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domenica 7 luglio 2019

Sviluppi della “teoria della dipendenza”





Nell’arco di quasi quattro anni sul blog sono state prodotte molte letture in qualche modo riconducibili allo sviluppo storico della “teoria della dipendenza”, una complessa tradizione che matura tra gli anni cinquanta e sessanta e si concentra sulle relazioni tra i paesi in sviluppo (o “sottosviluppati”) e quelli dominanti (o “imperialisti”), la forma sociale capitalista è letta in tutto il suo sviluppo in chiave di interconnessione mondiale, ma con una significativa evoluzione nel tempo.


Gli autori centrali che abbiamo letto sono stati chiamati a volte “la banda dei quattro”, per la forte comunione di intenti che li caratterizzava, pur entro significative differenze. Della “banda” non è presente Immanuel Wallerstein (ma rimedieremo) e c’è l’inserimento di un autore meno centrale come Hosea Jaffe, ma, soprattutto di un libro decisivo nella costruzione di almeno parte delle radici intellettuali, quello di Baran.
Chiaramente si tratta di un lavoro in itinere, del tutto incompleto e parziale, che richiederà almeno il completamento di altre letture di Jaffe, della linea interpretativa di critica del ‘capitalismo monopolistico’ (scuola marxista americana), con altri testi di Baran, ma anche di Sweezy e O’Connor, e di qualche altro libro secondario di Samir Amin e dello stesso Giovanni Arrighi, ma anche Leo Huberman, Gunnar Myrdal e Terence Hopkins.

In ordine cronologico bisognerebbe partire dalla lettura del saggio di Paul Baran, “Il surplus economico”, del 1957, che si inserisce a pieno titolo in una linea genealogica di autori e saggi marxisti sull’imperialismo che vede superare ed inglobare l’analisi marxiana del colonialismo (che pure anticipa molti temi) con le analisi di Lenin, “L’imperialismo, fase suprema del capitalismo”, del 1916, anticipate da John Hobson, “Imperialism, a study”, del 1902, Rudolf Hilferding, “Il capitale finanziario”, del 1910, e Rosa Luxemburg, “L’accumulazione del capitale”, del 1913. Si può ricordare anche il libro di Henryk Grossmann “Il crollo del capitalismo”, 1929, che tra le controtendenze equilibranti indica il mercato mondiale, ovvero la “ricostruzione della redditività con il dominio del mercato mondiale”, e quindi la “funzione economica dell’imperialismo”. Nel successivo “Il capitale monopolistico”, in modo molto chiaro Baran e Sweezy torneranno sul punto, sostenendo che il capitalismo è un sistema internazionale che determina ognuno degli anelli nazionali che lo compongono. Si legge: “la gerarchia delle nazioni che costituiscono il sistema capitalistico è caratterizzata da una complessa serie di rapporti di sfruttamento. I paesi che stanno al vertice sfruttano in varia misura tutti gli altri e allo stesso modo i paesi che stanno ad un dato livello sfruttano quelli che stanno più in basso, fino a che giungiamo all’ultimo paese che non ha nessuno da sfruttare. … abbiamo dunque una rete di rapporti antagonistici che pongono gli sfruttatori contro gli sfruttati e contro gli altri sfruttatori” (CM, p. 152). 
Gli autori che animano il revival della teoria dell’imperialismo in sudamerica sono l’economista argentino Raul Prebisch, Celso Furtado, Hans Singer, Theotonio Dos Santos.

Questa linea influenza direttamente la tesi dello “sviluppo del sottosviluppo” di Andre Gunder Frank, dispiegatasi dai primi saggi degli anni sessanta fino alla tragica esperienza cilena, raccolti nei due testi “Capitalismo e sottosviluppo in America Latina” e “America Latina: sottosviluppo o rivoluzione”, separati da pochi anni. La tesi è che non è affatto la carenza di capitalismo a provocare il sottosviluppo, ma proprio la sua presenza. Il capitalismo, estendendo le sue pratiche di sfruttamento, determina infatti una gerarchia di centri di sviluppo organizzati in una catena con connessioni che rendono il sottosviluppo altra faccia necessaria dello sviluppo. 
L’elemento centrale dell’analisi di Frank è il superamento del limite teorico prima che pratico del desarrolismo (la “industrializzazione sostitutiva” di Prebisch) nel punto in cui, non comprendendo la natura dei rapporti sociali sulla verticale internazionale[1] si postula la necessità di un’alleanza interclassista di tipo nazionale. In realtà le classi borghesi nazionali periferiche, subalterne nella catena centro-periferia che struttura il sistema mondiale in tutte le fasi che successivamente Arrighi chiamerà “egemoniche”, drenano le risorse presenti nella società e le indirizzano verso il centro attraverso i canali di relazione commerciale/finanziaria di cui sono anello di trasmissione. Ne deriva che è in questo processo che le borghesie nazionali si costituiscono e riproducono come classe.
Come proporrà costantemente Samir Amin, allora l’unica strategia possibile è l’autonomia ed il distacco. Il tentativo principe al quale è connesso il nome di Frank è quello del Cile di Allende che, sulla via democratica, tenta di determinare uno sviluppo autonomo nel quale le classi popolari non fossero a traino delle relative borghesie. Questa esperienza fu spezzata esattamente dal boicottaggio di queste e delle organizzazioni internazionali, con conseguente interruzione degli investimenti esteri e fughe dei capitali. Poi, ovviamente dal colpo di stato del 11 settembre 1973.

Il punto teorico è che le istituzioni ed i rapporti economici (ma anche quelli sociali e culturali, o politici) che si osservano nel mondo “centrale” e “sviluppato”, e quelli che si osservano nelle “periferie” e “sottosviluppate” sono il prodotto le une delle altre in una dialettica che si sviluppa attraverso relazioni reciproche di dipendenza, conflitto nella reciproca connessione. I paesi più forti drenano ‘surplus potenziale’ (Baran) da quelli deboli e in questo modo determinano il loro sottosviluppo. In questo modo i primi si avvicinano al loro “potenziale”, mentre i secondi ne restano distanti. Fanno parte del blocco di potere che determina questa relazione estrattiva: le borghesie “compradore”, le industrie monopolistiche (dipendenti dal capitale estero e per questa via potenti estrattori di capitale locale), le imprese multinazionali estere, le classi dirigenti asservite e parassitarie. Tutte queste sono “parte interdipendente di una totalità” e nel loro insieme espressione di un modo di produzione che è necessariamente allargato alla scala mondiale.
L’accumulazione del capitale che avviene in questa forma è quindi nella sua essenza e di necessità ineguale.

Questa struttura di accumulazione, che drena risorse verso la catena dei centri e la porta all’esterno dei paesi (per questo) sottosviluppati, “penetra come una catena il mondo sottosviluppato nella sua totalità, creando una struttura di sottosviluppo ‘interna’”. È questa la ragione per la quale nessuna posizione interclassista e nazionalista ha possibilità di avere successo nel superamento del sottosviluppo.
Il sottosviluppo non è una questione esterna, ma è una intera struttura costitutiva delle soggettività e quindi degli assetti politici.

