Moreno
Pasquinelli ha deciso di replicare al mio pezzo sulla politica della Lega nel
contesto dell’attuale crisi europea, ovvero a “Giochi
di specchi ed equivoci: il caso della Lega”. Lo ha fatto con un articolo
sul blog di P101, “L’Italia
non può farcela (da sola)”.
Bazille, Riunione di famiglia |
Potremmo
anche chiudere la discussione basandoci sul titolo: certo che l’Italia non
può farcela (da sola). Ma non è così semplice, perché la vera domanda è: a
fare cosa? E questa domanda si muove su molteplici piani di una discussione
necessaria e dirimente, che quindi merita di essere fatta.
Quindi
partiamo dai due articoli, bisognerà riassumerli brevemente:
1- Il
mio tentava una valutazione della situazione politica con particolare
riferimento alle contraddizioni entro l'attuale governo ed alla posizione della
Lega rispetto all'Europa. L’idea fondamentale era di provare a partire dalla
focalizzazione delle contraddizioni per inquadrare le forze, poco visibili, che
si muovono nel campo e le tensioni che manifestano. Infatti anche per pensare
in termini di ‘amico e nemico’[1], e/o di ‘nemico principale’
e ‘secondario’[2],
bisogna capire che ogni tensione attraversa diagonalmente tutti i
campi. Altrimenti dimentichiamo le nostre radici, ed il livello di analisi che
comportano, e rischiamo di riprodurre anche inconsapevolmente schemi
nazionalisti. Parlare di “Italia”, in ogni contesto politico è una probabilmente
necessaria abbreviazione, ma occorre sempre avere cura di pensare nella sua
concretezza lo scarto delle forze che si connettono e lottano attraverso i
confini politici. La mia analisi partiva quindi dal risultato del 4 marzo,
nello schema interpretativo della lotta centro/periferia divenuta prevalente su
quella destra/sinistra (anche se questa resta come chiave subordinata, come si
vede). Quindi dallo spiazzamento delle sinistre, tutte, nel contesto
dello smottamento sociale del secondo decennio.
Questo
smottamento ha separato qualcosa di profondo nel paese, e la sinistra non ha
trovato di meglio che reagire al suo riflesso elitista condannando i toni
popolari come ‘razzisti’ e ‘nuovo fascismo’. Ma, lungi dall’essere così
semplicemente razzista il nuovo blocco emotivo, fattosi massa, e senso comune,
ha di fatto staccato una maggioranza politica altamente fratturata e contesa
tra diverse istanze. Una maggioranza fatta di plurimi frammenti sociali che è
il vero campo di battaglia sul quale tornare, pena sia l’irrilevanza (e qui
sarebbe poco male) sia il vile abbandono ad altre agende.
Si
ricostruiva quindi l'esordio del governo, che ha mostrato la tensione tra una “base
di massa”[3] incerta, oscillante e
reattiva, espressione di molte delle contraddizioni del paese (quella nord/sud
in primis, ma anche tra ceti produttivi e la grande destrutturazione del paese
periferico) e le diverse “basi sociali”[4] dei due partiti al
governo, oltre che del potentissimo e trasversale “partito” del vincolo esterno[5] (ben rappresentato nelle
istituzioni del paese, ma ubiquo). Lo scontro del 2,4% ne è stato sintomo evidente.
Incontrato
il muro dei ceti possidenti del paese, capaci di mobilitare una maggioranza
invisibile grazie alla loro capacità storicamente consolidata di trascinare
sulle proprie posizioni le piccole borghesie nazionali, a me pare si sia, e qui
comincia la divergenza di interpretazione dei fatti con il mio amico
Pasquinelli, la Lega in particolare (che questa coalizione sociale ha nel
corpo costituente), ha ripiegato su politiche simboliche e distrattive di
grande efficacia. Le due principali sono l’immigrazione e la sicurezza
(cosa che non esclude abbiano una loro sostanza[6]). Il Movimento Cinque
Stelle è apparso invece paralizzato (non da ultimo dalle sue modalità di
costruzione “primopopuliste”[7]).
Quel
che conta per la posizione interpretativa è che tra le due forze ed entro il
paese si è aperta allora una frattura, che esemplifico come conflitto tra
diverse “basi sociali” ed una “base di massa” in parte contigua.
Le
elezioni del 26 maggio sotto questo profilo non hanno cambiato le cose, ma le hanno
consolidate.
Questa
analisi precipita in un giudizio (semplificato, come ovvio): lo scontro con
l'Europa è dunque una illusione ottica, perché è fattualmente impedito
dalle contraddizioni interne entro le forze di governo e resta inquadrato in un
contesto geopolitico di estrema complessità ma nel quale non mi sembra di
vedere soluzioni nette dentro/fuori.
