Il 4 marzo 2018 una improvvisa slavina si è staccata dal ghiacciaio
della sinistra che da lungo tempo rimandava sinistri scricchiolii. In
un'elezione che sperimentava non a caso un sistema elettorale più vicino al
proporzionale abbandonato da decenni tutti i partiti della “seconda repubblica”
sono arretrati di schianto. Sia i partiti di centro, vagamente colorati a
sinistra o a destra più che altro per estetica, sia i partiti dell'anemica sinistra
‘radicale’. Tutta la sinistra è arrivata a qualcosa come il 15% degli elettori
e alcune parti non sono entrate neppure in parlamento.
Si
è trattato di una molla che si stava caricando almeno da dieci anni, mentre
parte maggioritaria della popolazione italiana veniva respinta sul margine del
sistema economico e perdeva ogni possibilità di controllare le proprie vite. È
scivolata verso il basso almeno il 20% della popolazione italiana, in soli
dieci anni e quindi in modo assolutamente percepibile, cosa che ha condotto i
tranquilli e garantiti ad essere per la prima volta da decenni la minoranza del
paese.
Attraverso
i molteplici eventi del biennio abbondante 2016-19 questo smottamento si è
messo in movimento ed ha preso velocità. Ne sono espressione la rivolta
degli elettori (Spannaus, 2016) che ha portato nel mondo alla Brexit,
alla vittoria di Trump, all’esito del referendum che ha interrotto la carriera politica di
Renzi, ed ancora prima aveva fornito l’avvertimento inascoltato dell’avanzata
del M5S nel 2013, le elezioni francesi con la dissoluzione dei socialisti e la
contrapposizione élite/popolo rappresentata dallo scontro al ballottaggio tra
Macron e Le Pen (con France Insoumise vicina all’impresa).
Dal
2016 il sistema politico europeo, insomma, è entrato in una fase di instabilità
che è disponibile ad esiti diversi per piccoli spostamenti di umore. A “botta
calda” Carlo Formenti parlò di rabbia delle ‘periferie’ in particolare
verso le sinistre che si sono rifugiate nella difesa dei vincenti. Ovvero delle
classi colte e benestanti che vedono la mondializzazione come un destino ed un
progresso semplicemente perché ne traggono cospicui benefici. Classi che, con piccole
divisioni del lavoro con le destre ‘rispettabili’, fondamentalmente
percepiscono in una moneta forte l’occasione di acquistare a
basso prezzo i beni di lusso esteri di cui sono avide, nella stabilità
monetaria garantita dalle politiche di austerità la salvaguardia dei
loro capitali liquidi, nella mobilità in uscita la possibilità
di fuggire alle conseguenze nazionali dei due fattori sopra detti, mandando i
figli a studiare in università ben finanziate e loro stessi a curarsi nei posti
più idonei, e nella mobilità del lavoro in entrata quella di
garantirsi abbondanza di servitori e disciplinamento dei lavoratori autoctoni.
In questo quadro
le sinistre di tradizione socialista sono in prima fila; diventate
esclusivamente liberali ormai difendono ostinatamente un insediamento sociale,
erroneamente considerato maggioritario, riconducibile solo a classi medie
‘riflessive’, urbane, sempre più anziane. Ne è chiara immagine il
multiculturalismo e la difesa della cosiddetta “società aperta” (e competitiva)
ed anche il cosmopolitismo di marca borghese spacciato per internazionalismo.
Del resto anche le sinistre più o meno ‘radicali’, come LeU e soprattutto PaP, o la recente “La Sinistra”, scontano un
complessivo e radicale disorientamento strategico; l’incapacità di dirimere le
proprie contraddizioni ed individuare gli snodi essenziali della situazione e
di impostare un discorso politicamente e socialmente coerente. In queste
condizioni il 15% del corpo elettorale è una dimensione più che appropriata (ma
può ancora scendere).
La
slavina si è staccata, travolgendo tutto lungo il suo cammino, perché la fase
di potente rilancio dell’accumulazione, attraverso un ulteriore incrudimento
della finanziarizzazione, dell’interconnessione e l’aumento della dipendenza,
alla fine si è tradotto in più dinamismo per pochi e nel 66% degli italiani che
nel 2016 (indagine Demos) reputava ormai “inutile fare progetti per il futuro”.
