Il
libro
di Michael Sandel, uno dei più grandi filosofi morali contemporanei, è uscito
nell’ormai lontano 1982, ed è stato tradotto in lingua italiana da Feltrinelli
dieci anni dopo. È indubbiamente uno dei classici inevitabili per affrontare la
vasta polemica, in qualche modo ancora pertinente, che segue alla pubblicazione
nel 1971, quindi ancora dieci anni prima, di “Una teoria della giustizia”
di John Rawls. È difficile sottovalutare l’enorme impatto della
rivitalizzazione del contrattualismo kantiano che è operata dal filosofo
americano, cui fa seguito un vastissimo seguito di studi ed approfondimenti e dopo
pochi anni una vasta corona di reazioni capaci di andare dall’area libertaria nella
quale emerge Robert Nozick (con il suo “Anarchia,
stato e utopia”, del 1974) alla parte ‘comunitaria’,
animata da una vasta serie di autori come Michael Walzer (“Sfere di giustizia”,
1983), Alasdair MacIntyre (“Dopo
la virtù”, 1981), oltre allo stesso Sandel, ma si
potrebbe citare anche Charles Taylor.
Per
comprendere la posizione bisogna necessariamente partire da ciò che compie il
testo capitale di Rawls che si oppone a quello che appariva fino ad allora come
lo sfondo tacitamente riconosciuto delle teorie liberali: l’utilitarismo.
Ovvero alla presunzione che in fondo una politica sia da considerare giusta
quando, semplicemente, produce la maggiore felicità per il maggior numero di
membri della società. Una formulazione così semplice è giudicata da alcuni ovvia
(Hare, 1994) mentre da altri completamente difettosa (Williams, 1985).
L’utilitarismo è infatti una teoria parsimoniosa, apparentemente semplice e
naturale che si può riassumere in una frase: ogni azione è giudicabile solo per
le sue conseguenze e queste lo sono per la somma dei benefici in termini di utilità[1].
A
questa posizione, che risale alla lezione di Bentham, Rawls opporrà una forma
di liberalismo che recupera le intuizioni di Kant, ponendo quindi al centro
dell’attenzione le nozioni di equità, giustizia, diritti individuali. Rawls
produce una versione di “liberalismo deontologico” la cui tesi centrale è che:
“la società, essendo composta da una
pluralità di persone, ciascuna con i propri fini, interessi e concezioni del
bene, è meglio ordinata quando è governata da principi che di per sé non presuppongono
alcuna particolare concezione del bene; ciò che giustifica soprattutto questi
principi normativi non è il fatto che essi massimizzano il benessere sociale o
promuovono altrimenti il bene, quanto piuttosto che siano conformi al concetto
di diritto, una categoria morale data che precede il bene ed è indipendente da
esso”
(S., p.11).
Lo
sforzo di Rawls è di identificare e difendere questi principi.
Sandel
obietta che i limiti di questa concezione, e dunque del genere di liberalismo
proposto, sono meramente concettuali, vuoti, e riguardano lo stesso ideale. O,
in altre parole, che l’idea di giustizia è imperfetta e incompleta sin nella
sua aspirazione.
Questa
legge morale è fondata infatti dal suo essere fine in sé, e non dal
promuovere uno scopo buono, o che sia il bene per qualcuno di specifico.
Occorre, come voleva Kant (in opposizione alla versione di Mill
dell’utilitarismo), che diventi possibile una società “in cui le esigenze di
ciascuno siano in armonia con i fini di tutti”, e non una nella quale la massima
felicità induca alla possibilità che le esigenze di qualcuno possano prevalere
su quella di altri (e minori). Quel che la prospettiva contrattualista cerca è,
in altre parole, una base antecedente a tutti i fini empirici concreti;
in quanto scaturente da un soggetto capace di volontà autonoma, un
soggetto, in qualche modo “che precede i suoi fini”. Seguendo la linea di
fondazione di questa concezione (nota come “trascendentale”) l’uomo è
considerato allora libero solo se è indipendente dalle leggi di natura e dalle
“determinanti del mondo sensibile”, ovvero se come soggetto è antecedente e
indipendente dall’esperienza. La conseguenza che ne trae Rawls è che “la
società è ordinata meglio quando è governata da principi che non presuppongono nessuna
particolare concezione del bene, perché qualsiasi altro ordinamento non sarebbe
in grado di rispettare le persone in quanto esseri capaci di scelte: le
tratterebbe come oggetti anziché come soggetti, come mezzi anziché come fini in
sé stessi”.