Nel secondo libro, sulla base di lunghe analisi delle situazioni storiche cilena e brasiliana, Frank conclude che uno dei motivi principali del sottosviluppo è che le classi medie sono dipendenti dalle strutture economiche esistenti, e queste lo sono dall’estero, e sono, se minacciate, pronte a sostenere soluzioni di destra.
Il “nemico immediato” è dunque la borghesia nazionale, e la borghesia locale nelle campagne, anche se il “nemico strategico” è l’imperialismo. La lotta di classe, dunque, ha una coincidenza strategica con la lotta antimperialistica, ma questa ha anche una valenza tattica prioritaria. Senza di essa la borghesia nazionale renderà sempre impossibile la liberazione nazionale dall’imperialismo, e quindi l’interruzione dello “sviluppo del sottosviluppo”.
Questa borghesia che, vivendo dei risultati di questi flussi in uscita, “non è legata allo sviluppo interno”, mentre lo è alla relazione estera.


La stessa fase di costruzione del paradigma è espressione del lavoro, sia pure con radici intellettuali parzialmente diverse, di Samir Amin negli anni sessanta, poi organizzato dal testo del 1973 “Lo sviluppo ineguale”. Qui si parte dall’analisi geografica gravitazionale di Perroux (che era il suo maestro) nella quale pur in un quadro teorico neoclassico, viene individuata la nozione di spazio come campo di forze sia centriptete che centrifughe le quali determinano attrazione e repulsione degli attori economici (qui imprese) verso alcuni luoghi anziché altri; si generano in questo modo dei “poli di crescita” dai quali si origina lo sviluppo economico in quanto sede di “attività motrici”. L’impresa motrice esercita una dominazione, sia sulle imprese connesse, sia sullo spazio regionale coinvolto, in funzione della sua capacità innovativa (letta in senso schumpeteriano), cioè, dice Perroux della forza “di imporre ai fornitori un prezzo di acquisto dei propri input inferiore ai prezzi di mercato”. Questa osservazione teorica è fatta propria e utilizzata sistematicamente da Amin, per spiegare lo sviluppo ineguale nel quale sono intrappolate le periferie del mondo.
L’idea centrale è che lo sviluppo economico non è un processo lineare nel quale spontaneamente si realizza l’allocazione ottimale delle risorse e l’interesse economico degli attori, ma un processo discontinuo e squilibrante nel quale si producono diseguaglianze, e quindi potere. Per Amin il sottosviluppo non è un “ritardo”, piuttosto una dominazione. Potenzia questa linea anche Gunnar Myrdal, con il suo concetto di “causazione circolare cumulativa”, e successivamente una linea che arriva fino a noi con autori importanti come David Harvey, Richard Peet, Massimo Quaini, Yves Lacoste, Claude Raffestin, Jean-Bernard Racine, Michael Storper.
Per Amin l’interesse superiore di un paese è sviluppare centri produttivi che possano innescare una crescita autostenuta. E questa dipende essenzialmente dalla crescita dei redditi reali per una quota maggioritaria della popolazione, in conseguenza dall’espansione della domanda interna. Gli scambi non sono di per sé (tautologicamente) equi, in realtà “lo scambio è ineguale essenzialmente perché sono ineguali le produttività (e tale ineguaglianza è legata a differenti composizioni organiche [del capitale]), e, in via accessoria, perché le differenti composizioni organiche determinano, per il tramite della perequazione del saggio di profitto, prezzi di produzione differenti dei valori in isolamento” (p.145). In questo modo attraverso gli scambi commerciali a prezzi internazionali sono mascherati trasferimenti di valore dalla periferia verso il centro.
Determina ed aggrava questa situazione l’esercizio dei monopoli, e del più assoluto di questi: quello della tecnologia. Il progresso tecnologico è, del resto, capital using ed innalza quindi la composizione organica del capitale.
In queste condizioni, allo scopo di tentare di sormontare le difficoltà di realizzazione del plusvalore, i capitali cercano di mettere in opera alla periferia quelle produzioni moderne che nei paesi del centro sono “poco redditive”. Beneficiando di bassi salari, anche rispetto alla produttività (grazie alla tecnologia) si riesce ad ottenere questo effetto. Ma i surplus sono in buona misura di nuovo estratti e trasferiti al centro sia attraverso la sottovalutazione dei prezzi, sia attraverso la reimportazione dei profitti comunque conseguiti.
Alcuni hanno tratto da questa lezione, e dall’intera scuola, l’indebita e moralistica conseguenza che sarebbero i lavoratori del centro a contribuire allo sfruttamento di quelli periferici. Per Amin non ha “alcun senso”, invece, “attribuire a ciò il significato che ‘gli operai del centro sfruttano quelli della periferia’, perché solo la proprietà del capitale permette lo sfruttamento” (p.205).  Al più sono le classi sociali dominanti che sfruttano gli uni e gli altri, o con le sue parole “la borghesia del centro, la sola che ha una dimensione mondiale, sfrutta il proletariato ovunque, al centro come alla periferia, ma sfrutta quello della periferia ancora più brutalmente”.
Ciò che distingue, in sostanza, l’economia sviluppata da quella periferica, nella visione di Amin è la densità degli scambi interni rispetto a quelli con l’esterno. Ovvero il grado di extraversione. Una economia dove prevalgano i secondi è “disarticolata”. “L’economia sottosviluppata è costituita da settori e da imprese giustapposte, scarsamente integrate fra di loro ma fortemente integrate, separatamente l’una dall’altra, in complessi il cui centro di gravità è situato nei centri capitalistici. Non esiste una vera nazione nel senso economico del termine, un mercato interno integrato.” (p.253)


Il 1973, anno del colpo di stato in Cile, è un turning point dopo il quale la fase di richiamo dei capitali messo in campo dal capitalismo americano, per difendersi dalla competizione dei paesi emergenti industrializzati, induce ad un progressivo ripensamento dell’ipotesi della “disconnessione”.
È in questo contesto di progressiva, e poi sempre più pronunciata, ritirata che si forma il paradigma del “sistema mondo”.  La “gang dei quattro” (Wallerstein, Arrighi, Amin, Frank) lavora nel contesto del Ferdinand Braudel Center a Birmingham e vede emergere progressivamente la fame di Giovanni Arrighi.
Il paradigma produce un decisivo slittamento di molti concetti già messi a punto nella fase precedente dal nazionalismo metodologico ad un globalismo nutrito dello spirito del tempo e alimentato dalla critica dell’eurocentrismo. Dalle lotte terzomondiste africane provengono Wallerstein e Arrighi, ed Hopkins, oltre ovviamente allo stesso Amin, dal contesto sudamericano Frank. L’approccio è fortemente interdisciplinare e risente anche del clima culturale connesso con post-modernismo e ‘scienze della complessità’, e postula una relazione ‘strutturale’ determinata in modo co-originario dall’evoluzione storica e sociale dei circuiti economici di scambio e produzione e dal sistema delle relazioni politiche. Ogni singola parte, ad esempio ogni situazione nazionale, dipende dalle sue relazioni con l’intero, nel quale è, in qualche modo, la ‘verità’. Durante gli anni ottanta procede la messa a punto concettuale e trova una sistemazione verso la fine con le pubblicazioni di Janet Abu-Lughod[2], e il libro di Giovanni Arrighi, Therence Hopkins e Immanuel Wallerstein “Antisystemic movements[3]. I “movimenti antisistemici” sono individuati come speranza di contrasto della logica del sistema-mondo sulla scorta di un paradigma che diventerà dominante negli anni novanta e conserva una certa vitalità ancora oggi.