Quel che la scheletrica antropologia liberale (si veda Sandel 1982) non ha capito è che
l’incertezza ed il rischio non sono pungoli che rendono più attivi e
produttivi, se manca una minima condizione di capitale. Quando ne va della vita
e della morte (sociale) l’incertezza paralizza e spegne, accorcia la
prospettiva e impedisce di guardare oltre ed investire su sé, si tratta di quel
che alcuni (“Scarcity”,
2013) hanno chiamato “effetto tunnel”[1]. Chi è in questa condizione non ha alcuna
progettualità, inclusa la ribellione, ed è portato a vivere in un eterno attimo
presente, carico di angoscia e risentimento inespresso. Questa osservazione
spiega la passività di molti tra un evento elettorale e l’altro e lo spazio per
il tradimento delle aspettative come vedremo nel seguito.
Torniamo
alla slavina.
Il
4 marzo 2018 improvvisamente questo fondo magmatico, potenzialmente
maggioritario, si è espresso. L’umore nero del paese profondo, che la sinistra
neppure riesce ad immaginare e per il quale non ha letteralmente le parole
(capace come è solo di equivocarlo e ridurlo a categorie moralistiche) si è
addensato in una nuova “base di massa”. Lungi dall’essere diventato
improvvisamente “razzista”, “fascista”, “nazionalista”, qualcosa di profondo si
è separato nel paese, riconoscendosi in un nuovo senso comune: ha messo a punto
un linguaggio, dei blocchi emotivi, nei bar, nelle strade, nei negozi, negli
uffici, nelle piazze. Un nuovo potenziale ‘popolo’ si è identificato nei ‘non’,
nelle differenze dal potere, dalla politica, dalla finanza, dalla grande
impresa, dalla globalizzazione, dalla tecnologia industriale, dalle
<caste>, dal denaro. Anche, in alcuni casi, dai meridionali, dagli
immigrati, dagli altri ed estranei.
Questa
cultura popolare appare aliena agli occhi ed alle orecchie di quelli che una
volta avremmo chiamato “gli integrati”, cioè dei colti, dei formati, dei
tranquilli, di chi non cambia spesso lavoro perché costretto, ma casomai lo
cambia per migliorare e conoscere altri paesi, chi ha l’orizzonte sereno di un
percorso tracciato spesso dalla nascita. Strana ed incomprensibile per chi ha
le risorse per farsi il futuro che vuole. Questa cultura popolare appare
sconnessa, contraddittoria, mal costruita, oscura e per certi versi temibile,
appare pericolosa.
Come
sia il 4 marzo il 55% dei consensi espressi sono andati a due partiti
espressione diversa di questo “plebeismo”.
-
la Lega, il più vecchio partito italiano, che ha
allargato la sua “base di massa” al centro-nord del paese ed unito alla
tradizionale rappresentanza dei “ceti produttivi”, sull’arco dalla media alla
piccola borghesia provinciale, uno sfondamento massivo verso i nuovi ceti
popolari spiazzati dalle dinamiche distruttive della ristrutturazione in corso.
-
Il Movimento Cinque Stelle, ha espresso una mai
vista larga “base di massa” al centro sud, con punte del 60%, facendo piazza
pulita in tutte le periferie ed i ceti periferici, indeboliti dalla
ristrutturazione, e leva sul desiderio di protezione, da una parte, e di
vendetta, dall’altra.
Questo
governo nel suo primo anno di azione ha mostrato tutte le sue profonde
contraddizioni interne. La Lega, assorbita una certa retorica
antieuropea, ed il tema del no-euro che aveva agitato nei mesi precedenti la
discussione pubblica (ma molto meno la percezione popolare), attraverso alcuni
suoi esponenti di punta come Alberto Bagnai, Claudio Borghi, Luciano Barra
Caracciolo, ha nominato ministri come Savona che sono andati ad uno scontro per
lo più verbale con l’Unione Europea e si è impegnata in un primo braccio di
ferro sul deficit, proposto ad un non certo rivoluzionario 2,4%.
Il Movimento
Cinque Stelle, che aveva riservato i ministeri di riferimento alla
cosiddetta “economia reale” (mentre la terza gamba invisibile, l’establishment,
ha preteso il ministro-guardiano Tria, e la Lega ha tenuto la sicurezza e la
macchina statuale) ha provato alcune battaglie simboliche, come le nazionalizzazioni,
l’irrigidimento del diritto del lavoro, la tutela dei lavoratori delle
piattaforme, vincoli alle delocalizzazioni industriali, ma con scarsissimo
effetto pratico.
