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martedì 25 giugno 2019

Circa Nadia Urbinati, “L’invidia da passione mobilitante a detonatore di rivolta”





Sul numero 3/2019 della rivista della Fondazione Italianieuropei è pubblicato un articolo della politologa Nadia Urbinati dall’urticante titolo sopra citato. Trovo altamente urticante il titolo per l’evocazione del sempiterno cavallo di battaglia della destra liberale contro tutti i movimenti di protesta sociale e rivendicazione della relativa giustizia: l’invidia.

Ci sarà un passaggio più specifico nell’articolo, ma per ora soffermiamoci sulla fase storica nella quale questo termine, insieme ai suoi associati, è sistematicamente evocato insieme alla qualifica “sociale” (cambiandone profondamente il senso) e da chi: si tratta degli anni trenta del 1800[1], quando interviene un mutamento nel dibattito ‘progressista’ sull’uguaglianza. Mentre nella generazione dei riformisti settecenteschi, i Seyes, come Smith, o i rivoluzionari americani degli anni settanta-ottanta, la questione sociale era questione di privilegi e di indipendenza, una quarantina di anni dopo, insieme alla rivoluzione industriale, emerge la questione della ricchezza. È allora che si manifesta una ideologia liberal-conservatrice che non si pone più a difesa della nobiltà sfidata, ma dei beni aggrediti. È allora che l’operaio diventa anche il criminale, le ineguaglianze diventano prodotto di vizio ed empietà, la rivolta è segno di invidia sociale. La frugalità del buon operaio, laborioso, ordinato, economo, previdente, è contrapposta all’imprevidente, corrotto, vizioso, che per questo non riesce a vivere del suo e quindi desidera ciò che è d’altri. Ovvero dei previdenti borghesi.
Tutti gli osservatori della miseria dei lavoratori nella prima parte dell’ottocento, i Lous René Villermé, i Buret, sono dei moralisti. Ed il loro moralismo è a senso unico. Altri faranno peggio: Saint-Marc Girardin nel 1831 definirà gli operai setaioli in rivolta come “barbari” e sosterrà: “la miseria è il castigo della pigrizia e del vizio. Ecco gli insegnamenti che ci dà la storia”. Le classi povere sono per lui anche “viziose” e “pericolose”, sono la più terribile delle minacce. In Inghilterra contemporaneamente sorgono le workhouses, e un arsenale legislativo che intende contemporaneamente reprimere ed educare, e si presentano potentissime leghe e società filantropiche: The London City Mission, The Charity Organization Society, The Salvation Army, The Londono Bible Woman and Nurses Mission, The Moral Reform Union.

Giotto, Cappella degli Scrovegni: Invidia

Ancora, uno dei maggiori ideologi del regime di Luglio, in Francia, Charles Dunoyer, scriverà in “Della libertà del lavoro”, che il regime industriale altro non fa che fare emergere le ineguaglianze naturali, ovvero le fa scaturire dalle diverse capacità fisiche, intellettuali, morali. Il regime industriale è quindi un puro regime naturale. Come dice Rosanvallon è questo “il fulcro della nuova ideologia liberal-conservatrice affermatasi in Europa negli anni ’30-40 dell’ottocento”. Le disuguaglianze “naturali”, insomma, non sono solo morali, ma anche necessarie, perché altrimenti lo sviluppo dell’industria diventa impossibile. La disuguaglianza è in sostanza la legge del mondo, ed è inseparabilmente e contemporaneamente morale, naturale, sociale e psicologica.

Ma che dice la nostra politologa? Leggiamo l’incipit:

“Vincitori e vinti sono categorie portanti della storia dell’umanità, che potrebbe essere scandita secondo i mezzi e le forme delle lotte e delle competizioni che hanno prodotto vincitori e vinti. La civiltà libera­le alla quale apparteniamo produce e riproduce vincitori e vinti sul campo di battaglia del mercato, per mezzo del denaro e con l’ambito traguardo di una distribuzione dei beni soddisfacente (dove la sod­disfazione è mutevole in ragione del mutamento dei bisogni)”.

