Il libro,
tradotto dal francese da Thomas Fazi, quest’anno ed uscito in lingua originale
nel 2018, racconta una storia molto nota, ma poco compresa: quella dell’insieme
di accordi, imperniati sulla moneta ma non limitati a questa, che legano alcuni
stati ex coloniali africani alla Francia. Sotto il meccanismo del cosiddetto “Franco CFA” (che poi sono due) vivono
complessivamente 162 milioni di persone, per intenderci due volte e mezza la
popolazione francese. Come vedremo la questione del Franco ex coloniale non è solo
africana, si tratta di una delle più chiare applicazioni di una logica dello “Sviluppo
del sottosviluppo” e delle sue infrastrutture che è generalmente presente in
tutto il capitalismo mondiale a tutti i suoi livelli. Una logica che si
presenta nuda nei paesi più poveri, ma che è analoga, pur se vestita, in quelli
“avanzati”, che coltivano le loro sacche coloniali e comunque sono intrecciati
in una catena di potere e sfruttamento.
La questione del Franco CFA ha anche una straordinaria
somiglianza con le vicende dell’unione monetaria europea, se pur qui gli
squilibri tra centro e periferia, pur presenti, sono meno pronunciati.
Gli autori ricostruiscono diffusamente un insieme di
vincoli post-coloniali che di fatto riconducono in una vasta serie di temi ogni
decisione all’ultima parola di Parigi. Come illustra meglio lo stesso Fazi in
un utilissimo articolo
recensione su Sinistra in Rete,
si tratta di una moneta che emerge, a servizio del cosiddetto “patto coloniale”, già prima dell’indipendenza
e che viene conservata però, insieme alla sua architettura di accordi, come
condizione del via libera francese a questa. Tramite questa meccanica in
sostanza vengono controllati i circuiti della produzione e scambio, determinando
una dipendenza molto stretta tra l’economia di esportazione dei paesi africani
coinvolti e la simmetrica importazione di beni francesi di lusso.
Si tratta di un caso da manuale di scambio subalterno tra un grande paese industrializzato
e posto in posizione dominante nella catena di produzione del valore, a causa
dell’insieme delle sue risorse pregiate (tecnologiche, umane, di capitale), e
le élite ‘compradore’[1]
del paese dominato. Le quali traggono dalla relazione alcuni benefici
essenziali, che le identificano come classe, garantendone la riproduzione e la
coesione sociale e culturale: la protezione dei propri capitali, detenuti per
lo più all’estero (e comunque in moneta convertibile all’estero a tasso fisso) e
l’accesso, in condizioni sicure e convenienti, a consumi distintivi e di lusso,
appunto importati dal paese dominante.
La zona del Franco viene inizialmente creata nel 1939,
in quasi concomitanza con una fase di acuta crisi della ‘madrepatria’ che nel
1936 aveva abbandonato il sistema aureo, ed imitando la coeva logica dell’area
della sterlina: libero scambio all’interno dell’area -ovvero con la nazione
dominante- e protezionismo verso i competitori di questa. Il vero e proprio “Franco
CFA” è creato nel 1945, il 25 dicembre, quando con il decreto n.45-0316,
firmato da de Gaulle e dai due ministri della finanza e delle colonie vengono
create le Colonie Francesi del Pacifico (CFO) e il Franco CFA ne divenne la
moneta, proprio mentre nasce il sistema di Bretton Woods. Il 25 dicembre,
quindi, la Francia dichiarò, in base agli accordi internazionali (cambio fisso
ma regolabile rispetto al dollaro e questi all’oro) una parità di 119,10 franchi
per dollaro, e la parità franco CFA verso franco di 1,70. Ne consegue una
massiva svalutazione (la precedente parità era 49,6) della moneta francese, ma quindi
una simmetrica sopravvalutazione di quella ex coloniale. Secondo la storica
Helene d’Almeida-Topor si trattava di una decisione senza fondamento economico,
in quanto non connessa con le caratteristiche comparate delle economie e del
tenore di vita. L’effetto di questo dispositivo monetario è semplice e potente:
impedire di fatto alle colonie di diversificare le proprie relazioni economiche
di scambio, come stava avvenendo[2]. È
chiaro che in questo modo la sopravvalutazione rese più economici i prodotti
francesi e, contemporaneamente, meno convenienti i prodotti di esportazione. Come
scrivono gli autori: “i flussi commerciali delle colonie si sarebbero dunque
riorientati a favore della metropoli, che ci avrebbe guadagnato sia in termini
di esportazioni che di importazioni, senza dover toccare le proprie riserve
valutarie”.
