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giovedì 20 giugno 2019

Giochi di specchi ed equivoci: il caso della Lega


Il 4 marzo 2018 una improvvisa slavina si è staccata dal ghiacciaio della sinistra che da lungo tempo rimandava sinistri scricchiolii. In un'elezione che sperimentava non a caso un sistema elettorale più vicino al proporzionale abbandonato da decenni tutti i partiti della “seconda repubblica” sono arretrati di schianto. Sia i partiti di centro, vagamente colorati a sinistra o a destra più che altro per estetica, sia i partiti dell'anemica sinistra ‘radicale’. Tutta la sinistra è arrivata a qualcosa come il 15% degli elettori e alcune parti non sono entrate neppure in parlamento.
Si è trattato di una molla che si stava caricando almeno da dieci anni, mentre parte maggioritaria della popolazione italiana veniva respinta sul margine del sistema economico e perdeva ogni possibilità di controllare le proprie vite. È scivolata verso il basso almeno il 20% della popolazione italiana, in soli dieci anni e quindi in modo assolutamente percepibile, cosa che ha condotto i tranquilli e garantiti ad essere per la prima volta da decenni la minoranza del paese.




Attraverso i molteplici eventi del biennio abbondante 2016-19 questo smottamento si è messo in movimento ed ha preso velocità. Ne sono espressione la rivolta degli elettori (Spannaus, 2016) che ha portato nel mondo alla Brexit, alla vittoria di Trump, all’esito del referendum che ha interrotto la carriera politica di Renzi, ed ancora prima aveva fornito l’avvertimento inascoltato dell’avanzata del M5S nel 2013, le elezioni francesi con la dissoluzione dei socialisti e la contrapposizione élite/popolo rappresentata dallo scontro al ballottaggio tra Macron e Le Pen (con France Insoumise vicina all’impresa).
Dal 2016 il sistema politico europeo, insomma, è entrato in una fase di instabilità che è disponibile ad esiti diversi per piccoli spostamenti di umore. A botta calda” Carlo Formenti parlò di rabbia delle ‘periferie’ in particolare verso le sinistre che si sono rifugiate nella difesa dei vincenti. Ovvero delle classi colte e benestanti che vedono la mondializzazione come un destino ed un progresso semplicemente perché ne traggono cospicui benefici. Classi che, con piccole divisioni del lavoro con le destre ‘rispettabili’, fondamentalmente percepiscono in una moneta forte l’occasione di acquistare a basso prezzo i beni di lusso esteri di cui sono avide, nella stabilità monetaria garantita dalle politiche di austerità la salvaguardia dei loro capitali liquidi, nella mobilità in uscita la possibilità di fuggire alle conseguenze nazionali dei due fattori sopra detti, mandando i figli a studiare in università ben finanziate e loro stessi a curarsi nei posti più idonei, e nella mobilità del lavoro in entrata quella di garantirsi abbondanza di servitori e disciplinamento dei lavoratori autoctoni.

In questo quadro le sinistre di tradizione socialista sono in prima fila; diventate esclusivamente liberali ormai difendono ostinatamente un insediamento sociale, erroneamente considerato maggioritario, riconducibile solo a classi medie ‘riflessive’, urbane, sempre più anziane. Ne è chiara immagine il multiculturalismo e la difesa della cosiddetta “società aperta” (e competitiva) ed anche il cosmopolitismo di marca borghese spacciato per internazionalismo. Del resto anche le sinistre più o meno ‘radicali’, come LeU e soprattutto PaP, o la recente “La Sinistra”, scontano un complessivo e radicale disorientamento strategico; l’incapacità di dirimere le proprie contraddizioni ed individuare gli snodi essenziali della situazione e di impostare un discorso politicamente e socialmente coerente. In queste condizioni il 15% del corpo elettorale è una dimensione più che appropriata (ma può ancora scendere).

