Sul
numero 3/2019 della rivista della Fondazione Italianieuropei è
pubblicato un articolo
della politologa Nadia Urbinati dall’urticante titolo sopra citato. Trovo
altamente urticante il titolo per l’evocazione del sempiterno cavallo di battaglia
della destra liberale contro tutti i movimenti di protesta sociale e rivendicazione
della relativa giustizia: l’invidia.
Ci
sarà un passaggio più specifico nell’articolo, ma per ora soffermiamoci sulla
fase storica nella quale questo termine, insieme ai suoi associati, è sistematicamente
evocato insieme alla qualifica “sociale” (cambiandone profondamente il senso) e
da chi: si tratta degli anni trenta del 1800[1], quando interviene un
mutamento nel dibattito ‘progressista’ sull’uguaglianza. Mentre nella
generazione dei riformisti settecenteschi, i Seyes, come Smith, o i
rivoluzionari americani degli anni settanta-ottanta, la questione sociale era
questione di privilegi e di indipendenza, una quarantina di anni dopo, insieme
alla rivoluzione industriale, emerge la questione della ricchezza. È allora che
si manifesta una ideologia liberal-conservatrice che non si pone più a difesa
della nobiltà sfidata, ma dei beni aggrediti. È allora che l’operaio diventa
anche il criminale, le ineguaglianze diventano prodotto di vizio ed empietà, la
rivolta è segno di invidia sociale. La frugalità del buon operaio, laborioso,
ordinato, economo, previdente, è contrapposta all’imprevidente, corrotto,
vizioso, che per questo non riesce a vivere del suo e quindi desidera
ciò che è d’altri. Ovvero dei previdenti borghesi.
Tutti
gli osservatori della miseria dei lavoratori nella prima parte dell’ottocento,
i Lous René Villermé, i Buret, sono dei moralisti. Ed il loro moralismo è a
senso unico. Altri faranno peggio: Saint-Marc Girardin nel 1831 definirà gli operai
setaioli in rivolta come “barbari” e sosterrà: “la miseria è il castigo della
pigrizia e del vizio. Ecco gli insegnamenti che ci dà la storia”. Le classi
povere sono per lui anche “viziose” e “pericolose”, sono la più terribile delle
minacce. In Inghilterra contemporaneamente sorgono le workhouses, e un arsenale
legislativo che intende contemporaneamente reprimere ed educare, e si
presentano potentissime leghe e società filantropiche: The London City Mission,
The Charity Organization Society, The Salvation Army, The Londono Bible Woman
and Nurses Mission, The Moral Reform Union.
Giotto, Cappella degli Scrovegni: Invidia |
Ancora,
uno dei maggiori ideologi del regime di Luglio, in Francia, Charles Dunoyer,
scriverà in “Della libertà del lavoro”, che il regime industriale altro
non fa che fare emergere le ineguaglianze naturali, ovvero le fa scaturire dalle
diverse capacità fisiche, intellettuali, morali. Il regime industriale è quindi
un puro regime naturale. Come dice Rosanvallon è questo “il fulcro della nuova
ideologia liberal-conservatrice affermatasi in Europa negli anni ’30-40 dell’ottocento”.
Le disuguaglianze “naturali”, insomma, non sono solo morali, ma anche
necessarie, perché altrimenti lo sviluppo dell’industria diventa impossibile. La
disuguaglianza è in sostanza la legge del mondo, ed è inseparabilmente e
contemporaneamente morale, naturale, sociale e psicologica.
Ma
che dice la nostra politologa? Leggiamo l’incipit:
“Vincitori
e vinti sono categorie portanti della storia dell’umanità, che potrebbe essere
scandita secondo i mezzi e le forme delle lotte e delle competizioni che hanno
prodotto vincitori e vinti. La civiltà liberale alla quale apparteniamo
produce e riproduce vincitori e vinti sul campo di battaglia del mercato, per
mezzo del denaro e con l’ambito traguardo di una distribuzione dei beni
soddisfacente (dove la soddisfazione è mutevole in ragione del mutamento dei
bisogni)”.