Inoltre l’automatismo del cambio trascinò le più
deboli economie delle colonie in tutte le svalutazioni e rivalutazioni del
franco determinate dalle esigenze dell’economia guida.
Come disse il 21 giugno 1949 il senegalese Lamine Guèye:
“il compito dei territori colonizzati era di produrre molto, produrre al di là
dei propri bisogni e di produrre a detrimento dei loro interessi più immediati,
al fine di consentire alla metropoli un tenore di vita migliore e una fornitura
più sicura”. Ciò mentre, al contempo, i territori coloniali “hanno il dovere di
vendere i loro prodotti al di sotto dei prezzi mondiali sebbene avessero la
possibilità di fare altrimenti”, e, persino, di “non utilizzare la valuta proveniente
dalla vendita dei nostri prodotti” (in quanto vanno a costituire riserve).
Questa struttura di relazione non è affatto anomala, né
tipica del continente africano. Nel 1967, una quindicina di anni dopo, Andrè
Gunder Frank, raccoglierà in un libro, “Capitalismo
e sottosviluppo in America Latina” saggi scritti nel corso degli anni
sessanta, nei quali mostrerà la permanenza di queste relazioni di dominazione e quindi dipendenza sotto le retoriche
della liberazione e decolonizzazione. Retoriche che sono potentemente avanzate
nel dopoguerra in tutti i paesi occidentali, anche nel contesto della
competizione con i modelli socialisti di decolonizzazione come autodeterminazione[3]. Quel
che occorre sottolineare, ed è il punto cruciale, è che i meccanismi di
dipendenza coloniali (vivi anche quando un legame giuridicamente coloniale non
sussiste) si fondano sempre sul sistematico drenaggio del ‘surplus’[4]
investibile, e la sua concentrazione, nei centri ‘metropolitani’ dalle ‘periferie’
per effetto delle relazioni sociali e funzionali che si istituiscono tra le
élite delle due aree. Mentre l’ipotesi portata avanti da Prebisch era che un’alleanza
‘nazionalista’, tra borghesie e classi lavoratrici, potrebbe innescare uno
sviluppo autocentrato grazie alla “industrializzazione sostitutiva”, Frank mostra,
con una serie di esempi, che è nel processo di drenaggio del ‘surplus’ che si
costituiscono e riproducono come classe le borghesie ‘periferiche’.