Si arriva al 1989, dopo il quale Francis Fukuyama identificherà in “La fine della storia” la “teoria della dipendenza” come la dottrina centrale che “ha tenuto in vita” il marxismo negli anni sessanta e settanta, a suo parere “fornendo una coerenza intellettuale alle rivendicazioni del sud povero del mondo nei confronti del nord ricco e industrializzato”. Il legame funzionale proposto tra la povertà del sud e la ricchezza del nord è contrastato dal politologo americano tramite controesempi tratti dalle esperienze recenti: Corea del Sud negli anni cinquanta, Taiwan, Singapore, Hong Kong Singapore, Malayasa e Thailandia. Tutti paesi che sarebbero sfuggiti al sottosviluppo grazie al libero mercato ed alla connessione con i mercati di sbocco occidentali ed i relativi capitali. Si tratta di una testi parziale, molti si sono sviluppati, al contrario, grazie ad una calibrata disconnessione e una forte guida politica, altri hanno sviluppato dipendenze che hanno pagato nelle crisi della fine degli anni novanta con una lunga stagnazione.
In realtà la ‘teoria della dipendenza’ in quella forma non sopravvive alla esperienza cilena, alla crisi dei capitali (frequentemente richiamati dai centri finanziari mondiali, Usa in particolare) e dalla generale dissoluzione del paradigma marxista.

Gunder Frank, in esilio in Europa, assiste al processo di brutale ri-disciplinamento delle forze popolari tramite il potenziamento di alcuni meccanismi di interconnessione subalterna. La mobilitazione globale del capitale produttivo, che cerca ovunque “forza-lavoro” a basso costo fa transitare il modello “fordista” in quello della “accumulazione flessibile” (Harvey). Le “tigri asiatiche”, per alcuni anni modello di riferimento in una specie di staffetta che mette sotto pressione il mondo del lavoro occidentale (travolgendo con prodotti a basso costo moltissime filiere industriali consolidate, ponendo sotto rischio di delocalizzazione o esternalizzazione i settori indisponibili ad accettare la flessibilizzazione del lavoro), si sviluppano attraverso un mix di autoritarismo, investimento pubblico massiccio, sostegno ai campioni nazionali e apertura selettiva, con un modello “orientato verso l’esterno” che per molti versi è l’esatto opposto di quello immaginato dalla “teoria dello sviluppo”.
Ma a ben vedere la “teoria” non presumeva che fosse “centro” l’occidente e “periferia” l’Asia. In effetti la catena dei “centri-periferia” è funzionale, non geografica, e nuove tecnologie (come quelle implementate tra gli anni sessanta e ottanta) possono ben estenderla e renderla porosa. La dominazione è una dialettica tra classi dominanti/dominate e relativi snodi che si indentificano per la loro posizione nei flussi internazionali di risorse (capitali, merci, forza-lavoro). I centri dominanti interconnessi a quelli dominati (che possono essere contigui come dall’altra parte del mondo), e le borghesie “compradore” sono sempre un effetto della totalità.
Il nuovo assetto quindi non confuta la “teoria della dipendenza”, ma passa piuttosto dal disegno di un mondo a grandi campiture sfumate, ad un mondo a pelle di leopardo dai contorni netti. Un mondo nel quale tanti centri interconnessi sfruttano insieme delle periferie distribuite, a volte vicinissime.


Coerentemente con questo spostamento, e seguendo in qualche modo lo spirito del tempo Frank e gli altri esponenti della “scuola del sistema-mondo”, Wallerstein in primis, cercano di spostare il focus dagli stati-nazione ad una unità di analisi globale. La prospettiva più fortemente storica l’analisi si rifocalizza sul problema dell’insorgenza dell’egemonia occidentale e le sue caratteristiche. Diventa più centrale il concetto di “modo di produzione” (da cui il “conflitto modale” di Jaffe e le tassonomie di Amin) e vengono reincorporati i concetti di ‘costellazioni di centri e periferie’, ‘drenaggio del surplus’, ‘scambio ineguale’ della vecchia scuola.
L’idea dominante (dalla quale Frank e Jaffe poi si allontaneranno) è che il capitalismo è la forma moderna di una relazione totale, estesa all’intero pianeta che si espande progressivamente distruggendo i “modi di produzione” più deboli e le relative civilizzazioni. Residuano, in questa concettualizzazione, idee moderniste (incorporate profondamente anche nel marxismo) come sviluppo endogeno dell’occidente (fondato su innovazione ed industrializzazione) che si espande da dentro a fuori, e quello di modernità come discontinuità, ovvero come sviluppo e progresso.
Del resto, come sottolinea correttamente Pierluigi Fagan, resta il fatto che l’intera rete di ricerca necessaria per sviluppare così imponenti ricostruzioni, le linee di finanziamento di queste, e lo stesso pubblico, è egemonizzato in quegli anni (ed in parte ancora) dall’ambiente anglosassone e la sua intrinseca vocazione imperiale[4].
La scuola si forma al principio degli anni ottanta e resta in preparazione ed incubazione durante gli stessi, Wallerstein inizia a sistematizzarla in “Il sistema mondiale dell’economia moderna” dal 1974 (tre volumi, 1974, 1980, 1989) poi si consolida durante gli anni novanta. Uno dei primi libri che presenta una lettura su larga scala del capitalismo moderno nella chiave che poi sarà dei “sistemi-mondo” è il libro del 1971 di Samir Amin, “L’accumulazione su scala mondiale”, insieme a questo, del 1972, il libro che introduce il concetto di “scambio ineguale”: Arghiri Emmanuel, “Lo scambio ineguale”. Nel 1978 Andfre Gunder Frank pubblica una sintesi finale della sua “prima” posizione in “World accumulation 1492-1789”. Nel 1982 esce un saggio che contiene la riflessione metodologica di Terence Hopkins, “World-Systems analysis: theory and methodology”. Nel 1997 va segnalato anche di Chris Chase-Dunn, “Rise and demise: comparing World System”.
Tra le riconosciute (da Wallerstein) matrici teoriche e culturali possono essere annoverati: Karl Marx, Kondratieff, Karl Polanyi, Joseph Schumpeter, Raul Prebisch, Fernand Braudel, Franz Fanon, il dibattito Dobb-Sweezy, Ilya Prigogine, Perry Anderson, William McNeill.