Il
tono è piuttosto shoccante: la categoria “portante” dell’intera storia è vista
nella competizione e l’intera “storia dell’umanità” potrebbe essere scandita secondo
i mezzi e le forme delle lotte. Ma mentre Marx, con una potente
semplificazione, aveva dichiarato che era la “lotta di classe” a scandire la
storia, in questa versione in sedicesimi c’è una torsione individualistica che
cambia interamente il senso delle cose. Il presente, pomposamente
definito “civiltà liberale”, produrrebbe vincitori e vinti non già collettivamente
(ovvero in seguito allo scontro di collettività più o meno armate) ma individualmente,
“sul campo di battaglia del mercato”. Ecco che quindi il “mercato”, ed il denaro
suo strumento, sono naturalizzati, insieme al conflitto ed ai suoi esiti necessari:
la creazione di vinti.
Del
resto chi potrebbe negare che nella storia ci siano state guerre? Nello stesso
modo nessuno potrà negare che il mercato, oggi, produce vinti. È semplicemente “la
categorie portante della storia dell’umanità”.
La
cosa viene rafforzata dall’evocazione di un articolo
di Salvatore Biasco ripubblicato sullo stesso numero, ma del dicembre 2018, attraverso
il quale la Urbinati sostiene che si definisce “crisi” il momento in cui le
fondamenta della società non sono più sincrone con le sovrastrutture, perché le
prime “sono mutate” e “la compagine di istituzioni politiche e di cultura
morale resta come immobile, ancorata al passato e incapace di essere in
sintonia con la nuova sistemazione delle fondamenta”. Anche qui ricompare il naturalismo,
che scopriremo del seguito essere anche morale, sociale e psicologico.
Nel
seguito riassume abbastanza brutalmente, ed in modo infedele, il complesso
saggio di Biasco che meriterebbe una lettura a parte (che magari faremo), ma
nella sostanza lo fa per precipitare, ricordando di passaggio la rivolta di
Occupy Wall Street e le ragioni delle classi medie centrali, in declino che le
muovevano, per confrontarla con quella del tutto diversa per stratificazione
sociale e provenienza (non una rivolta del centro e delle classi “cognitive”
tradite dallo sviluppo dell’1%, ma delle periferie marginalizzate e delle
working class terziarizzate e precarizzate) dei Gilet Gialli e persino, con un
salto vertiginoso di inquadramento sociale, con “la crescita in tutti i paesi
dell’area atlantica delle destre xenofobe e poi della fascinazione che le idee
sovraniste ricevono sia (ovviamente) a destra sia (meno ovviamente) a sinistra”.
Una posizione alla quale potrebbe opporsi il noto aforisma per il quale non è altro
che ingenuità di conoscenza vacua spacciare il proprio Assoluto per la notte
nella quale tutte le vacche sono nere[2].
Insomma,
Nadia Urbinati, compie un’operazione molto precisa: identifica tutte le “classi
pericolose” insieme, di qualsiasi segno, e le mette in una unica categoria
onnicomprensiva, i vinti.
Con
una drastica semplificazione: “Il fenomeno dei gilet gialli è come la versione
arrabbiata di OWS”.
Ma
in che senso? Nel senso che hanno in comune:
-
la repulsione delle rappresentanze
politiche, di destra come di sinistra;
-
l’occupazione dei luoghi pubblici di
vetrina – ovvero le aree più upper-class delle capitali dei
rispettivi paesi;
-
la trasversalità di classe e però anche il
rifiuto di adottare un linguaggio di classe o di “costruire” una compagine
classista;
-
il rifiuto dell’organizzazione e
dell’unificazione delle ri vendicazioni sotto una bandiera, un leader, un
obiettivo strategico.
E’
vero che questo è in comune, ma lo è in quanto movimenti nell’epoca dell’antipolitica
e della “direttezza”[3]. Di per se, non è un
indizio sufficiente.
I
Gilet Gialli sono dunque una Jacquerie. Una “eruzione sociale”.
È
qui che, in un’apparente contesto descrittivo, e fatto nome a terzi, che viene
evocata la categoria della “invidia sociale” (attribuita addirittura non
solo a Mandeville ma a Marx):
“Sembra,
dunque, che queste eruzioni sociali di cittadini che si ribellano nel nome
della loro quotidiana condizione di disagio siano la datità dalla quale
partire, la posizione che deve essere studiata per essere tramutata in materia
politica. Si tratta di movimenti figli dell’età neoliberale spiegata da Biasco:
attenti all’avere soldi sufficienti non solo per sopravvivere, ma anche per
procurarsi quei beni che sono indicativi di reputazione e di riconoscimento
sociale. Alcuni sociologi hanno rispolverato la dinamica dell’invidia
sociale (che Mandeville prima di Marx aveva considerato una molla dello
sviluppo sociale) per mettere in luce tuttavia non gli aspetti dinamici di cui
essa è capace ma quelli nichilisti. Oggi, invidiare chi sta bene sarebbe come
indulgere in una cultura imitativa che, essendo incapace di produrre l’esito
desiderato, può motivare rivolte e reazioni violente. Insomma, l’invidia è un
peccato virtuoso fino a quando le praterie sono così aperte e ampie da
consentire a chi le esplora di fare e ottenere risultati”.
