Questa, relazione, firmata da Carlo Formenti e Alessandro
Visalli, è stata presentata all’Assemblea: “Oltre la sinistra. Lavoro, sovranità,
autodeterminazione”, tenutasi a Roma il 15 giugno presso il Circolo dei Socialisti
alla Garbatella.
Il testo di lancio dell’Assemblea recitava:
Dopo il
lancio, a marzo, del Manifesto per la
Sovranità Costituzionale il campo in formazione del neo-socialismo
patriottico ha subito le tensioni della fase in corso. La frattura tra coloro che sono connessi al
sistema-mondo capitalista (mondo finanziario, reti industriali transanzionali,
segmenti superiori dell’economia della conoscenza), e coloro che restano ai suoi margini, respinti nelle tante periferie
del nostro paese, è stata rimossa da alcuni in favore di un’immaginaria
frattura tutta morale tra destra e sinistra. Per altri la ricerca del consenso,
e la fretta di intercettarlo, ha prodotto un’interpretazione del ‘populismo di
sinistra’ come mera tecnica, priva di un’analisi all’altezza della durezza
dello scontro in essere.
Noi crediamo
che il conflitto sia tra i ‘centri integrati’ nel mercato mondiale, organizzati
gerarchicamente, e le ‘periferie’ che sono nella posizione di essere sfruttate
da questi. E crediamo che questo conflitto apra una frattura insanabile che attraversa
diagonalmente l’intero campo del capitalismo. Esso crea fenomeni interconnessi
come l’estendersi della precarietà, l’erosione della capacità di sostenere una
vita decente, il degrado fisico delle nostre città, periferie e campagne,
l’abbandono dell’ambiente e il saccheggio indiscriminato, di risorse e uomini
del mondo.
Noi crediamo
che non si possa assumere una posizione politica all’altezza del presente
guardando ai fenomeni separatamente. Vanno visti come una configurazione
unitaria fenomeni come il violento ordine europeo, lo svuotamento sistematico
delle capacità dello Stato di proteggere i cittadini, la gara per attrarre - spesso
in posizione subalterna – capitali privati, attività e lavoratori nelle aree
forti, la tragedia dell’emigrazione ed immigrazione che squilibra
sistematicamente le nostre società.
Noi crediamo
che assumendo una lettura moralista e solo culturale di ciascun singolo
fenomeno, nascondendone il carattere sistemico, le soluzioni vengano
allontanate.
Per questo
crediamo che sia venuto il momento di abbandonare le stantie abitudini di quella
sinistra che, uscita sconfitta alla chiusa del XX secolo, abbandonata dal suo
popolo (dopo avergli voltato le spalle), si è rifugiata dal nemico, o si è
rinchiusa in una critica di tipo moralistico o libertario (perdendo la
dimensione di emancipazione collettiva e retrocedendo su vaghe istanze di
liberazione individuale). Questo atteggiamento è parte importante della
sconfitta del 26 maggio.
Oggi siamo
nuovamente ad un punto nel quale la storia piega e prende una nuova direzione.
Ora serve di nuovo una forza a vocazione popolare che prenda le parti delle
‘periferie’ del mondo contro i ‘centri mondializzati’. Una nuova forza che
intercetti il bisogno di comunità e umanità, espresso in forma distorta dalla
destra, e che non si vincoli ai vicoli ciechi della sinistra, data la
sovrapposizione oramai inestricabile tra le sinistre in ritirata e varianti del
pensiero liberale.
Ciò di cui
abbiamo bisogno è dunque:
Una forza patriottica, perché oggi bisogna porsi come
argine alla volontà di potenza dello strapotere dei flussi mondializzati.
Una forza ecologista, perché le dinamiche di crescita del capitalismo
mondiale ci stanno privando degli stessi presupposti per continuare ad esistere.
Una forza internazionalista, perché per arrestare lo sviluppo
del sottosviluppo, che ci attraversa in ogni luogo, bisogna sostenere
l’autodeterminazione di ciascuno.
Una forza socialista, perché è ciò che oggi manca, ovunque.
Il 15 giugno
chiamiamo tutti coloro che non hanno perso la forza di lottare a Roma, presso
il Circolo dei Socialisti, Via Edgardo Ferrati 12, 00154 Roma alle 9.30.
La Relazione è stata svolta per la prima parte da Carlo Formenti,
questo il video dell’evento (dal minuto 9.16):
La grande mutazione delle sinistre
Che le
sinistre non rappresentino più le classi subalterne è un dato di fatto. Non ne rappresentano
più gli interessi materiali: dopo gli anni Ottanta si sono arrese al liberismo
facendo proprio lo slogan thatcheriano “There is no alternative” e adottandone valori,
principi e indirizzi economici, fino a legittimare politiche che hanno causato
il crollo dei salari e dei livelli di occupazione, un peggioramento generale delle
condizioni di lavoro e di vita e lo smantellamento del welfare. Non ne rappresentano
più la cultura: il linguaggio della gente “incolta” viene disprezzato perché
rozzo, volgare, sessista, omofobo e razzista, e sanzionato in nome della
“correttezza politica”, cioè di un codice di neologismi coniati per non ferire
i sentimenti di un insieme di minoranze religiose, culturali, etniche,
sessuali, ecc. I loro leader, i loro militanti, i loro elettori non abitano gli
stessi luoghi in cui abitano le masse popolari: gli uni vivono nei quartieri
gentrificati delle metropoli, le altre vengono espulse verso le periferie e le
piccole-medie città di provincia. Ma soprattutto hanno un rapporto diverso con lo
spazio (e quindi un’idea diversa di Paese): da un lato, le élite godono di
elevata mobilità, spostandosi frequentemente da una città all’altra, spesso in
Paesi diversi, dall’altro le masse sono inchiodate ai posti in cui devono
guadagnarsi da vivere, i quali, essendo periferici, non usufruiscono dei
vantaggi della globalizzazione ma ne pagano il prezzo in termini di reddito,
precarietà, servizi sociali costosi e di scarsa qualità.
