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sabato 8 giugno 2019

Fanny Pigeaud, Ndongo Saba Sylla, “L’arma segreta della Francia in Africa”



Il libro, tradotto dal francese da Thomas Fazi, quest’anno ed uscito in lingua originale nel 2018, racconta una storia molto nota, ma poco compresa: quella dell’insieme di accordi, imperniati sulla moneta ma non limitati a questa, che legano alcuni stati ex coloniali africani alla Francia. Sotto il meccanismo del cosiddetto “Franco CFA” (che poi sono due) vivono complessivamente 162 milioni di persone, per intenderci due volte e mezza la popolazione francese. Come vedremo la questione del Franco ex coloniale non è solo africana, si tratta di una delle più chiare applicazioni di una logica dello “Sviluppo del sottosviluppo” e delle sue infrastrutture che è generalmente presente in tutto il capitalismo mondiale a tutti i suoi livelli. Una logica che si presenta nuda nei paesi più poveri, ma che è analoga, pur se vestita, in quelli “avanzati”, che coltivano le loro sacche coloniali e comunque sono intrecciati in una catena di potere e sfruttamento.
La questione del Franco CFA ha anche una straordinaria somiglianza con le vicende dell’unione monetaria europea, se pur qui gli squilibri tra centro e periferia, pur presenti, sono meno pronunciati.
Gli autori ricostruiscono diffusamente un insieme di vincoli post-coloniali che di fatto riconducono in una vasta serie di temi ogni decisione all’ultima parola di Parigi. Come illustra meglio lo stesso Fazi in un utilissimo articolo recensione su Sinistra in Rete, si tratta di una moneta che emerge, a servizio del cosiddetto “patto coloniale”, già prima dell’indipendenza e che viene conservata però, insieme alla sua architettura di accordi, come condizione del via libera francese a questa. Tramite questa meccanica in sostanza vengono controllati i circuiti della produzione e scambio, determinando una dipendenza molto stretta tra l’economia di esportazione dei paesi africani coinvolti e la simmetrica importazione di beni francesi di lusso.



Si tratta di un caso da manuale di scambio subalterno tra un grande paese industrializzato e posto in posizione dominante nella catena di produzione del valore, a causa dell’insieme delle sue risorse pregiate (tecnologiche, umane, di capitale), e le élite ‘compradore[1] del paese dominato. Le quali traggono dalla relazione alcuni benefici essenziali, che le identificano come classe, garantendone la riproduzione e la coesione sociale e culturale: la protezione dei propri capitali, detenuti per lo più all’estero (e comunque in moneta convertibile all’estero a tasso fisso) e l’accesso, in condizioni sicure e convenienti, a consumi distintivi e di lusso, appunto importati dal paese dominante.
La zona del Franco viene inizialmente creata nel 1939, in quasi concomitanza con una fase di acuta crisi della ‘madrepatria’ che nel 1936 aveva abbandonato il sistema aureo, ed imitando la coeva logica dell’area della sterlina: libero scambio all’interno dell’area -ovvero con la nazione dominante- e protezionismo verso i competitori di questa. Il vero e proprio “Franco CFA” è creato nel 1945, il 25 dicembre, quando con il decreto n.45-0316, firmato da de Gaulle e dai due ministri della finanza e delle colonie vengono create le Colonie Francesi del Pacifico (CFO) e il Franco CFA ne divenne la moneta, proprio mentre nasce il sistema di Bretton Woods. Il 25 dicembre, quindi, la Francia dichiarò, in base agli accordi internazionali (cambio fisso ma regolabile rispetto al dollaro e questi all’oro) una parità di 119,10 franchi per dollaro, e la parità franco CFA verso franco di 1,70. Ne consegue una massiva svalutazione (la precedente parità era 49,6) della moneta francese, ma quindi una simmetrica sopravvalutazione di quella ex coloniale. Secondo la storica Helene d’Almeida-Topor si trattava di una decisione senza fondamento economico, in quanto non connessa con le caratteristiche comparate delle economie e del tenore di vita. L’effetto di questo dispositivo monetario è semplice e potente: impedire di fatto alle colonie di diversificare le proprie relazioni economiche di scambio, come stava avvenendo[2]. È chiaro che in questo modo la sopravvalutazione rese più economici i prodotti francesi e, contemporaneamente, meno convenienti i prodotti di esportazione. Come scrivono gli autori: “i flussi commerciali delle colonie si sarebbero dunque riorientati a favore della metropoli, che ci avrebbe guadagnato sia in termini di esportazioni che di importazioni, senza dover toccare le proprie riserve valutarie”.
Inoltre l’automatismo del cambio trascinò le più deboli economie delle colonie in tutte le svalutazioni e rivalutazioni del franco determinate dalle esigenze dell’economia guida.
Come disse il 21 giugno 1949 il senegalese Lamine Guèye: “il compito dei territori colonizzati era di produrre molto, produrre al di là dei propri bisogni e di produrre a detrimento dei loro interessi più immediati, al fine di consentire alla metropoli un tenore di vita migliore e una fornitura più sicura”. Ciò mentre, al contempo, i territori coloniali “hanno il dovere di vendere i loro prodotti al di sotto dei prezzi mondiali sebbene avessero la possibilità di fare altrimenti”, e, persino, di “non utilizzare la valuta proveniente dalla vendita dei nostri prodotti” (in quanto vanno a costituire riserve).