Il
vero scontro, aspro e decisivo, è tra la potente coalizione di interessi
e sociale che dipende dalla relazione subalterna con i centri, organizzati come
una grande catena, “metropolitani” (per usare la metafora di Gunder Frank[8]), e che si alimenta dei
suoi cascami, fondando in essi la propria posizione sociale, e le
periferie subalterne. Il nemico, insomma, lo abbiamo dentro, è per questo
che parlare di Italia è parzialmente fuorviante. Noi dobbiamo parlare degli
interessi concreti e delle identità politico-sociali che sono ancorate ad essi
che si muovono entro forme di vita interessate alla conservazione dei propri
privilegi attraverso il vincolo esterno, la disattivazione sociale e politica
che ne consegue, e l’economia deflattiva, qualunque sia la cornice statuale
entro la quale opera. Solo come conseguenza ribadire la necessità di
ripristinare i punti di resistenza necessaria a condurre una battaglia efficace
(e quindi quelli statuali).
Dunque
il punto di leva che era proposto, per evitare gli equivoci di una lettura ‘nazionalista’,
ad insufficiente livello analitico, è che in un campo così complesso si sta solo
riguadagnando l'orgoglio delle proprie forze, non appoggiandosi anche
inconsapevolmente su altri vincoli esterni (passare dalla EuroGermania agli Usa
o financo alla Cina). Si sta solo invertendo l'egemonia che i ceti compradori
esercitano sulle classi medie e popolari e trovando una “base sociale” che
comprenda davvero un semplice fatto: che “la libertà deve non solo
conquistarsi, ma conquistarsi senza aiuti” (Pisacane, 1857). “Senza aiuti”,
però, non significa che non si prenda ciò che viene, e neppure che non si
lavori ad alleanze, ma che il presupposto di una autentica liberazione è la liberazione
di sé.
Quindi
si concludeva, ripassando al punto di vista più limitato delle nostre piccole forze,
che neppure l'attesa che sia la Lega a combattere per noi questa battaglia ha
speranza. E non la ha indipendentemente dalla generosa volontà di alcuni: la
“base sociale” della Lega è l’ostacolo che impedisce e impedirà, anche alla
Lega medesima, di sviluppare un reale movimento di liberazione. In queste mani
al massimo avremo una “rivoluzione passiva”[9].
Ciò
che il post voleva dire è molto semplice, dunque: dobbiamo riguadagnare la
piena fiducia nelle nostre forze e finalmente smettere il gioco secolare di
aspettare l’aiuto di altri per conquistarci la nostra libertà. Una volta che lo
abbiamo fatto ci si può alleare anche con il diavolo, non dipenderemo da lui.
L’articolo
di Pasquinelli, che ringrazio per l’occasione di precisare queste difficili
questioni, e di pensare meglio la mia stessa ipotesi, mi pare sostenga più o
meno questo:
2- Sorvolando
sulla parte analitica, che dunque suppongo condivisa, si identifica (a torto)
come bersaglio polemico del pezzo e si identifica con chi sente il “dovere” di
sostenere il Governo Giallo-Verde nell’arena data del conflitto con l’Unione
Europea (quindi non in tutti i campi). Un sostegno che quindi, per questo, è come
scrive “non acritico, ma tattico, temporaneo e mirato”.
Quindi
l’articolo attacca con il vigore consueto l’affermazione secondo la quale “il
braccio di ferro non sarebbe che una messa in scena”, ovvero “testualmente ‘una
nuova puntata della partita di distrazione n.2 (essendo quella sugli immigrati
la distrazione n.1)”. Qui viene una lunga citazione testuale che termina con la
mia immagine del passaggio dalla dominazione germanocentrica a quella diretta
(e non indiretta) del capitale anglosassone e del potere sovrano statunitense come
passaggio “dalla padella alla brace”.
Questa
immagine è contrastata sulla base di una valutazione del “nemico principale”, “oggi
come oggi”, che lo identifica con l’”euro-dittatura” e la “potente oligarchia
ordoliberista euro-tedesca”. Bisogna notare che il soggetto che dovrebbe
identificare questo “nemico principale” per Pasquinelli (e per me), non è l’Italia,
ma “il popolo lavoratore italiano”.
Dunque,
anche se “non è affatto sicuro che Salvini possa contare sull’avvallo di certo
grande capitalismo anglosassone e yankee a sfidare l’euro-Germania”, se
succedesse bisognerebbe accettare l’aiuto. Naturalmente non senza condizioni,
ovvero non andrebbe “respinto a priori”, ma valutando costi e benefici per il
Paese (ovvero, immagino, per “il popolo lavoratore italiano”).
Sulla
base di questa posizione, che non manca di senso pratico, per Pasquinelli la
mia valutazione “della padella o brace” è “ideologica e impolitica”,
ovvero “astratta e idealistica”. Addirittura regno di una subalternità non
superata per “l’europeismo distopico habermasiano”, che identifica comunque
nell’Europa una “missione civilizzatrice” malgrado tutto[10].
L’astrazione
sarebbe dimostrata dalla valutazione come “distrazione” della politica di sfida
alla Ue, e quindi dalla sottovalutazione della forza di “processi oggettivi di
crisi della Ue” che potrebbero condurre comunque ad una situazione “tecnicamente
di emergenza” sia sul piano economico come su quello politico-istituzionale.
L’aver
identificato la mia posizione come “purista” (ovvero di chi anche nella più
grave crisi, spread alle stelle, titoli deprezzati, crisi bancarie, rifiuterebbe
qualsiasi aiuto), conduce al mio esempio di Pisacane, del quale apprezza il
coraggio e la visione sociale, ma critica, al contempo, il “primitivismo
politico”, esemplificato nella “propaganda del fatto”[11].