L’invidia,
dunque.
È
questa ad essere il “detonatore di rivolta”, nelle condizioni in cui siamo.
“Nella
condizione odierna, nella quale i recinti delle potenzialità economiche e
sociali sono stretti e chiusi, in cui i pochi che hanno il 95% della ricchezza
hanno impoverito così radicalmente tutti i loro competitori da renderli
pericolosi, l’invidia può essere un detonatore di rivolta. Questo è il
caso dei gilet gialli, che lamentano di non poter vivere con sufficiente agio
mentre “i ricchi” si godono la vita a Parigi. L’invidia diventa arma di
risentimento perché le condizioni socioeconomiche rendono l’energia
competitiva che la anima impotente e inefficace. Si può invidiare un monarca o
una corte di nobili per nascita? Non ha senso. Mentre ha senso trasformare
quella invidia fuori luogo in risentimento contro un gruppo di persone che
godono di privilegi enormi e sono sempre più odiate per questo”.
Secondo
l’autrice il liberalismo “di mercato” aveva una morale che non è più. Quella secondo
la quale “tutti i beni di cui abbiamo bisogno si possono comprare se si lavora
e ci si impegna ovvero se li si merita”. Oggi questa società (che non è
mai esistita in effetti) non c’è più perché i ricchi si sono alleati con le
classi medio-alte e hanno rovesciato a loro vantaggio le distribuzioni. Parlando
di ciò che conosce bene, essendo una insegnante alla Columbia University, chiarisce
che “mediante la filantropia, i grandi ricchi e i più ricchi tra i loro alleati
del ceto medio si assicurano l’istruzione nelle migliori università del mondo,
che sono a tutti gli effetti soltanto loro, con accessi selezionati per gruppi
sempre più ristretti e rompendo la logica del mercato, della competizione
larga”.
Sarebbe
questo che “mette a repentaglio la funzione dinamica dell’invidia. E produce
caste”.
Ciò
che rimpiange è quindi il capitalismo “competitivo”, nel quale è possibile il “calcolo
di mutua convenienza”, quindi “classi contrapposte, calcoli di costi e
benefici, scambio e compromesso”.
La
venuta meno del compromesso tra le classi determina la ribellione aperta.
Qui
viene il passaggio chiave, in Urbinati come in Biasco, ed in tutto il loro ceto
altoborghese cooptato da molto tempo alla fedeltà al sistema mondialista neoliberale,
tanto profondamente da non poterne uscire neppure per ipotesi:
“Né
i partiti né le istituzioni rappresentative né le belle Costituzioni
democratiche che tanto promettevano possono davvero fare molto per dirci che
cosa fare. Gli strumenti politici che le generazioni precedenti avevano
costruito nella lotta contro il capitalismo industriale e contro quello di
Stato – contro gli Stati fascisti e quelli autoritari – non sembrano funzionare
più. Insomma: l’invidia non funziona come passione mobilitante; funziona solo
come passione distruttiva che genera risentimento”.
Insomma,
Non Ci Sono Alternative.
Chi
pensa che, invece, tutto questo sia l’effetto storico, e non naturale, di un
movimento determinato da forze e scelte, e che altre forze con altre scelte,
non per “invidia sociale”, ma per l’umana insopprimibile ricerca della “giustizia
sociale” per la grande maggioranza dell’umanità, e per la salvezza della natura
stessa, possono revocarle, potrà pensare in modo diverso la chiusa dell’articolo.
Perché
per Urbinati essere contro le forze della storia e della natura comporta
ovviamente e necessariamente qualcosa di malato, di reattivo, di mosso dall’invidia.
Avere la forma di Caino, dei fratelli di Giacobbe, del re Saul, o dei Sadducei.
Di chi uccide il giusto, il sano, il meritevole.