Qui
si arriva al centro della cosa: Rawls dice in sostanza che “i diritti
assicurati dalla giustizia non sono soggetti al calcolo degli interessi
sociali”, ma in effetti essi “funzionano come briscole nelle mani degli
individui”. Il cuore del liberalismo.
A
questa concezione di priorità dei diritti individuali Sandel avanza per prima
una obiezione di natura sociologica: il liberalismo è sbagliato perché la
neutralità che postula è semplicemente impossibile. Ogni volta che si
individuano dei diritti e dei valori, come universali, si è inevitabilmente soggetti
ad un autoinganno, si tratta infatti sempre di alcuni valori di qualcuno.
Con le sue parole: “la tanto lodata indipendenza del soggetto deontologico è
una illusione liberale” (p.22). La relazione storicamente fondata del
liberalismo con l’egemonia della forma di vita borghese occidentale, e con
l’immediatamente presente colonialismo (con conseguente accumulazione
originaria e creazione delle condizioni di esistenza ed affermazione del
capitalismo), poi tradotto in imperialismo, e sempre in sciovinistica
affermazione della presunta superiorità della forma di vita occidentale sulle
altre, è parte e movente di questa illusione.
D’altra
parte il liberalismo in sostanza non capisce la natura “sociale” dell’uomo. E
quindi attribuisce una priorità all’individuo, e quindi ai valori
individualisti, che necessariamente determina la neutralizzazione dei più
importanti valori di altruismo e benevolenza propri della natura sociale
dell’uomo. L’uomo non è, come voleva Hume, un mero e semplice “fascio di
percezioni”.
John Rawls |
Certo
Rawls riformula l’empirismo della tradizione liberale come “ragionevole
empirismo” derivante da quella che chiama “la posizione originaria”.
Ovvero di quella posizione decisionale che deriva dall’assunzione della
fondamentale pluralità della specie e della necessaria integrità degli
individui che la compongono. Questo fatto del pluralismo, e la
costituzione del soggetto precedente all’esperienza (e dunque anche alla
socializzazione concreta) implica, infatti, la necessità, per non ricadere nel
relativismo, di trovare un punto di vista archimedeo dal quale poter valutare
la struttura di base della società. Ovvero occorre trovare la giusta distanza
per staccare l’io dalla contingenza senza ricadere nell’arbitrario (p.36).
Il
soggetto umano rawlsiano è concepito per questo come sovrano agente delle sue
scelte, “una creatura i cui fini sono scelti anziché dati, che giunge ai suoi
scopi e ai suoi propositi attraverso atti di volontà, in contrasto, ad esempio,
con gli atti di conoscenza”.
Svolge
questa funzione, di conservare la forza morale della teoria kantiana,
nell’ambito di una teoria empirica e non metafisica, la “posizione
originaria” (quella nella quale il soggetto è puro, non conosce ogni sua
caratteristica contestuale e deve determinare la distribuzione di base della
società) e quindi il “velo di ignoranza” che la costituisce. Una
condizione, cioè, di eguaglianza e di impersonalità.
La
caratteristica parsimioniosità della posizione liberale appare qui nel
presupporre, a ben vedere, che sia l’egoismo, sia la generosità, siano
contenuti e che anche la fraternità sia ridotta. È allora che si fa spazio alla
“Giustizia” nel cosiddetto “equilibrio riflessivo”. Ma questa posizione
neutra e parsimoniosa è solo apparente, Sandel mette in evidenza come si tratti
di assunti, al contrario, molto forti: è qui in campo l’ipotesi che le parti
siano portate per natura verso l’egoismo anziché verso la benevolenza. Si
tratta, in altre parole, di una teoria della persona molto radicale.