Riecheggiando
l’esergo scelto da Sun Tzu, quindi la proposta alternativa è di “tenere insieme
determinazione rivoluzionaria e realismo politico”. Quindi riferirsi al Machiavelli
di Antonio Gramsci.
Una
critica così serrata è sempre la benvenuta.
Spiace
che l’autore non abbia voluto confrontarsi più diffusamente sul tentativo di
analisi, alla luce del quale molte delle semplificazioni che attribuisce potrebbero
essere ridimensionate. Si parla di “contraddizioni che rendono difficile per i
Partiti ed i movimenti al governo di tradurre coerentemente le spinte che
ricevono dalle loro basi sociali in parte divergenti in ‘direzione’ della relativa
base di massa”, e quindi dello scontro del deficit di giugno scorso come
momento rivelante. Le varie manovre messe in campo (dai “minibot” alle
provocazioni, anche utili) sono “distrazione” in questo specifico senso:
cercano di accontentare il sentimento della propria “base di massa”, ma senza
riuscire a superare l’alt! che gli viene da parte non escludibile della propria
“base sociale”, che è oggettivamente (se non soggettivamente) interconnessa e
con-fusa con la “base sociale” eurista e quindi sostenitrice di vincolo esterno
e dell’ordoliberismo.
D’altra
parte nella discussione della “ipotesi cinese” spinta dalla componente 5Stelle
avevo provato
dare conto di un’elevatissima complessità del quadro nel contesto di quello che
chiamavo uno “scontro triangolare” tra:
1- il
vecchio “network globalista” (ormai messo in discussione persino dalla
candidata democratica Elizabeth Warren[12]), il cui centro operativo
è ormai in Europa (ed anche in Italia);
2- il
nuovo network “territorialista” (usando il termine alla maniera di Arrighi[13]) parimenti, ma
diversamente, imperiale che cerca di ripristinare le condizioni di controllo e
quindi di accumulazione;
3- il
“terzo incomodo”, che ha alimentato la propria forza dal primo, ovvero dalla irresponsabilità
sistemica del capitale occidentale, il quale ha seguito la propria hybris
autoaccrescente a spese delle basi di potenza occidentali (la coesione sociale
e la forza della ricchezza diffusa) fino a condurre alla rottura odierna.
Ma
anche sotto questo profilo, era la mia tesi, “non è nel breve periodo plausibile
che gli Stati Uniti convalidino una disgregazione finale dell’Europa post
seconda guerra mondiale, che in tal caso sarebbe tentata di andare in parte
verso il rivale ‘estraneo’. Più probabile una navigazione contingente avendo
come bussola il contenimento germanico, senza definitive rotture (ma in questa
ottica è dirimente il modo in cui avviene il Brexit)”.
Tralasciare
questa analisi, giusta o sbagliata che sia, comporta la conseguenza che sembri
una divergenza effettiva quella che più probabilmente si vuole proporre come scelta
contestuale e tattica di appoggio contro chi sta oggi contrastando l’austerità
(peraltro imposta per mere ragioni di potere dall’Unione Europea, ma di
potere profondamente fondato a livello sociale e trasversale nell’intero continente).
L’intero discorso tentato nel post si muoveva su un altro piano; non ho
alcuna obiezione a questa scelta tattica, su questo campo di
battaglia si rivolgono i cannoni contro i giapponesi, non contro il kuomintang[14]. Ma tattica significa almeno
due cose: che si deve fare per le ragioni giuste e che non esclude
che su altri campi si spari invece contro di lui. Un appoggio consimile è
sempre “temporaneo e mirato”, come giustamente dice l’articolo di Pasquinelli.
E,
direi soprattutto, bisogna essere attenti al fatto che il “nemico principale” non
è la Ue. Il nemico principale è il “Partito del vincolo esterno”,
che ha una sua piazzaforte essenziale nelle istituzioni e nelle pratiche europee
(che quindi vanno abbattute o neutralizzate) ma che non si riduce ad esse. L’insieme
di interessi, valori, culture e basi di forza da isolare è la parte dirigente
del ‘Partito’, consapevoli della sua assoluta trasversalità, la parte da guadagnare
alla causa è la quota allargata della “base sociale” della Lega, del Movimento
5 Stelle e di ogni altra forza politica in campo, che va staccata dal dominio
della prima e resa solidale alle forze da sviluppare (cfr. nota 5 e nota
2). Scambiare i nemici può provocare le più gravi conseguenze (perché sia chiaro,
la Ue è un nemico, ma non in quanto tale, lo è in quanto strumento del vero
nemico).
Ovviamente
tanto meno lo è la Germania. Ragionare in termini nazionali nasconde
completamente l’oggetto del conflitto (non che attribuisca questo errore a
Pasquinelli).