La costituzione come classe delle borghesie ‘compradore’
implica allora una potente influenza sull’intero sistema giuridico-amministrativo,
da una parte, e di tutti i ceti tecnici necessari per mandare avanti un’economia
moderna, e una simile influenza sulla struttura produttiva direttamente ed
indirettamente connessa, anche come clienti e fornitori, con le aziende estere
che utilizzano le materie prime locali e, infine, con le aziende di
esportazione (spesso di proprietà estera) che dipendono dai mercati di sbocco. Ma
questa struttura di dipendenza estende la propria influenza anche alle forze
lavoratrici coinvolte nel cascame dei benefici, e che quindi si costituiscono,
nei confronti delle altre a margine, come “aristocrazie operaie”. Questa ‘base
sociale’ non può permettersi di rompere il cordone con la catena produttiva e
logistica internazionale, anche se è da questa sfruttata, perché quel poco di
sopravvivenza che gli deriva è interamente prodotta dall’essere la periferia
del centro dominante, ma in relazione speciale con questo, e,
contemporaneamente, essere snodo funzionalmente necessario; l’essere, cioè,
centro in grado di estrarre valore da periferie interne ancora più subalterne
(dalle quali attrae capitali, risorse umane a basso costo, materie prime e
semilavorati che riconfeziona e invia alla esportazione). Si tratta, secondo la
lezione delle lotte degli anni sessanta, in Africa come in America Latina, di
comprendere che questo essenziale meccanismo di estrazione di valore si esplica
in ‘ragioni di scambio’[5] progressivamente
declinanti lungo la catena 'metropoli-satellite' che si promana dal centro
verso la periferia, insieme all'attrazione di capitale e risorse umane. Questa
contraddizione essenziale è insuperabile appoggiandosi sulle medesime forze che
se ne giovano e le costituiscono. Occorre invece, e necessariamente, spostare i
rapporti di forza essenziali e disporre di una forza reale, consapevole, ben
organizzata, e dotata del più ampio consenso.
Secondo quanto scrive in un successivo libro[6]:
“il sistema capitalistico ha una struttura
coloniale attraverso cui la metropoli imperialista sfrutta le sue colonie
latino-americane e quelle esistenti in altre zone (e, a casa propria, le sue
colonie interne afroamericane) e attraverso cui – attraverso il ‘colonialismo
interno’ – le metropoli nazionali dell’America Latina sfruttano i propri centri
provinciali, e questi, a loro volta sfruttano i propri rispettivi hinterlands,
in una catena coloniale che si estende senza rotture dal centro imperialista
fino alle regioni rurali più isolate dell’America latina e degli altri paesi
sottosviluppati” (p.389).
Frank ribadisce infatti che “il sistema capitalista
genera simultaneamente sottosviluppo in alcune sue parti e sviluppo in altre”;
è la “tesi della dipendenza”, per la
quale non è affatto, come alcuni dicono, la mancanza di modernismo, ovvero
della borghesia e quindi del capitalismo, a determinare il sottosviluppo, ma
proprio la sua presenza. Il capitalismo determina, infatti, e necessariamente
una polarizzazione, un’accumulazione, e quindi una costellazione gerarchica di
‘metropoli’ e di ‘satelliti’. Sono i ‘satelliti’, dei quali a loro volta ci
sono gerarchie e specializzazioni, a servire come strumento ‘per l’estrazione
di capitale’ (o, in altra parola, di ‘surplus economico’) da altri ‘satelliti’
di rango ancora inferiore, e quindi dipendenti, e che sono tali in quanto
‘incanalano’ parte del surplus estratto verso la metropoli mondiale. In questo
modo i ‘satelliti’ non possono mai svilupparsi autonomamente, in quanto tutto
il surplus è incanalato, salvo la parte che funge da riproduzione del sistema
sociale ‘compradoro’. C’è una tesi correlata ed importante: contrariamente
all’ipotesi liberale del ‘free trade’,
verso la quale l’opposizione di Frank è sferzante, i satelliti si sviluppano
solo quando per le più diverse ragioni i legami con le metropoli si allentano.
Ma, se poi i legami si rinsaldano di nuovo (ad esempio
se una crisi nella metropoli è superata), allora l’estrazione di surplus
riprende accelerata e la regione ri-satellizzata ricade ancora più in basso.
Accade anche altro: “le regioni che oggi sono più sottosviluppate sono quelle
che ebbero legami più stretti con le metropoli nel passato”, che per una fase
furono “le più grandi esportatrici di prodotti primari e più grandi fonti di
capitale” e, poi, “furono abbandonate”.