Ma andiamo per gradi, nel 1994 Giovanni Arrighi pubblica “Il lungo XX secolo” nel quale viene sistematizzata un’interpretazione globale che segue le orme di Braudel (che individuava un modello di gravitazione, comune a diverse coeve concettualizzazioni degli ‘studi regionali’ e lo interseca con la sua ermeneutica delle “durate”) e di Wallerstein. Si tratta di proporre una diversa versione dei “cicli”, interpretata come fasi di contrazione ed espansione strutturalmente costanti nella storia perché attivate da una dinamica fondata sulla competizione interna al modo di produzione capitalistico. Ma il modello di Arrighi non è di natura economicista, malgrado la creativa interpretazione marxiana: il fattore decisivo è il “vantaggio posizionale”, ed è quindi di natura topologica, invece che la mera caduta del saggio di profitto per effetto delle dinamiche competitive (che pure conta). Per lui si scontrano sistematicamente una ‘tecnologia del potere’ capitalista ed una territorialista, reciprocamente estranee. Ne deriva “la costante opposizione tra la logica di potere capitalista e quella territorialista, e la periodica soluzione delle loro contraddizioni mediante la riorganizzazione dello spazio politico-economico mondiale da parte dello stato capitalistico dominante dell’epoca” (p.45).
In base alla ipotesi di Arrighi-Wallerstein, insomma, il sistema capitalistico è visto come una successione di cicli di accumulazione (ogni volta composti di una fase di espansione produttiva ed una fase terminale finanziaria) e da cicli di egemonia nei quali un “centro” si impone a molte “periferie”. Quando la fase di espansione produttiva inizia ad essere meno redditizia (perché si allenta il vantaggio monopolistico che ha all’inizio sfruttato) a causa dell’accresciuta concorrenza, allora i capitali generati vengono detenuti in forma liquida, e non più investiti in attività divenute troppo rischiose, si ha quindi una fase di espansione finanziaria che prepara il crollo. Sarà l’emergere di una nuova gerarchia, spesso dopo una fase molto turbolenta e non di rado di guerra, che determina un nuovo “centro” che riavvia il processo su basi nuove.


Nel 1999 Giovanni Arrighi, con Beverly Silver, torna sul tema in “Caos e governo del mondo”, al termine di un progetto editoriale iniziato nel 1989. Come nella sua opera maggiore il concetto chiave che organizza la ricostruzione delle dinamiche mondiali come successioni di strutture (basis) che, però, sono in una relazione di unità dialettica con le soprastrutture (uberbau). Sulla base di stimoli braudeliani per Arrighi la struttura, la base, è in un rapporto con la soprastruttura che ad essa si innerva e intreccia, quasi confondendosi, in un modo che ricorda quello tra storia ed evento. Ciò implica lo sforzo di liberarsi di ogni trascendenza residuale (a chi, come Negri, lo accusa di teleologia risponderà, come l’ultimo Marx, che sta leggendo solo ciò che è stato non ciò che dovrà essere) ed interpreta lo sviluppo dei sistemi d’ordine come successione di “egemonie” proprio nel senso di sistemi capaci di produrre un ordine e di farsi carico di produrre e distribuire beni pubblici e senso. Al loro meglio le dominazioni egemoniche olandese, inglese e americana hanno fatto questo, ma lo ha fatto anche l’Urss. Tutti questi centri hanno riorganizzato in parte per effetto della loro base di potere, ma in parte altrettanto importante (e inseparabile) per effetto della loro struttura di valori, rappresentazioni coerenti, tecniche e regole, intorno a sé porzioni decisive del mondo, rendendolo “sistema”. Cioè rendendolo capace di funzionare insieme e creare le premesse per una accumulazione che ha anche disciplinato, in qualche modo, i capitali incorporati entro le loro strutture e quelli mobili (che fin che dura l’egemonia sono limitati).
Quindi la storia che racconta Arrighi non va capita come storia del susseguirsi delle dominazioni, o del potere, ma di quel più sottile scontro per la capacità di organizzare le forze, di dargli direzione e senso, che alcune volte è emerso intorno ad un network ed una cultura. Cioè come storia delle egemonie che, quando sono state realizzate, fino a che sono durate, hanno reso parte del mondo un sistema (appunto un “sistema-mondo”).
Il modello concettuale analitico che Arrighi cerca di mettere a fuoco è piuttosto complesso: agiscono entro la “struttura egemonica” due distinte forme di leadership, quella dello Stato (che opera con “logica territorialista”) e quella dei gruppi dominanti (che operano con “logica capitalistica”). Nelle fasi di espansione del sistema, prevale la cooperazione e si approfondisce la divisione del lavoro e la specializzazione. Ma l’emulazione da parte degli Stati subalterni dotati di risorse utilizzabili del modello “vincente” della potenza egemone, se all’inizio è molla per una maggiore mobilitazione di risorse (ad esempio di maggiori investimenti) poi diventa, con il tempo, causa del prevalere del momento competitivo. A questo punto prevale una logica di corto respiro, quella che chiama “tirannia delle piccole decisioni”, e l’intensificata competizione, che rende impossibile la cooperazione, induce una crisi sistemica. I suoi segnali sono l’aumento della competizione, dei conflitti sociali (che qui sono in posizione invertita rispetto al modello negriano) e l’emergere “interstiziale” di nuove configurazioni di potere, che si candidano a rimontare una nuova egemonia.
È qui che si presenta, come effetto della sovra-accumulazione e della accresciuta competizione, la fase finanziaria. Al termine, fino ad ora, il capitalismo è stato riorganizzato sotto una nuova leadership.
Probabilmente si può vedere dall’altro lato: la finanziarizzazione, ovvero la tendenza del capitale a conservarsi in forma liquida, per essere più flessibile evitando i rischi dell’immobilizzo sotto forma di merci, termina quando un nuovo schema egemonico si afferma e, dominando menti e corpi, induce la necessaria fiducia.



Nel 1999 con “ReOrient” Gunder Frank improvvisamente rompe con le premesse eurocentriche della “scuola dei sistemi-mondo” e tutti i suoi amici della “banda”. Arriva a sostenere che un “sistema mondo” è sempre esistito, almeno da seimila anni. Da allora cicli di sviluppo e crisi, trasportati dalle linee di commercio a lungo tragitto si sono susseguiti a livello planetario (con i necessari slittamenti). Ma anche l’accumulazione di capitale come principio di organizzazione delle leadership egemoniche e la dialettica centro/periferie sarebbe una caratteristica permanente. La civiltà occidentale non ha quindi alcuna specificità, non ci sono punti dai quali sarebbe partita, non ci sono demarcazioni, non c’è un eccezionalismo. Rispetto alle differenze conta più la continuità.
Un numero monografico di “Review” vede repliche furiose di Wallerstein, Arrighi e Amin, non prive di qualche colpo basso. Il punto è molto centrale: l’esistenza stessa di qualcosa come il “capitalismo” che sia diverso e distinto da ciò che è sempre esistito, civiltà organizzate e gerarchiche che distribuiscono risorse in modo ineguale.

I vecchi amici vedranno questa svolta come una defezione, e secondo il termine usato da Wallerstein una forma di “revisionismo”.

In particolare la divergenza è massima con il suo vecchio amico Samir Amin, che prende la direzione esattamente opposta, e recupera concetti e pratiche di lotta della “teoria della dipendenza” (a partire dalla parola l’ordine della “disconnessione”), mentre Frank propone di guardare sempre alla totalità mondiale e considerare ogni sviluppo come effetto di una rete estesa a livello mondiale. Non a caso si connette con i movimenti non perché non ci sia ‘dipendenza’ (perché non ha mai cambiato idea su questo), ma perché ogni sganciamento è un’illusione.