L’oggetto
del pezzo proposto è completamente un altro, spiace che l’immagine della “padella
o la brace” l’abbia nascosto alla vista: lo scopo è avvertire chi perdesse
di vista che il “nemico” è trasversale e non è identificabile con confini meramente
nazionali. La mia tesi è che la borghesia (e gli strati contigui egemonizzati
da questi), connessa in posizione subalterna ma funzionale con i dominanti
centri di potere economico-finanziario (e quindi politico) “globalisti”
(ovvero con il “network 1”) è del tutto trasversale e coinvolge ampiamente
parte essenziale della “base sociale” della componente leghista al governo (in
misura minore anche del M5S). Questo, e non altro è il senso nel quale è
chiamata “distrattiva” la politica delle lotte ai confini e quelle verso la Ue,
non perché non abbiano la potenzialità di essere parte di un moto di
autogoverno e liberazione, ma perché la coalizione sociale che le renderebbe
effettive è troppo debole.
Questa
è la mia tesi.
Concentrarsi
sulla questione se un eventuale “aiuto” (ovvero l’impegno geopolitico a
sostenere il paese in uno scontro di vita e morte con la Ue, ed eventualmente
programmi di acquisto di titoli da centinaia di miliardi, o linee di credito
FMI) sarebbe rifiutato, in particolare se si precisa che andrebbe sottoposto ad
analisi costi-benefici, è strappare oltre i suoi limiti il testo. Non ho mai
inteso che un eventuale aiuto debba essere rifiutato ma penso sarebbe sempre
incompleto e insufficiente, ma comunque in effetti parlavo di altro.
Del
resto anche nella valutazione dell’atteggiamento del “network 2” magari mi
sbaglio, in quanto lo scontro entro l'establishment Usa è asprissimo. Se
vogliamo la mia preoccupazione, appunto, sono proprio “le condizioni”. Se si
vuole estendere il tema credo che l'interesse del paese sia in una moderata e
saggia “disconnessione”, non senza alleati e non senza amici (ad esempio
mediterranei), ma che questa nel medio periodo si gioverebbe meglio di un “gioco
triangolare”, se possibile. Un gioco nel campo “triangolare” che, appunto, individuavo
nell'ultima parte dell'articolo (i “network” 1, 2, 3).
Per
il resto direi che mi sento di escludere di avere l’idea implicita che “l'Europa
avrebbe una missione civilizzatrice universale di cui l'Unione, malgrado tutto,
sarebbe strumento”, in quanto è uno dei miei bersagli polemici più costanti[15].
Ancora
e nello stesso modo non penso, né propongo di pensare, che se una cosa è agita
come “distrazione” sia solo una distrazione, e neppure che lo sia per
tutti. Spesso una distrazione (anzi, in genere sempre) ha una sua
sostanza e produce comunque degli effetti. Ovvero lega qualcuno, chiude
delle alternative, ne apre altre. In una situazione dinamica e complessa è
astrattamente possibile, in altre parole, che si declini una politica (che
risponde a forze ed esigenze) principalmente in forma “distrattiva” (a causa
del prevalere di altre forze ed esigenze), ma poi la situazione sul campo forzi
gli eventi girando la distrazione in sostanza. Quindi è astrattamente
possibile che le misure insufficienti, poco audaci, mal disegnate e appena accennate,
di questo governo possano trovare inaspettatamente le condizioni per essere
spinte dal vento, per così dire, e prendere corpo. Certo, se prendessero corpo
senza che il paese sia pronto, ovvero con parte dominante della borghesia - in
tutti i partiti - pronta a schierarsi contro i migliori interessi del paese, ed
in favore dei propri interessi a breve termine, un robusto aiuto sarebbe molto
più che indispensabile: primum vivere[16].
Ma
su questa base non si designa una politica.
La
mia chiusa su Pisacane non voleva entrare in una questione di interpretazione
storica, né alludere al finale gesto di Sapri, mirava completamente ad altro: a
dire che soprattutto in una situazione così difficile bisogna fondarsi sulle
proprie forze, guardare bene chi sta con chi, avere attenzione per
gli interessi degli attuali “partiti d'azione” (per andare a Gramsci,
prestare attenzione alle forze in campo ed al rischio di una “rivoluzione
passiva”).
Non
certo che non bisogna avere realismo[17].