Non sfugge l’effetto evidente, in particolare nel caso
africano, ed immediato di una simile struttura: le industrie “bambine” (o non
nate) dei paesi dominati vengono uccise nella culla dal libero scambio con la
potente industria dominante del paese leader, mentre il surplus estratto dall’economia
locale, ad esempio vendendo le materie prime a basso prezzo (dato che il
protezionismo, a causa delle simmetriche ritorsioni di controparte, impedisce
di venderle ad altri, e comunque di comprare da altri), viene naturalmente
canalizzato verso la madre patria francese sia per l’acquisto di beni intermedi
(esempio macchine), sia, e soprattutto, per l’acquisto di beni di lusso. Lo stato
di subordinazione economica induce, infatti, come adattamento logico una
subordinazione culturale che induce a valorizzare con un’aura invincibile i
beni distintivi prodotti nel paese dominante e che non possono essere prodotti
in loco per ragioni di concorrenza.
Il vero e proprio Franco CFA nasce nell’immediato
dopoguerra, ancora in una condizione di debolezza della Francia, e ad impedire,
evidentemente, che i paesi colonizzati acquisissero indipendenza per la
riduzione della pressione competitiva francese. I tassi di cambio furono fissati
ad uso delle necessità francesi, e dunque, fortemente sopravvalutati. In tal
modo aumentava il potere di acquisto delle élite locali, e l’attrazione dei
loro capitali verso la Francia, ma diminuiva la competitività delle merci
locali. Pochi soldi, dunque, ma riportati tutti in Francia.
Quando dunque il processo di decolonizzazione diventa
inevitabile l’astuta Francia gioca di anticipo e offre per prima l’indipendenza
chiedendo in cambio la “cooperazione”. Ovvero la stipula contestuale di una
larga serie di trattati, tra i quali quelli monetari.
Il “sistema CFA”,
si istituisce intorno a quattro principi fondamentali:
1-
La parità fissa dei cambi, che rende il valore della moneta dei paesi aderenti
del tutto sconnessa dalle dinamiche della relativa economia, e invece, adeguate
a quella dominante francese;
2-
La libertà di movimento dei capitali, che rende particolarmente facile estrarre capitali dai
paesi sottosviluppati, nei quali le opportunità di investimento sono minori e
più rischiose, anche ai fini della tesaurizzazione delle classi dominanti
interne;
3-
La convertibilità illimitata, che è assicurata dal Tesoro francese, ma che per
questo è interamente dipendente sul piano pratico dalle decisioni di quest’ultimo;
4-
La centralizzazione delle riserve valutarie, che impone di depositare le attività estere presso il
Tesoro francese, in un apposito conto (obbligo che attualmente periste per il
50% di queste). Questa regola ha una eccezione, la stessa Francia, che non
deposita le proprie riserve in comune.
Ma la chiave di volta del sistema, come mostra il
libro in esame, è il “conto operativo”,
che è un conto speciale del Tesoro francese il quale stabilisce una meccanica
asimmetrica di remunerazione nei due casi di essere in credito ed in debito. Vi
sono accreditati e addebitati tutti flussi in entrata ed uscita dai paesi
africani a qualsiasi titolo. La conseguenza è che quando sono in credito, di
fatto, le banche centrali africane è come se finanziassero il Tesoro francese,
mettendo a sua disposizione le loro riserve in valuta estera, in cambio di
interessi. Ma quando sono in debito sono queste a dover pagare interessi al
Tesoro. Quindi il meccanismo incentiva le Banche centrali africane, per non
andare in debito, a tenere ingenti riserve e quindi attivare restrizioni al credito delle economie
locali. Infatti quando queste crescendo spendono (anche in beni di
investimento), ne deriva una perdita di riserve ed il rischio di andare in zona
negativa (p.62).
Attraverso questi meccanismi si attua una sorta di
tenuta sotto controllo dell’economia africana e un drenaggio delle sue riserve.
Ma anche l’attrazione dei risparmi, che risulta più conveniente investire nella
Francia metropolitana anziché in loco.
Nel corso di questi ultimi settanta anni ci sono stati
diversi momenti in cui l’uno o l’altro paese hanno pensato di uscire dalla zona
valutaria, per recuperare la possibilità di dirigere la propria economia verso
lo sviluppo. O comunque di autodeterminarsi.
