Proseguendo la lettura della “teoria della dipendenza” e delle sue diramazioni, ed in particolare
in continuità con l’analisi della posizione, estesa su quattro decenni e
soggetta a notevoli mutamenti, di Andre Gunder Frank, vale la pena affrontare
questo libro del 2008 di Hosea Jaffe che individua, attraverso un serrato
corpo-a-corpo con la tradizione marxiana, una questione decisiva e tenta di
risolverla negando radicalmente la funzione progressiva del capitalismo. Vediamo
però prima qualche consonanza con gli altri orientamenti teorici di cui abbiamo
già parlato: come il suo amico Frank, in particolare dopo la svolta[1]
degli anni zero, Jaffe pensa che sia l’eurocentrismo del XIX secolo ad aver
portato fuori strada molta parte della tradizione marxista, ed è convinto che
non sia tanto la presunta superiorità tecnologica o istituzionale ad aver
consentito all’occidente di prevalere, ma il colonialismo[2].
Concorda quindi con la tesi di fondo della “teoria
della dipendenza”, sin dalle prime formulazioni in Baran[3],
per la quale non è affatto la carenza di capitalismo a provocare il
sottosviluppo, ma la sua presenza. Il capitalismo, cioè, estendendo le sue
pratiche di sfruttamento, determina per sua natura una gerarchia di centri di
sviluppo organizzati in una catena di connessioni che rendono il sottosviluppo
altra faccia necessaria dello sviluppo. Come concluderà, il capitalismo non è quindi progressivo, ma antagonistico dello sviluppo umano.
Hosea Jaffe è stato uno storico ed economista sudafricano nato a Città del Capo nel 1921 e morto in
Italia, a San Martino Valle Caudina nel 2014. Ha insegnato in mezzo mondo e tre continenti, ed ha svolto una
funzione critica verso l’evoluzione della globalizzazione prima e l’Unione
Europea dopo. La prima è intrinseca al capitalismo (una tesi che è propria in
qualche modo di tutta la scuola e che evolve a partire dalle analisi
sull’imperialismo dei primi novecento), la seconda, che il nostro tratta in
alcuni libri sulla Germania[4]
già negli anni ottanta e poi nei primi anni novanta, è individuata come
dispositivo concorrenziale ad egemonia tedesca. La sua posizione intransigente
verso il colonialismo ed il neocolonialismo lo rende a lungo indigesto alla
sinistra europea, verso la quale esprime una posizione molto critica, anche per
posizioni dure con Israele e per la tesi della ‘disconnessione’ (che condivide
con il primo Frank, fino al golpe cileno, e con Samir Amin).
Venendo al merito, nella
sua ricostruzione storica ed argomentazione svolge una funzione centrale la nozione di “conflitto modale”, ovvero di conflitto tra “modi di produzione”
diversi ed incompatibili. Se per Marx la Storia è lotta di classe, si potrebbe
dire che per Jaffe è più “conflitto modale”. A grandi linee si tratta del conflitto tra
il modo di produzione originario, diffuso più o meno nel mondo, del “comunismo
primitivo” (riprendendo tesi di Pannikkar, in particolare sul Kerala), o del
“modo comunitario”, che giudica più umani e più democratici delle forme
successive, e il ‘modo di produzione schiavista’, limitato solo a Grecia e
Roma, quindi con il ‘modo di produzione feudale’ con la variante del ‘dispotismo
comunitario’, soprattutto orientale, ed infine con il ‘capitalismo’ ed il
‘socialismo’.
Una delle sue tesi chiave è che il capitalismo, in
quanto tale, fu un modo di produzione peculiare della civiltà europea e intrinsecamente
e necessariamente colonialista. Quel che fece il capitalismo, ad esempio all’Africa[5], fu di decivilizzare i modi di produzione preesistenti, per creare al loro posto il
capitalismo in posizione di sfruttamento coloniale. In altre parole, gli
elementi del modo di produzione ‘comunitario’, ovvero il tribalismo, o la
relativa debolezza del modo ‘comunitario dispotico’ in altri casi, vengono sfruttati dalle potenze capitaliste (e per questo rivolte al sistematico
sfruttamento ed all’espansione costante), per produrre forme di “dominazione
indiretta”. Molto spesso la cosa avviene cooptando le élite locali ed asservendole agli stili di vita (e
quindi di consumo) occidentali. Quel che crea quindi il capitalismo, nel
passaggio dalla dominazione diretta ad indiretta è la stessa classe
‘compradora’ di cui si serve, dividendo e dominando e dissolvendo il modo di
produzione tribale con le sue solidarietà verticali. Si tratta di un processo
lento, che storicamente prende quasi quattrocento anni, ma che nel 1800 è ormai compiuto (a partire dall'invenzione della dominazione indiretta negli Stati
Uniti, in Canada, Australia, Nuova Zelanda, con alterne fortune e vicende) e si tratta di un processo operante sempre in un contesto di apartheid razzistico.