Il tono è piuttosto shoccante: la categoria “portante” dell’intera storia è vista nella competizione e l’intera “storia dell’umanità” potrebbe essere scandita secondo i mezzi e le forme delle lotte. Ma mentre Marx, con una potente semplificazione, aveva dichiarato che era la “lotta di classe” a scandire la storia, in questa versione in sedicesimi c’è una torsione individualistica che cambia interamente il senso delle cose. Il presente, pomposamente definito “civiltà liberale”, produrrebbe vincitori e vinti non già collettivamente (ovvero in seguito allo scontro di collettività più o meno armate) ma individualmente, “sul campo di battaglia del mercato”. Ecco che quindi il “mercato”, ed il denaro suo strumento, sono naturalizzati, insieme al conflitto ed ai suoi esiti necessari: la creazione di vinti.
Del resto chi potrebbe negare che nella storia ci siano state guerre? Nello stesso modo nessuno potrà negare che il mercato, oggi, produce vinti. È semplicemente “la categorie portante della storia dell’umanità”.

La cosa viene rafforzata dall’evocazione di un articolo di Salvatore Biasco ripubblicato sullo stesso numero, ma del dicembre 2018, attraverso il quale la Urbinati sostiene che si definisce “crisi” il momento in cui le fondamenta della società non sono più sincrone con le sovrastrutture, perché le prime “sono mutate” e “la compagine di istituzioni politiche e di cultura morale resta come immobile, ancorata al passato e incapace di essere in sintonia con la nuova sistemazione delle fondamenta”. Anche qui ricompare il naturalismo, che scopriremo del seguito essere anche morale, sociale e psicologico.

Nel seguito riassume abbastanza brutalmente, ed in modo infedele, il complesso saggio di Biasco che meriterebbe una lettura a parte (che magari faremo), ma nella sostanza lo fa per precipitare, ricordando di passaggio la rivolta di Occupy Wall Street e le ragioni delle classi medie centrali, in declino che le muovevano, per confrontarla con quella del tutto diversa per stratificazione sociale e provenienza (non una rivolta del centro e delle classi “cognitive” tradite dallo sviluppo dell’1%, ma delle periferie marginalizzate e delle working class terziarizzate e precarizzate) dei Gilet Gialli e persino, con un salto vertiginoso di inquadramento sociale, con “la crescita in tutti i paesi dell’area atlantica delle destre xenofobe e poi della fasci­nazione che le idee sovraniste ricevono sia (ovviamente) a destra sia (meno ovviamente) a sinistra”. Una posizione alla quale potrebbe opporsi il noto aforisma per il quale non è altro che ingenuità di conoscenza vacua spacciare il proprio Assoluto per la notte nella quale tutte le vacche sono nere[2].
Insomma, Nadia Urbinati, compie un’operazione molto precisa: identifica tutte le “classi pericolose” insieme, di qualsiasi segno, e le mette in una unica categoria onnicomprensiva, i vinti.

Con una drastica semplificazione: “Il fenomeno dei gilet gialli è come la versione arrabbiata di OWS”.

Ma in che senso? Nel senso che hanno in comune:
-        la repulsione delle rappresen­tanze politiche, di destra come di sinistra;
-        l’occupazione dei luoghi pubblici di vetrina – ovvero le aree più upper-class delle capitali dei rispettivi paesi;
-        la trasversalità di classe e però anche il rifiuto di adot­tare un linguaggio di classe o di “costruire” una compagine classista;
-        il rifiuto dell’organizzazione e dell’unificazione delle ri­ vendicazioni sotto una bandiera, un leader, un obiettivo strategico.

E’ vero che questo è in comune, ma lo è in quanto movimenti nell’epoca dell’antipolitica e della “direttezza”[3]. Di per se, non è un indizio sufficiente.

I Gilet Gialli sono dunque una Jacquerie. Una “eruzione sociale”.

È qui che, in un’apparente contesto descrittivo, e fatto nome a terzi, che viene evocata la categoria della “invidia sociale” (attribuita addirittura non solo a Mandeville ma a Marx):

“Sembra, dunque, che queste eruzioni sociali di cittadini che si ribellano nel nome della loro quotidiana condizione di disagio siano la datità dalla quale partire, la posizione che deve essere studiata per essere tramutata in materia politica. Si tratta di movimenti figli dell’età neoliberale spiegata da Biasco: attenti all’avere soldi sufficienti non solo per so­pravvivere, ma anche per procurarsi quei beni che sono indicativi di reputazione e di riconoscimento sociale. Alcuni sociologi hanno rispolverato la dinamica dell’invidia sociale (che Mandeville prima di Marx aveva considerato una molla dello sviluppo sociale) per mettere in luce tuttavia non gli aspetti dinamici di cui essa è capace ma quelli nichilisti. Oggi, invidiare chi sta bene sarebbe come indulgere in una cultura imitativa che, essendo incapace di produrre l’esito desidera­to, può motivare rivolte e reazioni violente. Insomma, l’invidia è un peccato virtuoso fino a quando le praterie sono così aperte e ampie da consentire a chi le esplora di fare e ottenere risultati”.