I risultati
elettorali degli ultimi anni fotografano questo divorzio: i centri urbani
votano a sinistra, le periferie, non trovando rappresentanza sociale, economica
e culturale nelle sinistre si rivolgono altrove: ai populismi di destra, e in
minor misura a quei populismi di sinistra che hanno tentato di smarcarsi dalle
sinistre tradizionali. Ciò ha determinato un rovesciamento delle modalità di
aggregazione dei blocchi di potere politico: il capitale globale tende ad affidare
il compito di mediare politicamente i propri interessi alle sinistre o – quando
queste entrano in crisi – a formazioni centriste prive di precisi connotati
ideologici perlopiù provenienti dalle fila della socialdemocrazia (è il caso di
Macron in Francia) o a formazioni che, come i Verdi, pur provenendo dalle
sinistre radicali, hanno deposto le velleità antagoniste per transitare nell’area
liberal- progressista. Viceversa le destre rappresentano gli interessi di
strati piccolo-medio borghesi che operano su scala locale e faticano ad
adattarsi ai processi di globalizzazione. Si tratta di destre di tipo nuovo che
- come la Lega – riescono a intercettare anche i consensi di strati popolari in
cerca di rappresentanza.
Un esempio
degli effetti di queste mutazioni incrociate viene dalle ultime elezioni
europee in cui il blocco liberale-europeista di centro sinistra ha ottenuto
l’appoggio delle sinistre radicali (e dei populisti di sinistra) chiamate a
partecipare a un fronte antisovranista per esorcizzare un immaginario “pericolo
fascista”. Le sinistre radicali hanno così demonizzato le forze politiche da
cui si erano lasciate “scippare” la rappresentanza degli interessi popolari (a
partire dalla rivendicazione di politiche economiche espansive per rilanciare
occupazione e salari), con il risultato di spingere ancor più nelle braccia del
nemico le masse da cui si erano allontanate: Podemos si è vista prosciugare dal
rilancio del Psoe; la sinistra radicale italiana si è sacrificata sull’altare del
PD; i socialisti francesi e tedeschi si sono avviati all’estinzione per
riassorbimento nell’area centrista di Verdi, Liberali e macroniani; il tutto a
fronte del trionfo della Lega in Italia, del partito pro Brexit in Inghilterra,
del partito lepenista in Francia, ecc.
Come è potuto succedere?
Incapacità
di analizzare le mutazioni del modello di accumulazione capitalista e del suo
impatto su composizione e contraddizioni di classe? Non solo: il disastro affonda
le radici in una serie di limiti immanenti alla cultura marxista e post
marxista – limiti preesistenti alla svolta liberista degli anni Ottanta, ma che
la stagione dei Trenta gloriosi e il persistere dell’alternativa rappresentata
dal blocco socialista avevano mascherato.
1. Economicismo. Le sinistre hanno sempre
pensato che il capitalismo sarebbe caduto in ragione delle sue contraddizioni
“oggettive” (crollo del saggio di profitto, contraddizione fra forze produttive
e rapporti di produzione ecc.), le quali avrebbero creato le condizioni per la
crescita dell’autocoscienza proletaria e per la sua organizzazione in forza
politica rivoluzionaria. Dimenticando che il capitale è in primo luogo un
rapporto sociale, si sono sempre concentrate sulle sue “leggi” economiche. È in
nome del “realismo” imposto da queste leggi che si è accettato il processo di
globalizzazione come naturale e irreversibile, per cui, invece di contrastarlo,
si è adattata l’azione politica a queste nuove condizioni assunte come
immodificabili.
2. Progressismo. L’idea che la storia sia
un processo direzionato, che marcia naturalmente verso il progresso, è il
legame sotterraneo e potente che connette marxismo e liberalismo. Marx esaltava
la spinta modernizzatrice del capitale, una postura ideologica che si è
accentuata nel corso della storia dei movimenti socialisti e comunisti,
assumendo connotati particolarmente marcati nell’esaltazione del progresso
scientifico e tecnologico, del quale si ignora il carattere “demonico”, la non
neutralità di un sapere orientato al rafforzamento del dominio di classe (vedi
la fascinazione nei confronti della rivoluzione digitale, accolta acriticamente
come strumento di ampiamento della democrazia economica, politica e sociale).
L’idea che lo sviluppo delle forze produttive è sempre e comunque foriera
dell’avvento di un mondo migliore (la crescita economica per i liberali, il
socialismo per i marxisti) collabora con l’economicismo nell’alimentare i miti
dello sviluppo e del progresso che ottundono la capacità di interpretare le
crisi come opportunità per il superamento del capitalismo.
3. Orizzontalismo. Uno dei paradossi che
attraversa l’intera storia delle sinistre, è la loro incapacità di elaborare
una reale alternativa all’orizzontalismo liberale, cioè all’idea che la società
è interpretabile come prodotto delle interazioni fra atomi individuali. Il
collettivismo delle sinistre è apparente (come osserva Onofrio Romano nel suo
ultimo libro), perché è visto come una tappa verso la realizzazione d’un mondo
fatto di individui liberi e autonomi (vedi il mito dell’estinzione dello stato
e del comunismo come paradiso in cui i conflitti sociali spariscono). Per i
marxisti, il mondo di libere individualità descritto da Adam Smith è una
mistificazione finché serve a nascondere la realtà della lotta di classe, ma si
trasforma in una meta da raggiungere quando si parla del futuro postcapitalista.