Per Jaffe il “fondamento reale” del capitalismo non è
la ‘rivoluzione industriale’ ma semplicemente “l’ipersfruttamento e
l’oppressione razzistica dei lavoratori coloniali, che per tanto tempo hanno
costituito la maggioranza del ‘proletariato’ globale (compresi i proletari
contadini)”. Questa tesi, che condivide con Frank, implica anche che l’immane
genocidio che l’imposizione del vincolo coloniale comportò per quasi tutti i paesi
sottomessi (in pratica con la sola eccezione della Cina) fu causato
principalmente da questo sfruttamento e dalla distruzione della struttura
‘modale’ autoctona (ovvero dalle istituzioni, dalle basi materiali di
esistenza, dalle capacità di produzione autonoma). Ad esempio se nel 1500 si
stima che 80 milioni, dei 500 totali, di persone abitavano in America, appena
un secolo dopo sono ridotte ad un ottavo, ed in alcuni casi (Messico) ad un
venticinquesimo. Questo disastro fu compiuto non dalle malattie, ma
dall’acciaio e dal lavoro forzato (solo Cortez dominava una piantagione
coloniale nella quale lavoravano 50.000 schiavi). Queste stime, prodotte da
Todorov, sono basate sui ritrovamenti (e recentemente se sono stati fatti altri
ed impressionanti, con resti di città di decine di milioni di abitanti) e sulle
testimonianze documentali rimaste, come i resoconti di Las Casas.
In pratica dopo alcuni secoli di occupazione solo la
civiltà cinese sopravvisse ad una ecatombe che può stimarsi in circa 300
milioni di persone. Si è trattato in sostanza di un apartheid su scala mondiale[6].
È per questo che Jaffe, che provò sulla sua pelle gli
effetti in Africa del neocolonialismo nei turbolenti anni settanta, si indigna
rileggendo i giudizi di Karl Marx sulla schiavitù, e ancora più quelli di Engels.
Il primo individua “la principale relazione di classe nel periodo della
genesi colonialista del capitalismo”, ma, in una lettera del 1846 in base ad un
ragionamento alquanto sommario[7], ne
giudica il “lato buono” nel fatto che questa fu la “condizione necessaria” per
l’industria su larga scala, e quindi per il capitalismo.
Da qui la domanda che dà il titolo al libro: ma il capitalismo fu necessario? Fu,
esso, la “condizione necessaria” al progresso umano? Fosse anche questo
orientato al socialismo?
La risposta che darà è, ovviamente, negativa. Per
arrivarvi il testo sottopone a critica anche la posizione di Braudel ed il modello della
gravitazione concentrica (derivato da von Thunen) che è alla radice della sua
versione di sistema-mondo. Per questa via, Jaffe, che è più vicino a Frank rispetto
ad altri autori del gruppo del sistema mondo, prende le distanze anche da
Wallerstein. Sostiene infatti, come Frank, che la cosiddetta superiorità
occidentale (anche tecnologica, nonché economica, sociale, politica e
culturale) è solo un’immagine retrospettiva. Invece sono le civiltà
comunitario-dispotiche ad aver avuto il primato per secoli, quelle precolombiane
degli Inca, degli Atzechi, dei Toltechi e dei Maya, le civiltà dell’Egitto
post-faraonico, del Mediterraneo Arabo, della Spagna moreschi, degli Stati
ottomani, del nord Africa, dei balcani, di Baghdad, di Damaso, degli stati
Moghul e indù, delle Filippine, dell’Indonesia, della Corea, del Giappone
shogunita, della Cina. “Tale superiorità riguardava tra l’altro la tecnologia,
la matematica pura e altre scienze esatte, in particolare nel caso di Moghul in
India (che già nel XVII secolo avevano costruito un osservatorio astronomico),
degli obelischi di ferro indiani e dell’industria del ferro cinese” (p.31).