L’invidia
impedisce di rallegrarsi con quelli che sono nella gioia e di piangere con
coloro che sono nel dolore, fa desiderare la roba d’altri. È connessa alla
superbia, come voleva San Tommaso, o Metastasio, ed è nemica di se stessi e
determina impotenza. Di più, classificare come sentimento di invidia, allargato
ad un’intera società o a sue parti, quel che è la ferita di essere umiliati,
non riconosciuti nei propri diritti primari, privati del diritto alla
giustizia, comporta uno stigma morale che Bernard Russell (“La conquista della
felicità”, 1930) qualificava come “causa di infelicità”, perché oltre a
volere l’altrui infelicità, chi ne soffre è incapace di “provare piacere in ciò
che ha e soffre per quel che gli altri hanno”.
L’invidia
sociale, o quella che Marx chiamava “invidia universale”[4], è certo una forza
motrice, ma ha una forza rozza, limitata e rudimentale, essenzialmente
distruttiva. In questo concordo con la tesi della Urbinati, ma discordo che
questa possa essere elevata a chiave interpretativa centrale.
Leggere
tutto sotto la luce dell’invidia “sociale”, e quindi la sua causa come
spostamento della struttura per non meglio definite cause naturali, mentre la
sovrastruttura resiste e si attarda, determina in effetti e necessariamente, se
si accetta questa premessa, lo schiacciamento di tutto ciò che resiste sotto lo
stigma.
“È
in questo frangente che le forze nazionaliste e xenofobe si presentano sulla
scena. Che diventano anzi forze egemoniche, tanto da riuscire ad attirare dalla
loro parte anche le culture politiche della sinistra. Oggi il popolo è il
soggetto fittizio che sembra funzionare meglio aperto com’è alla costruzione
discorsiva; un soggetto collettivo che se costruito da una narrativa
emancipazionista può far virare la politica verso posizioni di sinistra –
questa è l’argomentazione dei populisti di sinistra che sulla scorta delle idee
di Ernesto Laclau sostengono che non vi è nei fatti altra soluzione se non la
democrazia populista. La soluzione populista sembra essere adatta a una società
non più classista. La lotta politica nell’età degli indistinti poveri e
indistinti ricchi è un’arte della distinzione: una lotta tra leader
carismatici che devono riuscire a dare unità e distinzione riconoscibile a una
serie ampia di scontenti sociali e rivendicazioni”.
Segue
una critica del populismo di sinistra, alla Laclau, che non mi vede contrario:
si tratterebbe di una politica che “sembra essere in sintonia con il
neoliberismo, perché una politica che si regge solo sulla conquista
dell’audience, solo su narrative attraenti che raccolgono consensi con velocità
e con velocità li perdono”. E si tratterebbe di una “narrativa, e per nulla
convincente”.
Il
leaderismo, sintetizzo, allontana dall’autentica democrazia e si espone all’impotenza.
Abbiamo
un accordo.
Dura
poco perché subito divergiamo di nuovo: io direi che si espone all’impotenza
perché di fatto non mobilita le forze sociali che, per le buone ragioni
della ricerca offesa della giustizia sociale e non per le cattive della “invidia
sociale”, potrebbero sostenere una politica rinnovata, energica, indisponibile
ai compromessi. La Urbinati sostiene, invece, che è impotente perché Non C’è
Nulla da Fare.
“L’illusione
populista – che è un’illusione sovranista – ci fa credere che basti entrare
nella stanza dei bottoni dello Stato con uno staff determinato a risolvere i
problemi, senza considerare che molti di questi sono, come Biasco spiega assai
bene, fuori dalla portata degli Stati (soprattutto Stati di piccole e anche
medie estensioni)”.
Come
sia, certo la soluzione leaderistica che non mobilita forze, ma le sfrutta per
accedere sveltamente al potere, “ha più facilità a essere catturata dai
nazionalisti e xenofobi, perché questi ultimi non promettono in fondo né la re
distribuzione sociale né il riscatto economico dei poveri. Sono invece come i
cani da guardia dei ceti medi alleati ai super ricchi, pronti a tagliare le
tasse a se stessi, a ridurre le tasse di successione per riprodursi, a
destinare più soldi pubblici a chi sta già meglio per consolidare il loro
benessere”.
È
una strada cieca, insomma.
Ma,
se il populismo di sinistra non ce la può fare, allora cosa?
Siamo
qui alle solite, “la condizione del nostro tempo è giocoforza proiettata alla
dimensione sovranazionale. Pensare di reagire o anche resistere alle forze
conglomerate delle multinazionali ritornando allo Stato-nazione è oltre che
anacronistico illusorio”.