In pratica anche per l’ultimo Frank “non c’è un possibile sistema alternativo”, ci si può solo limitare alla denuncia. Alla voce morale, si potrebbe dire, anche perché seguendo lo spirito del post-moderno imperante inizia a ritenere che anche i paesi “socialisti”, sin dal 1976 determino analoghe catene di sfruttamento centro/periferia e quindi attivino lo “sviluppo del sottosviluppo”.
Secondo la sua impostazione tutto dipende dall’economico (mentre Arrighi, ad esempio, propone una coppia potere/economia) e questo è interamente sovradeterminato da relazioni internazionali globali, allora tutto è finito. Si può solo lottare ma senza alcun progetto possibile.

Uscendo dallo spirito dei lumi era anche approdato all’eterno ritorno dell’uguale, e quindi aveva chiuso i conti con la rivoluzione.



Lo stesso anno, il 1999, esce un altro libro di Samir Amin, che va nella direzione esattamente opposta: “Oltre la mondializzazione”. Si tratta della rottura del modello “centrale” descritto nel libro del 1973, ovvero un suo restringimento ad alcune aree di dominazione intensificata, mentre si allargano le periferie interne. La dinamica diventa più plurale, nel contesto di una “legge del valore mondializzato” si trovano ora aree centrali (alcune extrovertite), aree semiperiferiche extrovertite e vere e proprie periferie. La cosiddetta mondializzazione è letta alla fine del millennio come una transizione caotica verso un avvenire sconosciuto. Ma una transizione, che, fino a quando è dominata dalla logica capitalista, comunque genera necessariamente la polarizzazione. La polarizzazione, cioè, “è una legge immanente dell’espansione mondiale del capitalismo” (ivi, p.21).
Ma rispetto alla situazione dei primi anni settanta, quando il processo pur avviato era al suo inizio, le periferie ora sono state industrializzate. In alcuni casi si sono create delle catene produttive integrate sia con il sistema mondo sia molte estese entro le regioni (che sono ascese secondo i casi al rango di semiperiferie, in alcuni casi di potenziali centri). Dunque “la polarizzazione si è spostata su altri terreni” (ivi, p.23). Sono stati registrati meccanismi di fuga dei capitali, di migrazione selettiva dei lavoratori, di nuova imposizione di monopoli, e di rinnovato (mai sospeso) controllo da parte dei centri dell’accessibilità alle risorse naturali del pianeta. Il principale monopolio è quello delle tecnologie. Si è promosso una sorta di rovesciamento: “il cuore delle periferie di domani è costituito dai paesi che svolgeranno la funzione essenziale di fornire prodotti industriali e che il ‘quarto mondo’ illustra il carattere distruttivo dell’espansione capitalistica”.
La prospettiva, come vedremo, diventa quella di tendere ad un “mondo policentrico”, ovvero nel quale sia possibile perseguire, scegliendoli secondo i propri orientamenti e bisogni, margini di autonomia. E, ovviamente, “irregimentare il mercato e metterlo a servizio di una riproduzione sociale che assicuri il massimo progresso sociale” (p. 238)


Nel 2006 Amin, dopo alcuni anni sviluppa ulteriormente questa linea di pensiero scrivendo “Per un mondo multipolare”. In questo libro la sua interpretazione del significato dell’internazionalismo socialista, visto dalla prospettiva dei paesi periferici, sviluppa la tesi (che in Italia porterà avanti Domenico Losurdo) che il superamento del capitalismo non può avvenire, come il Marx maturo e molti marxisti dogmatici pensavano al punto più avanzato (che è anche quello dove è più forte il centro di comando e dove questo dispone delle risorse estratte dalle periferie), ma in quello in cui è più debole il controllo, o dove, cosa che è spesso la stessa cosa, sono più aspre le contraddizioni. La tendenza del capitalismo a schiacciare le periferie ed estrarne il valore (nucleo della “tesi della dipendenza”) deve essere sconfitta punto a punto, per costringerlo a fare i conti con le forze popolari. Occorre fare centro su:
-        autonomia,
-        decostruzione delle relazioni di potere e dominazione,
-        disconnessione dai vincoli del capitale.

Le lotte concrete devono partire dalle condizioni locali e specifiche, nazionali, di dominazione ed essere rivolte a conquistare il potere, ma per fare una controrete (il suo modello è sempre l’accordo di Bandun dei paesi non allineati) per opporsi alla logica globale e disconnetterla. Disconnettersi ed imporre “elementi di socialismo”, ovvero elementi che obblighino il capitalismo ad adattarsi ad una logica che non gli è propria. Per arrivare ad un mondo multipolare è necessario che si arrivi ad un mondo regionalizzato, costruito alla luce delle esigenze di giustizia internazionale e di un modello non polarizzato di mondializzazione (p. 133). Ovvero a quello che chiama “un modello policentrico e pluralista” (quindi dotato di centri e periferie) ma molteplici e plurali, “della mondializzazione” (ovvero comunque aperto e interconnesso).

Infine nel 2009, ancora Amin, in “La Crisi” rivaluta ancora una volta la posizione Cinese, che, sulla linea di riflessioni coeve di Frank e di Jaffe, è giudicata ora un centro di civiltà che avrebbe potuto vincere la sfida con l’occidente ed “inventare” il capitalismo per primo (ma, ovviamente, “con caratteristiche cinesi”), sulla base di una struttura centralizzata e ben amministrata. Il “capitalismo” inventato dall’occidente è, invece, intrinsecamente imperialista e procede per “accumulazione per esproprio”, predatorio.
Questo capitalismo è “polarizzante” e impone, se si vuole uscire da una logica nella quale si può solo perdere lo sganciamento dalla “mondializzazione capitalistica”. La tesi dello “sganciamento” è quindi riaffermata, ma anche sul piano concettuale: sganciarsi dall’illuminismo, dalla società fondata sulla Ragione. Di questa potente idea, come scriverà anche Jaffe (e Frank) anche i padri del marxismo hanno fatto fatica a liberarsi. Ovvero dell’idea del socialismo come ultimo disvelamento di una Verità universale e quindi capace di far retrocedere ogni altro sapere.
L’alternativa è nel motto di Mao: ““gli Stati vogliono l’indipendenza, le nazioni la liberazione, i popoli la rivoluzione”. Costruire un progetto attraverso le lotte: dall’Afghanistan, lo Yemen del Sud, l’Iraq, il Sudan, e poi dal Nepal all’India (sono i suoi esempi).
Ma anche costruirlo nel mondo agricolo, limitando e rallentando, anche per qualche generazione, la penetrazione dell’agricoltura industrializzata del nord che mette in atto un meccanismo di drenaggio strutturale nel quale i profitti del capitale impiegato dagli agricoltori vengono intercettati dai segmenti dominanti del capitalismo industriale (la rete distributiva e di trasformazione) e finanziario (tramite il meccanismo del debito), situati necessariamente a monte (p.106).


L’ultimo testo letto di Giovanni Arrighi è il “Poscritto” a “Il lungo XX secolo”, scritto nel marzo 2009, lo stesso anno della scomparsa. In questo testo viene confermata la diagnosi secondo la quale l’espansione finanziaria (che dal 1994 al 2009 ha compiuto un notevole ciclo), è una tendenza storica del capitalismo, la “spia” del fatto che “la possibilità di continuare a trarre profitto dal reinvestimento di capitale nell’espansione materiale dell’economia-mondo ha raggiunto il limite” (LS, p.393). Se si forma al termine una nuova egemonia capita (o meglio è sempre capitato) che i capitali mobili, resi in gran quantità, repentinamente si travasano e quindi il potere cambia indirizzo. Dunque le “fasi finanziarie” sono dunque, nel loro ciclo espansione-ritiro, un essenziale momento di riorganizzazione del “regime di accumulazione”.