La
posizione di Rawls non individua solo una teoria morale, ma soprattutto definisce
un’antropologia filosofica che presume una pluralità ed individualità
delle persone e per questo necessita di postulare l’Io come “soggetto di possesso”
e capace del più radicale “disinteresse reciproco” (p.68). Un soggetto di
possesso, individuato antecedentemente e che si trova anche sempre ad una
certa distanza dai suoi interessi. Un individuo per il quale “nessun impegno
dovrebbe coinvolgermi così profondamente da non potermi riconoscere senza di
esso”.
Ciò
significa che la teoria liberale deontologica non ammette tutti i fini, ma
esclude anzi in anticipo qualsiasi fine “la cui adozione o il cui perseguimento
possa impegnare o trasformare l’identità dell’io, e respinge in particolare la
possibilità che il bene della comunità possa consistere in una dimensione
costitutiva di questo genere”.
Questa
etica basata sui diritti, che unisce la posizione di Rawls (che è una teoria
liberale dello stato assistenziale) a quella di Nozick (che è un conservatore
libertario), concorda nel negare la possibilità stessa di una comunità
sociale che sia sopra l’individuo, postulando invece un’esistenza separata
di ciascuno.
Michael J. Sandel |
Ma
c’è anche un punto di divergenza altrettanto preciso con Sandel: Rawls parte dalla
cosiddetta “libertà naturale”, che individua come giusta qualsiasi
distribuzione derivante da un’economia di mercato efficiente (con eguaglianza
legale, apertura ai talenti), ma la dichiara immediatamente insufficiente in
quanto riproduce semplicemente posizioni di squilibrio iniziali che sono in sé
moralmente infondate; quindi tenta il suo superamento evocando la cosiddetta
“libertà liberale”, che aggiunge politiche attive nell’istruzione per
ottenere effettive pari opportunità per coloro che sono dotati e
motivati nello stesso grado. Ma qui interviene la più profonda infondatezza
anche delle distribuzioni naturali di partenza, della ‘lotteria’ relativa. Infatti
non si tratta di ottenere solo una “eguaglianza di risultato”, ovvero di
livellare le quote distributive in modo che ad ognuno arrivi lo stesso, ma di
“sistemare lo schema dei benefici e dei fardelli in modo che i meno
avvantaggiati possano attingere alle risorse dei fortunati”. Questo è la strada
che porta all’applicazione del “Principio di Differenza”. Si tratta qui di
definire come giuste solo quelle diseguaglianze sociali ed economiche che
operano comunque anche a vantaggio dei membri meno avvantaggiati della
società. È chiaro che questo significa che nessuno può essere considerato
l’unico proprietario dei propri beni, o l’unico destinatario dei benefici che
comportano. Ognuno è in qualche modo “il custode o il depositario dei talenti e
delle capacità che per caso si trovano in esso”.
C’è
dunque un nettissimo contrasto tra la posizione “meritocratica” e quella
“democratica”, ovvero anche tra Nozick e Rawls.
È,
infatti, proprio la questione del possesso “comune” dei talenti che è attaccata
da Nozick, per il quale i talenti e le dotazioni avute dalla lotteria della
vita sono parte della ‘persona’ e quindi ricadono nella sua inviolabilità di
principio. L’attacco è al cuore della teoria del soggetto di Rawls per il quale
c’è, invece, una distanza tra l’io ed i suoi vari attributi. Il punto è che se
gli attributi sono la persona, allora la via “democratica” effettivamente
usa le persone come mezzi e non come fini, ma se, al contrario, c’è una
distanza ciò non si produce.
L’obiezione
di Nozick risale a denunciare, a questo punto, lo stesso “io” proposto da Rawls,
dal quale sono staccate tutte le sue caratteristiche e doti naturali, come incorporeo
e disincarnato. E da ultimo produce il suo “argomento della manna”: se
anche le doti non appartenessero alla persona in quanto tale, ma ne fossero
essenzialmente degli attributi (qualcosa che si ha e non qualcosa che si
è), non per questo esse dovrebbero per forza essere della comunità.