L’economicismo
ha orientato la mutazione delle socialdemocrazie: preso atto che la rivoluzione
liberale aveva indebolito politicamente e numericamente la classe operaia, e
che l’alternativa socialista era fallita, i socialdemocratici accettano
l’ineluttabilità di un mondo unificato dalle leggi del mercato e si candidano a
gestirlo in pacifica alternanza con i conservatori, ai quali contendono il
consenso elettorale rivolgendosi a un elettorato trasversale, ma sostanzialmente
egemonizzato dai “ceti medi riflessivi”. L’orizzontalismo ha invece orientato
la mutazione delle sinistre radicali: l’onda lunga del 68 ha partorito
movimenti (ecologisti, femministe, Lgbt, animalisti, pacifisti, ecc.) che,
muovendo da istanze emancipatorie settoriali, hanno rimosso il problema del
potere politico, concentrandosi sulla liberazione qui e ora di minoranze e individui.
Una cultura per cui lo statalismo socialista non è meno nemico del capitalismo,
e che del capitalismo critica solo gli effetti collaterali (gerarchie,
patriarcato, autoritarismo). Istanze che il nuovo modo di produzione ha fatto
proprie, costruendo gabbie ancora più sofisticate di dominio e controllo su una
forza lavoro frammentata e individualizzata. Infine il progressismo è il dogma
condiviso da sinistre moderate e radicali, un punto di vista pronto a lasciare
le briglie sul collo agli “spiriti animali” del capitalismo, a condizione che
garantiscano e promuovano la modernizzazione dei costumi e offrano opportunità
di reddito e mobilità a un blocco sociale fatto di dipendenti garantiti, ceti
medi istruiti, lavoratori della conoscenza, professionisti dell’informazione e
dello spettacolo, ecc.
Perché vanno verso la dissoluzione
Dopo la
grande crisi che ha scosso gli equilibri sistemici nei primi decenni del secolo
XXI, questa cultura e il blocco sociale che la esprime sono finiti in frantumi.
I ceti medi che negli anni Ottanta avevano abbracciato i miti dell’autoimprenditoria
e della meritocrazia, e negli anni Novanta avevano celebrato l’avvento al
potere di una “classe creativa” in grado di gestire autonomamente i meccanismi
di un’economia smaterializzata e fondata su conoscenze e informazioni e sulla
competenza tecnologica per sfruttarne il potenziale produttivo, si ritrovano
oggi a scontare una crisi che li ha fatti esplodere in una minoranza di
privilegiati, cooptata nei centri di comando delle élite, e in una massa di
proletarizzati che, nella migliore delle ipotesi, campano stentatamente nelle
catene di subfornitura del terziario avanzato, nella peggiore, sprofondano
negli inferi del terziario arretrato a fianco degli operai espulsi dalla
produzione industriale e degli immigrati.
Questa
evoluzione avrebbe potuto creare le condizioni per una saldatura fra questi
soggetti declassati dalla crisi e una massa proletaria frantumata, impoverita,
individualizzata, precarizzata e priva di rappresentanza sindacale e politica.
In effetti abbiamo assistito, da un lato, a una serie di mobilitazioni
spontanee di massa (Primavere arabe, Occupy Wall Street, 15 M, gilet gialli)
che esprimono la rabbia trasversale di un ampio ventaglio di strati sociali
colpiti dalla crisi, dall’altro, alla nascita di formazioni populiste di
sinistra che, tentando di dare sbocco e direzione politica a questi movimenti,
sembravano avere capito la necessità di andare al di là delle sinistre
tradizionali, sperimentando nuovi linguaggi e nuove forme organizzative e sostituendo
all’asse ideologico destra-sinistra l’asse sociale alto-basso, popolo-élite. Un
progetto nato per contendere ai populismi di destra l’egemonia su un popolo concepito
non come un’entità data e preesistente, ma come un soggetto politico da
costruire, un blocco sociale da aggregare attorno alla lotta contro il comune
nemico di classe.
Perché
questi esperimenti – da Sanders a Corbyn, da Podemos a France Insoumise, senza
trascurare il pur atipico e ambiguo M5S – dopo una fase di crescita impetuosa
sembrano oggi attraversare un momento di crisi e arretramento? La risposta più
immediata è che queste forze non sono riuscite a sbarazzarsi completamente dell’eredità
culturale delle vecchie sinistre: in nome di un cosmopolitismo confuso con
l’internazionalismo, non hanno assunto coerentemente il tema della difesa dello
stato-nazione come baluardo della democrazia contro il globalismo liberale, regalandone
il monopolio alle destre nazionaliste; in nome di un anacronistico antifascismo,
hanno ceduto alle lusinghe frontiste di socialdemocratici e liberali; in
omaggio ai movimenti femministi non si sono sbarazzati del linguaggio
politicamente corretto. Questa regressione è dovuta, in larga misura, al fatto
che l’egemonia su questi progetti politici appartiene a strati intellettuali espressione
dei ceti medi riflessivi: la base elettorale dei populismi di sinistra è
trasversale, comprendendo settori di proletariato strappati all’egemonia dei
populismi di destra a fianco di ceti medi precarizzati, ma questa composizione
non si rispecchia nei gruppi dirigenti.
La seconda
parte è stata tenuta da Alessandro Visalli, questo il video dell’evento:
Riassumendo
Abbiamo appena
detto che le sinistre non sono più in una relazione, né sentimentale né
funzionale, con le classi subalterne, cioè con l’insieme di chi non ha il
controllo del prezzo di ciò che ha da offrire e del quale vive, ottiene redditi
marginali, non dispone di capitale adeguato in qualsiasi sua forma, è periferico,
non accede a rendite. Le sinistre si sono allontanate dagli interessi materiali
di questi segmenti di società, non ne capiscono cultura e desideri, sono ormai
formate perlopiù da militanti, leader e anche elettori che vivono una relativa
sicurezza e conservano un qualche controllo sulla propria vita.