La slavina si è staccata, travolgendo tutto lungo il suo cammino, perché la fase di potente rilancio dell’accumulazione, attraverso un ulteriore incrudimento della finanziarizzazione, dell’interconnessione e l’aumento della dipendenza, alla fine si è tradotto in più dinamismo per pochi e nel 66% degli italiani che nel 2016 (indagine Demos) reputava ormai “inutile fare progetti per il futuro”. Quel che la scheletrica antropologia liberale (si veda Sandel 1982) non ha capito è che l’incertezza ed il rischio non sono pungoli che rendono più attivi e produttivi, se manca una minima condizione di capitale. Quando ne va della vita e della morte (sociale) l’incertezza paralizza e spegne, accorcia la prospettiva e impedisce di guardare oltre ed investire su sé, si tratta di quel che alcuni (Scarcity”, 2013) hanno chiamato “effetto tunnel”[1]. Chi è in questa condizione non ha alcuna progettualità, inclusa la ribellione, ed è portato a vivere in un eterno attimo presente, carico di angoscia e risentimento inespresso. Questa osservazione spiega la passività di molti tra un evento elettorale e l’altro e lo spazio per il tradimento delle aspettative come vedremo nel seguito.

Torniamo alla slavina.

Il 4 marzo 2018 improvvisamente questo fondo magmatico, potenzialmente maggioritario, si è espresso. L’umore nero del paese profondo, che la sinistra neppure riesce ad immaginare e per il quale non ha letteralmente le parole (capace come è solo di equivocarlo e ridurlo a categorie moralistiche) si è addensato in una nuova “base di massa”. Lungi dall’essere diventato improvvisamente “razzista”, “fascista”, “nazionalista”, qualcosa di profondo si è separato nel paese, riconoscendosi in un nuovo senso comune: ha messo a punto un linguaggio, dei blocchi emotivi, nei bar, nelle strade, nei negozi, negli uffici, nelle piazze. Un nuovo potenziale ‘popolo’ si è identificato nei ‘non’, nelle differenze dal potere, dalla politica, dalla finanza, dalla grande impresa, dalla globalizzazione, dalla tecnologia industriale, dalle <caste>, dal denaro. Anche, in alcuni casi, dai meridionali, dagli immigrati, dagli altri ed estranei.

Questa cultura popolare appare aliena agli occhi ed alle orecchie di quelli che una volta avremmo chiamato “gli integrati”, cioè dei colti, dei formati, dei tranquilli, di chi non cambia spesso lavoro perché costretto, ma casomai lo cambia per migliorare e conoscere altri paesi, chi ha l’orizzonte sereno di un percorso tracciato spesso dalla nascita. Strana ed incomprensibile per chi ha le risorse per farsi il futuro che vuole. Questa cultura popolare appare sconnessa, contraddittoria, mal costruita, oscura e per certi versi temibile, appare pericolosa.

Come sia il 4 marzo il 55% dei consensi espressi sono andati a due partiti espressione diversa di questo “plebeismo”.

Con molta fatica, e qualche scontro illuminante, si è formato alla fine un governo con due teste:
-        la Lega, il più vecchio partito italiano, che ha allargato la sua “base di massa” al centro-nord del paese ed unito alla tradizionale rappresentanza dei “ceti produttivi”, sull’arco dalla media alla piccola borghesia provinciale, uno sfondamento massivo verso i nuovi ceti popolari spiazzati dalle dinamiche distruttive della ristrutturazione in corso.
-        Il Movimento Cinque Stelle, ha espresso una mai vista larga “base di massa” al centro sud, con punte del 60%, facendo piazza pulita in tutte le periferie ed i ceti periferici, indeboliti dalla ristrutturazione, e leva sul desiderio di protezione, da una parte, e di vendetta, dall’altra.

Questo governo nel suo primo anno di azione ha mostrato tutte le sue profonde contraddizioni interne. La Lega, assorbita una certa retorica antieuropea, ed il tema del no-euro che aveva agitato nei mesi precedenti la discussione pubblica (ma molto meno la percezione popolare), attraverso alcuni suoi esponenti di punta come Alberto Bagnai, Claudio Borghi, Luciano Barra Caracciolo, ha nominato ministri come Savona che sono andati ad uno scontro per lo più verbale con l’Unione Europea e si è impegnata in un primo braccio di ferro sul deficit, proposto ad un non certo rivoluzionario 2,4%.
Il Movimento Cinque Stelle, che aveva riservato i ministeri di riferimento alla cosiddetta “economia reale” (mentre la terza gamba invisibile, l’establishment, ha preteso il ministro-guardiano Tria, e la Lega ha tenuto la sicurezza e la macchina statuale) ha provato alcune battaglie simboliche, come le nazionalizzazioni, l’irrigidimento del diritto del lavoro, la tutela dei lavoratori delle piattaforme, vincoli alle delocalizzazioni industriali, ma con scarsissimo effetto pratico.