Questa arretratezza modale europea che durò millenni fu superata solo attraverso
la ‘accumulazione primitiva’ basata sul sistematico genocidio in America,
Oceania, Africa ed Asia, a partire dal XV secolo.
“questo processo
coloniale costituì al tempo stesso la genesi del modo di produzione
capitalistico e la sua strutturazione di classe (la sua ‘struttura sociale’).
Il nuovo modo di produzione capitalistico, che aveva guadagnato e manteneva la
propria posizione dominante per mezzo del colonialismo e del suo acme,
l’imperialismo, peggiorò sotto ogni aspetto le condizioni di vita rispetto a
quelle date in precedenza nell’ambito delle grandi e anche delle piccole
civiltà improntate al modo di produzione comunitario dispotico”.
Bisogna fare una precisazione: ovunque c’erano singoli
capitalisti, ma solo in Europa questi diventarono dominanti, e lo diventarono
per effetto del colonialismo. Gli altri modi di produzione non poterono seguire
lo stesso sentiero perché i capitalisti erano ‘incorporati’ nella società
(“dispotica”) e non potevano prendere il sopravvento sulla direzione sociale e
politica. In Europa invece iniziarono a prendere il sopravvento e gradualmente
si affrancarono grazie all’accumulazione avviata con le crociate, e poi
proseguita, saltando di scala, con i conquistadores che guadagnarono interi
continenti e popolazioni superiori di molte volte a quelle europee. Allargando
la manodopera di molte volte.
Da questa ricostruzione ne deriva che se “la storia di
tutte le società fino ad oggi esistite è storia delle lotte di classe”[8], allora
sono esistite soprattutto lotte di classe internazionali e coloniali. In
effetti, diversamente da Engels, che inclinava abbastanza al razzismo ed al
colonialismo, Marx riconosceva che il colonialismo è la vera genesi del modo di
produzione capitalista e ne costituisce la sua struttura sociale. Ma qui c’è
una divergenza nelle tradizioni marxiste, perché resta da stabilire se i modi
di produzione “comunitario” e “comunitario dispotico” abbiano ceduto al
capitalismo, offrendosi al colonialismo che li ha distrutti, perché incapaci di
sviluppare le forze produttive o per altre ragioni, ovvero il semplice
genocidio condotto con mezzi militari. È
in realtà qui che poggia la domanda cruciale: quella che si chiede se, sotto molti profili, fu un
progresso.
La risposta di Jaffe è che dal punto di vista della somma delle sofferenze fu
certamente un regresso. Ma dalla prospettiva della lotta modale tutto dipende
dall’eventuale passaggio ad un ‘modo’ irreconciliabile e superiore, come il
socialismo. Mentre se il processo si ferma al capitalismo rappresenta sicuramente un
arretramento. La forma ‘comunitaria’, era, infatti, progressiva sotto il
profilo etico, e venne inibita e spezzata dallo spirito anticomunitario del
“modo di produzione borghese”. Questo processo non fu quindi progressivo, ma
reazionario e comportò l’inibizione individualista che ha, alla fine,
paralizzato anche le forze lavoratrici nell’occidente.
Rileggendo famosi passi del “Manifesto”, Jaffe
richiama un punto decisivo. Scrive Marx:
“…la borghesia,
attraverso lo sfruttamento del mercato globale, ha conferito un carattere cosmopolita
alla produzione e al consumo in ogni paese […] tutte le industrie nazionali di
antica fondazione sono state e sono quotidianamente distrutte. Vengono rimpiazzate
da nuove industrie, la cui realizzazione diviene questione di vita o di morte
per tutte le nazioni civilizzate, che lavorano materiali grezzi non più
autoctoni ma importati dalle zone più remote”.