Lo
scontro di avvio sul deficit ha fatto, però, emergere un altro fondo del
paese che attraversa diagonalmente il quadro: quasi tutte le organizzazioni ed
i corpi intermedi, rappresentativi in vario modo del mondo del lavoro sicuro e
garantito, anche debole, si sono alzate, al nord come al sud, a protezione dei
“risparmi”. Ovvero hanno bloccato l’azione di sfida del governo verso i vincoli
di spesa europei non appena in solita ritorsione per qualche settimana i tassi
di remunerazione dei titoli di debito pubblico sono saliti. Ciò che si è visto
in quella circostanza è un balletto strano intorno ai trecento punti base, con
consistenti e coordinati acquisti e vendite (forse traccia visibile di uno
scontro geopolitico), ma anche il terrore dei nostri ceti intermedi di vedere
salire il costo del loro mutuo, della rata dell’auto, del piccolo debito
industriale, … si è manifestato il blocco sociale dell’austerità nella sua
larga rappresentanza. Una rappresentanza che ha coinvolto, a traino degli
interessi del capitale internazionale (di natura finanziaria ma anche
industriale), gli incerti strati della piccola borghesia italiana, spaventata
banderuola al vento.
Questo
avvertimento ha mosso quasi subito la “base sociale” della Lega, sensibile ed
intrecciata ambiguamente con quella del blocco egemonico tradizionale del
paese, che ha dato l’alt. Una specie di balletto ha consentito di chiudere
l’incidente con un cosmetico 2,04 % che è nella sostanza l’identica manovra.
La
Lega da allora si è impegnata in una meno rischiosa politica simbolica
contro gli immigrati. Scarsamente rilevante nel breve termine, ma molto
visibile e rumorosa, e capace soprattutto di provocare la reazione
automatica della sinistra
benpensante, in modo da allontanarla via via dal sentimento del paese profondo,
e capace di mettere in costante imbarazzo il socio/competitore di governo. Nel
sono state espressione i frequenti conflitti
sulle navi, le Ong, i porti più o meno aperti, il sistema dell’accoglienza
privatizzata, e via dicendo. Ne è stata espressione un
“Decreto
Immigrazione” che di fatto aumenta gli irregolari e indebolisce ancora più
i lavoratori tutti. Ma anche un “Decreto Sicurezza” che offre la
contropartita della protezione autoritaria alla carenza delle politiche di
capacitazione e sviluppo che non si riesce a promuovere. Inoltre la Lega ha
imposto politiche di alleggerimento fiscale nei confronti delle imprese medie e
piccole, dei professionisti, delle partite Iva, e la tradizionale (della
destra) politica dei condoni.
Il
Movimento Cinque Stelle è apparso invece paralizzato. Di fatto:
-
ha tentato di portare avanti il tema delle
privatizzazioni, a partire dal fragoroso caso del Ponte Morandi, ma la Lega lo
ha bloccato e tolto di agenda;
-
ha timidamente provato a ridiscutere di articolo 18,
orari di lavoro ed apertura degli esercizi, diritti e garanzie per i precari
(larga parte della sua “base sociale”), ma non ha passato il fuoco di
sbarramento;
-
è in difensiva sulla questione meridionale, dove pure
ha buona parte del consenso di massa, sotto l’attacco del “regionalismo
differenziato” promosso con forza dalla Lega;
-
è stata costretto a ridurre a poca cosa, quasi un
insulto, il suo programma chiave del “reddito di cittadinanza”, come segno di
attenzione e di protezione per i troppi periferici ed abbandonato nel paese;
Entrambi, nella comune cultura liberista, non hanno neppure immaginato di aumentare l’impatto dello Stato (fuori della funzione di polizia, che ogni liberale di fatto accetta di buon grado) nel disciplinamento del mercato per il bene comune. Non hanno neppure provato a reinternalizzare tanti servizi che in questi anni, a sinistra coperti dalla retorica dei “beni comuni”, sono stati spostati da diritto di tutti a concessione partenalistica.
In definitiva in questi mesi, attraverso questi fatti stilizzati, tra le due forze politiche che sostengono il governo si è aperta una frattura che, è la mia ipotesi, dipende in ultima analisi dalla diversa “base sociale” di riferimento ed in parte da un diverso radicamento geografico. Il consenso di massa, che è coltivato e blandito e contro il quale non si può andare, se non in piccola misura, pena perderlo, è dunque soggetto a progetti egemonici conflittuali che si manifestano talvolta in piena luce.