Lo scontro di avvio sul deficit ha fatto, però, emergere un altro fondo del paese che attraversa diagonalmente il quadro: quasi tutte le organizzazioni ed i corpi intermedi, rappresentativi in vario modo del mondo del lavoro sicuro e garantito, anche debole, si sono alzate, al nord come al sud, a protezione dei “risparmi”. Ovvero hanno bloccato l’azione di sfida del governo verso i vincoli di spesa europei non appena in solita ritorsione per qualche settimana i tassi di remunerazione dei titoli di debito pubblico sono saliti. Ciò che si è visto in quella circostanza è un balletto strano intorno ai trecento punti base, con consistenti e coordinati acquisti e vendite (forse traccia visibile di uno scontro geopolitico), ma anche il terrore dei nostri ceti intermedi di vedere salire il costo del loro mutuo, della rata dell’auto, del piccolo debito industriale, … si è manifestato il blocco sociale dell’austerità nella sua larga rappresentanza. Una rappresentanza che ha coinvolto, a traino degli interessi del capitale internazionale (di natura finanziaria ma anche industriale), gli incerti strati della piccola borghesia italiana, spaventata banderuola al vento.
Questo avvertimento ha mosso quasi subito la “base sociale” della Lega, sensibile ed intrecciata ambiguamente con quella del blocco egemonico tradizionale del paese, che ha dato l’alt. Una specie di balletto ha consentito di chiudere l’incidente con un cosmetico 2,04 % che è nella sostanza l’identica manovra.

La Lega da allora si è impegnata in una meno rischiosa politica simbolica contro gli immigrati. Scarsamente rilevante nel breve termine, ma molto visibile e rumorosa, e capace soprattutto di provocare la reazione automatica della sinistra benpensante, in modo da allontanarla via via dal sentimento del paese profondo, e capace di mettere in costante imbarazzo il socio/competitore di governo. Nel sono state espressione i frequenti conflitti sulle navi, le Ong, i porti più o meno aperti, il sistema dell’accoglienza privatizzata, e via dicendo. Ne è stata espressione unDecreto Immigrazione” che di fatto aumenta gli irregolari e indebolisce ancora più i lavoratori tutti. Ma anche un “Decreto Sicurezza” che offre la contropartita della protezione autoritaria alla carenza delle politiche di capacitazione e sviluppo che non si riesce a promuovere. Inoltre la Lega ha imposto politiche di alleggerimento fiscale nei confronti delle imprese medie e piccole, dei professionisti, delle partite Iva, e la tradizionale (della destra) politica dei condoni.

Il Movimento Cinque Stelle è apparso invece paralizzato. Di fatto:
-        ha tentato di portare avanti il tema delle privatizzazioni, a partire dal fragoroso caso del Ponte Morandi, ma la Lega lo ha bloccato e tolto di agenda;
-        ha timidamente provato a ridiscutere di articolo 18, orari di lavoro ed apertura degli esercizi, diritti e garanzie per i precari (larga parte della sua “base sociale”), ma non ha passato il fuoco di sbarramento;
-        è in difensiva sulla questione meridionale, dove pure ha buona parte del consenso di massa, sotto l’attacco del “regionalismo differenziato” promosso con forza dalla Lega;
-        è stata costretto a ridurre a poca cosa, quasi un insulto, il suo programma chiave del “reddito di cittadinanza”, come segno di attenzione e di protezione per i troppi periferici ed abbandonato nel paese;

Entrambi, nella comune cultura liberista, non hanno neppure immaginato di aumentare l’impatto dello Stato (fuori della funzione di polizia, che ogni liberale di fatto accetta di buon grado) nel disciplinamento del mercato per il bene comune. Non hanno neppure provato a reinternalizzare tanti servizi che in questi anni, a sinistra coperti dalla retorica dei “beni comuni”, sono stati spostati da diritto di tutti a concessione partenalistica.