Dunque, usando “cosmopolita” come sinonimo di “planetario”,
Marx ricorda che “al posto dell’antico isolamento e della vecchia
autosufficienza locale e nazionale abbiamo relazioni in ogni direzione, un’interdipendenza
universale delle nazioni”. Nel 1848, dunque questi si aspetta che l’esperienza
coloniale, che ha determinato la rovina delle industrie nazionali di antica
fondazione (ad esempio la floridissima industria indiana dei tessuti), si
trasformi in una ‘interdipendenza’, tratteggiata con impliciti toni positivi.
Ma per Jaffe “la verità storica è che il capitalismo
contraddisse le aspettative di Marx secondo cui sarebbe divenuto cosmopolita. Invece
di uno sviluppo cosmopolita dell’interdipendenza delle nazioni si ebbe solo la
prosecuzione del colonialismo”, anzi una sua intensificazione in “imperialismo”.
E qui il termine adoperato da Marx ed Engels, di “nazioni civilizzate” suona
particolarmente stridente. E fa dire, pochi anni dopo, allo stesso Lenin che “il
capitalismo è cresciuto fino a diventare un sistema mondiale di oppressione
coloniale e di strangolamento finanziario della grande maggioranza della
popolazione ad opera di un pugno di paesi ‘avanzati’”.
Invece per Marx la borghesia avrebbe costretto e
trascinato le nazioni “più barbare” nella “civiltà”, e costretto, pena l’estinzione,
“ad adottare il modo di produzione borghese” creando un mondo a sua immagine e
somiglianza. Ma di più, la borghesia “come determinò la dipendenza del paese dalle città,
determinò anche quella dei paesi barbari e semibarbari da quelli civilizzati,
quella delle nazioni contadine dalle nazioni borghesi, quella dell’oriente dall’occidente”.
Come sostiene anche Losurdo, in questi toni si rintraccia lo spirito del tempo, il generale ambiente razzistico dal quale era molto difficile sottrarsi, e l’industrialismo che ne fa parte.
Jaffe va oltre, e ricorda l’articolo che Marx scrisse
per il “New York Tribune” nel 1853
sulla “rivoluzione in Cina ed in Europa”. In esso prevedeva che “le prossime
insorgenze dei popoli europei e il loro movimento per la libertà repubblicana e
un’economia di governo dipendono probabilmente più da ciò che avviene nel Celeste
Impero – antitesi di ciò che è l’Europa – che da qualsiasi altra spinta
politica in atto, comprese le minacce della Russia e il rischio conseguentemente
plausibile di una guerra europea”. Ma “ciò che avviene nel Celeste Impero” era
in effetti la rivoluzione Taiping (1851-1864) piegata solo dalle truppe inglesi
del generale Gordon, ed era, niente di meno che, “la più grande lotta di classe
della storia”. Basata nella città di Nanchino ebbe come bersaglio la libertà
delle donne, la terra ai contadini, l’espulsione delle potenze straniere, l’educazione
popolare e l’eguaglianza dei cittadini. E come antitesi i poteri coloniali. Malgrado
questo esempio che giudica lui stesso “formidabile”, però Marx alla fine sembra
contrario. Il dilemma sembra essere il seguente: la rivoluzione Taiping, in
caso di successo, avrebbe potuto rovesciare il modo di produzione del dispotismo
asiatico dall’interno? Senza, cioè, passare per il modo di produzione capitalistico
e per la conseguente dominazione coloniale?
Il Manifesto dei
Taiping, che al loro massimo ebbero oltre due milioni di combattenti,
prevedeva una società senza classi e l’eguaglianza universale, inoltre l’abolizione
della proprietà privata sui terreni, e l’espropriazione dei beni dei
proprietari per accedere ad una proprietà comunitaria della terra, inoltre l’abolizione
del commercio privato e l’eguaglianza tra i sessi, con messa al bando di
schiavitù, oppio, tabacco, alcol, poligamia, monarchia ed espulsione dei
colonialisti stranieri. Purtroppo, quando questi furono sconfitti e sterminati dai
cannoni inglesi, in un articolo del 1862 Marx dichiarò che “nella lotta contro
il marasma conservatore non sembrano avere introdotto altro che forme
grottesche di distruzione, senza alcun germe di rigenerazione” (p.102).