Questa struttura di relazione non è affatto anomala, né tipica del continente africano. Nel 1967, una quindicina di anni dopo, Andrè Gunder Frank, raccoglierà in un libro, “Capitalismo e sottosviluppo in America Latina” saggi scritti nel corso degli anni sessanta, nei quali mostrerà la permanenza di queste relazioni di dominazione e quindi dipendenza sotto le retoriche della liberazione e decolonizzazione. Retoriche che sono potentemente avanzate nel dopoguerra in tutti i paesi occidentali, anche nel contesto della competizione con i modelli socialisti di decolonizzazione come autodeterminazione[3]. Quel che occorre sottolineare, ed è il punto cruciale, è che i meccanismi di dipendenza coloniali (vivi anche quando un legame giuridicamente coloniale non sussiste) si fondano sempre sul sistematico drenaggio del ‘surplus’[4] investibile, e la sua concentrazione, nei centri ‘metropolitani’ dalle ‘periferie’ per effetto delle relazioni sociali e funzionali che si istituiscono tra le élite delle due aree. Mentre l’ipotesi portata avanti da Prebisch era che un’alleanza ‘nazionalista’, tra borghesie e classi lavoratrici, potrebbe innescare uno sviluppo autocentrato grazie alla “industrializzazione sostitutiva”, Frank mostra, con una serie di esempi, che è nel processo di drenaggio del ‘surplus’ che si costituiscono e riproducono come classe le borghesie ‘periferiche’.
La costituzione come classe delle borghesie ‘compradore’ implica allora una potente influenza sull’intero sistema giuridico-amministrativo, da una parte, e di tutti i ceti tecnici necessari per mandare avanti un’economia moderna, e una simile influenza sulla struttura produttiva direttamente ed indirettamente connessa, anche come clienti e fornitori, con le aziende estere che utilizzano le materie prime locali e, infine, con le aziende di esportazione (spesso di proprietà estera) che dipendono dai mercati di sbocco. Ma questa struttura di dipendenza estende la propria influenza anche alle forze lavoratrici coinvolte nel cascame dei benefici, e che quindi si costituiscono, nei confronti delle altre a margine, come “aristocrazie operaie”. Questa ‘base sociale’ non può permettersi di rompere il cordone con la catena produttiva e logistica internazionale, anche se è da questa sfruttata, perché quel poco di sopravvivenza che gli deriva è interamente prodotta dall’essere la periferia del centro dominante, ma in relazione speciale con questo, e, contemporaneamente, essere snodo funzionalmente necessario; l’essere, cioè, centro in grado di estrarre valore da periferie interne ancora più subalterne (dalle quali attrae capitali, risorse umane a basso costo, materie prime e semilavorati che riconfeziona e invia alla esportazione). Si tratta, secondo la lezione delle lotte degli anni sessanta, in Africa come in America Latina, di comprendere che questo essenziale meccanismo di estrazione di valore si esplica in ‘ragioni di scambio’[5] progressivamente declinanti lungo la catena 'metropoli-satellite' che si promana dal centro verso la periferia, insieme all'attrazione di capitale e risorse umane. Questa contraddizione essenziale è insuperabile appoggiandosi sulle medesime forze che se ne giovano e le costituiscono. Occorre invece, e necessariamente, spostare i rapporti di forza essenziali e disporre di una forza reale, consapevole, ben organizzata, e dotata del più ampio consenso.