In definitiva in questi mesi, attraverso questi fatti stilizzati, tra le due forze politiche che sostengono il governo si è aperta una frattura che, è la mia ipotesi, dipende in ultima analisi dalla diversa “base sociale” di riferimento ed in parte da un diverso radicamento geografico. Il consenso di massa, che è coltivato e blandito e contro il quale non si può andare, se non in piccola misura, pena perderlo, è dunque soggetto a progetti egemonici conflittuali che si manifestano talvolta in piena luce. 
La base sociale che sviluppa egemonia[2] nella Lega è ancora organizzata intorno ad operatori economici, prevalentemente al centro-nord, i quali hanno interesse diretto a competere sul mercato interno in grande sofferenza e per questo richiedono insieme protezionealleggerimento fiscalesicurezza e contenimento dei costi (dunque chiedono lotta all’inflazionebasso costo del lavoro). 
Invece la “base sociale” che sviluppa egemonia nel Movimento Cinque Stelle è meno chiara, ma potrebbe essere tentativamente descritta come il vasto mondo del precariato, dei lavoratori meno tutelati, di professionisti e autonomi impoveriti dalla crisi per il continuo degrado del mercato interno, in particolare in alcune regioni del centro-sud.

La “base di massa” di entrambi i movimenti si confonde molto di più, e finisce per essere largamente trasversale (anche perché assomma ormai dal 60 al 65% dei votanti)[3].



Ci sono molte contraddizioni, che rendono difficile per i Partiti e movimenti al governo tradurre coerentemente le spinte che ricevono dalle loro basi sociali in parte divergenti in ‘direzione’ della relativa base di massa.
Ma molte delle azioni concrete del governo mostrano una certa logica: la retorica è invariabilmente rivolta a coltivare le paure e sollecitare la reazione della “base di massa”, utilizzando i toni del “momento populista” da lungo tempo sedimentati nel paese, ma la sostanza è sempre rivolta a garantire gli interessi della “base sociale”, per lo più della Lega. Ovvero a garantire il basso costo del lavoro (anche se i lavoratori sono la “base di massa”, che è per questo distratta da opportune retoriche e deviazioni[4]) anche se talvolta questo può andare contro la sicurezza (cosa che, del resto, nel breve periodo lavora a favore del consenso).


Siamo così giunti alle elezioni del 26 maggio, nelle quali c’è stato un’inversione dei pesi elettorali tra i due partiti al governo, ma nel loro complesso hanno confermato la stessa “base di massa”.


In questi giorni, a partire da una Lettera che da Bruxelles impone al governo di rientrare nel deficit fatto dal precedente governo Gentiloni a guida Pd, si sta assistendo ad una nuova puntata della partita di distrazione n.2 (essendo quella sugli immigrati la distrazione n.1). La componente Lega del governo ha fatto passare una mozione di alta valenza simbolica e basso effetto pratico con i cosiddetti “minibot”, quindi ha prudentemente comunicato ai mercati anglosassoni che, certo bisogna cambiare, ma intanto si ubbidisce (rispettivamente con Borghi e Bagnai), e nel frattempo ha cercato sponde atlantiche per ammorbidire l’amara pillola.
Alcuni sperano, contro ogni speranza, che queste manovre siano il preludio ad uno storico passaggio del capitale anglosassone e del potere sovrano statunitense dalla pluridecennale politica di sostegno (anche ambigua a tratti, ma sempre confermata allo stretto) dell’unione continentale a guida tedesca, ad una nuova politica volta a frammentare il quadro, consentendo il distacco dell’Italia, magari della Spagna e di qualche altro paese mediterraneo. Ci sono corpose ragioni (negli intrecci di interesse, di capitale, brevetti, insediamenti produttivi, scambi di élite, consuetudini e relazioni) che militano verso la scarsa probabilità di questo esito in tempi medi. Ma soprattutto potrebbe essere descritto come l’alternativa tra padella e brace.