Una visione dunque eurocentrica della Cina, che
confliggeva con lo spirito anti-coloniale che in molti luoghi lo stesso Marx
coltivò. Ma la radice di questa contraddizione sta nel modo di concepire il
‘progresso’ che parte dal pregiudizio per il quale ogni nuovo ‘modo di
produzione’ si afferma come negazione della negazione ed è necessariamente
superiore al precedente. Jaffe, al contrario, pensa che ogni situazione debba essere
giudicata in relazione al miglioramento effettivo e storico-concreto delle condizioni
della maggioranza. Questo miglioramento, radicale “qualsiasi cosa ciò possa
significare” (come diceva Gunder Frank) è l’unico punto di vista possibile. Dunque
è possibile che la rivolta Taiping, serbasse il seme di una rivoluzione sociale
capace di scaturire direttamente dalla contraddizione tra la base lavorativa
comunitaria e la classe statale burocratica e autocratica che sottraeva e
redistribuiva il surplus.
Una vicenda simile riguarda l’India, nella quale l’ambiguità
e la lotta interiore tra acuta percezione della distruzione sistematica di un secolare
modo di vita e di tutte le sue strutture fisiche ed umane da parte dei Vicerè
inglesi, che si incunearono abilmente nelle guerre e scontri interclasse indiani,
e il pregiudizio etnografico, si manifesta con chiarezza. Per Marx, infatti l’India
non ha storia, ed è destinata sempre ad essere conquistata. Ne conseguiva che “l’Inghilterra
deve compiere una doppia missione in India: una distruttiva, l’altra
rigenerativa: l’annientamento della vecchia società asiatica e la posa delle
fondamenta materiali della società occidentale in Asia”. Sfortunatamente l’unica
fondamenta materiale che fu posta è quella della società occidentale in
Inghilterra. Tutti gli investimenti condotti dalla potenza coloniale furono a
favore solo di questa, tutte le ferrovie, tutto il materiale rotabile fu
acquistato in Inghilterra, tutti i ruoli più importanti e remunerati furono
tenuti da inglesi, e via dicendo.
In altre parole per Jaffe “Marx non comprese che il
capitalismo non avrebbe risanato ma piuttosto rinnovato la divisione del lavoro
del mondo messo in atto dal sistema coloniale”. Il risultato principale che
ottenne l’imperialismo fu la borghesizzazione dei lavoratori europei, che
ricevettero il dividendo coloniale, e una pseudoindustrializzazione completamente
dominata nei paesi coloniali.
L’intero meccanismo immaginato ha girato quindi in un’altra
direzione. C’è voluta la decolonizzazione, di cui la prima e fondamentale
azione fu la rivoluzione russa e poi quella cinese, perché l’autonomia relativa
iniziasse a creare una qualche industrializzazione meno dipendente (ma non completamente
autonoma) nei paesi dotati della maggiori risorse umane e naturali.
In realtà tutte le rivoluzioni “modali” contemporanee,
che rovesciarono il modo capitalista, lo fecero in paesi socioeconomicamente
arretrati (ma non necessariamente culturalmente) e tutte, salvo quella cubana,
durante una guerra.
A questo punto Jaffe, presentato il suo argomento, si
sofferma su diverse forme storiche di “dispotismo comunitario”: l’Egitto, che
fu il connubio di due modi di produzione coesistenti, comunitario e
comunitario-dispotico; l’Etiopia nel quale lo sviluppo in corso del dispotismo
comunitario fu stroncato sul nascere dai colonialisti portoghesi; l’India, che
aveva una popolazione di 50 milioni ed un potente esercito, quando il
colonialismo mercantile britannico, nel 1700 lo spezzò e, come scrisse Marx,
“demolì l’intera ossatura della società indiana” (p.70); la Cina, il cui
dispotismo comunitario subì l’attacco occidentale del 1624 e la repressione
della fondamentale rivoluzione Taiping (p.78). Quindi Cambogia, Laos, Vietnam,
ma anche Russia.
Ne derivano tre leggi, con riferimento alla
transizione al socialismo:
1-
Nessuna
rivoluzione socialista è mai avvenuta in un paese avanzato,
2-
Tutte sono
accadute in paesi arretrati con riferimento al modo di produzione capitalista
(ovvero paesi sotto gioco coloniale o semi-coloniale come la Russia),
3-
Tutte quando il
capitalismo non si era ancora pienamente sviluppato.