[1] - Concettualizzazione
che nella forma più nota risale all’articolo di Carl Schmitt “Il concetto di
politico”, del 1932, un anno non certo irrilevante. Anzi, un anno cruciale, nel 1930 Heinrich
Brüning era stato
nominato Cancelliere ed aveva avviato una drastica politica deflattiva (anche
in reazione all’inflazione che fino a qualche anno prima era servita a
distruggere i debiti di guerra, ma aveva di fatto espropriato la piccola e
media borghesia di tutti i suoi risparmi), a seguito del blocco della politica
nel Reichstag il 14 settembre 1930 erano state chiamate nuove elezioni che
avevano visto l’avanzamento del Partito
Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori, che arrivò al 18,3% dei voti, quintuplicandoli in due soli
anni. Da quell’anno, senza un possibile governo, la Repubblica
di Weimar scivola nella guerra civile. Quindi dal 1930 al 1933, il
Cancelliere governa senza maggioranza a forza di Decreti Presidenziali di
emergenza. Sulla base di una radicale teoria dell’austerità, nel mezzo della
grande depressione causata dalle conseguenze del crollo del ’29, il Cancelliere
ridurrà drasticamente le spese pubbliche e licenzierà milioni di impiegati
pubblici, riducendo anche le protezioni per la disoccupazione. Sul finire del’32
inizierà, è vero, una timida ripresa ma troppo tardi, ormai il governo non ha
il sostegno di nessuno e quasi tutti chiedono una svolta radicale. L’anno successivo
ci sarà l’avvento al potere di Adolf Hitler. Nella conferenza Schmitt pone la
questione dello Stato come parte della questione del “politico” come distinto
sia dal ‘pensiero’, sia dall’azione umana’, quindi dal morale, dall’estetico,
dall’economico. Sfugge alle polarità buono e cattivo (la morale), bello o
brutto (l’estetica), utile e dannoso (l’economico), e deve essere da qualche
parte, in quanto concetto, autonomo e valido di per sé. Una tale distinzione è
proposta in “amico” (freund) e “nemico” (feind). Una definizione, sia chiaro, ‘concettuale’,
ovvero in base ad un “criterio, non una definizione esaustiva o una spiegazione
del contenuto”. Cosa significa, se non appartiene alle coppie buono/cattivo o
utile/dannoso? La distinzione tra amico e nemico indica, “l’estremo grado di
intensità di un’unione o una separazione, di una associazione o una
dissociazione; essa può sussistere teoricamente e praticamente senza che, nello
stesso tempo, debbano venire impiegate tutte le altre distinzioni morali,
estetiche, economiche o di altro tipo. non v’è bisogno che il nemico politico
sia moralmente cattivo, o esteticamente brutto, egli non deve necessariamente
presentarsi come concorrente economico e forse può anche apparire vantaggioso
concludere affari con lui. Egli è semplicemente l’altro, lo straniero (der
fremde) e basta alla sua essenza che egli sia esistenzialmente, in un senso
particolarmente intensivo, qualcosa d’altro e di straniero, per modo che, nel caso
estremo, siano possibili con lui conflitti che non possano venir decisi né attraverso
un sistema di norme prestabilite né mediante l’intervento di un terzo ‘disimpegnato’
e perciò ‘imparziale’” (Le categorie del politico, p.109). E’ importante
anche considerare che il “nemico” non è l’avversario, non è il concorrente, ma
un insieme che combatte e si contrappone ad un altro insieme, è sempre
pubblico. Egli è l’hostis e non l’inimicus.
[2] - Invece la concettualizzazione di nemico “principale
e secondario”, più flessibile del quadro dualistico di Schmitt, individua
un quadro molto più articolato che viene utilizzato, ad esempio da Marx quando,
nella lettera ad Engels del 4 novembre 1864 indica nella Russia il principale
ostacolo, in polemica con i proudhniani che consideravano pari tutti i “dispotismi”.
L’idea di Marx era che i rapporti reali e concreti, di subordinazione o di
antagonismo tra le potenze, ancoravano la sopravvivenza degli imperi
sovranazionali austriaco e turco era possibile per l’antagonismo con la
minaccia dell’espansionismo russo, che fungeva da elemento di coesione esterno
alle altrimenti incomprimibili spinte centrifughe delle élite e dei popoli
interni. Nello stesso modo il dominio degli Junker prussiani era reso possibile
da questa forza esterna. Un altro importante esempio è nella teorizzazione di
Mao Tze Tung. Ad esempio in un importante saggio “A proposito dell’esperienza
storica della dittatura del proletariato”, scritto in occasione del XX
Congresso del Pcus, 5 aprile 1956, Mao scrive: “In taluni casi può essere
giusto isolare tali forze [intermedie], ma non è sempre giusto isolarle in ogni
circostanza. Basandoci sulla nostra esperienza, lo sforzo maggiore deve
essere diretto, durante la rivoluzione, contro il nemico principale per
isolarlo. Nei confronti delle forze intermedie noi dobbiamo adottate sia la
politica di unirci a loro, sia quella di combatterle, o per lo meno di
neutralizzarle, sforzandoci, quando le circostanze lo permettono, di farle
passare da una posizione neutrale a una posizione di alleanza con noi, in modo
da poter aiutare lo sviluppo della rivoluzione. Ma c'è stato un periodo (i
dieci anni della seconda Guerra civile rivoluzionaria fra il 1927 e il 1936) durante
il quale alcuni dei nostri compagni hanno rigidamente applicato questa formula
di Stalin alla Rivoluzione cinese dirigendo l'offensiva principale contro le
forze intermedie, considerandole come il nostro nemico più pericoloso. Il
risultato è stato che invece di isolare il vero nemico, noi isolavamo noi
stessi e subivamo delle forti perdite, mentre il nemico ne traeva vantaggio.