D'altra parte la componente 5 Stelle del Governo ha compiuto qualche timida apertura, di fatto minore di quelle dei ‘partner’ europei ma da questi non autorizzata, verso la cooperazione commerciale e tecnologica con la Cina e la sua “via della seta”. Questo esercizio di indisciplina atlantico, in assenza della forza e dell’autonomia da lungo tempo perse, farebbe intravedere ad altri la possibilità di sfuggire a padella e brace saltando nel piatto del competitore geostrategico. Appare a tutti che il processo di disgregazione della mondializzazione occidentale sia mosso dall’interno dalla sfida che la Cina e la risorgente Russia stanno avanzando alla pretesa americana (e junior partner) di dominare il mondo attraverso il controllo dei flussi finanziari, degli organismi internazionali, e degli scambi commerciali via nave ed aereo (quest’ultima leva sfidata dalla via plurima da terra progettata dai cinesi). Si tratta di una transizione di potenza che potrebbe, in adesione al modello storico-ricostruttivo arrighiano[5], anche preludere ad un ritorno di logiche “territorialiste” in vece di logiche “capitaliste” (di cui lo stesso progetto europeo è esempio) ma è prematuro trarre conclusioni. Al momento siamo ai prodromi di questo scontro ed in una biforcazione instabile nella quale settori diversi delle élite lottano per attrarre il capitale mobile in uno scontro che vede da una parte il disfunzionale, politicamente e socialmente insostenibile, delegittimato, network globalista[6] e dall’altra un raggrumarsi frammentario e incoerente di interessi e di desideri che si organizzano dall’alto e dal basso.
La sfida della Cina e dei suoi partner/competitori (in una complessa costellazione che vede la Russia in primis, ma anche paesi poco allineati come il Venezuela, l’Indonesia, l’India, l’Iran, la Siria, etc., tutti oggetto di contesa geopolitica per i più diversi motivi) determina una sorta di gioco triangolare di difficile definizione:

-        tra il vecchio network globalista, il cui centro operativo si è spostato in Europa dopo la caduta delle roccaforti anglosassoni (ma nelle quali le talpe scavano),
-        il nuovo network “territorialista”, imperiale in forma diversa ma non inferiore, che ha portato al potere Trump, ma anche a suo tempo la May, dotato di potenti agganci di potere tradizionali e in sincronia affettiva con una potente corrente sociale cosiddetta “populista”, soprattutto per riportare in termini dominabili la proiezione di controllo dalla quale dipende in ultima analisi la stessa possibilità di accumulazione, in qualsiasi forma,
-        e gli “estranei” alle porte che hanno alimentato la propria forza dalla irresponsabilità sistemica del capitale occidentale, il quale ha seguito la propria hybris autoaccrescente a spese delle basi di potenza occidentali (la coesione sociale e la forza della ricchezza diffusa) fino a condurre alla rottura odierna.

Il problema è che anche un governo che nel primo lato del triangolo sta con il nuovo network “territorialista”, non può permettersi senza costo di flirtare con gli “estranei”, andando contro diverse linee strategiche del dominus anglosassone.

Guardando dal punto di vista atlantico, “Fare nuovamente grande l’America” significa per la leadership americana risolvere precisamente questo puzzle:
-        Impedire che si saldi un blocco egemonico esteso all’eurasia, e anche alla sola Asia (comunque luogo di concentrazione della metà della popolazione mondiale), tenendo distinte e separate (come peraltro sono state per millenni) le loro diverse forze e restandone quindi arbitro,
-        trovare un accordo di coesistenza e possibilmente cooperazione con la Russia, accuratamente restando in mezzo tra questa e l’Europa,
-        conservare la propria presa egemonica sull’Europa (riportando dentro una gabbia il demone tedesco che dall’unificazione sembra voler di nuovo uscirne, perdendo la subalternità strategica che era condizione del permesso a rifarsi potenza dopo la duplice sconfitta militare).

Insomma, un impero americano sfidato, che non può più essere certo di controllare i meccanismi estrattivi che nutrono la sua relativa debolezza (la mancata produzione, l’eccesso di consumo, la dipendenza dai flussi finanziari, l’insostenibile centralità del dollaro) deve necessariamente ripristinare, prima che sia troppo tardi, l’autentica fonte di sovranità statuale: il controllo della domanda interna. Ma ciò, dal suo punto, può avvenire solo se si pongono sotto controllo responsabile, ovvero se si riconducono alla logica della potenza dello Stato e non del singolo agente, i flussi di capitale, e quindi gli investimenti.

Anche da questo lato non è nel breve periodo plausibile che gli Stati Uniti convalidino una disgregazione finale dell’Europa post seconda guerra mondiale, che in tal caso sarebbe tentata di andare in parte verso il rivale “estraneo”. Più probabile una navigazione contingente avendo come bussola il contenimento germanico, senza definitive rotture (ma in questa ottica è dirimente il modo in cui avviene il Brexit).