La base sociale che sviluppa egemonia[2] nella Lega è ancora organizzata
intorno ad operatori economici, prevalentemente al centro-nord, i quali hanno
interesse diretto a competere sul mercato interno in grande sofferenza e per
questo richiedono insieme protezione, alleggerimento
fiscale, sicurezza e contenimento dei costi (dunque
chiedono lotta all’inflazione, basso costo del lavoro).
Invece la “base sociale” che sviluppa egemonia nel
Movimento Cinque Stelle è meno chiara, ma potrebbe essere tentativamente
descritta come il vasto mondo del precariato, dei lavoratori meno tutelati, di
professionisti e autonomi impoveriti dalla crisi per il continuo degrado del
mercato interno, in particolare in alcune regioni del centro-sud.
La “base di massa” di entrambi i movimenti si confonde molto di più, e finisce per essere largamente trasversale (anche perché assomma ormai dal 60 al 65% dei votanti)[3].
Ci sono molte contraddizioni, che rendono difficile per i Partiti e
movimenti al governo tradurre coerentemente le spinte che ricevono dalle
loro basi sociali in parte divergenti in ‘direzione’ della
relativa base di massa.
Ma
molte delle azioni concrete del governo mostrano una certa logica: la retorica
è invariabilmente rivolta a coltivare le paure e sollecitare la reazione della
“base di massa”, utilizzando i toni del “momento populista” da lungo tempo
sedimentati nel paese, ma la sostanza è sempre rivolta a garantire gli
interessi della “base sociale”, per lo più della Lega. Ovvero a garantire il
basso costo del lavoro (anche se i lavoratori sono la “base di massa”, che è
per questo distratta da opportune retoriche e deviazioni[4]) anche se talvolta questo può andare
contro la sicurezza (cosa che, del resto, nel breve periodo lavora a favore del
consenso).
Siamo
così giunti alle elezioni del 26 maggio, nelle quali c’è stato un’inversione
dei pesi elettorali tra i due partiti al governo, ma nel loro complesso hanno
confermato la stessa “base di massa”.
In
questi giorni, a partire da una Lettera che da Bruxelles
impone al governo di rientrare nel deficit fatto dal precedente governo
Gentiloni a guida Pd, si sta assistendo ad una nuova puntata della partita di
distrazione n.2 (essendo quella sugli immigrati la distrazione n.1). La
componente Lega del governo ha fatto passare una mozione di alta valenza
simbolica e basso effetto pratico con i cosiddetti “minibot”, quindi ha
prudentemente comunicato ai mercati anglosassoni che, certo bisogna cambiare,
ma intanto si ubbidisce (rispettivamente con Borghi e Bagnai), e nel frattempo
ha cercato sponde atlantiche per ammorbidire l’amara pillola.
Alcuni
sperano, contro ogni speranza, che queste manovre siano il preludio ad uno
storico passaggio del capitale anglosassone e del potere sovrano statunitense
dalla pluridecennale politica di sostegno (anche ambigua a tratti, ma sempre
confermata allo stretto) dell’unione continentale a guida tedesca, ad una nuova
politica volta a frammentare il quadro, consentendo il distacco dell’Italia,
magari della Spagna e di qualche altro paese mediterraneo. Ci sono corpose
ragioni (negli intrecci di interesse, di capitale, brevetti, insediamenti
produttivi, scambi di élite, consuetudini e relazioni) che militano verso la
scarsa probabilità di questo esito in tempi medi. Ma soprattutto
potrebbe essere descritto come l’alternativa tra padella e brace.
D'altra
parte la componente 5 Stelle del Governo ha compiuto qualche timida apertura,
di fatto minore di quelle dei ‘partner’ europei ma da questi non autorizzata,
verso la cooperazione commerciale e tecnologica con la Cina e la sua “via della
seta”. Questo esercizio di indisciplina atlantico, in assenza della forza e
dell’autonomia da lungo tempo perse, farebbe intravedere ad altri la
possibilità di sfuggire a padella e brace saltando nel piatto del competitore
geostrategico. Appare a tutti che il processo di disgregazione della
mondializzazione occidentale sia mosso dall’interno dalla sfida che la Cina e
la risorgente Russia stanno avanzando alla pretesa americana (e junior partner)
di dominare il mondo attraverso il controllo dei flussi finanziari, degli
organismi internazionali, e degli scambi commerciali via nave ed aereo
(quest’ultima leva sfidata dalla via plurima da terra progettata dai cinesi).