Avendo di mira questo errore dogmatico, per poter sconfiggere gli aggressori
giapponesi il Comitato Centrale del Partito comunista cinese, durante gli anni
della Guerra di resistenza contro il Giappone, sostenne il principio di ‘sviluppare
le forze progressive, guadagnare le forze intermedie e isolare le forze dure a
morire’. Le forze progressive cui ci si riferiva erano le forze degli
operai, dei contadini e degli intellettuali rivoluzionari guidate o
influenzabili dal Partito comunista cinese. Le forze intermedie erano la
borghesia nazionale, tutti i partiti democratici e i senza partito. Le forze
dure a morire erano le forze dei compradores e le forze feudali
capeggiate da Chiang Kai-shek, che attuavano una resistenza passiva
all'aggressione giapponese e di opposizione ai comunisti. L'esperienza nata
dalla pratica ha dimostrato che questa politica sostenuta dal Partito comunista
cinese si adattava bene alle circostanze della Rivoluzione cinese ed era
corretta. La realtà è che il dogmatismo è sempre apprezzato soltanto dalle
persone pigre. Ben lungi dall'essere di qualche utilità, il dogmatismo reca un
danno incalcolabile alla Rivoluzione, al popolo e al marxismo-leninismo. Per
poter elevare la coscienza delle masse popolari, stimolare il loro dinamico
spirito creativo e realizzare il rapido sviluppo del lavoro pratico e teorico,
è ancora necessario distruggere la superstiziosa fiducia nel dogmatismo. La
dittatura del proletario (che, in Cina, è la dittatura democratica popolare
della classe operaia) ha ora realizzato grandi vittorie in una vasta zona
popolata da 900 milioni di uomini. Sia l'Unione Sovietica, sia la Cina, sia ogni
altra democrazia popolare hanno le proprie esperienze, tanto nel successo
quanto negli errori”.
[3] - Si intende per “base sociale” i
ceti, o frazione di questi, che forniscono il consenso di base,
l’identificazione a due vie, il supporto economico e la base di reclutamento
principale, di un movimento politico. Un esempio di analisi che fa uso di
questa concettualizzazione in riferimento a politiche della destra italiana
sono in questo post.
[4] - Si intende per “base di massa”
l’area di più largo consenso di massa, che si manifesta in occasione del voto o
dei momenti di mobilitazione allargata.
[5] - Chiamo qui “partito
del vincolo esterno”, l’insieme proteiforme e capace di trovare
rappresentanza politica plurima, spesso sotto forme nascoste di quelle classi benestanti
e mediamente colte che percepiscono la globalizzazione come destino e progresso
per la semplice ragione (non necessariamente coscientizzata) che ne traggono
cospicui benefici. In particolare, dalla ‘moneta forte’ l’occasione di acquistare
a basso prezzo beni distintivi ed identitari che, nella loro provinciale
esterofilia (ma indispensabile per marcare la differenza dal volgo stanziale)
gli sono indispensabili; nella ‘stabilità monetaria’ garantita dalle
politiche di austerità, alle quali sono affezionate come il cucciolo alla
cagna, la salvaguardia dei loro capitali liquidi (anche se a discapito di
quelli immobili), nella “mobilità delle persone” in uscita la
possibilità di sfuggire alle conseguenze nazionali dei due fattori di cui
prima, mandando i figli a studiare in università ben finanziate e loro stessi,
se del caso, a curarsi in posti ancora idonei, e nella “mobilità del lavoro”
in entrata quella di garantirsi costante abbondanza di servitori e quindi il
disciplinamento di quelli autoctoni. Ma anche, in aggiunta, le organizzazioni
ed i corpi intermedi rappresentativi di quei ceti intermedi che possono essere
mobilitati in difesa dei “risparmi” (l’evidente e costante bersaglio della retorica
presidenziale). Ovvero del costo del mutuo (in Italia abbiamo il massimo grado
di capitalizzazione privata ma anche e soprattutto di case di proprietà), della
rata dell’auto, del piccolo debito industriale, … Il “Partito del vincolo esterno”
è, insomma, egemonizzato dalla testa, da chi ha concrete relazioni con il
grande capitale internazionale (finanziario e industriale), ma si estende,
ancorandosi a piccoli privilegi da difendere, agli incerti strati della piccola
borghesia italiana, banderuola al vento. Questo “Partito” è assolutamente e per
sua natura diagonale e trasversale. Seguendo la lezione di Mao, occorre con un’analisi
concreta della situazione concreta (Lenin), individuare quale sua parte è ‘nemico
principale’, da isolare, quale parte si può guadagnare perché le
forze progressiste siano sviluppate.
[6] - Sia il tema
dell’immigrazione sia quello della sicurezza rappresentano una sfida dissimmetrica
che colpisce alcuni ceti, mentre agisce a vantaggio di altri (o almeno è
facilmente neutralizzabile dalla loro ‘separatezza’, cfr Harvey). Dunque è un
tema reale, anzi, è un tema strategico. Rappresenta uno dei nodi
attraverso i quali si può staccare la classe lavoratrice dalla cooptazione del “Partito
del vincolo esterno”, o almeno dalla sua neutralità rispetto allo scontro
principale. Può, soprattutto il secondo, essere una leva per invertire la polarità
delle alleanze sociali, facendo comprendere agli incerti strati della piccola
borghesia che il loro migliore interesse è nel garantire, attraverso
investimenti pubblici e la liquidazione del ‘vincolo esterno’ e quindi della ‘austerità’,
un ambiente sociale coeso ed equilibrato attraverso una versione diversa della
securizzazione (per via militare) proposta dalla destra: una securizzazione
ottenuta attraverso la pacificazione sociale.