Si torna dalle parti dell’ultimo Gunder Frank con lo storico ed economista sudamericano Hosea Jaffe, il quale condivide con l’amico la decostruzione della funzione progressiva del capitalismo e la necessità di farla finita con ogni forma di eurocentrismo. Per Jaffe è semplicemente il colonialismo, e il saccheggio sistematico, la tratta degli schiavi, il lavoro forzato esteso a livello di interi popoli, ad aver creato le condizioni economiche, e quindi anche militari, della superiorità dell’occidente. Nessuna superiorità tecnologica, nessuna migliore istituzione, ma solo l’invenzione del capitalismo che è “antagonistico allo sviluppo umano”, ben lungi dall’essere progressivo. Scriverà nel 2008, a questo proposito “Era necessario il capitalismo?”.
Anche per Jaffe, per il quale il capitalismo ha una sua specificità, ma di saccheggio più che di maggiore efficienza, occorre agire politicamente e per la “disconnessione”. In questo è più vicino al primo Frank e ad Amin.
Il capitalismo dunque non era necessario, non forniva vantaggi e per secoli ha tenuto l’occidente in condizioni di minorità, di “arretratezza modale”. Il capitalismo diventò improvvisamente dominante in Europa, da un certo momento in poi, essenzialmente a causa del colonialismo, quando i capitalisti, altrove ‘incorporati’ nelle istituzioni “dispotiche” con le crociate, e l’accumulazione che ne derivò, iniziarono a prendere il sopravvento, processo consolidatori con l’immenso salto di scala compiuto dai conquistadores. Il colonialismo è la vera genesi del modo di produzione capitalista e ne costituisce la struttura sociale.
Né Jaffe, venendo a corpo con i testi marxiani, ammette che il capitalismo, pur arretrato e distruttivo, sia in ultima analisi necessario per fare il salto al socialismo. Marx si sbagliava, e invece di diventare cosmopolita ed interdipendente il capitalismo realmente esistente non ha fatto altro che estendere il colonialismo e tradursi in imperialismo. Come scrisse Lenin: “il capitalismo è cresciuto fino a diventare un sistema mondiale di oppressione coloniale e di strangolamento finanziario della grande maggioranza della popolazione ad opera di un pugno di paesi ‘avanzati’”.
Il socialismo poteva emergere anche direttamente in altri luoghi e punti (ad esempio dal Manifesto dei Taiping, ferocemente schiacciati dai colonialisti occidentali). Marx si fece, per Jaffe, trascinare dalla struttura filosofica della dialettica hegeliana, che di fatto poneva la storia dell’occidente al vertice di una catena di ‘negazioni della negazione’.
Facendola finita con tutti i travestimenti dello spirito dei lumi anche Jaffe ritiene, invece, con Frank, che ogni scontro modale vada giudicato per se stesso “qualsiasi cosa ciò possa significare”.
È ciò che ha significato è la borghesizzazione dei lavoratori europei, per il “dividendo coloniale”, la pseudoindustrializzazione subalterna (lo “sviluppo del sottosviluppo”) nei paesi coloniali, e la distruzione dei modi di vita insieme a buona parte delle popolazioni autoctone.

Il socialismo, dunque, è antagonista al capitalismo in un senso del tutto diverso da quello che era stato creduto, per Jaffe basta guardare alla storia:
1-     Nessuna rivoluzione socialista è mai avvenuta in un paese avanzato,
2-     Tutte sono accadute in paesi arretrati con riferimento al modo di produzione capitalista (ovvero paesi sotto gioco coloniale o semi-coloniale come la Russia),
3-     Tutte quando il capitalismo non si era ancora pienamente sviluppato.

Tutte le rivoluzioni sono guerre di difesa.

 


Fin qui la rilettura per ora compiuta: per portare avanti il progetto ci vorranno molti altri libri, ancora qualcosa di Samir Amin[5], di Giovanni Arrighi[6], ma anche almeno due cose di Wallerstein[7].
D’altra parte l’esplorazione delle premesse teoriche richiederebbe di approfondire almeno la scuola marxista americana e la critica del ‘capitalismo monopolistico’, per la linea che da Gunder Frank arriva nella sintesi degli anni novanta; quindi ancora Paul Baran[8], il famosissimo testo scritto con Paul Sweezy[9], e probabilmente qualcosa scritto con Huberman su temi geopolitici pertinenti[10], oltre ad un testo del 1978 dello stesso Frank[11].
Per comprendere meglio Samir Amin può essere invece utile approfondire la “teoria della causazione circolare e cumulativa” dell’economista e premio nobel Gunnar Myrdal[12], e anche su Hosea Jaffe varrà la pensa leggere ancora[13].

Ma intanto cosa si può concludere?

È stata una lunga storia che non è facile da sintetizzare, proverò a distinguere tra le radici intellettuali (nelle quali si intrecciano posizioni teoriche marxiste ed altre ‘keynesiane’ in competizione con ‘l’economia del benessere’ liberale) e le posizioni politiche degli autori qui focalizzati. E proverò a raccontarle per fasi.
La più remota radice specifica è la riscrittura/aggiornamento della teoria marxista operata tra gli anni dieci e venti del novecento da una serie importante di autori che tentano di tenere conto di tre cose: la crescente cartellizzazione dell’economia industriale, la finanziarizzazione e l’evoluzione del colonialismo tradizionale in “imperialismo”. Questi autori sono naturalmente Vladimir Il’cc Ul’janov detto Lenin, Roza Luksemburg e Rudolf Hilferding.

