno dipendente (ma non completamente autonoma) nei paesi dotati della maggiori risorse umane e naturali.

In realtà tutte le rivoluzioni “modali” contemporanee, che rovesciarono il modo capitalista, lo fecero in paesi socioeconomicamente arretrati (ma non necessariamente culturalmente) e tutte, salvo quella cubana, durante una guerra.

A questo punto Jaffe, presentato il suo argomento, si sofferma su diverse forme storiche di “dispotismo comunitario”: l’Egitto, che fu il connubio di due modi di produzione coesistenti, comunitario e comunitario-dispotico; l’Etiopia nel quale lo sviluppo in corso del dispotismo comunitario fu stroncato sul nascere dai colonialisti portoghesi; l’India, che aveva una popolazione di 50 milioni ed un potente esercito, quando il colonialismo mercantile britannico, nel 1700 lo spezzò e, come scrisse Marx, “demolì l’intera ossatura della società indiana” (p.70); la Cina, il cui dispotismo comunitario subì l’attacco occidentale del 1624 e la repressione della fondamentale rivoluzione Taiping (p.78). Quindi Cambogia, Laos, Vietnam, ma anche Russia.

Ne derivano tre leggi, con riferimento alla transizione al socialismo:
1-     Nessuna rivoluzione socialista è mai avvenuta in un paese avanzato,
2-     Tutte sono accadute in paesi arretrati con riferimento al modo di produzione capitalista (ovvero paesi sotto gioco coloniale o semi-coloniale come la Russia),
3-     Tutte quando il capitalismo non si era ancora pienamente sviluppato.

Il capitalismo fu, insomma, necessario per l’elaborazione del marxismo, ma, si chiede provocatoriamente Jaffe, è anche vero che “il marxismo fu necessario per il socialismo”? A vedere lo stesso Lenin era lacerato tra il suo personale internazionalismo cosmopolita (che condivideva con Marx e la maggior parte dei rivoluzionari di professione, che nell’epoca di governi fortemente autocratici erano quasi sempre esuli e apolidi) e l’eurocentrismo che dava priorità ai paesi avanzati e dunque al loro “modo di produzione”.
In realtà la potenzialità, e la stessa natura, di eventi come la rivolta di Taiping mostrano lo svuotamento della tesi marxista (in parte rivista in occasione della tarda rivalutazione del Mir nella famosa lettera a Zasulic di cui abbiamo più volte parlato[9]) della stretta necessità di passare per il capitalismo. La previsione era sbagliata in particolare perché fu sottovalutata la persistenza della violenza coloniale, necessaria al capitalismo, ed anzi il passaggio all’imperialismo, con la conseguenza non secondaria della corruzione del proletariato occidentale (in particolare delle aziende monopoliste dedite alle esportazioni) con parte del ‘dividendo’. Il “bottino coloniale” si può, infatti, stimare per Jaffe in circa 10.000 $/anno pro capite. Una somma in grado di innescare una valanga di cambiamenti tecnologici e lo stesso consumismo.

Le guerre di liberazione coloniali, che impegnarono quindi il XX secolo, ovunque, e che Jaffe visse in prima persona in Africa sono state guerre di difesa da questa costante aggressione e continua espropriazione. Guerre che, come illustra anche Losurdo, furono sostenute e teorizzate da Lenin, Mao, Ho Chi Min, Castro e Guevara, gli algerini, la Guinea di Cabral, e furono tutte guerre “messe in atto dai lavoratori e dai contadini dei paesi coloniali e semicoloniali contro gli invasori imperialisti, e guidate nella maggioranza dei casi da leninisti” (p.146).




[1] - A partire da “Re-Oriented”, nel 1999. In “Per una storia orizzontale della globalizzazione”, parte II.
[2] - Con materiale diverso, ma parimenti con un confronto profondo con la tradizione marxista, anche Losurdo sosteneva una tesi simile in “Il marxismo occidentale”.
[3] - Che, peraltro, riprende una letteratura precedente, come abbiamo ricordato nel post su, “Il surplus”.
[4] - Si tratta di un libro del 1994, “Germania. Verso il nuovo disordine mondiale”, nel quale Jaffe sostiene che la Germania sta prendendo in mano l’Europa costringendo i paesi mediterranei ad un'impossibile rincorsa al PIL e ad altri parametri dello sviluppo, distraendoli da politiche sociali, cioè da quella conquista che fu lo "Stato sociale". O “Germania, il caso dell’euro-imperialismo”, 1979.
[6] - Cfr. Hosea Jaffe, Samir Amin, Gunder Frank “Quale 1984?”, 1975.
[7] - “il lato buono della schiavitù. Non mi riferisco alla schiavitù indiretta, la schiavitù del proletariato, ma alla schiavitù diretta, la schiavitù dei neri in Suriname, in Brasile, nelle regioni meridionali del nord America. La schiavitù diretta è uno dei cardini essenziali su cui l’industria moderna muove le macchine, il capitale, ecc. senza la schiavitù non ci sarebbe il cotone, senza il cotone non ci sarebbe l’industria moderna. Fu la schiavitù a conferire la loro importanza alle colonie, le colonie dettero vita al commercio globale e il commercio globale è la condizione necessaria per l’industria su larga scala” (Karl Marx a Pavel Vasilevic Annenkov, 1946.
[8] - Karl Marx, “Il Manifesto”.

Nessun commento:

Posta un commento