L’invidia, dunque.

È questa ad essere il “detonatore di rivolta”, nelle condizioni in cui siamo.

“Nella condizione odierna, nella quale i recinti delle potenzialità eco­nomiche e sociali sono stretti e chiusi, in cui i pochi che hanno il 95% della ricchezza hanno impoverito così radicalmente tutti i loro competitori da renderli pericolosi, l’invidia può essere un detonatore di rivolta. Questo è il caso dei gilet gialli, che lamentano di non poter vivere con sufficiente agio mentre “i ricchi” si godono la vita a Parigi. L’invidia diventa arma di risentimento perché le condizioni socio­economiche rendono l’energia competitiva che la anima impotente e inefficace. Si può invidiare un monarca o una corte di nobili per nascita? Non ha senso. Mentre ha senso trasformare quella invidia fuori luogo in risentimento contro un gruppo di persone che godono di privilegi enormi e sono sempre più odiate per questo”.

Secondo l’autrice il liberalismo “di mercato” aveva una morale che non è più. Quella secondo la quale “tutti i beni di cui abbiamo bisogno si possono comprare se si lavora e ci si impegna ovvero se li si merita”. Oggi questa società (che non è mai esistita in effetti) non c’è più perché i ricchi si sono alleati con le classi medio-alte e hanno rovesciato a loro vantaggio le distribuzioni. Parlando di ciò che conosce bene, essendo una insegnante alla Columbia University, chiarisce che “mediante la filantropia, i grandi ricchi e i più ricchi tra i loro alleati del ceto medio si assicurano l’istruzione nelle migliori università del mondo, che sono a tutti gli effetti soltanto loro, con accessi selezionati per gruppi sempre più ristretti e rompendo la logi­ca del mercato, della competizione larga”.
Sarebbe questo che “mette a repentaglio la funzione dinamica dell’invidia. E produce caste”.

Ciò che rimpiange è quindi il capitalismo “competitivo”, nel quale è possibile il “calcolo di mutua convenienza”, quindi “classi contrappo­ste, calcoli di costi e benefici, scambio e compro­messo”.

La venuta meno del compromesso tra le classi determina la ribellione aperta.

Qui viene il passaggio chiave, in Urbinati come in Biasco, ed in tutto il loro ceto altoborghese cooptato da molto tempo alla fedeltà al sistema mondialista neoliberale, tanto profondamente da non poterne uscire neppure per ipotesi:

“Né i partiti né le istituzioni rappresentative né le belle Costituzioni democratiche che tanto promettevano possono davvero fare molto per dirci che cosa fare. Gli strumenti politici che le generazioni precedenti avevano costruito nella lotta contro il capi­talismo industriale e contro quello di Stato – contro gli Stati fascisti e quelli autoritari – non sembrano funzionare più. Insomma: l’invidia non funziona come passione mobilitante; funziona solo come pas­sione distruttiva che genera risentimento”.

Insomma, Non Ci Sono Alternative.




Chi pensa che, invece, tutto questo sia l’effetto storico, e non naturale, di un movimento determinato da forze e scelte, e che altre forze con altre scelte, non per “invidia sociale”, ma per l’umana insopprimibile ricerca della “giustizia sociale” per la grande maggioranza dell’umanità, e per la salvezza della natura stessa, possono revocarle, potrà pensare in modo diverso la chiusa dell’articolo.


