Il
libro raccoglie i testi di alcune
conferenze di Andre Gunder Frank nel cruciale periodo 1972-77, quando la crisi
economica sistemica nella quale siamo ancora immersi si stava affacciando alla
consapevolezza della sinistra critica, estendendosi dalla sua prima forma, connessa
con la crisi energetica (che però è solo un sintomo), fino alla generalizzazione
in occidente delle politiche di austerità sostenute ovunque dai partiti
socialdemocratici e da quelli ‘eurocomunisti’. Leggeremo questo testo nel
contesto dello studio delle diverse diramazioni della “teoria della
dipendenza” (e poi dei “sistemi mondo”) che stiamo svolgendo e che
sono riassunti provvisoriamente nel post “Sviluppi
della teoria della dipendenza”.
Si
tratta comunque di una serie di testi di occasione che si collocano in una fase
decisiva: si è appena prodotto il trauma della ‘decapitazione’ della “teoria
della dipendenza”, da parte del generale Pinochet[1], e Frank, lavorando in
stretta connessione con Samir Amin, sta cercando un nuovo schema interpretativo
che successivamente si addenserà nella “teoria dei sistemi mondo”. Siamo
ancora lontani dalla crisi del 1999, quando lo stesso Frank rompe con la “banda
dei quattro” (o, meglio, con i restanti tre membri) formulando la base della
sua “teoria del sistema-mondo”[2], e Gunder Frank è
certamente ancora marxista. Per fornire ancora un qualche contesto, nel biennio
successivo a quello di queste conferenze (per lo più tenute tra il 1974 ed il
1976) si avrà la conclusione del ciclo di crescita della sinistra comunista
italiana (ormai divenuta “eurocomunista”, come vedremo) e l’offerta di “sacrifici
senza contropartite”, insieme all’esordio al centro della scena del “vincolo esterno”[3].
Ma riepiloghiamo
le posizioni a questo momento: innestandosi sul tronco della “teoria della
dipendenza” di Prebisch, Furtado, Dos Santos, ma innestandovi elementi
derivanti dalla sua solida formazione economica[4] e dalla
scuola americana di Baran e Sweezy, Gunder Frank negli anni sessanta sviluppa la
tesi che per comprendere la persistenza dei fenomeni di sottosviluppo, che interessano
l’America Latina, è necessario allargare lo sguardo e focalizzare le relazioni
economiche, commerciali e finanziarie, che connettono le élite dei paesi in una
catena funzionale alla perpetuazione dei rapporti di sfruttamento. Scriveranno nella
stessa direzione Baran e Sweezy, in “Il capitalismo monopolista”: “la
gerarchia delle nazioni che costituiscono il sistema capitalistico è
caratterizzata da una complessa serie di rapporti di sfruttamento. I paesi che
stanno al vertice sfruttano in varia misura tutti gli altri e allo stesso modo
i paesi che stanno ad un dato livello sfruttano quelli che stanno più in basso,
fino a che giungiamo all’ultimo paese che non ha nessuno da sfruttare. …
abbiamo dunque una rete di rapporti antagonistici che pongono gli sfruttatori
contro gli sfruttati e contro gli altri sfruttatori” (CM, p. 152).
Questa
è la traccia dell’intero ciclo di conferenze.
La tesi
che ne deriva, per Frank, è semplice: non è affatto la mancanza di capitalismo (ovvero
di modernità) a provocare il sottosviluppo, ma proprio la sua presenza.
La lotta per la modernizzazione, inclusa l’alleanza “nazionale” con le
borghesie, è quindi fonte di un grande equivoco nel quale tutti i movimenti “populisti”
del suo tempo stanno cadendo, e nella quale cadrà l’”eurocomunismo”. Se non si
parte da una profonda comprensione della natura dei rapporti sociali che si
dispiegano sulla verticale internazionale può sembrare infatti che una “alleanza
nazionale” sia la soluzione. Ma le classi borghesi periferiche si costituiscono
come tali proprio per il loro essere collocate in posizione utile entro il
flusso di estrazione e canalizzazione di plusprodotto (o di “surplus”, secondo
la terminologia di Baran) che struttura il sistema mondiale in tutte le fasi ed
istituisce la divisione del lavoro internazionale. Quella divisione del lavoro
che, come vedremo, è al centro della schematizzazione che Frank propone nei
primi anni settanta.