Come si sta in un campo così complesso?


Carlo Pisacane



Pisacane nel 1857, alla vigilia della partenza per la spedizione di Sapri, scrisse in Saggio sulla rivoluzione”: “quale interesse possono avere gli italiani di favorire una dinastia piuttosto che l’altra? Il medesimo di un condannato cui fosse concesso di scegliere il carnefice”. Nel rovesciare la retorica risorgimentale, volta alla unità d’Italia come obiettivo dal quale tutto il resto deriva, e dichiarando la priorità della “libertà sociale” sulla mera “libertà politica”, il duca napoletano dichiara con grande forza d’animo e chiarezza di visione che chi “spera che un popolo straniero ci conquisti per poi donarci la libertà”, segue “delle utopie la più assurda e codarda ad un tempo stesso”. Visto dal punto di vista del patriota napoletano, e dunque di chi vede il Regno di Sardegna da secoli come paese estero (ma la cosa è in modo del tutto evidente simmetrica), è chiaro che “il forte troverà maggior vantaggio nel comandare, che nel francare completamente il debole; senza che la libertà ottenuta in dono non potrà essere che condizionata, quindi mutilata”.

L’unica libertà reale è invece quella che si prende da se medesimi, e quella che attiva le energie sopite nel popolo, suscitandone le energie. Ancora con le parole di Pisacane: “Non è libera una nazione convinta, ch’altri, volendo, possa rapirgli la sua libertà; la piena fiducia nelle proprie forze è una condizione indispensabile (fiducia che solo dai fatti può emergere), quindi la libertà deve non solo conquistarsi ma conquistarsi senza aiuti”.

Occorre, quindi, dialogare con tutti, e da tutti prendere, ma non aspettarsi nulla da nessuno.



Tornando a noi: la “base sociale” della Lega è l’ostacolo che impedisce e impedirà, anche alla Lega medesima, di sviluppare un reale movimento di liberazione. In queste mani al massimo avremo una “rivoluzione passiva[7].

Ciò non significa certo che la “base sociale” dei partiti del centro elitista siano migliori, o che questi siano la soluzione del dilemma italiano, come di per sé non lo sono lo schiacciamento su nessuno dei contendenti del “triangolo” sopra citato”.


Occorre farci Pisacane, e tentare altre strade: riguadagnare la piena fiducia nelle nostre forze e finalmente smettere il gioco secolare di aspettare l’aiuto di altri per conquistarci la nostra libertà.