Si tratta di una transizione di potenza che potrebbe, in adesione al modello
storico-ricostruttivo arrighiano[5],
anche preludere ad un ritorno di logiche “territorialiste” in vece di logiche
“capitaliste” (di cui lo stesso progetto europeo è esempio) ma è prematuro
trarre conclusioni. Al momento siamo ai prodromi di questo scontro ed in una
biforcazione instabile nella quale settori diversi delle élite lottano per
attrarre il capitale mobile in uno scontro che vede da una parte il
disfunzionale, politicamente e socialmente insostenibile, delegittimato,
network globalista[6] e
dall’altra un raggrumarsi frammentario e incoerente di interessi e di desideri
che si organizzano dall’alto e dal basso.
La
sfida della Cina e dei suoi partner/competitori (in una complessa costellazione
che vede la Russia in primis, ma anche paesi poco allineati come il Venezuela,
l’Indonesia, l’India, l’Iran, la Siria, etc., tutti oggetto di contesa
geopolitica per i più diversi motivi) determina una sorta di gioco triangolare
di difficile definizione:
-
tra il vecchio network globalista, il cui centro
operativo si è spostato in Europa dopo la caduta delle roccaforti anglosassoni
(ma nelle quali le talpe scavano),
-
il nuovo network “territorialista”, imperiale in forma
diversa ma non inferiore, che ha portato al potere Trump, ma anche a suo tempo la May, dotato
di potenti agganci di potere tradizionali e in sincronia affettiva con una
potente corrente sociale cosiddetta “populista”, soprattutto per riportare
in termini dominabili la proiezione di controllo dalla quale dipende in
ultima analisi la stessa possibilità di accumulazione, in qualsiasi forma,
-
e gli “estranei” alle porte che hanno alimentato la
propria forza dalla irresponsabilità sistemica del capitale occidentale, il
quale ha seguito la propria hybris autoaccrescente a spese delle basi di
potenza occidentali (la coesione sociale e la forza della ricchezza diffusa)
fino a condurre alla rottura odierna.
Il
problema è che anche un governo che nel primo lato del triangolo sta con il
nuovo network “territorialista”, non può permettersi senza costo di flirtare
con gli “estranei”, andando contro diverse linee strategiche del dominus
anglosassone.
Guardando dal punto di vista atlantico, “Fare nuovamente grande
l’America” significa per la leadership americana risolvere precisamente questo
puzzle:
-
Impedire che si
saldi un blocco egemonico esteso all’eurasia, e anche alla sola Asia (comunque
luogo di concentrazione della metà della popolazione mondiale), tenendo
distinte e separate (come peraltro sono state per millenni) le loro diverse
forze e restandone quindi arbitro,
-
trovare un
accordo di coesistenza e possibilmente cooperazione con la Russia,
accuratamente restando in mezzo tra questa e l’Europa,
-
conservare la
propria presa egemonica sull’Europa (riportando dentro una gabbia il demone
tedesco che dall’unificazione sembra voler di nuovo uscirne, perdendo la
subalternità strategica che era condizione del permesso a rifarsi potenza dopo
la duplice sconfitta militare).
Insomma, un impero americano sfidato, che non può più essere certo di
controllare i meccanismi estrattivi che nutrono la sua relativa debolezza (la
mancata produzione, l’eccesso di consumo, la dipendenza dai flussi finanziari,
l’insostenibile centralità del dollaro) deve necessariamente ripristinare,
prima che sia troppo tardi, l’autentica fonte di sovranità statuale: il
controllo della domanda interna. Ma ciò, dal suo punto, può avvenire solo se
si pongono sotto controllo responsabile, ovvero se si riconducono alla logica
della potenza dello Stato e non del singolo agente, i flussi di capitale, e
quindi gli investimenti.
Anche da questo lato non è nel breve periodo plausibile che gli Stati Uniti
convalidino una disgregazione finale dell’Europa post seconda guerra mondiale,
che in tal caso sarebbe tentata di andare in parte verso il rivale “estraneo”.
Più probabile una navigazione contingente avendo come bussola il contenimento
germanico, senza definitive rotture (ma in questa ottica è dirimente il modo in
cui avviene il Brexit).