Potrebbero anche essere di nessuno, e quindi restare lì, come una manna
dal cielo sulla quale a rigore nessuno ha titolo.
È
questo una sorta di rompicapo che potrebbe essere sciolto solo da una
concezione pienamente intersoggettiva dell’io, che Rawls non sposa (su questo,
ad esempio, oltre all’argomento a p. 93 e seg, di Sandel si può rileggere la discussione
con Habermas durante gli anni novanta).
Robert Nozick |
Restano
alcune cose da chiarire, per comprendere meglio la peculiare posizione di
Rawls, e la sua distanza da una posizione come quella di Nozick: il contrattualismo
del primo non fa derivare affatto, come nel secondo, imperniato
sull’inviolabilità dell’individuo isolato, la giustizia di uno scambio dal
semplice fatto dell’accordo volontario. Invece per Rawls un accordo è giusto se
si riferisce ad un principio di giustizia anteriore, giustificabile. Ad esempio
al principio stabilito da Locke (1690) per il quale “la legge fondamentale
della natura [dell’uomo] è la conservazione dell’umanità”.
Cercando
in qualche modo una via di mezzo tra il convenzionalismo e l’arbitrarietà,
Rawls individua qui una sorta di versione procedurale della concezione
che fu di Kant dell’autonomia e dell’imperativo categorico. Ciò che accade,
sotto “velo di ignoranza” e nella “posizione originale”, è, infatti, una scelta
ed un accordo tra parti che sono essenzialmente plurali e che fanno quindi
astrazione dalle loro convinzioni comprensive, dalle loro particolare
concezioni del bene o da ogni teoria della motivazione umana.
Ma
in questa posizione, facendo cioè astrazione dalle caratteristiche e dalle
convinzioni concrete, in effetti non ci può realmente essere una sorta di
trattativa, una discussione. Non ci può essere politica, in altre parole.
Anche
dalla discussione citata con Habermas emerge con chiarezza che il tipo di
società ‘ben ordinata’ del contrattualismo rawlsiano non è davvero un
contratto, con parti che negoziano e rapporti di forza e potere tra diversi, ma
una sorta di avvento della consapevolezza di sé di un essere che Sandel
qualifica come “intersoggettivo” (p.147).
Proviamo
a dirlo così: per una teoria deontologica della giustizia ciò che separa le persone
le une dalle altre, rendendole individui distinti, è più importante ed
anteriore a ciò che unisce. Prima siamo distinti e poi ci
impegniamo in accordi di cooperazione. Ma anche, in modo più profondo, “prima
siamo soggetti privi di possesso e poi scegliamo i fini che possederemo, da qui
la priorità dell’io sui suoi fini” (p.149). E qui entrano le diverse e
possibili concezioni della comunità, per la prima, individualista, la comunità
è concepita in termini strumentali, ognuno collabora per i propri fini privati;
la seconda vede i partecipanti come dotati di “scopi finali comuni” e quindi lo
schema della cooperazione diventa un bene in sé. Questa seconda
concezione del comune, ancora individualista ma internamente incoerente, è quella
che Rawls cerca di difendere.
Ma
c’è anche una terza concezione, che non è individualistica, e vede la presenza non
tanto di un sentimento reciproco ma proprio di un modo di vedere se stessi
che almeno in parte costituisce l’agente. In altre parole i membri concepiscono
la loro identità definita dalla comunità di cui sono parte.
“Per loro la comunità indica non
solo ciò che essi hanno come concittadini ma anche ciò che essi sono, non una
relazione che scelgono (come in un’associazione volontaria) ma un attaccamento
che scoprono, non semplicemente un attributo ma un elemento costituente della
loro identità” (p.166).