Su questa base ad una trentina di anni di distanza, passata la guerra che sotto alcuni profili ne è stata conseguenza, alcuni autori americani riprendono a riflettere sull’evoluzione del capitalismo verso la “fase monopolistica” e la stretta connessione di questa con la proiezione di potenza imperiale, con sistematica estrazione di risorse dalle periferie. Saranno l’economista marxista Paul Baran, di cui abbiamo qui letto una delle opere essenziali e ne leggeremo altre, e il suo coautore Paul Sweezy.
La riflessione che si consolida tra gli anni cinquanta e sessanta, insieme ad una linea autonoma di riflessione di matrice keynesiana o neoclassica che trova forma nella scuola sudamericana di alcuni economisti dello sviluppo (Prebisch, Furtado, Singer, Dos Santos), viene a costituire nel lavoro di Andre Gunder Frank, un economista che si era formato a Chicago, il blocco paradigmatico della “teoria della dipendenza” e la formula dello “sviluppo del sottosviluppo”. Qui siamo alla metà degli anni sessanta e la scena si svolge in Sud America.
Contemporaneamente, nutrendosi della scuola francese e di alcuni contributi di Gunnar Myrdal, un economista egiziano, Samir Amin, sviluppa una robusta critica del colonialismo occidentale a partire dall’esperienza africana. E’ il campo nel quale si forma anche la posizione esistenziale e teorica di Giovanni Arrighi e Immanuel Wallerstein. Tutti questi tentativi di costruzione paradigmatica si muovono nel movimento dei “paesi non allineati” aperto dalla Conferenza di Bandung (Frank in una prima fase guarderà, ovviamente, più all’esperienza cubana).
Un punto di rottura interviene quando il richiamo di capitali condotto da Nixon con la rottura di Bretton Woods nel 1971 e seguenti, determina condizioni di crisi in tutti i paesi ‘in via di sviluppo’ ed è occasione per una feroce repressione. Il caso paradigmatico è il colpo di stato in Cile dell’11 settembre 1973, che vede Gunder Frank (consulente del governo Allende) in primo piano.
La ristrutturazione imperialista che segue determina il trauma che farà cessare la “scuola della teoria della dipendenza” e ne farà confluire le energie in un nuovo paradigma molto meno militante, che cerca di allargare lo sguardo, nella fase ascendente della mondializzazione. Questo paradigma è egemonizzato dalla scuola di Braudel e da Immanuel Wallerstein. Prende il nome di “scuola dei sistemi-mondo” e vi confluiscono grandi intellettuali come Giovanni Arrighi, Gunder Frank, Samir Amin e appunto Immanuel Wallerstein. Per una decina di anni si lavora per cercare di impostare una lettura e ricostruzione della storia dei “cicli egemonici” in grado di dare conto delle evoluzioni in corso, in particolare dell’ulteriore salto di scala delle dinamiche di monopolio, finanziarizzazione e imperialismo. Emergerà lo schema dei cicli che viene estesa e ampliata nel tempo e nello spazio, sulla base di un enorme lavoro di analisi, fino a spiegare l’insorgenza del capitalismo e dell’egemonia occidentale come sistema di dominazione e potenziamento.

Ma nel 1999 le tensioni interne tra paradigmi di ricerca che non sono mai stati del tutto coincidenti, e probabilmente il portato di posizioni politiche ed esperienze storiche non coincidenti, portano alla rottura tra chi reputa necessario, a qualsiasi costo, farla finita con la dominazione occidentale e le sue proiezioni storiche (in primo luogo), e chi cerca di tenere fermo comunque lo spirito della rivoluzione.

Nella rottura (che abbiamo letto in particolare qui) tra Gunder Frank (e, in modo diverso, Hosea Jaffe) e gli ex amici della “banda dei quattro”, c’è una frattura profonda che attraversa l’intero campo della sinistra socialista e rivoluzionaria e che può essere letto sotto diverse chiavi.
L’idea che non lascerà mai ognuna delle evoluzioni della tradizione di ricerca e lotta politica che qui si prende in esame è che il capitalismo è un sistema internazionale globale, il quale è composto di parti interconnesse ed ognuna determinata dall’insieme e dalla sua posizione in questo. Nella prima fase la focalizzazione sarà ancora sulle “nazioni”, ma poi, in particolare nel contesto degli anni novanta e zero, questa percezione sfumerà sullo sfondo di un “sistema mondo” (con o senza trattino e con o senza plurale) che viene assunto come unica possibile unità di comprensione dei fenomeni. Ci saranno divergenze di interpretazione sulle modalità di interpretazione di questo “sistema”, ai due capi opposti ci sono Arrighi, e la sua nozione di “sistemi di egemonia”, che trascende il mero economico per illuminare, anzi, un conflitto costante tra logiche contrapposte (‘territorialiste’ e ‘capitaliste’) e riserva uno spazio alle strategie umane, sia pure ad un livello sistemico molto alto. All’altro capo Gunder Frank, che considera tutti i fattori di potere, cultura e politica, sovradeterminati dall’economico e questo fondamentalmente effetto dell’interconnessione ingovernabile.
Ci sarà anche un piano di critica culturale e di divaricazione profonda nell’analisi storica sulla linea della centralità della tecnica e del dominio storico del capitalismo e per esso dell’occidente. Sulla base della comune accentuazione del ruolo del colonialismo nello sviluppo del dominio dell’occidente, la critica viene da Frank portata alle estreme conseguenze, con abbandono per intero della logica dello sviluppo, del progresso e quindi dell’azione intenzionale finalizzata. Una posizione estrema che è condivisa da un altro pensatore e attivista rivoluzionario degli anni sessanta, come lui profondamente traumatizzato dall’estrema violenza della reazione del capitalismo ai moti di liberazione (rispettivamente in America Latina e Africa), ovvero da Hosea Jaffe anche se limitatamente alla parte destruens.
La “teoria della dipendenza” e dello “sviluppo del sottosviluppo” (o dello “sviluppo ineguale”) è alla fine scomparsa in questi schemi globali, obiettivamente disattivanti, restando ancorata all’azione solo in Samir Amin, che nell’ultima parte della sua vita recupera per questo motivi antecedenti ed assume una posizione ‘eretica’, tornando a parlare di “disconnessione” e non solo di un vago “alter mondialismo”.

Nel contesto di quegli anni, con il capitalismo anglosassone trionfante e la mondializzazione in ascesa apparentemente irresistibile, la spinta alla trasformazione del mondo e all’eliminazione delle ingiustizie e del sottosviluppo si ritrova in tutti gli altri esponenti della “scuola” in qualche modo affidata ad un deus ex machina, ma diverso:
-        per Frank è l’automovimento della storia, per essa dell’economico, che non può essere definito, ma al più accompagnato, da lotte e movimenti alla scala globale;
-        per Arrighi è la possibile vittoria di un altro egemone che, per questo, riorganizzi il sistema-mondo in modo più efficiente e inclusivo (spererà prima nel Giappone e, da ultimo, nella Cina).
La stessa ampiezza dello sguardo e l’enfasi sull’interconnessione impedisce in radice l’azione locale efficace, anche perché le ipotesi, sia ‘riformiste’ (lo sviluppo autocentrato e basato sulla domanda interna), sia ‘rivoluzionarie’ (la liquidazione delle borghesie ‘compradore’, o la disconnessione radicale) non sembrano più praticabili senza la sponda di un forte polo socialista e di un altrettanto forte polo dei “paesi non allineati”. Si sono schiantate nello stadio di Santiago del Chile o nelle periferie di Soweto.

Questa diagnosi, che è più forte in quegli esponenti più esposti, che hanno subito da vicino le perdite, deriva interamente dalle sconfitte del tempo, dai fatti di Santiago del Cile, dalla rivolta di Soweto del 1976, dall’Operazione Condor, e dai colpi di stato in Brasile (1964), repubblica Dominicana (1963), Argentina (1966 e 1976), Bolivia (1971), Uruguay (1973), El Salvador (1979), Panama (1989), Haiti (2004), Honduras (2009). Ma può essere ricordata la Guerra del Vietnam (1950-73), quella del Congo (1960-65), i fatti di Indonesia (1965), i fatti Nicaragua-Contras (1978-89), la vicenda libica (1981-89), le guerre dell’Iraq (anni ’90 e ’01), dell’Afganistan, della Jugoslavia, …
Deriva ovviamente, dopo la fine degli anni settanta, dalla debolezza e poi dissoluzione del contropotere geostrategico socialista, insieme alle speranze che, direttamente o indirettamente suscitava. E deriva anche, in qualche misura, dal clima di ritirata del paradigma marxista nel quale matura la svolta del 1999.