[1] - La scarsità percepita “cattura la mente”, inducendola a concentrarsi solo sull'assoluto presente. Ma non si tratta di ottimizzazione, come presume tanta letteratura scritta nel chiuso dei propri dipartimenti da ricchi professori: è al contrario una “inibizione”. Gli psicologi chiamano con questa parola (per questo tra virgolette) quella capacità della mente di eliminare le possibilità alternative, rendendole invisibili. In altre parole, concentrarsi su una cosa urgente e vitale (come affrontare un predatore, o pagare la prossima bolletta della luce) “ci rende meno capaci di pensare ad altre cose che contano”; è quella che si chiama “inibizione dell’obiettivo”. Tutti i fini e le considerazioni che sarebbero altrimenti importanti (migliorare la propria competenza con un corso professionale, fare quell'investimento che pure indurrebbe grandi risparmi, curare le relazioni sociali per aumentare le proprie opportunità, …) scompaiono dalla nostra stessa vista. Mentre nei paper dei vari Lucas quelli di Prescott, si immagina che il consumatore definisca sempre ‘aspettative razionali’ sul futuro, calcolando tutte le implicazioni di ogni politica e anticipandole nella sua azione, la maggioranza di essi è invece concentrata sul “tunnel”. La mente non è, cioè, occupata a fare complessi calcoli costi-benefici ma dalle scadenze.
[2] - Che chiaramente non è l'intera base sociale (a sua volta un sottoinsieme più omogeneo e stabile rispetto agli elettori) della Lega, ma solo quella che sviluppa egemonia all'interno delle diverse frazioni che la compongono, ovvero che cerca di dirigere e dispone, per interposti agenti, di qualche capacità di comando. A sua volta questa frazione di 'base sociale', provo a dire o meglio ipotizzare, sia organizzata intorno ad un nucleo che ha degli interessi.
[3] - Alcune analisi della stratificazione al voto il 4 marzo per i due partiti vincenti ha mostrato la notevole trasversalità del relativo consenso, il solo partito fortemente segnato in un senso è risultato il PD, che raccoglie in modo proporzionalmente superiore i propri voti nei ceti alti garantiti.
[4] - Tra le quali due sono preminenti: quella che sposta la rabbia dei perdenti nel gioco del lavoro verso i vicini ed i più deboli, quindi delle periferie verso gli immigrati; quella che sposta la rabbia dei ceti medi indeboliti verso l’Europa. Ciò senza indicare con precisione, né nell’altro caso, il meccanismo in campo per timore che si identifichino nella propria “base sociale”.
[5] - Si veda, “Giovanni Arrighi “Poscritto
[6] - Costituito da grandi banche, istituzioni di regolazioni con in posizione apicale il sistema delle Banche Centrali, reti professionali e agenzie di servizio, alcune decine di migliaia di grandi imprese, potenti think thank massicciamente finanziati, molti media e professionisti del settore, molti politici, molti intellettuali di tutti gli orientamenti ed anche soggettivamente schierati dall’altra parte rispetto al capitale.
[7] - Formula che risale al Cuoco, ed è ripresa da Antonio Gramsci nei suoi studi sulla “questione meridionale”. Si veda “Antonio Gramsci e la questione meridionale”. Si veda in particolare questo frammento da “Quaderni”: “il criterio metodologico su cui occorre fondare il proprio esame è questo: che la supremazia di un gruppo sociale si manifesta in due modi, come ‘dominio’ e come ‘direzione intellettuale e morale’. Un gruppo sociale è dominante dei gruppi avversari che tende a ‘liquidare’ o a sottomettere anche con la forza ed è dirigente dei gruppi affini e alleati. Un gruppo sociale può e anzi deve essere dirigente già prima di conquistare il potere governativo (è questa una delle condizioni principali per la stessa conquista del potere); dopo, quando esercita il potere e anche se lo tiene fortemente in pugno, diventa dominante ma deve continuare anche ad essere ‘dirigente’. I moderati continuano a dirigere il Partito d’Azione anche dopo il 1870 e il 1876 e il cosiddetto ‘trasformismo’ non è che l'espressione parlamentare di questa azione egemonica intellettuale, morale e politica. Si può anzi dire che tutta la vita statale italiana dal 1848 in poi è caratterizzata dal trasformismo, cioè dall’elaborazione di una sempre più larga classe dirigente nei quadri fissati dai moderati dopo il 1848 e la caduta delle utopie neoguelfe e federalistiche, con l'assorbimento graduale ma continuo e ottenuto con metodi, diversi nella loro efficacia, degli elementi attivi sorti dai gruppi alleati e anche da quelli avversari e che parevano irreconciliabilmente nemici. In questo senso la direzione politica è diventata un aspetto della funzione di dominio, in quanto l'assorbimento delle élites dei gruppi nemici porta alla decapitazione di questi e al loro annichilimento per un periodo spesso molto lungo. Dalla politica dei moderati appare chiaro che ci può e ci deve essere un’attività egemonica anche prima dell'andata al potere e che non bisogna contare solo sulla forza materiale che il potere dà per esercitare una direzione efficace: appunto la brillante soluzione di questi problemi ha reso possibile il Risorgimento nelle forme e nei limiti in cui esso si è effettuato, senza ‘terrore’, come ‘rivoluzione senza rivoluzione’, ossia come ‘rivoluzione passiva’ per impiegare un’espressione del Cuoco in un senso un po’ diverso da quello che il Cuoco vuole dire. In quali forme e con quali mezzi i moderati riescono a stabilire l'apparato (il meccanismo) della loro egemonia intellettuale, morale e politica? In forme e con mezzi che si possono chiamare ‘liberali’, cioè attraverso l'iniziativa individuale, ‘molecolare’, ‘privata’ (cioè non per un programma di partito elaborato e costituito secondo un piano precedentemente all'azione pratica e organizzativa). D'altronde, ciò è ‘normale’, date la struttura e la funzione dei gruppi sociali rappresentati dai moderati, dei quali i moderati sono il ceto dirigente, gli intellettuali in senso organico”.


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