Perché per Urbinati essere contro le forze della storia e della natura comporta ovviamente e necessariamente qualcosa di malato, di reattivo, di mosso dall’invidia. Avere la forma di Caino, dei fratelli di Giacobbe, del re Saul, o dei Sadducei. Di chi uccide il giusto, il sano, il meritevole.
L’invidia impedisce di rallegrarsi con quelli che sono nella gioia e di piangere con coloro che sono nel dolore, fa desiderare la roba d’altri. È connessa alla superbia, come voleva San Tommaso, o Metastasio, ed è nemica di se stessi e determina impotenza. Di più, classificare come sentimento di invidia, allargato ad un’intera società o a sue parti, quel che è la ferita di essere umiliati, non riconosciuti nei propri diritti primari, privati del diritto alla giustizia, comporta uno stigma morale che Bernard Russell (“La conquista della felicità”, 1930) qualificava come “causa di infelicità”, perché oltre a volere l’altrui infelicità, chi ne soffre è incapace di “provare piacere in ciò che ha e soffre per quel che gli altri hanno”.
L’invidia sociale, o quella che Marx chiamava “invidia universale”[4], è certo una forza motrice, ma ha una forza rozza, limitata e rudimentale, essenzialmente distruttiva. In questo concordo con la tesi della Urbinati, ma discordo che questa possa essere elevata a chiave interpretativa centrale.



Leggere tutto sotto la luce dell’invidia “sociale”, e quindi la sua causa come spostamento della struttura per non meglio definite cause naturali, mentre la sovrastruttura resiste e si attarda, determina in effetti e necessariamente, se si accetta questa premessa, lo schiacciamento di tutto ciò che resiste sotto lo stigma.

“È in questo frangente che le forze nazionaliste e xenofobe si pre­sentano sulla scena. Che diventano anzi forze egemoniche, tanto da riuscire ad attirare dalla loro parte anche le cul­ture politiche della sinistra. Oggi il popolo è il soggetto fittizio che sembra funzionare meglio aperto com’è alla costruzione discorsiva; un sog­getto collettivo che se costruito da una narrativa emancipazionista può far virare la politica verso posizioni di sinistra – questa è l’argomentazione dei populisti di sinistra che sulla scorta delle idee di Ernesto Laclau sostengono che non vi è nei fatti altra soluzione se non la democrazia populista. La soluzione populista sembra essere adatta a una società non più classista. La lotta politica nell’età degli indistinti poveri e indistinti ricchi è un’arte della distinzione: una lot­ta tra leader carismatici che devono riuscire a dare unità e distinzione riconoscibile a una serie ampia di scontenti sociali e rivendicazioni”.

Segue una critica del populismo di sinistra, alla Laclau, che non mi vede contrario: si tratterebbe di una politica che “sembra essere in sintonia con il neoliberismo, perché una politica che si regge solo sulla conquista dell’audience, solo su narrative attraenti che raccolgono consensi con velocità e con velocità li perdono”. E si tratterebbe di una “narrativa, e per nulla convin­cente”.
Il leaderismo, sintetizzo, allontana dall’autentica democrazia e si espone all’impotenza.

Abbiamo un accordo.

Dura poco perché subito divergiamo di nuovo: io direi che si espone all’impotenza perché di fatto non mobilita le forze sociali che, per le buone ragioni della ricerca offesa della giustizia sociale e non per le cattive della “invidia sociale”, potrebbero sostenere una politica rinnovata, energica, indisponibile ai compromessi. La Urbinati sostiene, invece, che è impotente perché Non C’è Nulla da Fare.

“L’illusione populista – che è un’illusione sovranista – ci fa credere che basti entrare nella stanza dei bottoni dello Stato con uno staff deter­minato a risolvere i problemi, senza considerare che molti di questi sono, come Biasco spiega assai bene, fuori dalla portata degli Stati (soprattutto Stati di piccole e anche medie estensioni)”.

Come sia, certo la soluzione leaderistica che non mobilita forze, ma le sfrutta per accedere sveltamente al potere, “ha più facilità a essere catturata dai nazionalisti e xenofobi, perché questi ultimi non promettono in fondo né la re­ distribuzione sociale né il riscatto economico dei poveri. Sono invece come i cani da guardia dei ceti medi alleati ai super ricchi, pronti a tagliare le tasse a se stessi, a ridurre le tasse di successione per ripro­dursi, a destinare più soldi pubblici a chi sta già meglio per consoli­dare il loro benessere”.

È una strada cieca, insomma.
Ma, se il populismo di sinistra non ce la può fare, allora cosa?