Si è detto della
profondità della crisi di tutta la cultura di sinistra: economicismo, progressismo, orizzontalismo- una crisi resa completa
e totale dall’assunzione del mercato come unico principio d’ordine, rispetto al
quale ogni tentativo di guida dall’esterno, da parte della politica, è
impraticabile e immorale, mentre l’unico orizzonte legittimo dell’azione fonda sulla
spontanea aggregazione di comunità volontarie e parziali, rivolte alla
liberazione del consumo e all’espressione di sé. Alla realtà esistente si rimprovera
solo il tradimento della promessa di libero godimento.
Ma tutto
questo non basta: occorre integrare quanto fin qui detto con l’analisi dei
limiti intrinseci alle forme e ai modelli organizzativi adottati da parte dei
populismi di sinistra, e provare ad abbozzare un modello alternativo.
Arretramento progressivo del
politico e allargamento dell’egemonia neoliberale
Nell’età
moderna il comando che proviene da un principio esterno al corpo sociale, nella
forma di un’autorità personale, diviene, progressivamente e a seguito di lotte
condotte dal basso, espressione impersonale di una forma politica diffusa. In
questo senso svolge un ruolo strategico il “partito”, che è articolazione della
pluralità delle forze e degli interessi sociali. Questo processo trova
storicamente una forma sistematica con la formazione dei partiti di massa e la
progressiva estensione del suffragio universale. Il meccanismo attraverso il
quale dai cittadini organizzati si traduce la sovranità, entro forme giuridiche
e procedure istituite, è l’organizzazione di corpi intermedi a diverso grado di
specializzazione che convergono nei partiti di massa. A parte la parentesi cosiddetta
totalitaria, nella quale il partito si fa direttamente Stato, ogni grande
partito di massa esprime una “parte”, ma anche l’aspirazione di questa a
incarnare l’interesse generale. Questo modello, che ha occupato buona parte del
Novecento entra in crisi con il passaggio dalla “piattaforma tecnologica”
fordista a quella post-fordista, che è in parte intenzionale, per effetto di molteplici
forze e trasformazioni: la crescita del benessere, lo Stato provvidenza che
spegne da un lato la combattività dei ceti subalterni e dall’altro provoca la
reazione difensiva di quelli dominanti, lo sviluppo di tecnologie informatiche
che rendono possibile automazione e organizzazioni a rete delle grandi imprese spezzando
la principale condizione di forza dei lavoratori, l’impatto di nuovi media
“generalisti”.
È questo il
contesto nel quale si afferma, gradualmente e poi irresistibilmente, l’egemonia
neoliberale andando a sostituire, in particolare dopo il 1989, la cultura
socialista. Si tratta di un processo graduale che prende forma negli anni
Settanta (e in Italia accelera notevolmente a seguito dell’esito degli anni
settanta, dopo i quali anche i principali partiti di sinistra cercano un
compromesso e introiettano quote crescenti della cultura liberale).
Sotto la
pressione di questi fattori tutti i partiti si ‘secolarizzano’ e diventano
interclassisti, avvicinandosi al “centro” politico e sociale. La disgregazione
sociale, insieme alla cetomedizzazione, declinante ma ancora forte, e
l’individualismo caratteristico nella personalità “post-materialista” egemone,
determinano l’evoluzione del “partito pigliatutto” in “partito piattaforma”,
incentrato sulla comunicazione e finalizzato a ottenere il massimo impatto sui
grandi media generalisti, saltando ogni corpo intermedio. Negli anni Novanta
inizia l’invasione capillare dei new-media e la penetrazione della logica
commerciale nel settore dell’informazione, l’atomizzazione della vita quotidiana,
l’enorme estensione della precarietà, della flessibilità, delle forme di lavoro
“atipiche”. In questa fase declinano irresistibilmente le identità collettive
ed i corpi intermedi, ed emergono i movimenti post materialisti “a singola
scelta”, che rivendicano il diritto al proprio benessere individuale
(ecologisti, femministi di nuova generazione, ecc.). I principali partiti
aumentano la distanza tra il vertice, che si chiude e sclerotizza, e la “base”.
Si afferma una forma partito agile, “leggera”, nella quale le informazioni e le
decisioni sono affidate a leadership carismatiche in cerca di velocità e
semplicità di messaggio.
Questa è la
fase in cui si afferma l’antipolitica, sincronicamente alla crescita del
modello dello “stato regolatore”, nel quale enti terzi rispetto a quelli
democratici, gestiti in modo tecnocratico, trovano legittimità non nella delega
ma nella credibilità dei risultati che ottengono. Si tratta della consapevole
fuoriuscita dal modello di democrazia costituzionale del dopoguerra, che
ovunque in Europa consente ai governi, triangolando con gli organismi della Ue
(Commissione, Consiglio, Bce, Corte di Giustizia), di controllare i rispettivi
Parlamenti. La protezione dalla “tirannia” della politica maggioritaria, per
porsi al sicuro dall’opinione pubblica, determina, però, il suo contrappasso: i
cittadini sanno di non poter ottenere nulla e voltano le spalle alla politica.
In questo contesto il successo arride a chi assume la
postura del rigido censore, dell’inflessibile voce morale, del tutto
disinteressata a sporcarsi con il potere. E’ il modello del “partito della sorveglianza”, una forma
reattiva e programmaticamente sterile, adatta a paralizzare ma incapace di proporre
soluzioni.