[7] - Si veda per la
critica del “primo populismo”, il post “Appunti
sulla questione del partito: oltre il primo populismo”.
[8] - Si chiama “borghesia
compradora” quella borghesia parassitaria che si organizza e trae il suo ruolo dal
flusso di surplus che è estratto da centri (o ‘metropoli’, con il linguaggio di
Gunder Frank) dominanti da periferie diversificate. Si tratta di ceti connessi
con le industrie di esportazione, manager, azionisti, operatori di logistica,
produttori di informazione e/o di decisioni, operatori finanziari. La borghesia
‘compradora’, il capitale monopolistico, e tutti i loro agenti e meccanismi
sono parte nel loro insieme, come totalità, del modo di
produzione necessariamente allargato alla scala mondiale che determina
l’accumulazione (‘flessibile’) del capitale.
[9] - Formula che
risale al Cuoco, ed è ripresa da Antonio Gramsci nei suoi studi sulla
“questione meridionale”. Si veda “Antonio Gramsci e la questione meridionale”.
Si veda in particolare questo frammento da “Quaderni” ("Risorgimento Italiano", p.2010): “il criterio metodologico su
cui occorre fondare il proprio esame è questo: che la supremazia di un
gruppo sociale si manifesta in due modi, come ‘dominio’ e come ‘direzione
intellettuale e morale’. Un gruppo sociale è dominante dei gruppi avversari
che tende a ‘liquidare’ o a sottomettere anche con la forza ed è dirigente dei
gruppi affini e alleati. Un gruppo sociale può e anzi deve essere dirigente già
prima di conquistare il potere governativo (è questa una delle condizioni
principali per la stessa conquista del potere); dopo, quando esercita il potere
e anche se lo tiene fortemente in pugno, diventa dominante ma deve continuare
anche ad essere ‘dirigente’. I moderati continuano a dirigere il Partito
d’Azione anche dopo il 1870 e il 1876 e il cosiddetto ‘trasformismo’ non è che
l'espressione parlamentare di questa azione egemonica intellettuale, morale e
politica. Si può anzi dire che tutta la vita statale italiana dal 1848 in poi è
caratterizzata dal trasformismo, cioè dall’elaborazione di una sempre più larga
classe dirigente nei quadri fissati dai moderati dopo il 1848 e la caduta delle
utopie neoguelfe e federalistiche, con l'assorbimento graduale ma continuo e
ottenuto con metodi, diversi nella loro efficacia, degli elementi attivi sorti
dai gruppi alleati e anche da quelli avversari e che parevano
irreconciliabilmente nemici. In questo senso la direzione politica è diventata
un aspetto della funzione di dominio, in quanto l'assorbimento delle élites dei
gruppi nemici porta alla decapitazione di questi e al loro annichilimento per
un periodo spesso molto lungo.Dalla politica dei moderati appare chiaro
che ci può e ci deve essere un’attività egemonica anche prima dell'andata al
potere e che non bisogna contare solo sulla forza materiale che il potere dà
per esercitare una direzione efficace: appunto la brillante soluzione
di questi problemi ha reso possibile il Risorgimento nelle forme e nei limiti
in cui esso si è effettuato, senza ‘terrore’, come ‘rivoluzione senza
rivoluzione’, ossia come ‘rivoluzione passiva’ per impiegare
un’espressione del Cuoco in un senso un po’ diverso da quello che il Cuoco
vuole dire. In quali forme e con quali mezzi i moderati riescono a stabilire
l'apparato (il meccanismo) della loro egemonia intellettuale, morale e politica? In
forme e con mezzi che si possono chiamare ‘liberali’, cioè attraverso l'iniziativa
individuale, ‘molecolare’, ‘privata’ (cioè non per un programma di
partito elaborato e costituito secondo un piano precedentemente all'azione
pratica e organizzativa). D'altronde, ciò è ‘normale’, date la struttura e la
funzione dei gruppi sociali rappresentati dai moderati, dei quali i moderati
sono il ceto dirigente, gli intellettuali in senso organico”.
[10] - Ovvero mi
accusa di avere la posizione di Hauke Brunkhorst in “Il
doppio volto dell’Europa”.
[11] - La “Propaganda
del fatto” è la posizione presa da Pisacane e poi diffusasi nel movimento
anarchico ed estrinsecatasi in attentati individuali, atti simbolici, volti
alla esplicita costruzione del mito, tentativi insurrezionali come appunto la
tragica spedizione di Carlo Pisacane, o l’attentato a Napoleone III, al re di
Spagna, all’imperatore Guglielmo I, l’omicidio dello zar Alessandro II, e via
dicendo… Pisacane scrisse “profonda mia convinzione di essere la propaganda
dell'idea una chimera e l'istruzione popolare un'assurdità. Le idee nascono dai
fatti e non questi da quelle, e il popolo non sarà libero perché sarà istrutto,
ma sarà ben tosto istrutto quando sarà libero”. O Malatesta nel 1876: “La Federazione
italiana crede che il fatto insurrezionale, destinato ad
affermare con delle azioni il principio socialista, sia il mezzo di
propaganda più efficace ed il solo che, senza ingannare e corrompere le masse,
possa penetrare nei più profondi strati sociali ed attrarre le forze vive
dell'umanità nella lotta che l'Internazionale sostiene”.