Per
raggiungere questa comprensione serve una certa riflessione e non solo la
volontà. Il soggetto deve, cioè, cercare la comprensione di sé, azione per la
quale il soggetto rawlsiano è poco attrezzato. In sostanza Sandel accusa nel
testo Rawls di non disporre di un’antropologia coerente con le stesse richieste
della propria teoria, incappando in difficoltà di natura epistemologica, oltre
che morale[2]. E lo accusa di non
essersi veramente staccato da un sottofondo utilitarista che emerge nel momento
in cui si passa alla moralità individuale o privata. Resta per lui vero che “il
principio per l’individuo è quello di far progredire il più possibile il suo
benessere e il suo sistema di desideri” (Rawls, cit. p.182).
Il
passaggio dalla morale individuale, autocentrata, e quella pubblica, infine,
sembra a Sandel alla fine disegnato sul modello Humiano della scarsità e dell’egoismo:
noi abbiamo bisogno della giustizia perché in effetti non possiamo davvero
conoscerci reciprocamente.
Ora,
veniamo alla conclusione, c’è una obiezione fondamentale che Sandel rivolge a
Rawls, alla sua concezione della persona, al suo utilitarismo disincarnato di
fondo, alla sua forma di razionalismo: la giustizia come equità non riesce a
prendere sul serio la nostra appartenenza a una comunità.
E
non ci riesce perché abita in un mondo “disincantato”, un universo di per sé
privo di ogni telos, connesso con la modernità scientifica, che ha incorporato
profondamente gli assunti di un certo scientismo[3] che postula l’esistenza di
un soggetto di conoscenza staccato ed anteriore ai suoi scopi ed ai suoi
fini. Un soggetto che si rende necessario, allo stato dello sviluppo delle forze
materiali e sociali del tempo[4], per possedere il mondo
e sottometterlo alla ragione. La mossa è piuttosto semplice nella sua
essenza: quando né la natura, né il cosmo sono più legittimati a fornire un
ordine significativo (o ne forniscono di contrari alle forze sociali attivate
sotto la consunta veste dsella società tradizionale e dei suoi poteri) allora è
l’individuo, staccato e disincarnato, a divenirne la fonte. Di qui l’enfasi sul
volontarismo e l’attacco ad ogni etica cognitivista, che si manifesta in Kant
come culmine di un lungo percorso, che nasce da una baldanzosa convinzione: che
i significati possono essere creati dalla ragione individuale senza impegnarsi
con controverse metafisiche.
Scrive
Rawls:
“le parti nella posizione originaria
non si accordano su ciò che sono i fatti morali, come se simili fatti ci
fossero già. Non che, essendo situate imparzialmente, esse abbiano una visione
chiara e non distorta di un ordine morale anteriore e indipendente. Anzi (per
il costruttivismo), un ordine del genere non c’è, e quindi non ci sono
neppure simili fatti separati dalla procedura nel suo insieme”
(cit, p.192).
La
legge morale è quindi il prodotto della volontà (in Kant della ragione
pratica), e produce essa stessa la realtà cui si riferisce. Ciò, in
effetti, non significa che siamo privi di obiettivi ed affetti essenziali, ma
significa che noi li scegliamo. Essi sono in qualche modo dei beni di un
io che preesiste ai suoi fini.
Lo
scopo è abbastanza chiaro: il soggetto deontologico della tradizione liberale
kantiana è un sovrano. È l’autore degli unici significati morali possibili, in
quanto scaturiscono da se medesimo sotto forma di una libera scelta. Abita un
mondo senza alcun telos, come scrive appunto Rawls noi tutti “siamo fonti
auto-originanti di pretese valide”.
Cosa
obietta Sandel?
In
pratica che questa visione è “incrinata”, il soggetto deontologico è
espropriato, più che liberato. Esso si illude di costruire e
scegliere, ma manca di spessore ed entra necessariamente in contraddizione con quella
priorità alla giustizia che pure Rawls cerca di salvare. Tecnicamente, con le
parole di Sandel “non possiamo essere persone per le quali la giustizia è primaria
e anche persone per le quali il principio di differenza è un principio di
giustizia” (p.195).