Secondo quanto scrive in un successivo libro[6]:

“il sistema capitalistico ha una struttura coloniale attraverso cui la metropoli imperialista sfrutta le sue colonie latino-americane e quelle esistenti in altre zone (e, a casa propria, le sue colonie interne afroamericane) e attraverso cui – attraverso il ‘colonialismo interno’ – le metropoli nazionali dell’America Latina sfruttano i propri centri provinciali, e questi, a loro volta sfruttano i propri rispettivi hinterlands, in una catena coloniale che si estende senza rotture dal centro imperialista fino alle regioni rurali più isolate dell’America latina e degli altri paesi sottosviluppati” (p.389).

Frank ribadisce infatti che “il sistema capitalista genera simultaneamente sottosviluppo in alcune sue parti e sviluppo in altre”; è la “tesi della dipendenza”, per la quale non è affatto, come alcuni dicono, la mancanza di modernismo, ovvero della borghesia e quindi del capitalismo, a determinare il sottosviluppo, ma proprio la sua presenza. Il capitalismo determina, infatti, e necessariamente una polarizzazione, un’accumulazione, e quindi una costellazione gerarchica di ‘metropoli’ e di ‘satelliti’. Sono i ‘satelliti’, dei quali a loro volta ci sono gerarchie e specializzazioni, a servire come strumento ‘per l’estrazione di capitale’ (o, in altra parola, di ‘surplus economico’) da altri ‘satelliti’ di rango ancora inferiore, e quindi dipendenti, e che sono tali in quanto ‘incanalano’ parte del surplus estratto verso la metropoli mondiale. In questo modo i ‘satelliti’ non possono mai svilupparsi autonomamente, in quanto tutto il surplus è incanalato, salvo la parte che funge da riproduzione del sistema sociale ‘compradoro’. C’è una tesi correlata ed importante: contrariamente all’ipotesi liberale del ‘free trade’, verso la quale l’opposizione di Frank è sferzante, i satelliti si sviluppano solo quando per le più diverse ragioni i legami con le metropoli si allentano.
Ma, se poi i legami si rinsaldano di nuovo (ad esempio se una crisi nella metropoli è superata), allora l’estrazione di surplus riprende accelerata e la regione ri-satellizzata ricade ancora più in basso. Accade anche altro: “le regioni che oggi sono più sottosviluppate sono quelle che ebbero legami più stretti con le metropoli nel passato”, che per una fase furono “le più grandi esportatrici di prodotti primari e più grandi fonti di capitale” e, poi, “furono abbandonate”. 



Non sfugge l’effetto evidente, in particolare nel caso africano, ed immediato di una simile struttura: le industrie “bambine” (o non nate) dei paesi dominati vengono uccise nella culla dal libero scambio con la potente industria dominante del paese leader, mentre il surplus estratto dall’economia locale, ad esempio vendendo le materie prime a basso prezzo (dato che il protezionismo, a causa delle simmetriche ritorsioni di controparte, impedisce di venderle ad altri, e comunque di comprare da altri), viene naturalmente canalizzato verso la madre patria francese sia per l’acquisto di beni intermedi (esempio macchine), sia, e soprattutto, per l’acquisto di beni di lusso. Lo stato di subordinazione economica induce, infatti, come adattamento logico una subordinazione culturale che induce a valorizzare con un’aura invincibile i beni distintivi prodotti nel paese dominante e che non possono essere prodotti in loco per ragioni di concorrenza.


Il vero e proprio Franco CFA nasce nell’immediato dopoguerra, ancora in una condizione di debolezza della Francia, e ad impedire, evidentemente, che i paesi colonizzati acquisissero indipendenza per la riduzione della pressione competitiva francese. I tassi di cambio furono fissati ad uso delle necessità francesi, e dunque, fortemente sopravvalutati. In tal modo aumentava il potere di acquisto delle élite locali, e l’attrazione dei loro capitali verso la Francia, ma diminuiva la competitività delle merci locali. Pochi soldi, dunque, ma riportati tutti in Francia.
Quando dunque il processo di decolonizzazione diventa inevitabile l’astuta Francia gioca di anticipo e offre per prima l’indipendenza chiedendo in cambio la “cooperazione”. Ovvero la stipula contestuale di una larga serie di trattati, tra i quali quelli monetari.