Ma
se non si può resistere alla forza delle multinazionali usando la forza della
legge, dei Parlamenti, dei codici, e del monopolio della forza (tutte cose,
vorrei sommessamente ricordare, esclusivamente presenti a livello nazionale in
tutto il mondo), come si può? Per la professoressa della Columbia lo può
fare una non meglio precisata “dimensione internazionale”. Infatti, se non si
può fare nulla, allora bisogna essere “coraggiosi oltre misura”.
“Se
c’è una dimensione che può ridare ossigeno alla politica questa è quella internazionale.
Che lo vogliamo o no siamo obbligati a essere coraggiosi oltremisura, e vedere
in quel che non piace a molti di noi – l’Europa – un possibile campo di
battaglia per la ricostruzione delle strategie politiche di giustizia”.
Questo
“possibile campo di battaglia” andrebbe, insomma, affrontato rinunciando a
priori a tutte le armi che, sole, hanno ottenuto il successo.
Alla
fine quali sono questi problemi che rendono impossibile l’azione nazionale?
L’elenco
è generico e solito al contempo, ma la parola veramente decisiva la dice Salvatore
Biasco: “impensabile”.
“Faccio
mie in conclusione le parole di Biasco: «la dimensione europea, prima ancora
che mondiale, appare di fondamentale importanza. Impegnare l’Europa in questa
direzione è una via difficile e di duro confronto, e lascio immaginare quale
intransigenza, mobilitazione e capacità di proposta controcorrente siano
necessarie per un quadro differente. Ma, smontando l’Europa, tutto questo è impensabile,
come lo è il governo di altri problemi che il neoliberismo lascia in eredità e
che hanno radici globali, quando non sono integralmente tali (quali le
migrazioni, il clima, l’ambiente, le tensioni geopolitiche e militari,
l’energia, la povertà, la guerra dei dazi, il governo delle monete
internazionali, la sicurezza). Non è l’Unione europea il bersaglio, ma la sua
gestione, filosofia e indirizzi».”
“Impensabile”.
Si.
Per
lui.
[1] - Da qui
in avanti il riferimento principale è Pierre Rosanvallon, “La
società dell’uguaglianza”
[2] - Espressione
usata contro Schelling nella Prefazione della “Fenomenologia dello spirito”,
da Hegel. Contrapporre alla fatica di una conoscenza che fa valere le
differenze e “cerca o esige compiutezza” un unico sapere proposto come
Assoluto, nel quale tutto è uguale resta soggetto a questa accusa. Il “cattivo
universalismo”, di cui qui fa mostra l’autrice, con la sua costruzione
nascostamente naturalista, allude ad una realtà che sarebbe più ‘vera’ (l’autosuperamento
universalista del locale contingente, e quindi il telos alla pace universale
nella forma riconciliata del superamento di ogni differenza e dell’estensione
erga omnes della forma di vita liberal-occidentale, estrema forma definitiva
dell’umano), e che respinge nell’inautentico e nel finito, nel passeggero
divenire, tutto ciò che, invece, è la vita effettiva. Ciò che è reale è
mutamento, ciò che muta non può essere catturato in una forma a priori di
perfezione data prima e al di là della storia. Ma entro la storia occorre
attraversare anche il negativo, lavorare nel suo spessore e nel suo travaglio.
[4] - “l'invidia universale, che si
trasforma in una forza, non è altro che la forma mascherata sotto cui si
presenta l'avidità, e in cui trova soltanto in un altro modo
la propria soddisfazione. L'idea di ogni proprietà privata come tale è per
lo meno rivolta contro la proprietà privata più ricca sotto
forma di invidia e di tendenza al livellamento, tanto che questa stessa invidia
e questa stessa tendenza al livellamento costituiscono persino l'essenza della
concorrenza. Il comunismo rozzo non è che il compimento di questa invidia e di
questo livellamento partendo dalla rappresentazione minima.
Egli ha una misura determinata e limitata. Proprio
la negazione astratta dell'intero mondo della cultura e della civiltà, il
ritorno alla semplicità innaturale dell'uomo povero e senza
bisogni, che non solo non è andato oltre la proprietà privata ma non vi è
neppure ancora arrivato, dimostrano quanto poco questa soppressione della
proprietà privata sia una appropriazione reale”
Karl Marx, “Manoscritti economico-filosofici del 1844”, , p104
Come so fa a condividere? Adesso provo con il link..
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