Come si sta in un campo così complesso?
Carlo Pisacane |
Pisacane
nel 1857, alla vigilia della partenza per la spedizione di Sapri, scrisse in “Saggio
sulla rivoluzione”: “quale interesse
possono avere gli italiani di favorire una dinastia piuttosto che l’altra? Il
medesimo di un condannato cui fosse concesso di scegliere il
carnefice”. Nel rovesciare la retorica risorgimentale, volta alla unità
d’Italia come obiettivo dal quale tutto il resto deriva, e dichiarando la
priorità della “libertà sociale” sulla mera “libertà politica”, il duca
napoletano dichiara con grande forza d’animo e chiarezza di visione che chi
“spera che un popolo straniero ci conquisti per poi donarci la libertà”, segue
“delle utopie la più assurda e codarda ad un tempo stesso”. Visto dal punto di
vista del patriota napoletano, e dunque di chi vede il Regno di
Sardegna da secoli come paese estero (ma la cosa è in modo del tutto
evidente simmetrica), è chiaro che “il forte troverà maggior vantaggio nel
comandare, che nel francare completamente il debole; senza che la libertà
ottenuta in dono non potrà essere che condizionata, quindi mutilata”.
L’unica
libertà reale è invece quella che si prende da se medesimi, e quella che attiva
le energie sopite nel popolo, suscitandone le energie. Ancora con le parole di
Pisacane: “Non è libera una nazione convinta, ch’altri, volendo, possa rapirgli
la sua libertà; la piena fiducia nelle proprie forze è una condizione
indispensabile (fiducia che solo dai fatti può emergere), quindi la libertà
deve non solo conquistarsi ma conquistarsi senza aiuti”.
Occorre,
quindi, dialogare con tutti, e da tutti prendere, ma non aspettarsi nulla da
nessuno.
Tornando a noi: la “base sociale” della Lega è l’ostacolo che impedisce e impedirà, anche alla Lega medesima, di sviluppare un reale movimento di liberazione. In queste mani al massimo avremo una “rivoluzione passiva”[7].
Ciò
non significa certo che la “base sociale” dei partiti del centro elitista siano
migliori, o che questi siano la soluzione del dilemma italiano, come di per
sé non lo sono lo schiacciamento su nessuno dei contendenti del “triangolo”
sopra citato”.
Occorre
farci Pisacane, e tentare altre strade: riguadagnare la piena fiducia nelle
nostre forze e finalmente smettere il gioco secolare di aspettare l’aiuto di
altri per conquistarci la nostra libertà.
[1] - La scarsità percepita “cattura la
mente”, inducendola a concentrarsi solo sull'assoluto presente. Ma non si
tratta di ottimizzazione, come presume tanta letteratura scritta nel chiuso dei
propri dipartimenti da ricchi professori: è al contrario una “inibizione”.
Gli psicologi chiamano con questa parola (per questo tra virgolette) quella
capacità della mente di eliminare le possibilità alternative, rendendole
invisibili. In altre parole, concentrarsi su una cosa urgente e vitale (come
affrontare un predatore, o pagare la prossima bolletta della luce) “ci rende
meno capaci di pensare ad altre cose che contano”; è quella che si chiama
“inibizione dell’obiettivo”. Tutti i fini e le considerazioni che sarebbero
altrimenti importanti (migliorare la propria competenza con un corso professionale,
fare quell'investimento che pure indurrebbe grandi risparmi, curare le
relazioni sociali per aumentare le proprie opportunità, …) scompaiono dalla
nostra stessa vista. Mentre nei paper dei vari Lucas o quelli di Prescott, si immagina che il consumatore definisca sempre
‘aspettative razionali’ sul futuro, calcolando tutte le implicazioni di ogni
politica e anticipandole nella sua azione, la maggioranza di essi è invece
concentrata sul “tunnel”. La mente non è, cioè, occupata a fare complessi
calcoli costi-benefici ma dalle scadenze.
[2] - Che chiaramente non è l'intera base
sociale (a sua volta un sottoinsieme più omogeneo e stabile rispetto agli
elettori) della Lega, ma solo quella che sviluppa egemonia all'interno
delle diverse frazioni che la compongono, ovvero che cerca di dirigere e
dispone, per interposti agenti, di qualche capacità di comando. A sua volta questa
frazione di 'base sociale', provo a dire o meglio ipotizzare, sia organizzata
intorno ad un nucleo che ha degli interessi.