[12] - Un programma
annunciato a febbraio, e fino ad ora il più radicale esposto da un candidato
democratico. La egghead ed irritante wonk sembra poco attrezzata per sfidare
Joe Biden, Bernie Sanders, kamala Harris e Pete Buttigieg, ha adottato una
piattaforma di “populismo di sinistra” che prevede tasse per i ricchi,
regolamentazione severa delle “piattaforme”, incluso il breakup antitrust, (spezzettando
Amazon, Facebook, Alphabet, Google, Apple), assistenza familiare, università e
debiti studenteschi (una piaga), green manufacturing (denominato significativamente
“piattaforma per il patriottismo economico”), agricoltura rompendo aziende come
Monsanto, Tyson Food, un “Americano housing” da 500 miliardi e per ridurre gli
affitti dal 30% del reddito familiare (come in Italia) al massimo del 10%,
registrazione automatica alle elezioni.
[13] - Si veda Giovanni
Arrighi, “Il
lungo XX secolo”. Il sistema capitalistico è visto come una successione di
cicli di accumulazione (ogni volta composti di una fase di espansione
produttiva ed una fase terminale finanziaria) e da cicli di egemonia nei quali
un “centro” si impone a molte “periferie”. Quando la fase di espansione
produttiva inizia ad essere meno redditizia (perché si allenta il vantaggio
monopolistico che ha all’inizio sfruttato) a causa dell’accresciuta
concorrenza, allora i capitali generati vengono detenuti in forma liquida, e
non più investiti in attività divenute troppo rischiose, si ha quindi una fase
di espansione finanziaria che prepara il crollo. Sarà l’emergere di una nuova
gerarchia, spesso dopo una fase molto turbolenta e non di rado di guerra, che
determina un nuovo “centro” che riavvia il processo su basi nuove.
[14] - Come noto durante
la guerra civile cinese erano in campo tre forze principali: i nazionalisti di
Chiang Kai-Shek, i comunisti e gli invasori giapponesi.
[15] - Ad esempio si
veda il citato post sulla posizione di Hanke Brunkhorst che effettivamente ha
questa esatta posizione.
[16] - Anche perché in
un caso del genere l’egemonia dei ceti “compradori” porterebbe plausibilmente a
proteggere accuratamente i loro interessi (ad esempio acquistando a caro prezzo
le aziende fallite, i titoli bancari, ad esempio in una nuova Iri, più o meno
mascherata da “Cassa depositi e prestiti”), e scaricando i costi non già
attraverso una espansione monetaria che rischierebbe -per la ideologia
dominante- di attivare l’odiata inflazione ma attraverso una parallela e
draconiana contrazione fiscale ai danni dei ceti popolari. Una simile politica
di classe richiederebbe quindi un violento surplus di securizzazione e
distrazione, per deviare la rabbia su bersagli innocui (per il “Partito del
vincolo esterno”). Il rischio potrebbe anche prendere la forma esattamente dell’aiuto
esterno, qualora questo si traduca nel classico prestito condizionale del FMI
e/o in linee di credito, più o meno palesi, ma vincolate alla completa adesione
subalterna alle linee di ridefinizione del dominio imperiale.
[17] - Pasquinelli
ricorda opportunamente Gramsci, probabilmente in associazione al Machiavelli, e
quindi alle sue “Notarelle sul Machiavelli“, Quaderno 13, XXX, che si aprono
con l’interpretazione del “Principe” come antropomorfizzazione della “volontà
collettiva”, per un “determinato fine politico”. Una “volontà collettiva
nazionale-popolare”, per la precisione. La prima condizione è che bisogna
rompere lo sforzo delle “classi tradizionali” (di quello che qui ho chiamato
parte dirigente del “Partito del vincolo esterno”) di impedire la formazione di
una volontà collettiva nella quale le grandi masse irrompono nella vita
politica e di costringerle nel solito “equilibrio passivo”. La seconda è la “riforma
intellettuale e morale”, ma senza essere “una fredda e pedantesca esposizione
di raziocini” (p.1561). Ma, attenzione ed appunto, questa deve presentarsi “drammaticamente”
e legata ad un “programma di riforma economica, anzi, come scrive Gramsci “il
programma di riforma economica è appunto il modo concreto con cui si presenta
ogni riforma intellettuale e morale” (ivi). Ciò significa che il “moderno
principe”, il “politico in atto”, è un “creatore, un suscitatore, ma né crea
dal nulla, né si muove nel vuoto torbido dei suoi desideri e sogni. Si fonda
sulla realtà effettuale, ma cos’è questa realtà effettuale? È forse qualcosa di
statico e immobile o non piuttosto un rapporto di forze in continuo movimento e
mutamento di equilibrio? Applicare la volontà alla creazione di un nuovo
equilibrio delle forze realmente esistenti e operanti, fondandosi su quella
determinata forza che si ritiene progressiva, e potenziandola per farla
trionfare è sempre muoversi nel terreno della realtà effettuale ma per dominarla
e superarla (o contribuire a ciò)” (p.1578).
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