Allargamento della crisi e primo
populismo
Con l’inizio del
nuovo millennio si sono verificati alcuni slittamenti nella “piattaforma
tecnologica”, tra i quali: un processo di riarticolazione territoriale e
funzionale tra aree dinamiche e dominanti e aree svuotate e depresse (processo
che viene nascosto a lungo dalla “economia del debito” che “compra tempo”, cfr.
Streeck, 2013); nonché lo svuotamento della credibilità ed autorevolezza delle
autorità culturali e politiche costituite, per effetto anche di
un’interconnessione acefala e incontrollabile che rende intercambiabile ogni
informazione. Nelle aree deboli procedono intanto flessibilizzazione e
precarizzazione. Comincia ad emergere una domanda di protezione, ma ancora
coperta da risentimento e senso di abbandono. Tutto il primo decennio vede
l’estensione della mondializzazione ed i suoi effetti in direzione della
perdita di lavori stabili, precarizzazione difensiva, deflazione importata,
riduzione degli investimenti in occidente per carenza di domanda; un processo
sociale di “consolidamento deflattivo” che per sua natura non può durare.
Schematicamente la struttura sociale si organizza secondo due assi, tra chi è
in grado di disporre delle fonti di potere grazie alle quali è in grado di
determinare il proprio valore e chi, pressato dalla competizione e deprivato delle
fonti di potere individuali è costretto ad accettare la determinazione di
valore altrui, sintetizzo tale concetto con “fare e subire” il “prezzo”. Il
secondo asse è un gradiente tra le aree “centrali”, nelle quali si addensano,
si rafforzano e si valorizzano reciprocamente le risorse, e le aree
“periferiche”, nelle quali, di converso, i fattori si diradano e si
indeboliscono reciprocamente precipitando nelle forme più distruttive di
concorrenza. Lungo questa struttura si organizza
diagonalmente la gerarchia sociale.
Questo è il
contesto nel quale maturano rivolte popolari, essenzialmente promosse dai ceti
medi traditi dalle promesse, dai “lavoratori della conoscenza” che si sentono sovra
istruiti e sottoutilizzati, e che esprimono una particolare miscela di
individualismo edonista frustrato, rancore cieco, e spinta alla socializzazione
destrutturata.
Sui movimenti
effimeri che ne seguono (“Occupy”, “Indignados”, “no global”) si innestano le
esperienze del “primo populismo”, sia di destra, sia di sinistra, che assorbono
i modelli disponibili del “partito della sorveglianza” e del partito agile,
leaderistico, aggregativo di istanza eterogenee. L’esempio di maggior successo
è il Movimento 5 Stelle, seguito
dalle fiammate effimere di Podemos e
di France Insoumise. Pur con le loro
notevoli differenze si tratta di “non-partiti”, progettati per raccogliere un
consenso elettorale senza porsi il problema di tradurlo in scelte operative
concrete. Questa contraddizione è inscritta nel modo in cui sono costruiti, e
quindi nelle forze che aggregano. Tutti cercano di sfruttare il sentimento di
rancore e disillusione dei ceti intermedi e scolarizzati che si sentono
profondamente traditi, e puntano sulla opposizione, pre-razionale e capace
della più larga condivisione, a un potere sentito come lontano ed ostile.
Questo
modello raggiunge rapidamente un grande successo, portando i partiti in oggetto
a consensi attorno od oltre il 20%. Ma l’idea che il discorso politico sia in
qualche modo autosufficiente e che si
tratti solo di costruire su “faglie di antagonismo”, aggregando forze
eterogenee con discorsi emozionali, ha i suoi limiti. Questa idea che si
possano rendere equivalenti posizioni sociali e radicamenti differenti, facendo
di tante diverse soggettività il proprio “popolo” ed ottenendone il consenso è
calibrata esclusivamente sulla ricerca del potere. Detto in altro modo, il
modello politico teorizzato da Laclau (e fatto proprio da M5S, Podemos e France
Insoumise) sembra adatto per crescere, ma non per governare. Ma il modo in cui cresci
determina il modo in cui governi. Praticare la “produzione discorsiva del vuoto” non basta: alla fine bisogna
creare terreno. Osservando in particolare il Movimento M5S: in una prima fase
sembrava un “partito del leader”, ma poi è cresciuto superandolo, fino alle
ultime elezioni, nelle quali potrebbe aver cambiato ‘base di massa’ (perdendo
le quote orientate culturalmente a destra). Quando è andato al governo, in
seguito alle elezioni del 4 marzo 2018, raccoglieva consenso sulla base di una
opposizione pre-razionale ad un potere sentito lontano ed ostile. In questo
modo ha raccolto il consenso di un terzo scarso (al sud della metà abbondante)
di italiani che si sentono messi a margine e provano risentimento. Ma questo
stato d’animo fondante, che ispira parole d’ordine a-politiche (onestà versus casta), diventa altamente
rischioso se si va al governo. Il primo anno di governo ne è una controprova: l’M5S
ha assunto una posizione difensiva verso il partner di coalizione rivendicando
il ruolo di “partito di sorveglianza” che lo aveva fatto crescere (la postura
del rigido censore, della inflessibile voce morale, del tutto disinteressata a
sporcarsi con il potere), ma quello che, invece, non è riuscito a fare è rimettere i panni del politico. Quindi
cercare soluzioni, una visione, un progetto di paese, ma questo è il difetto
tipico di questo tipo di populismo.