Il testo riporta, con dovizia di dettagli, diversi
casi: la Guinea nel 1959, con l’”operazione
Persil”, attraverso la quale fu ostacolato in modo decisivo il tentativo di
Ahmed Sékou
Touré. Il Mali di Modibo
Keita, deposto da un colpo di stato il 19 novembre 1968. L’assassinio del Presidente
del Togo, Sylvanus
Olympio nel 1963. L’opposizione del
presidente del Niger, Hamani
Diori, che nel 1969 chiede la consulenza di Samir Amin per discutere con il
Presidente francese Pompidou. Anche la posizione del leader della Repubblica
Centrafricana, Jean-Bedel Bokassa che usò una pretestuosa opposizione al Cfa per
ottenere aiuti e benefici dalla Francia. Ci sono anche paesi che sono usciti,
come il Madagascar che a seguito di un rivolgimento rivoluzionario nel 1972
avviò una trattativa con la Francia per “recuperare il pieno esercizio della
sua sovranità in tutti i campi: la politica, l’economia, la moneta, la difesa,
l’istruzione”. Il 21 maggio 1973 il presidente, generale Gabriel Ramanantsoa,
affermò, conclusivamente, che il Madagascar “preferiva essere povero in libertà
che ricco un schiavitù”.
Quindi c’è Thomas Sankara, che
salì al potere nel 1983 per il quale, “la moneta non è mai isolata dal resto
del sistema economico. In questo senso, possiamo affermare che il Franco CFA, poiché
è legato al sistema monetario francese, è un’arma per la dominazione degli africani”.
Sankara fu deposto ed assassinato il 15 ottobre 1987.
Un economista che si impegnò con grande intensità per
disvelare i meccanismi della dominazione coloniale attraverso le relazioni
economiche ruotanti intorno al Franco CFA è l’autore di “Moneta, servitù e libertà. La
repressione monetaria dell’Africa”, di Joseph Tchundjang
Pouemi, nel 1980. Vi sostiene che il sottosviluppo dell’Africa ha origine
monetaria in quanto la dipendenza impedisce politiche di sviluppo realmente
costruite sulla base delle esigenze e la volontà locali. Ciò per il semplice
fatto che il denaro, nel senso del credito, precede la produzione e quindi
senza creazione di moneta l’accumulazione di capitale diventa impensabile. La dipendenza
monetaria è quindi la forma essenziale e fondamentale di ogni dipendenza. Anche
lui morirà improvvisamente in circostanze mai chiarite del tutto.
Questa situazione, con il suo corollario di
imposizione di “piani di aggiustamento” (spesso con il sostegno del FMI),
processi di adeguamento monetario sistematicamente orientati agli interessi del
paese dominante, e rigoroso controllo delle informazioni, procede anche dopo l’adozione
dell’Euro, e quindi la fine del Franco. Da allora, senza cambiare acronimo,
resa la Francia, ed il Tesoro francese, a controllare il processo, in forza di
uno speciale protocollo dei Trattati istitutivi.
Continua quindi il “drenaggio contabile”, come lo chiamava
Pouemi, per la permanenza di tre potenti circostanze:
-
la stabilità
incoraggia l’indebitamento,
-
spinge le autorità
monetarie locali a frenare il credito interno, penalizzando gli invesrtimenti,
-
determina una tutela.
Mentre gli investitori francesi, ovvero le loro
multinazionali, trovano dei mercati protetti, regolati di fatto dal loro Tesoro,
nei quali i corposi profitti (normalmente non tassati localmente grazie ad
accordi bilaterali) sono garantiti e facili da reimpatriare, anche le élite locali
trovano alcuni vantaggi strategici nell’ancoraggio all’Euro: agli importatori questo
consente di acquistare a prezzi vantaggiosi (dato che la moneta è sopravalutata)
beni che gli permettono di spiazzare i produttori locali, normalmente non
facenti parte della borghesia ‘compradora’; le classi medie benestanti,
connesse con le imprese internazionalizzate o commerciali e con le
tecnostrutture, o la politica, locale, ricevono un potere di acquisto
internazionale elevato, che consente un tenore di vita marcatamente differente.