Il “sistema CFA”, si istituisce intorno a quattro principi fondamentali:
1-     La parità fissa dei cambi, che rende il valore della moneta dei paesi aderenti del tutto sconnessa dalle dinamiche della relativa economia, e invece, adeguate a quella dominante francese;
2-     La libertà di movimento dei capitali, che rende particolarmente facile estrarre capitali dai paesi sottosviluppati, nei quali le opportunità di investimento sono minori e più rischiose, anche ai fini della tesaurizzazione delle classi dominanti interne;
3-     La convertibilità illimitata, che è assicurata dal Tesoro francese, ma che per questo è interamente dipendente sul piano pratico dalle decisioni di quest’ultimo;
4-     La centralizzazione delle riserve valutarie, che impone di depositare le attività estere presso il Tesoro francese, in un apposito conto (obbligo che attualmente periste per il 50% di queste). Questa regola ha una eccezione, la stessa Francia, che non deposita le proprie riserve in comune.
Ma la chiave di volta del sistema, come mostra il libro in esame, è il “conto operativo”, che è un conto speciale del Tesoro francese il quale stabilisce una meccanica asimmetrica di remunerazione nei due casi di essere in credito ed in debito. Vi sono accreditati e addebitati tutti flussi in entrata ed uscita dai paesi africani a qualsiasi titolo. La conseguenza è che quando sono in credito, di fatto, le banche centrali africane è come se finanziassero il Tesoro francese, mettendo a sua disposizione le loro riserve in valuta estera, in cambio di interessi. Ma quando sono in debito sono queste a dover pagare interessi al Tesoro. Quindi il meccanismo incentiva le Banche centrali africane, per non andare in debito, a tenere ingenti riserve e quindi attivare restrizioni al credito delle economie locali. Infatti quando queste crescendo spendono (anche in beni di investimento), ne deriva una perdita di riserve ed il rischio di andare in zona negativa (p.62).

Attraverso questi meccanismi si attua una sorta di tenuta sotto controllo dell’economia africana e un drenaggio delle sue riserve. Ma anche l’attrazione dei risparmi, che risulta più conveniente investire nella Francia metropolitana anziché in loco.

Nel corso di questi ultimi settanta anni ci sono stati diversi momenti in cui l’uno o l’altro paese hanno pensato di uscire dalla zona valutaria, per recuperare la possibilità di dirigere la propria economia verso lo sviluppo. O comunque di autodeterminarsi.
Il testo riporta, con dovizia di dettagli, diversi casi: la Guinea nel 1959, con l’”operazione Persil”, attraverso la quale fu ostacolato in modo decisivo il tentativo di Ahmed Sékou Touré. Il Mali di Modibo Keita, deposto da un colpo di stato il 19 novembre 1968. L’assassinio del Presidente del Togo, Sylvanus Olympio nel 1963.  L’opposizione del presidente del Niger, Hamani Diori, che nel 1969 chiede la consulenza di Samir Amin per discutere con il Presidente francese Pompidou. Anche la posizione del leader della Repubblica Centrafricana, Jean-Bedel Bokassa che usò una pretestuosa opposizione al Cfa per ottenere aiuti e benefici dalla Francia. Ci sono anche paesi che sono usciti, come il Madagascar che a seguito di un rivolgimento rivoluzionario nel 1972 avviò una trattativa con la Francia per “recuperare il pieno esercizio della sua sovranità in tutti i campi: la politica, l’economia, la moneta, la difesa, l’istruzione”. Il 21 maggio 1973 il presidente, generale Gabriel Ramanantsoa, affermò, conclusivamente, che il Madagascar “preferiva essere povero in libertà che ricco un schiavitù”.
Quindi c’è Thomas Sankara, che salì al potere nel 1983 per il quale, “la moneta non è mai isolata dal resto del sistema economico. In questo senso, possiamo affermare che il Franco CFA, poiché è legato al sistema monetario francese, è un’arma per la dominazione degli africani”. Sankara fu deposto ed assassinato il 15 ottobre 1987.



Un economista che si impegnò con grande intensità per disvelare i meccanismi della dominazione coloniale attraverso le relazioni economiche ruotanti intorno al Franco CFA è l’autore di “Moneta, servitù e libertà. La repressione monetaria dell’Africa”, di Joseph Tchundjang Pouemi, nel 1980. Vi sostiene che il sottosviluppo dell’Africa ha origine monetaria in quanto la dipendenza impedisce politiche di sviluppo realmente costruite sulla base delle esigenze e la volontà locali. Ciò per il semplice fatto che il denaro, nel senso del credito, precede la produzione e quindi senza creazione di moneta l’accumulazione di capitale diventa impensabile. La dipendenza monetaria è quindi la forma essenziale e fondamentale di ogni dipendenza. Anche lui morirà improvvisamente in circostanze mai chiarite del tutto.