Insomma,
ogni parte si capisce solo se si guarda al tutto. Tutte le istituzioni e
tutti i rapporti economici (e quindi[5] quelli
sociali, culturali e politici) che si possono osservare nel mondo che Frank
chiama “metropolitano”, come quelle che si osservano nelle “periferie”, sono il
prodotto le une delle altre e si sviluppano tutte in una dialettica di
dipendenza e conflitto.
Il
punto è che attraverso questa reciproca interconnessione gerarchica, oggetto di
continuo scontro e fondatrice di soggettività in entrambi i poli, i paesi più
forti drenano continuamente e sistematicamente il “surplus potenziale”[6] da quelli deboli e ne determinano
così il sottosviluppo. Ma la stessa cosa avviene a livello infranazionale, non
bisogna equivocare la teoria come se l’unità minima fosse lo Stato nazionale,
la relazione attraversa tutti i soggetti, anzi li costituisce come tali e
dunque la dinamica “metropoli-periferia” si riproduce anche entro questo. Le soggettività
più vicine ed inserite nei flussi e nelle relazioni internazionali vitali sono
nella posizione di attrarre e trattenere parte del plusprodotto, e quindi si costituiscono
(a partire dalla loro posizione di intermediazione) come dominanti, quelle più
lontane, o solo produttive ma nella condizione di dover cedere il proprio
prodotto per consentirne la valorizzazione sono nella posizione dominata e non
riescono a ‘fare il loro prezzo’.
I
primi vanno più vicini al loro “potenziale”, mentre i secondi se ne allontanano.
Ma questa relazione crea dei blocchi di potere con i quali occorre confrontarsi
(attraverso la “lotta di classe”): le borghesie “compradore” nei paesi
periferici, le industrie monopolistiche che dipendono dal capitale estero e per
questa via estraggono il capitale locale, le imprese multinazionali della “metropoli”,
tutte le classi dirigenti asservite.
La
questione è centrale e dirimente: tutte queste forze, interconnesse in un
blocco, sono “parte interdipendente di una totalità”, e quindi sono nel loro
insieme l’espressione necessaria di un modo di produzione che è
necessariamente allargato alla scala mondiale, e che solo a questa scala può
essere compreso.
Questa
è, in altre parole, la forma attraverso la quale avviene l’accumulazione del
capitale, e questa è necessariamente ed essenzialmente “ineguale”. Si tratta
della specifica ragione per la quale nessuna posizione interclassista e nazionalista
può avere successo nel superamento del sottosviluppo.
Già
negli anni sessanta, quindi, per Frank il “nemico immediato”, in base a
questa analisi era da identificarsi, in ogni paese periferico, nella propria
borghesia nazionale (nella misura in cui questa si alimentava delle relazioni
esterne di dipendenza), anche se il “nemico strategico” restava la
struttura imperialista. Bisogna fare attenzione: l’obiettivo è di liberarsi
della relazione imperialista, ma questa è astratta, se non viene compresa nel
suo concreto funzionamento, e quindi si può combattere solo depotenziando
la forza del nemico immediato. La lotta antimperialista (la lotta per l’indipendenza
nazionale) ha quindi in effetti una coincidenza strategica con la lotta di
classe, ma deve passare attraverso questa[7]. Nessuna scorciatoia è
possibile, Pinochet da ultimo lo ha dimostrato[8].
Ma
veniamo al testo: le conferenze cadono tra il 1972, quando
la crisi di accumulazione appena si intravedeva e il 1973 (la seconda), quando
si avvia la crisi delle materie prime; poi il 1974/5 con una evidenza ormai
molto forte del suo carattere strutturale, e, infine, nel 1976, quando si
affacciano prepotentemente in tutto l’occidente “metropolitano” le politiche di
austerità che coinvolgeranno profondamente le sinistre socialdemocratiche e
comuniste occidentali determinandone nel tempo una sorta di “mutazione genetica”.
Nell’ultimo testo Frank attaccherà infatti direttamente l’”eurocomunismo”, con
particolare riferimento al caso spagnolo ma anche a quello italiano.
Nel
1974 cade anche una interessante conversazione con Samir Amin.
“Riflessioni
sulla crisi economica mondiale”, 1972.