La libertà di movimento dei capitali consente di tesaurizzare al sicuro il
surplus non speso in consumi di lusso.
In altri termini l’accettazione del Franco CFA e dei
rapporti sociali che comporta ha qualcosa a che fare anche con un conflitto di
classe entro le società africane. Non a caso esso è stato spesso messo in
questione in rapporto ad un cambio di potere nel quale, temporaneamente, la
presa delle élite interessate alla catena di sfruttamento coloniale è venuta
meno.
Il meccanismo messo in campo dal Franco CFA è dunque
tipico di molti simili strumenti (ed ha elementi di somiglianza, infatti, con quello
europeo):
1-
un regime di cambio troppo rigido impedisce che i prezzi di adeguino alle condizioni
competitive esterne, variando il valore nominale della moneta, costringendo l’economia
ad adattarsi alle mutazioni esterne attraverso la svalutazione interna (ovvero
principalmente la deflazione salariale, che porta una deflazione dei prezzi di
tutti i fattori produttivi);
2-
l’ancoraggio all’Euro, che si è sostituito a quello al Franco, quando
questo è scomparso, esaspera lo svantaggio di una moneta molto forte per gli
attori economici locali, ostacolando le esportazioni mentre favorisce le
importazioni. Ad esempio tra il 2000 ed il 2009 in Senegal il riso prodotto
localmente è diventato poco competitivo rispetto a quello tailandese per effetto
della forza dell’euro rispetto al dollaro. Questo ha rischiato di annientare l’industria
locale, il punto è che se succede per effetto della rivalutazione di una moneta
locale vuol dire che le esportazioni sono floride e la fanno salire, chiaramente
questo danneggerà qualche importazione, ma in linea di principio i capitali si
potrebbero spostare. Ma quando l’apprezzamento monetario dipende dalla forza di
un paese estero al quale si è legati solo per la moneta (e le esportazioni che
la tirano su sono in Germania), si ha solo il danno alle industrie interne.
Alla fine il tutto è semplicemente ed esattamente quel
che sembra: un meccanismo per drenare risorse verso l’esterno e creare la gerarchia
di centri e periferie sulle quali si regge il capitalismo.
Tra le soluzioni cui i paesi africani pensano c’è una
unica valuta regionale, che però sotto certi profili sembra disegnata sul
modello dell’Unione Europea, incluso alcune assurde regole di bilancio, e senza,
come questa, meccanismi di federalismo fiscale. È evidente che non potrà
funzionare.
Al minimo, se proprio i paesi africani lo vorranno
dovrà essere evitato di mettere carri davanti ai buoi e fare prima il
federalismo fiscale, con meccanismi di solidarietà e di governo comune, poi, e
solo allora, la moneta.
Oppure si può perseguire l’idea di Pouemi, la creazione
di “uno spazio composto da paesi politicamente liberi, ognuno con la propria
moneta, ma vincolati da tassi di cambio fissi e dalla libera circolazione dei
capitali e possibilmente dalla messa in comune delle riserve valutarie”. Insomma
un sistema di parità fisse, ma regolabili come il nostro vecchio Sme, con un
Fondo Monetario Africano, che svincoli i singoli paesi dalla occhiuta tutela
del FMI originario.
Ma qualunque cosa, scrivono gli autori, avrà successo
solo se inquadrato in una strategia di sviluppo autocentrico. Di recupero di
autonomia, e se si rompe con lo sviluppo estroverso e si riparte dalle basi per
costruire un’economia diversificata ed autosufficiente.
La lezione indimenticata di Samir Amin[7].