Questa situazione, con il suo corollario di imposizione di “piani di aggiustamento” (spesso con il sostegno del FMI), processi di adeguamento monetario sistematicamente orientati agli interessi del paese dominante, e rigoroso controllo delle informazioni, procede anche dopo l’adozione dell’Euro, e quindi la fine del Franco. Da allora, senza cambiare acronimo, resa la Francia, ed il Tesoro francese, a controllare il processo, in forza di uno speciale protocollo dei Trattati istitutivi.
Continua quindi il “drenaggio contabile”, come lo chiamava Pouemi, per la permanenza di tre potenti circostanze:
-        la stabilità incoraggia l’indebitamento,
-        spinge le autorità monetarie locali a frenare il credito interno, penalizzando gli invesrtimenti,
-        determina una tutela.

Mentre gli investitori francesi, ovvero le loro multinazionali, trovano dei mercati protetti, regolati di fatto dal loro Tesoro, nei quali i corposi profitti (normalmente non tassati localmente grazie ad accordi bilaterali) sono garantiti e facili da reimpatriare, anche le élite locali trovano alcuni vantaggi strategici nell’ancoraggio all’Euro: agli importatori questo consente di acquistare a prezzi vantaggiosi (dato che la moneta è sopravalutata) beni che gli permettono di spiazzare i produttori locali, normalmente non facenti parte della borghesia ‘compradora’; le classi medie benestanti, connesse con le imprese internazionalizzate o commerciali e con le tecnostrutture, o la politica, locale, ricevono un potere di acquisto internazionale elevato, che consente un tenore di vita marcatamente differente. La libertà di movimento dei capitali consente di tesaurizzare al sicuro il surplus non speso in consumi di lusso.
In altri termini l’accettazione del Franco CFA e dei rapporti sociali che comporta ha qualcosa a che fare anche con un conflitto di classe entro le società africane. Non a caso esso è stato spesso messo in questione in rapporto ad un cambio di potere nel quale, temporaneamente, la presa delle élite interessate alla catena di sfruttamento coloniale è venuta meno.

Il meccanismo messo in campo dal Franco CFA è dunque tipico di molti simili strumenti (ed ha elementi di somiglianza, infatti, con quello europeo):
1-     un regime di cambio troppo rigido impedisce che i prezzi di adeguino alle condizioni competitive esterne, variando il valore nominale della moneta, costringendo l’economia ad adattarsi alle mutazioni esterne attraverso la svalutazione interna (ovvero principalmente la deflazione salariale, che porta una deflazione dei prezzi di tutti i fattori produttivi);
2-     l’ancoraggio all’Euro, che si è sostituito a quello al Franco, quando questo è scomparso, esaspera lo svantaggio di una moneta molto forte per gli attori economici locali, ostacolando le esportazioni mentre favorisce le importazioni. Ad esempio tra il 2000 ed il 2009 in Senegal il riso prodotto localmente è diventato poco competitivo rispetto a quello tailandese per effetto della forza dell’euro rispetto al dollaro. Questo ha rischiato di annientare l’industria locale, il punto è che se succede per effetto della rivalutazione di una moneta locale vuol dire che le esportazioni sono floride e la fanno salire, chiaramente questo danneggerà qualche importazione, ma in linea di principio i capitali si potrebbero spostare. Ma quando l’apprezzamento monetario dipende dalla forza di un paese estero al quale si è legati solo per la moneta (e le esportazioni che la tirano su sono in Germania), si ha solo il danno alle industrie interne.


Alla fine il tutto è semplicemente ed esattamente quel che sembra: un meccanismo per drenare risorse verso l’esterno e creare la gerarchia di centri e periferie sulle quali si regge il capitalismo.

Tra le soluzioni cui i paesi africani pensano c’è una unica valuta regionale, che però sotto certi profili sembra disegnata sul modello dell’Unione Europea, incluso alcune assurde regole di bilancio, e senza, come questa, meccanismi di federalismo fiscale. È evidente che non potrà funzionare.
Al minimo, se proprio i paesi africani lo vorranno dovrà essere evitato di mettere carri davanti ai buoi e fare prima il federalismo fiscale, con meccanismi di solidarietà e di governo comune, poi, e solo allora, la moneta.
Oppure si può perseguire l’idea di Pouemi, la creazione di “uno spazio composto da paesi politicamente liberi, ognuno con la propria moneta, ma vincolati da tassi di cambio fissi e dalla libera circolazione dei capitali e possibilmente dalla messa in comune delle riserve valutarie”. Insomma un sistema di parità fisse, ma regolabili come il nostro vecchio Sme, con un Fondo Monetario Africano, che svincoli i singoli paesi dalla occhiuta tutela del FMI originario.