Si
potrebbe dire che l’obiezione radicalmente libertaria di Nozick, che in effetti
si affermerà nella società negli anni successivi, è più coerente della pretesa
contrattualista di fondare un sistema di giustizia per la struttura
fondamentale della società, ed il correlato impegno redistributivo, su un
individuo autofondato le cui pretese nascono dalla mera volontà. O, con altre
parole, che l’etica deontologica “non è in grado di riscattare la sua promessa
liberatoria” e non spiega alcuni fatti morali elementari. Il suo sforzo di
pensarci indipendenti dalle nostre convinzioni e inclinazioni ha un costo: corrode
esattamente ciò che vorrebbe valorizzare.
“non possiamo considerarci
indipendenti in questo modo senza un grande costo per quelle lealtà e
convinzioni la cui forza morale consiste in parte nel fatto che vivere
coerentemente con esse è inseparabile dal ritenerci quelle particolari persone
che siamo – come membri di questa famiglia o comunità o nazione o popolo, come
cittadini di questa repubblica. Fedeltà come queste sono qualcosa di più di
valori che per caso io ho o di obiettivi che ‘sposo in un momento dato
qualsiasi’. Esse vanno al di là delle obbligazioni che io volontariamente
sottoscrivo e dei ‘valori naturali’ che ho verso gli esseri umani in quanto
tali. Esse fanno sì che io abbia verso qualcuno dei doveri superiori a quelli
che la giustizia richiede o addirittura permette, non in ragione di accordi che
io abbia fatto bensì in virtù di quegli affetti e di quegli impegni più o meno
duraturi che, presi nel loro insieme, definiscono parzialmente la persona che
sono”. (p.195).
Se
si immagina, come vorrebbe il liberalismo kantiano, una persona incapace di
affetti costitutivi di questo genere non si sta proponendo di prendere in
considerazione un agente libero e razionale, ma una persona “completamente
priva di carattere, senza spessore morale”.
Avere
carattere non significa infatti essere astrattamente razionale, freddo e
calcolatore per il proprio, ma significa “muoversi in una storia che non evoco né
controllo, la quale comporta tuttavia delle conseguenze per le mie scelte e la
mia condotta”. Questa storia mi porta più vicino ad alcuni, mi porta più
lontano da altri, individua obiettivi appropriati. Posso, naturalmente,
riflettere su questa eredità che mi costituisce, prendere qualche distanza
riflessiva, ma sempre in modo parziale, precario e provvisorio. Quel che non
posso, mai, fare è accedere ad un punto di riflessione che si ponga fuori
della storia stessa, “una persona di carattere quindi sa che è coinvolta in
vari modi anche quando riflette, e sente il peso morale di ciò che sa”.
L’io
deontologico si priva invece di tutte quelle risorse che gli consentono di
conoscere sé e resta “sgombro ed essenzialmente espropriato”. In effetti non è una
persona.
La
cosa appare molto più netta, comparendo anche la posta in campo di questa antropologia
disincarnata, quando si guarda alla sfera pubblica. La vita pubblica, in una
prospettiva liberale, è priva di devozione. Non si può provare appartenenza alla
città, la nazione, il partito o la causa (l’elenco che fa Sandel) in un modo tale
da definirci. Al contrario in pubblico “dobbiamo essere completamente sgombri”.
È
semplice, alla fine: “non gli egoisti ma gli estranei, a volte benevoli,
sono i cittadini della repubblica deontologica”. E quindi si perde del tutto la
possibilità della politica, dell’azione pubblica condotta insieme
per ragioni costitutive che vadano oltre l’individuo reciprocamente
estraneo e indifferente; meramente calcolatore.
La
teoria di Rawls, malgrado tutto il suo impegno, dimentica il “bene comune che
non possiamo conoscere da soli”.
Non
è un caso che nel trentennio successivo ha prevalso Nozick.