[1] - Si chiama “borghesia compradora” quella
borghesia parassitaria che si organizza e trae il suo ruolo dal flusso di
surplus che è estratto da centri (o ‘metropoli’, con il linguaggio di Gunder
Frank) dominanti da periferie diversificate. Si tratta di ceti connessi con le
industrie di esportazione, manager, azionisti, operatori di logistica,
produttori di informazione e/o di decisioni, operatori finanziari. La borghesia
‘compradora’, il capitale monopolistico, e tutti i loro agenti e meccanismi
sono parte nel loro insieme, come totalità, del modo di produzione necessariamente
allargato alla scala mondiale che determina l’accumulazione (‘flessibile’) del
capitale.
[2] - Confrontando
esportazioni ed importazioni per quota soddisfatta dalla Francia, rispetto al
resto del mondo, si registra tra il 1939 ed il 1945, evidentemente a causa
della debolezza del controllo della prima, una nettissima riduzione dal 85% e
56% rispettivamente al 56% e 63% al 23% (entrambi per l’AOF).
[3] - Utile, sotto
questo profilo, leggere il libro di Domenico Losurdo, “Il marxismo occidentale”,
[4] - Per questo
concetto strategico, che naturalmente è proprio dell’economia classica, nella
tradizione della letteratura del “sottosviluppo”, si legga Paul Baran, “Il
‘surplus’ economico”, 1957.
[5] - Il prezzo tra
due beni (o di un bene e di un altro rispetto ad una unità di misura comune, ad
esempio il denaro internazionalmente accettato come il dollaro) è relativo ai
rapporti di forza che si determinano sul “mercato”, e che dipendono da
molteplici fattori non tutti economici. Ad esempio, se un paese ha un surplus
di vino, essendosi specializzato solo in tale produzione di esportazione,
poniamo di Porto, e l’unico grande mercato “libero”, nel quale può vendere il
prodotto è la Gran Bretagna, dovrà accettare il prezzo determinato dai
grossisti anglosassoni, detentori del monopolio di accesso al mercato, anche se
è di poco superiore al suo prezzo di produzione, l’alternativa è riempire i
magazzini e non avere la moneta per comprare, al prezzo anche qui determinato
dai commercianti esteri, in quando detentori di un monopsonio (sostenuto da
Trattati e, se del caso, cannoniere), e sul limite della loro capacità di
spesa. L’effetto è che un paese a sovranità molto limitata (avendola perso sui
campi di battaglia), progressivamente si impoverisce. Tutto questo scompare
nelle formule semplificate, potenza della matematica, e nelle alate parole di
David Ricardo. L’ipotesi, fondativa della disciplina economica internazionale,
che il ‘libero scambio’ sia sempre a vantaggio reciproco, è, per usare le parole di Keen “una fallacia fondata su
una fantasia”. Questa teoria ignora direttamente la realtà, nota a
chiunque, che quando la concorrenza estera riduce la redditività di una data
industria il capitale in essa impiegato non può essere “trasformato”
magicamente in una pari quantità di capitale impiegato in un altro settore.
Normalmente invece “va in ruggine”. Insomma, questo piccolo apologo morale di
Ricardo è come la maggior parte della teoria economica convenzionale: “ordinata, plausibile e sbagliata”. E’,
come scrive Keane “il prodotto del
pensiero da poltrona di persone che non hanno mai messo piede nelle fabbriche
che le loro teorie economiche hanno trasformato in mucchi di ruggine”.
[6] - Gunder Frank, “America
latina: sottosviluppo o rivoluzione”, 1969.
[7] - Ad esempio in “Oltre
la mondializzazione”, 1999, Amin propone di lavorare per una
regionalizzazione sul piano di indipendenza e di parziale disconnessione. Una
quindicina di regioni organizzate attorno a poteri egemonici sulla scala locale
ed in grado di promuovere e difendere al loro interno efficaci compromessi
sociali e stabilità. Una lunga transizione che muova da riforme radicali
capaci, pur “senza rompere integralmente con le logiche del sistema in tutte le
loro dimensioni”, di trasformarne la portata e di prepararne il superamento
(p.207).
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