Il
primo testo del 1972, “Riflessioni sulla crisi economica mondiale”, una
conferenza a Roma tenutasi l’anno prima del colpo di stato in Cile, si apre con
un fulminante esergo: “la dipendenza e morta, viva la dipendenza e la lotta
di classe!”. In esso è chiaramente identificato l’avvio di una “nuova crisi
del sistema di accumulazione del capitale nel campo imperialista”, ovvero,
secondo il punto di vista teorico di Frank, di una crisi generale e determinata
della divisione internazionale del lavoro e del complessivo sistema di flussi
estrattivi e soggettività politico-sociali ad essi connesse. Una crisi che
viene subito messa in relazione con le principali crisi-trasformazioni del
capitalismo: quella del 1870, dalla quale si uscì promuovendo l’imperialismo e
quindi il supersfruttamento del proletariato mondiale periferico, ed in
particolare delle materie prime; quella del 1914-45 nel quale tra fiumi di
sangue questo si riorganizza attraverso un salto di scala industriale e l’estensione
dei monopoli (di stato e non).
Già
in questa data l’autore sospetta che anche in quella aperta negli ultimi anni
sessanta e ormai conclamata possa essere all’opera un “momento strutturale” che
si manifesta attraverso un netto calo della produzione, dei profitti e degli
investimenti. Un calo che non può che comportare come conseguenza necessaria
una rinnovata lotta per i mercati (nei due esempi precedenti con conseguenze tragiche),
ovvero la “resurrezione o il rafforzamento di grandi blocchi economici”. Ma intravede
anche una dinamica di segmentazione in corso che si manifesta in un nuovo
livello intermedio tra le “metropoli” consolidate (Usa ed Europa, con il
Giappone già emerso) e le “periferie”: lo sviluppo di un “subimperialismo”,
il cui primo esempio è il Brasile, ma anche il Sudafrica e nel medio oriente l’Iran.
Nell’estremo l’India.
Completa
la prima mappa della divisione internazionale del lavoro (determinante nel
modello analitico frankiano) il ruolo dei paesi socialisti, dei quali registra
una sempre maggiore interconnessione e il segnale di una posizione “subimperialista”
connessa nella catena di trasmissione del capitalismo mondiale grazie ad un
sempre maggiore surplus verso i paesi sottosviluppati. I paesi socialisti,
insomma, esportano materie prime verso i paesi capitalisti “metropolitani” e
importano da questi prodotti industriali e tecnologie, quindi trovano un equilibrio
esportando prodotti manufatturati verso i paesi sottosviluppati dai quali importano
diverse materie prime.
Ma
la crisi nei paesi “imperialisti”, per come sta iniziando a manifestarsi, ha
come conseguenza la crescente mobilitazione (che, però, sarà sconfitta[9]) della classe operaia per
sottrarsi alla riduzione del loro tenore di vita. Ovvero allo scarico su di
essa delle tensioni di valorizzazione prodotte dallo spostamento della
divisione internazionale del lavoro e dall’obsolescenza delle tecnologie
(ovvero dei settori) traino. Questa mobilitazione è contrastata e gestita dalle
gestioni socialdemocratiche nei paesi imperialisti e da forme di governo
neofasciste in quelli “subimperialisti”. In entrambi i casi per riprendere l’estrazione
di plusprodotto contenendo il costo del lavoro. Questa tesi sarà
progressivamente affinata nelle diverse conferenze arrivando a formulare una
semplice e potente “legge di movimento” della crisi che oggi è decisamente
confermata dai fatti.
Davanti
a questa crisi, che i paesi “imperialisti” cercano di far pagare alle periferie
(interne ed esterne), con il sostegno dei paesi “subimperialisti”, che fungono
nello schema da centri d’ordine regionali, dice Frank “la teoria della
dipendenza, nella forma in cui si è sviluppata negli anni sessanta, non sembra
affatto adeguata. In verità questa teoria è assolutamente inadeguata per affrontare
la nuova crisi del processo di accumulazione del capitale, crisi che esige una
nuova analisi di quel processo” (p.20). Si rende necessario uno studio su base
diversa della struttura di classe e della sua dinamica in ciascun paese.
Ma
non bisogna equivocare: “benché la teoria della dipendenza sia morta, in
realtà essa vive, perché è fuori questione sostituirla con una teoria e
ideologia che neghino la dipendenza, ma solo, al contrario, con una teoria che
ne superi i limiti integrandola in una analisi più vasta”. Quella analisi alla
quale, appunto, lavorerà nei venti anni successivi.
“Ipotesi
sulla crisi mondiale e l’America Latina”, 1973
Nella
conferenza successiva, “Ipotesi sulla crisi mondiale e l’America Latina”,
pronunciata nel 1973, scritta nel 1974 e pubblicato a Città del Messico, viene
confermata una grande crisi di accumulazione che ha preso le mosse almeno dal
1967. Una crisi che si inserisce nella strutturale “ineguaglianza dello
sviluppo capitalistico temporale (ciclica), spaziale (‘sviluppo
del sottosviluppo’) e settoriale” manifestandosi come stagnazione mista
ad inflazione, crisi monetaria, mutamenti politici internazionali.