[3] - Alcune analisi della stratificazione
al voto il 4 marzo per i due partiti vincenti ha mostrato la notevole
trasversalità del relativo consenso, il solo partito fortemente segnato in un
senso è risultato il PD, che raccoglie in modo proporzionalmente superiore i
propri voti nei ceti alti garantiti.
[4] - Tra le quali due sono preminenti:
quella che sposta la rabbia dei perdenti nel gioco del lavoro verso i vicini ed
i più deboli, quindi delle periferie verso gli immigrati; quella che sposta la
rabbia dei ceti medi indeboliti verso l’Europa. Ciò senza indicare con
precisione, né nell’altro caso, il meccanismo in campo per timore che si
identifichino nella propria “base sociale”.
[6] - Costituito da grandi banche,
istituzioni di regolazioni con in posizione apicale il sistema delle Banche
Centrali, reti professionali e agenzie di servizio, alcune decine di migliaia
di grandi imprese, potenti think thank massicciamente finanziati, molti media e
professionisti del settore, molti politici, molti intellettuali di tutti gli
orientamenti ed anche soggettivamente schierati dall’altra parte rispetto al
capitale.
[7] - Formula che risale al Cuoco, ed è ripresa da
Antonio Gramsci nei suoi studi sulla “questione meridionale”. Si veda “Antonio
Gramsci e la questione meridionale”. Si veda in particolare questo
frammento da “Quaderni”: “il criterio
metodologico su cui occorre fondare il proprio esame è questo: che la
supremazia di un gruppo sociale si manifesta in due modi, come ‘dominio’ e come
‘direzione intellettuale e morale’. Un gruppo sociale è dominante dei
gruppi avversari che tende a ‘liquidare’ o a sottomettere anche con la forza ed
è dirigente dei gruppi affini e alleati. Un gruppo sociale può e anzi deve
essere dirigente già prima di conquistare il potere governativo (è questa una
delle condizioni principali per la stessa conquista del potere); dopo, quando
esercita il potere e anche se lo tiene fortemente in pugno, diventa dominante
ma deve continuare anche ad essere ‘dirigente’. I moderati continuano a
dirigere il Partito d’Azione anche dopo il 1870 e il 1876 e il cosiddetto
‘trasformismo’ non è che l'espressione parlamentare di questa azione egemonica
intellettuale, morale e politica. Si può anzi dire che tutta la vita statale
italiana dal 1848 in poi è caratterizzata dal trasformismo, cioè
dall’elaborazione di una sempre più larga classe dirigente nei quadri fissati
dai moderati dopo il 1848 e la caduta delle utopie neoguelfe e federalistiche,
con l'assorbimento graduale ma continuo e ottenuto con metodi, diversi nella
loro efficacia, degli elementi attivi sorti dai gruppi alleati e anche da
quelli avversari e che parevano irreconciliabilmente nemici. In questo senso la
direzione politica è diventata un aspetto della funzione di dominio, in quanto
l'assorbimento delle élites dei gruppi nemici porta alla decapitazione di
questi e al loro annichilimento per un periodo spesso molto lungo. Dalla politica dei moderati appare chiaro che ci può e ci deve essere
un’attività egemonica anche prima dell'andata al potere e che non bisogna
contare solo sulla forza materiale che il potere dà per esercitare una
direzione efficace: appunto la brillante soluzione di questi problemi ha
reso possibile il Risorgimento nelle forme e nei limiti in cui esso si è
effettuato, senza ‘terrore’, come ‘rivoluzione senza rivoluzione’, ossia come
‘rivoluzione passiva’ per impiegare un’espressione del Cuoco in un
senso un po’ diverso da quello che il Cuoco vuole dire. In quali forme e con
quali mezzi i moderati riescono a stabilire l'apparato (il meccanismo) della
loro egemonia intellettuale, morale e politica? In forme e con mezzi
che si possono chiamare ‘liberali’, cioè attraverso l'iniziativa individuale,
‘molecolare’, ‘privata’ (cioè non per un programma di partito
elaborato e costituito secondo un piano precedentemente all'azione pratica e
organizzativa). D'altronde, ciò è ‘normale’, date la struttura e la funzione
dei gruppi sociali rappresentati dai moderati, dei quali i moderati sono il
ceto dirigente, gli intellettuali in senso organico”.
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