[1] - Ma certo qui si apre subito una
enorme questione: che cosa è l’utilità? Si va dalla esperienza di
piacere edonico, fine a se stesso (che soggiace alla obiezione di inutilità
formulata da Nozick). Alla pienezza di stati mentali non edonistici, ma
autentici e liberamente scelti. Alla soddisfazione delle proprie preferenze,
semplici (ovvero quelle che ci capita di avere anche per le ragioni sbagliate)
ed “informate”.
[2] - La questione si può riassumere
in questo modo, si tratta di avere modo di distinguere un criterio di accertamento
della cosa che viene accertata che sia distinto ed indipendente. L’intuizionismo
rawlsiano produce una difficoltà: “se i miei valori fondamentali e i miei fini
ultimi devono consentirmi, come sicuramente devono fare, di valutare e regolare
i miei bisogni e desideri immediati, questi valori e questi fini devono avere
una sanzione indipendente dal semplice fatto che mi capiti di possederli con un
certo grado di intensità. Ma se la mia concezione del bene è semplicemente il
prodotto dei miei bisogni e dei miei desideri immediati, non vi è ragione di
supporre che il punto di vista critico che essa fornisce sia in qualche modo
più meritevole o più valido dei desideri che cerca di accertare; in quanto
prodotto di quei desideri, essa sarebbe governata dalle stesse contingenze”
(p.181). La scelta, in altre parole, rischia di essere puramente eteronoma.
[3] - Si veda, Strauss, “Diritto
naturale e storia”, 1953; Arendt, “La condizione umana”, 1958;
Wolin, “Politics and vision”, 1960; Taylor, “Hegel”, 1975.
[4] - L’analisi dell’impresa scientifica
tra 1600 e 1700, prima centrata nel mediterraneo italiano e francese e poi spostata,
quale baricentro, al nord, in particolare in Inghilterra, mostra i suoi stretti
legami interno con lo sviluppo economico. Ovvero con lo sviluppo delle classi e
degli interessi della emergente borghesia commerciale e poi proto-industriale. Laboratori,
riviste scientifiche, accademie, sono finanziate da potenti forze private o
pubbliche (in Francia). In altre parole la ricerca scientifica non è affatto,
come vorrebbe la retorica dominante, astratta e disinteressata ricerca della “verità”,
non è una teologia (anche se in parte lo è, con gli effetti di legittimazione e
potere che ne conseguono). La ricerca scientifica è sforzo organizzato di risolvere
problemi emergenti e concreti. Nel 1400 e 1500 era stata connessa, in una
fase di espansione, con i consumi delle élite: l’astronomia aveva un legame ben
rintracciabile con l’arte della astrologia (che durerà fino a Newton); la
botanica si connetteva con la farmacologia che offriva i suoi servigi
esclusivamente alle classi dominanti, le uniche che potevano pagarne i rimedi; la
matematica si sviluppa per gli interessi della contabilità, connessa con l’accumulazione
del denaro in mano a banchieri e commerci di lunga percorrenza, in una fase di
monetizzazione e finanziarizzazione; a partire dalla “Nova scienza” di
Tartaglia (1537) si sviluppa la balistica e poi la cantieristica navale e i
connessi problemi di fisica applicata in cui si impegna Galilei. Dalla seconda
metà del seicento la scienza mostra la sua efficacia concreta in campi di
interesse degli Stati nazione in via di consolidamento e della borghesia
commerciale, impegnata ad estendere le rotte e porre le premesse per il dominio
coloniale del mondo. Navigazione, costruzione di navi, artiglieria; orologeria,
e di qui meccanica, studi sulla velocità della luce per determinare la
longitudine in mare aperto, navigazione a vela e calcolo vettoriale, fluidodinamica
per rimodellare gli scafi, le analisi di Eulero sulla meccanica dei corpi
rigidi per risolvere il problema del beccheggio delle navi, canocchiale e telescopio,
la “aritmetica politica” (ovvero la statistica matematica), sviluppata per le
crescenti esigenze di controllo degli Stati e la cartografia… Si veda, anche se
concentrato sul problema del declino scientifico italiano il saggio di Lucio
Russo “Perché
nel XVII secolo vi fu un crollo della ricerca scientifica italiana?”.
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