Lo stesso paradigma dei “sistemi-mondo” è espressione di questa ritirata, che intanto è una sorta di rifugio dietro le mura dei dipartimenti universitari (dove studiare e capire cosa era andato storto). Ed è espressione dell’assorbimento e risemantizzazione del clima del tempo della finanziarizzazione, deregolazione ed accelerazione di movimenti. Lo schema sembra avere il vantaggio di dare conto di molti fenomeni evidenti e al contempo di consentirne la critica (e di immaginarne la fine, sia pure lontana e per forze maggiori). Si è trattato di un generoso tentativo che, pur non consentendo più ricette politiche di immediata applicazione, continuava ad incorporare e tenere vivo il concetto marxiano di “modo di produzione” (che Frank già dai primi anni novanta proporrà invece di abbandonare), i concetti di “costellazione di centri e periferie”, di “drenaggio del surplus”, e quindi di “scambio ineguale”.
Il sistema, nella posizione di Arrighi-Wallerstein è alla fine visto come una successione di cicli di accumulazione (ogni volta composti di una fase di espansione produttiva ed una fase terminale finanziaria) e da cicli di egemonia nei quali un “centro” si impone a molte “periferie”. Quindi un sistema gerarchico nel quale alcune forze, organizzate in un dominus imperiale, esercitano una egemonia che potrà essere superata solo da un’altra egemonia più potente ed efficace. La storia che racconta in particolare Arrighi non va capita quindi come storia del susseguirsi delle dominazioni, o del mero potere (ad esempio militare), ma di quel più sottile scontro per l’affermazione della capacità di organizzare le forze anche altrui, quindi di dargli direzione e senso, che emerge intorno ad un network ed una cultura, organizzandosi in “modo di produzione” dominante.

I limiti di indirizzo dell’azione di questa “scuola”, e le difficoltà di far quadrare un’enorme messe di dati ed evidenze, porta alla fine ad una biforcazione:
-        da una parte si pone Samir Amin, che intende tenere ferma la possibilità, contro ogni speranza, dell’emancipazione, e quindi progressivamente si riavvicina all’azione locale “nazionale” per la “disconnessione”, facendo leva sulla rivendicazione dell’autogoverno.
-        Dall’altra si trova Gunder Frank, che abbandona ogni ipotesi di emancipazione collettiva e attenzione ad una narrazione di progresso ammettendo che “non c’è alcun sistema alternativo”, e ci si può solo limitare ad essere la voce che risuona nel deserto.

Come abbiamo detto Gunder Frank, alla fine, era uscito dallo spirito dei lumi ed era approdato all’eterno ritorno dell’uguale ed aveva chiuso i conti con la rivoluzione, Samir Amin si era rifiutato di farlo.



[1] - Qui si confronteranno nel tempo due diverse letture, quella di derivazione marxista e connessa con la linea genealogica del pensiero antimperialista otto-novecentesco, che rilegge la relazione padrone/servo in un’ottica ancora connessa con il nazionalismo metodologico, per la quale si individua una catena di principali/agenti funzionalmente connessi principalmente dalle relazioni commerciali, ovvero dagli scambi, e quella che negli anni novanta interviene a sostituirla nel contesto del successo del globalismo e del paradigma della “storia globale” (Sebastian Conrad, “Storia globale”) il paradigma del “sistema-mondo”. Lo spostamento di scala, in qualche modo debitore sia del clima post-modernista sia della infatuazione per le ‘scienze della complessità’, parte da una critica appropriata dell’eurocentrismo ma è attraversato dal rischio di tradursi in una nuova versione di filosofia della storia sul modello moderno-lineare invalso in occidente sulla scorta della rivoluzione scientifica e la sistemazione newtoniana. L’eurocentrismo cacciato dalla porta rientra dalla finestra.
[3] - Giovanni Arrighi, Therence Hopkins e Immanuel Wallerstein “Antisystemic movements”, 1989.
[4] - “Come tutti i processi al loro inizio, il movimento non è esente da contraddizioni. Partito con l’abiura dell’eurocentrismo modernista con finalità di progresso come punto di vista unico, nei fatti, l’arco di tempo storico della formazione del globale (dal XIX secolo) finisce con l’essere spesso una rilettura dell’evoluzione quasi teleologica della Modernità. Il mettere a fuoco concetti come la mobilità migratoria o l’attitudine secolare al commercio o l’inarrestabile ampliarsi del dominio moderno-capitalistico, anche volendo sottolineare la pluralità di modi nei quali lo si è interpretato nelle varie culture, può finire con il diventare una sorta di fiancheggiamento concettuale alle sorti a quel punto “inevitabili”, di sempre maggiore globalizzazione.
Altresì, per vocazione imperiale anglosassone e per l’oggettiva dominanza della lingua inglese anche nelle élite accademiche mondiali, le pratiche culturali connesse sono ancora dominate dagli occidentali. Si pone quindi un ulteriore problema di “geopolitica della conoscenza”, non esente da critiche di neo-colonialismo culturale. Va altresì notato che per ragioni di finanziamento di lunghi e complessi progetti di ricerca, frequentazioni di ambiti culturali sparsi per il mondo, vasta acquisizione di materiali, acquisizione linguistica necessaria a frequentare fonti esotiche, il lavoro dello storico globale o mondiale, è possibile laddove ci sia una rete di fondazioni ed accademie che lo supportano, fatto che riporta alla centralità anglosassone, assieme alla natura cosmopolita del potenziale pubblico dell’anglosfera a cui vendere i libri tanto quanto la ristretta cerchia della stessa comunità epistemica consumatrice di paper e riviste.”
[5] - Avrei in mente di rileggere una raccolta degli anni sessanta sulla situazione africana, “Sulla transizione”, e un testo della metà del 2000 sull’imperialismo americano, “Geopolitica dell’impero”.
[6] - Un libbricino sulla situazione del sud Italia, scritto nel 1987 per “Review”, e pubblicato in italiano con il titolo “Il capitalismo in un contesto ostile”, ed il saggio del 1988 “Verso una teoria della crisi capitalista”, insieme a “Una crisi di egemonia”, entrambi contenuti in “Dinamiche della crisi mondiale”.
[7] - Di Wallerstein “La crisi come transizione”, del 1988, e il libro “Comprendere il mondo”, 2006, e con Terence Hopkins, “L’era della transizione. Le traiettorie del sistema-mondo”, 1997.
[8] - Alcuni saggi raccolti nel 1969 come “Riflessioni sul sottoconsumo”, “Meglio meno ma meglio”, “la teoria della classe agiata”, “Progresso economico e surplus economico”.
[9] - Paul Baran, Paul Sweezy, “Il capitale monopolistico”, 1968.
[10] - Paul Sweezy, Leo Huberman, “Teoria della politica estera americana”, 1960
[11] - Gunder Frank, “Riflessioni sulla nuova crisi mondiale”, 1978
[12] - In Gunnar Myrdal, “Teoria economica e paesi sottosviluppati”, 1959.
[13] - Almeno “Progresso e nazione. Economia ed ecologia”, 1990; “Abbandonare l’imperialismo”, 2008; “Davanti al colonialismo: Engels, Marx e il marxismo”, 2007

1 commento:

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