Il capitalismo fu, insomma, necessario per l’elaborazione
del marxismo, ma, si chiede provocatoriamente Jaffe, è anche vero che “il
marxismo fu necessario per il socialismo”? A vedere lo stesso Lenin era
lacerato tra il suo personale internazionalismo cosmopolita (che condivideva
con Marx e la maggior parte dei rivoluzionari di professione, che nell’epoca di
governi fortemente autocratici erano quasi sempre esuli e apolidi) e l’eurocentrismo
che dava priorità ai paesi avanzati e dunque al loro “modo di produzione”.
In realtà la potenzialità, e la stessa natura, di
eventi come la rivolta di Taiping mostrano lo svuotamento della tesi marxista
(in parte rivista in occasione della tarda rivalutazione del Mir nella famosa lettera
a Zasulic di cui abbiamo più volte parlato[9])
della stretta necessità di passare per il capitalismo. La previsione era
sbagliata in particolare perché fu sottovalutata la persistenza della violenza
coloniale, necessaria al capitalismo, ed anzi il passaggio all’imperialismo,
con la conseguenza non secondaria della corruzione del proletariato occidentale
(in particolare delle aziende monopoliste dedite alle esportazioni) con parte
del ‘dividendo’. Il “bottino coloniale” si può, infatti, stimare per Jaffe in
circa 10.000 $/anno pro capite. Una somma in grado di innescare una valanga di
cambiamenti tecnologici e lo stesso consumismo.
Le guerre di liberazione coloniali, che impegnarono
quindi il XX secolo, ovunque, e che Jaffe visse in prima persona in Africa sono
state guerre di difesa da questa costante aggressione e continua
espropriazione. Guerre che, come illustra anche Losurdo, furono sostenute e
teorizzate da Lenin, Mao, Ho Chi Min, Castro e Guevara, gli algerini, la Guinea
di Cabral, e furono tutte guerre “messe in atto dai lavoratori e dai contadini
dei paesi coloniali e semicoloniali contro gli invasori imperialisti, e guidate
nella maggioranza dei casi da leninisti” (p.146).
[1] - A partire da “Re-Oriented”, nel 1999. In “Per
una storia orizzontale della globalizzazione”, parte II.
[2] - Con materiale diverso, ma
parimenti con un confronto profondo con la tradizione marxista, anche Losurdo
sosteneva una tesi simile in “Il marxismo occidentale”.
[3] - Che, peraltro, riprende una
letteratura precedente, come abbiamo ricordato nel post su, “Il surplus”.
[4] - Si tratta di un libro del 1994,
“Germania. Verso il nuovo disordine mondiale”,
nel quale Jaffe sostiene che la Germania sta prendendo in mano l’Europa
costringendo i paesi mediterranei ad un'impossibile rincorsa al PIL e ad altri
parametri dello sviluppo, distraendoli da politiche sociali, cioè da quella
conquista che fu lo "Stato sociale". O “Germania,
il caso dell’euro-imperialismo”, 1979.
[5] - Si veda, ad esempio, “Dal
tribalismo al socialismo, Storia dell’economia politica africana” 1971;
“Sudafrica,
storia politica”, 1997; “Tribalismo e colonialismo. La Nigeria”.
[6] - Cfr. Hosea Jaffe, Samir Amin,
Gunder Frank “Quale 1984?”, 1975.
[7] - “il lato buono della schiavitù.
Non mi riferisco alla schiavitù indiretta, la schiavitù del proletariato, ma
alla schiavitù diretta, la schiavitù dei neri in Suriname, in Brasile, nelle
regioni meridionali del nord America. La schiavitù diretta è uno dei cardini
essenziali su cui l’industria moderna muove le macchine, il capitale, ecc.
senza la schiavitù non ci sarebbe il cotone, senza il cotone non ci sarebbe
l’industria moderna. Fu la schiavitù a conferire la loro importanza alle
colonie, le colonie dettero vita al commercio globale e il commercio globale è
la condizione necessaria per l’industria su larga scala” (Karl Marx a Pavel
Vasilevic Annenkov, 1946.
[8] - Karl Marx, “Il Manifesto”.
[9] - Si veda, ad esempio “Karl
Marx, la comune rurale e la questione russav”
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