Ma qualunque cosa, scrivono gli autori, avrà successo solo se inquadrato in una strategia di sviluppo autocentrico. Di recupero di autonomia, e se si rompe con lo sviluppo estroverso e si riparte dalle basi per costruire un’economia diversificata ed autosufficiente.

La lezione indimenticata di Samir Amin[7].


[1] - Si chiama “borghesia compradora” quella borghesia parassitaria che si organizza e trae il suo ruolo dal flusso di surplus che è estratto da centri (o ‘metropoli’, con il linguaggio di Gunder Frank) dominanti da periferie diversificate. Si tratta di ceti connessi con le industrie di esportazione, manager, azionisti, operatori di logistica, produttori di informazione e/o di decisioni, operatori finanziari. La borghesia ‘compradora’, il capitale monopolistico, e tutti i loro agenti e meccanismi sono parte nel loro insieme, come totalità, del modo di produzione necessariamente allargato alla scala mondiale che determina l’accumulazione (‘flessibile’) del capitale.
[2] - Confrontando esportazioni ed importazioni per quota soddisfatta dalla Francia, rispetto al resto del mondo, si registra tra il 1939 ed il 1945, evidentemente a causa della debolezza del controllo della prima, una nettissima riduzione dal 85% e 56% rispettivamente al 56% e 63% al 23% (entrambi per l’AOF).
[3] - Utile, sotto questo profilo, leggere il libro di Domenico Losurdo, “Il marxismo occidentale”,
[4] - Per questo concetto strategico, che naturalmente è proprio dell’economia classica, nella tradizione della letteratura del “sottosviluppo”, si legga Paul Baran, “Il ‘surplus’ economico”, 1957.
[5] - Il prezzo tra due beni (o di un bene e di un altro rispetto ad una unità di misura comune, ad esempio il denaro internazionalmente accettato come il dollaro) è relativo ai rapporti di forza che si determinano sul “mercato”, e che dipendono da molteplici fattori non tutti economici. Ad esempio, se un paese ha un surplus di vino, essendosi specializzato solo in tale produzione di esportazione, poniamo di Porto, e l’unico grande mercato “libero”, nel quale può vendere il prodotto è la Gran Bretagna, dovrà accettare il prezzo determinato dai grossisti anglosassoni, detentori del monopolio di accesso al mercato, anche se è di poco superiore al suo prezzo di produzione, l’alternativa è riempire i magazzini e non avere la moneta per comprare, al prezzo anche qui determinato dai commercianti esteri, in quando detentori di un monopsonio (sostenuto da Trattati e, se del caso, cannoniere), e sul limite della loro capacità di spesa. L’effetto è che un paese a sovranità molto limitata (avendola perso sui campi di battaglia), progressivamente si impoverisce. Tutto questo scompare nelle formule semplificate, potenza della matematica, e nelle alate parole di David Ricardo. L’ipotesi, fondativa della disciplina economica internazionale, che il ‘libero scambio’ sia sempre a vantaggio reciproco, è, per usare le parole di Keen “una fallacia fondata su una fantasia”. Questa teoria ignora direttamente la realtà, nota a chiunque, che quando la concorrenza estera riduce la redditività di una data industria il capitale in essa impiegato non può essere “trasformato” magicamente in una pari quantità di capitale impiegato in un altro settore. Normalmente invece “va in ruggine”. Insomma, questo piccolo apologo morale di Ricardo è come la maggior parte della teoria economica convenzionale: “ordinata, plausibile e sbagliata”. E’, come scrive Keane “il prodotto del pensiero da poltrona di persone che non hanno mai messo piede nelle fabbriche che le loro teorie economiche hanno trasformato in mucchi di ruggine”.
[6] - Gunder Frank, “America latina: sottosviluppo o rivoluzione”, 1969.
[7] - Ad esempio in “Oltre la mondializzazione”, 1999, Amin propone di lavorare per una regionalizzazione sul piano di indipendenza e di parziale disconnessione. Una quindicina di regioni organizzate attorno a poteri egemonici sulla scala locale ed in grado di promuovere e difendere al loro interno efficaci compromessi sociali e stabilità. Una lunga transizione che muova da riforme radicali capaci, pur “senza rompere integralmente con le logiche del sistema in tutte le loro dimensioni”, di trasformarne la portata e di prepararne il superamento (p.207).

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