I due casi
più in vista, oltre a quelli probabilmente troppo particolari di Syriza del Labour,
di marcato arretramento di una proposta neo-populista, sono Podemos e France
Insoumise. Entrambi sono stati ispirati dal “populismo di sinistra” di Ernesto
Laclau e Chantal Mouffe, e fondati su un forte ruolo di un leader noto e visibile
e su una capacità di modulazione tattica rapida e spregiudicata. Ma chi cavalca
la tigre della “sorveglianza” fatica a mantenere coerenza ed aspettative, la
tentazione di procedere aggregando emozioni e manovrando tatticamente è invincibile
(qualcuno potrebbe chiamare questo atteggiamento “leninismo senza strategia”). Va
aggiunta una variazione della tecnologia di base della politica democratica:
l’incidenza del “chiacchiericcio” sui social. Le inevitabili tensioni che si
generano in strutture verticistiche senza strategia, tenute unite da obiettivi
disparati e soggettività spesso narcisistiche vengono messe in piazza in diretta,
e producono l’immediata revoca di fiducia per il sospetto di inautenticità.
Questa arena, così diversa da quella nella quale era emersa e si era
consolidata l’ipotesi populista (la prima Lega Nord, Forza Italia, alcune
esperienze sudamericane) determina una crisi della strategia tutta “testa e
comunicazione” nel momento in cui, crescendo, deve passare alla produzione di
potere.
Crisi di crescita e di senso
Le elezioni
del 26 maggio hanno prodotto un arretramento delle esperienze populiste di
sinistra in tutti i paesi europei, e una secca sconfitta delle sinistre
radicali, a partire da quella italiana. D’altra parte molte forze della destra
‘populista’ hanno confermato la propria forza (in Francia) o sono cresciute (in
Inghilterra e Italia), ma non appaiono in grado di sopraffare - come paventato
(per puro calcolo tattico) dalle élite neoliberali - le forze
dell’establishment che pure saranno costrette a cooptare l’Alde e forse anche i
Verdi (che si sono giovati della abile “operazione Greta”).
In questo
quadro la stampa mainstream e le forze della conservazione europoide cantano
vittoria e immaginano il riflusso dell’onda della protesta e la
ristabilizzazione politica. Questa ipotesi è priva di senso. Le tensioni
politiche che si scaricano nelle forze ‘populiste’, siano esse orientate a
destra o a sinistra, non sono effetto dell’abile scelta di alcuni
“significanti”. Al contrario: la produzione delle idee, le rappresentazioni che
riescono a dominare la scena pubblica, sono intrecciate con le attività
materiali nelle quali i soggetti che si attivano politicamente sono impegnati,
come scriveva Marx “alle relazioni materiali degli uomini, linguaggio della
vita reale” (Marx, 1846). O, in altre parole “l’essere degli uomini è il processo
reale della loro vita”. Fino a che la freccia del grafico sopra presentato
punterà verso l’alto, e sottrarrà energie e vita alla gran parte delle soggettività
storiche concrete, la situazione politica, salvo episodi, non si stabilizzerà. Quel
che sta avvenendo è, con riferimento alle esperienze guida francesi e spagnole,
una “crisi di crescita”, nel senso stretto che è una crisi derivata dalla
crescita e causata da questa (nel senso sopra espresso).
Per
riconoscere e superare la crisi bisogna comprendere in che modo la natura di
questa ha determinato l’impossibilità di conservare un consenso aleatorio al
momento in cui si è chiamati a produrre potere e quindi risposte. Produrre
risposte significa spostare quella freccia. Ma per tentare di farlo bisogna
prendere una difficile decisione. Scegliere tra l’aspirazione alla riconquista
storico-politica dei ceti popolari, contendendo l’egemonia consolidata alla destra
sul campo largo, ed ormai maggioritario, delle classi marginali, e la difesa
delle aree di consenso residue che alla fine possono essere conservate solo su
temi morali, data la divergenza degli interessi. Aver abbandonato la
piattaforma delle elezioni presidenziali è costata a France Insoumise, oltre
alla defezione di alcuni dei suoi esponenti più in vista, l’arretramento dal 20
al 6%. Aver ricondotto ad una polarità destra/sinistra molti temi, e aver
accettato alleanze subalterne nella confusione strategica più completa, è
costata a Podemos l’arretramento dal 25% al 10%, superato di tre volte dal Psoe,
precipitando nel “vuoto strategico” denunciato da Manolo Monereo.
Momento Polanyi
Molti
osservatori individuano una grande similitudine fra la situazione attuale e ciò
che accadde sul finire dell’Ottocento, dopo una lunga fase di mercatizzazione
della società che aveva prodotto fenomeni di disgregazione sociale talmente
pronunciati da indurre, nell’arco di pochi anni, un generale collasso. E che ha
generato movimenti difensivi volti a recuperare la solidità sociale e la
stabilità necessarie alla esistenza stessa delle forme politiche attraverso
nuove forme di protagonismo, pianificazione, collettivismo. All’esigenza di
reincorporazione dell’economico nel sociale e nel politico, secondo la formula
di Polanyi, furono trovate di sinistra (comunismo, socialdemocrazia) e solo
successivamente liberali (New Deal), e, spesso come reazione, soluzioni di
destra (fascismo, nazismo, salazarismo, etc.).
Oggi siamo
ad un simile punto di biforcazione. Come nel caso storico citato sono all’opera
forze potenti che sommano la propria forza nel destabilizzare la società e il
sistema di potere contemporaneo: l’estremizzazione-mutamento della “piattaforma
tecnologica” post-moderna e quindi delle sue strutture umane e sociali; la
perdita di potenza relativa dell’egemone imperiale, in posizione di sfruttare
la mondializzazione; il sorgere di rivali capaci di ostacolarne le strategie;
l’esaurimento della strategia dell’unificazione come rigerarchizzazione
inconfessata, divenuta impraticabile per il peso dei suoi costi economici e
umani per i paesi subalterni, ridotti al ruolo di colonie interne nella catena
“centri-periferia” mondiale.