Siamo qui alle solite, “la condizione del nostro tempo è giocoforza proiettata alla dimensione sovranazionale. Pensare di reagire o anche resistere alle forze conglomerate delle mul­tinazionali ritornando allo Stato-nazione è oltre che anacronistico illusorio”.
Ma se non si può resistere alla forza delle multinazionali usando la forza della legge, dei Parlamenti, dei codici, e del monopolio della forza (tutte cose, vorrei sommessamente ricordare, esclusivamente presenti a livello nazionale in tutto il mondo), come si può? Per la professoressa della Columbia lo può fare una non meglio precisata “dimensione internazionale”. Infatti, se non si può fare nulla, allora bisogna essere “coraggiosi oltre misura”.

“Se c’è una dimensione che può ridare ossigeno alla politica questa è quella internazionale. Che lo vogliamo o no siamo obbligati a essere coraggiosi oltremisura, e vedere in quel che non piace a molti di noi – l’Europa – un possibile campo di battaglia per la ricostruzio­ne delle strategie politiche di giustizia”.

Questo “possibile campo di battaglia” andrebbe, insomma, affrontato rinunciando a priori a tutte le armi che, sole, hanno ottenuto il successo.



Alla fine quali sono questi problemi che rendono impossibile l’azione nazionale?

L’elenco è generico e solito al contempo, ma la parola veramente decisiva la dice Salvatore Biasco: “impensabile”.

“Faccio mie in conclusione le parole di Biasco: «la dimensione eu­ropea, prima ancora che mondiale, appare di fondamentale impor­tanza. Impegnare l’Europa in questa direzione è una via difficile e di duro confronto, e lascio immaginare quale intransigenza, mobilita­zione e capacità di proposta controcorrente siano necessarie per un quadro differente. Ma, smontando l’Europa, tutto questo è impensa­bile, come lo è il governo di altri problemi che il neoliberismo lascia in eredità e che hanno radici globali, quando non sono integralmen­te tali (quali le migrazioni, il clima, l’ambiente, le tensioni geopo­litiche e militari, l’energia, la povertà, la guerra dei dazi, il governo delle monete internazionali, la sicurezza). Non è l’Unione europea il bersaglio, ma la sua gestione, filosofia e indirizzi».”

“Impensabile”.


Si.
Per lui.



[1] - Da qui in avanti il riferimento principale è Pierre Rosanvallon, “La società dell’uguaglianza
[2] - Espressione usata contro Schelling nella Prefazione della “Fenomenologia dello spirito”, da Hegel. Contrapporre alla fatica di una conoscenza che fa valere le differenze e “cerca o esige compiutezza” un unico sapere proposto come Assoluto, nel quale tutto è uguale resta soggetto a questa accusa. Il “cattivo universalismo”, di cui qui fa mostra l’autrice, con la sua costruzione nascostamente naturalista, allude ad una realtà che sarebbe più ‘vera’ (l’autosuperamento universalista del locale contingente, e quindi il telos alla pace universale nella forma riconciliata del superamento di ogni differenza e dell’estensione erga omnes della forma di vita liberal-occidentale, estrema forma definitiva dell’umano), e che respinge nell’inautentico e nel finito, nel passeggero divenire, tutto ciò che, invece, è la vita effettiva. Ciò che è reale è mutamento, ciò che muta non può essere catturato in una forma a priori di perfezione data prima e al di là della storia. Ma entro la storia occorre attraversare anche il negativo, lavorare nel suo spessore e nel suo travaglio.
[3] - Come la stessa Urbinati scrive in “Democrazia in diretta
[4] - “l'invidia universale, che si trasforma in una forza, non è altro che la forma mascherata sotto cui si presenta l'avidità, e in cui trova soltanto in un altro modo la propria soddisfazione. L'idea di ogni proprietà privata come tale è per lo meno rivolta contro la proprietà privata più ricca sotto forma di invidia e di tendenza al livellamento, tanto che questa stessa invidia e questa stessa tendenza al livellamento costituiscono persino l'essenza della concorrenza. Il comunismo rozzo non è che il compimento di questa invidia e di questo livellamento partendo dalla rappresentazione minima. Egli ha una misura determinata e limitata. Proprio la negazione astratta dell'intero mondo della cultura e della civiltà, il ritorno alla semplicità innaturale dell'uomo povero e senza bisogni, che non solo non è andato oltre la proprietà privata ma non vi è neppure ancora arrivato, dimostrano quanto poco questa soppressione della proprietà privata sia una appropriazione reale”  Karl Marx, “Manoscritti economico-filosofici del 1844”, , p104

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