Nelle fasi
di mutamento storico di questa portata, che per certi versi assomiglia a quella
vissuta dai padri del marxismo, le vecchie forme ideologiche e politiche vanno
incontro ad una rapida obsolescenza e se ne formano di nuove, spesso con i
materiali delle vecchie reinterpretati nel nuovo quadro. Ad esempio la fase che
presiede al pieno emergere del modo di produzione capitalista a trazione
industriale in tutta Europa, tra la rivoluzione francese (1789) e la sua
evoluzione napoleonica (1815), vede in una settantina di anni venire meno in
tutti paesi europei continentali la vecchia società dei privilegi fondata sulla
rendita fondiaria e l’emergere da una parte di una forte borghesia nazionale,
dall’altra di un vasto proletariato urbano. In questo processo di ridefinizione
complessiva del modo di produzione, emergono e poi tramontano numerose proposte
di riforma o rivoluzione dei rapporti sociali produttivi; si confrontano
proposte liberali radicali di colorazione più o meno giacobina, ancora vive
all’epoca della Comune di Parigi (1871). Per esempio la versione della
rivoluzione sociale di Mazzini, quella di Proudhon e poi di Bakunin e di Marx.
Queste
diverse tradizioni culturali ed ipotesi politiche, arrivano al confronto ed
allo scontro nella I Internazionale
(1872-76) e, a loro volta, emergono dal crogiuolo di numerose esperienze delle
forze proto-socialiste, come il Cartismo (1834-1872) attivo nella lotta per il
suffragio e poi confluito nel nascente movimento socialista, le proposte e
tentativi di Owen e Fourier che ebbero significativa influenza sulla messa a
fuoco dei temi e dei concetti portanti, ma anche nel mostrare le strade cieche.
Dal fallimento, anche a seguito delle lacerazioni interne e delle rotture della
I internazionale, quando i tempi
maturano e in tutta Europa il capitalismo sta passando dalla fase
concorrenziale a quella monopolistica e finanziaria, e dal colonialismo all’imperialismo,
nasce la II internazionale
(1889-1914) nella quale ormai sono presenti quasi solo partiti di ispirazione
socialista (tedesco, austriaco, italiano, francese, russo), con la parziale
eccezione dei blanquisti ed in una sola prima fase degli anarchici. E’ questa
la fase nella quale il paradigma marxista si consolida.
Abbiamo
oggi bisogno di una simile fase di ridefinizione di un paradigma aggregante le
lotte ed i progetti di una nuova società dove siano possibili rapporti sociali
‘decenti’ (per usare la bella parola messa in campo a suo tempo da Owen). Per
arrivarvi le diverse tradizioni, figlie di epoche ormai trascorse, ed alcune
figlie delle sconfitte e dell’adattamento ad una egemonia (quella neoliberale)
che a sua volta sta tramontando insieme alla “piattaforma tecnologica” ed ai
rapporti geopolitici che la sostenevano, devono operare una fusione. La prima
cosa necessaria per mettersi in questa prospettiva, oltre alla lotta spietata
al settarismo ed al purismo (ovvero alla tentazione di reagire ad una fase di
dolorosa confusione con il rinserrarsi nelle identità sfidate), è di decidere
che la lunga ritirata è finita e che tutti gli strumenti che abbiamo usato per
gestire la sconfitta sono oggi inutilizzabili.
Tra le cose
da lasciar andare c’è l’idea che all’impolitico neoliberale non ci sia
alternativa e che ad esso siano opponibili solo adattamenti subalterni. Ma se,
secondo una lezione antica, “si parte dagli uomini realmente operanti e sulla
base del processo reale della loro vita si spiega anche lo sviluppo dei
riflessi e degli echi ideologici” (Marx, 1846) si può comprendere che la forma di
vita che si sta affermando, sotto la spinta destrutturante di un ulteriore
salto di scala e della recrudescenza del conflitto imperialistico tra la catena
dei “centri”, ed i loro abitanti, e la corona delle “periferie” (‘interne’ o
‘esterne’), con la massa disordinata ed inconsapevole dei diseredati e
abbandonati, genera un nuovo tipo umano. Anzi, ne genera diversi. Per superare
l’impolitico neoliberale bisogna recepire il nuovo bisogno di collettivo e di
umanità. Un bisogno che non è mai venuto meno, ma era sepolto sotto una corte
di distrazioni di massa.
Per un partito-comunità
La
sconfitta storica che ha catturato l’immaginario delle sinistre è oggi il primo
e fondamentale ostacolo che impone questo necessario processo di reinvenzione.
Tra le tecniche di gestione della sconfitta da abbandonare, c’è
l’intersezionalismo e l’adattamento ai sentimenti e alla visione individuale ed
edonistica. La sinistra che “cura” e si adatta alla sensibilità di oggi, è il
nemico, come abbiamo detto nella prima parte.
Ne segue
che, per andare oltre questa asfittica ‘base sociale’ residuale, e porre fine
alla lunga ritirata, bisogna fuggire alla malattia che ha contagiato anche il
“primo populismo”: la passione per l’agilità, la semplificazione, la
comunicazione, il governismo. E attraversare con pazienza e determinazione, il
faticoso lavoro di montaggio di soggettività e di fusione delle loro visioni
del mondo. Ma anche di interpretazione del mondo, di rottura e di identificazione
delle questioni dirimenti.
La forza
per compiere questa trasformazione va trovata nella pazienza delle discussioni
molecolari e delle pratiche di mobilitazione anche plurali e federali, e non necessariamente sin dall’inizio
omogenee, per cercare la calda pesantezza di una nuova “base sociale” quanto
più larga possibile. Nel “dilemma
Kuzmanovic-Autain” bisogna correre il rischio di scegliere il primo per
tornare all’offensiva, individuando con nettezza una nuova costituente sociale.
In altri termini, bisogna fare leva sulle capacità di essere – per - l’altro
che ognuno di noi ha, e sforzarci di creare comunità di discorso e di
condivisione di obiettivi che sono la radice stessa del socialismo. Occorre,
inoltre, una nuova capacità di costituirsi in “parte”, ancorandosi: 1) Alla
capacità reticolare dei social, investendo nuovamente sulla militanza e
l’adesione volgendo in forza la flessibilità dell’interconnessione, vivendo in
larghe discussioni reticolari ed orizzontali; 2) ma anche alla capacità di mobilitazione
diretta, plurale, faccia a faccia e nei luoghi, in particolare periferici. Farlo
avendo come primo obiettivo la ricostruzione di socialità, oltrepassando per
questa via l’individualismo liberale e richiamando la gioia di condividere
obiettivi che oltrepassano la singola e piccola prospettiva, la gioia di essere
– per - l’altro, ricostruendo le condizioni della libertà sociale che può
scaturire solo dall’interno in una comunità integra. Il socialismo è
principalmente questo: una nuova antropologia, più umana.
L’evento è
stato organizzato da alcune associazioni (Rinascita! e Network per il
Socialismo) che hanno a riferimento il Manifesto
per la Sovranità Costituzionale, scritto con Patria e Costituzione
e Senso Comune a marzo 2019, ma che per alcune divergenze di linea
politica hanno deciso di avviare un percorso autonomo del tutto aperto ai
contributi di ciascuno.
Al momento
la pagina che organizza l’attività è questa: “Lettera sul Manifesto per la
Sovranità Costituzionale” (dalla quale si può, se si vuole, aderire al
progetto).
Questo il
testo della Lettera aperta:
“Il
9 marzo scorso, dopo lunga attività preparatoria, è stato presentato a Roma il ‘Manifesto
per la Sovranità Costituzionale’.
I 10 punti del Manifesto
illustrano una posizione articolata ed organica da cui emergono, tra le altre
cose:
1)
la necessità di ridare centralità ai
principi della Costituzione del ’48, di cui si dichiara l’incompatibilità con i
Trattati costitutivi dell’Unione Europea;
2)
la necessità di combattere la mobilità
incontrollata di capitali, merci e persone, inclusi i migranti economici, il
cui ingresso va condizionato alle capacità di assorbimento economico e di
accoglimento dignitoso del paese ospitante;
3)
la riconsegna di centralità allo Stato
nazionale, come primaria arena della lotta politica e come argine ai processi
di globalizzazione economica, di cui è strumento indispensabile la
riacquisizione della sovranità monetaria;
4) la
necessità, per dare seguito ai punti del Manifesto, di costruire un soggetto
politico di ispirazione socialista, che vada al di là dell’odierna offerta
politica di destra come di sinistra.
Il Manifesto è stato
sottoscritto da tre associazioni politiche (Patria e Costituzione, Rinascita! e
Senso Comune), ed è stato promosso con l’idea di farne un collettore politico
intorno a cui aggregare ulteriori forze, secondo un modello organizzativo
aperto e non verticistico.
Si tratta di promuovere
un diverso sistema economico e sociale imperniato sulla piena e buona
occupazione, l’affermazione della funzione sociale della proprietà privata come
limite insuperabile ai suoi abusi, la centralità della lotta ai fallimenti del
mercato e delle pressioni sull’uomo, sulla natura e sulla coesione sociale che
ne derivano, la lotta internazionalista ai monopoli ed al conseguente
imperialismo.
Gli immediati sviluppi
di questo passo, ambizioso e promettente, si sono però mostrati contraddittori.
In prima istanza,
l’iniziativa di un’autorevole minoranza ha messo gli aderenti di fronte a una
situazione di fatto compiuto, portando alla marginalizzazione di una delle
associazioni firmatarie.
In seconda battuta, su
diversi punti qualificanti del Manifesto, e specificamente sul rigetto
dell’euro e dell’Unione Europea, sul distanziamento dall’attuale sinistra, e
sulla necessità di creare un nuovo soggetto politico si sono registrati
arretramenti e atteggiamenti ondivaghi.
Nonostante reiterati
tentativi di chiarimento tali ambiguità non sono state dissipate.
In opposizione a tali
ambiguità è nostra intenzione ribadire integralmente e senza tentennamenti le
premesse del progetto, e segnatamente:
•
nei
contenuti dei punti 1-4 qui sopra,
•
nel
fare da collettore democratico di una pluralità di esperienze e culture politiche,
•
nella
ferma intenzione di costituire un soggetto politico autonomo.
Queste istanze sono per
noi caratterizzanti e inderogabili.
In quest’ottica, proseguiremo
il progetto nella sua forma iniziale, in autonomia rispetto all’attuale
dirigenza di Patria e Costituzione e di Senso Comune, procedendo verso la costituzione di un soggetto politico, a partire da
un'assemblea pubblica di prossima convocazione”.
Questo
progetto è concepito come un’operazione di lungo periodo, disinteressata alla
competizione per spazi al sole, ed aperta a vecchi come a nuovi compagni di
strada”.
Interessante discorso, largamente condivisibile. Giunto al termine, però, ho capito che non siete neppure d'accordo tra voi, quindi ho optato per andarmi a lavare i piatti. Nel lungo periodo, come diceva lord Keynes, "saremo tutti morti".
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