Il
suo motore e sintomo è la crescente rarefazione delle principali possibilità di
investimento e la riduzione conseguente del saggio di profitto, quindi l’accentuazione
della concorrenza e della lotta di classe.
La
divisione internazionale del lavoro si sta in quegli anni riarticolando intorno
ai tradizionali paesi “metropolitani”, che devono ristrutturare le proprie
economie produttive, possibilmente facendo pagare il prezzo dei “sacrifici”
alle classi lavoratrici interne ed esterne, e intorno ad una nuova gerarchia
emergente di paesi “subimperialisti” e “clienti”. I modelli sono Brasile e Cile
(del secondo e terzo, rispettivamente). Sono le economie che nella fase di
crescita precedente (1945-67) hanno raggiunto un qualche livello di sviluppo delle
proprie forze produttive (India, Sudafrica, Brasile, Messico, Argentina) e alcune
emergenti (come l’Iran e forse l’Egitto) che ora hanno lo spazio per costruire
un’alleanza delle loro borghesie con quelle imperialiste e con alcuni segmenti
delle proprie classi medie. Si tratta però dell’avvio di un equilibrio del
tutto nuovo, fondato su tecnologie diverse (le principali sono la coppia di
gemelli siamesi informatica e finanza), per cui “è probabile che lo sviluppo
capitalistico avvenire sarà basato sempre più sull’accumulazione nei settori di
beni capitale e nell’industria di esportazione, la cui produzione sarà
acquistata dal mercato estero, dall’industria interna, dai gruppi a reddito
elevato, e soprattutto dallo Stato e dal suo apparato militare” (p.32). Un simile
schema di sviluppo è del tutto diverso da quello del ‘trentennio’ (che
ha visto lo sviluppo in particolare delle industrie di beni di consumo
sostitutive delle importazioni, quindi l’estensione del mercato interno, la
distribuzione progressiva del reddito, e regimi populisti relativamente
progressisti): implica al contrario un regresso, disoccupazione e politiche di
bassi salari, quindi irreggimentazione crescente della popolazione e regimi
reazionari che uniscono politica interna repressiva a politica estera militarista
ed espansionista.
I
paesi deboli avranno poche scelte, in questa congiuntura: “è probabile che con
questa crisi del capitalismo essi faranno subire a larghi settori della loro
popolazione un intensificato supersfruttamento e una repressione politica lungo
le linee fissate dal ‘modello cileno’ successivo al settembre 1973”.
I
costi umani del riaggiustamento del sistema saranno, insomma, enormi.
“Crisi
economica, terzo mondo e 1984”, 1974
Nella
conferenza tenuta a Toronto nel 1974, “Crisi economica, terzo mondo e 1984”,
Gunder Frank fa ancora un passo avanti nell’analisi: la crisi è sicuramente
strutturale e vede le industrie di punta dell’occidente metropolitano perdere
la leadership, e quindi profitti, in favore di altre parti del mondo (ad
esempio in quegli anni l’Iran si afferma come centro “subimperialista” di
produzione di acciai e raffinazione). In conseguenza si cercano nuovi settori
(come l’energia oggetto in quegli anni di enormi progetti di investimenti
pubblici).
Confermando
l’analisi compiuta nella conferenza di Città del Messico, Frank vede economie a
bassi salari periferiche, sempre più dipendenti e autoritarie, ed economie “intermedie”
che non sono più molto interessate ai propri mercati interni, potendo esportare
nella fase di espansione dei “beni capitale” in corso (quella che oggi
chiamiamo “finanziarizzazione”[10] e che parte in quegli
anni, anche se accelera e di molto un decennio abbondante dopo) e di estensione
degli scambi.
La
conseguenza politica di questa nuova divisione internazionale del lavoro è che “non
ci sarà un ritorno al populismo perché il capitale non ha più bisogno dell’industria
dei beni di consumo destinati al mercato interno”.
Ma
anche il mondo socialista è connesso con questo sviluppo, Frank parla qui di “socialimperialismo”
del tutto inserito nella divisione internazionale del lavoro.
Come
funzionerà?
Molto
semplicemente:
1- Saranno
introdotte nuove tecnologie, che saranno appannaggio del centro “metropolitano”;
2- I
beni ad alta intensità di forza lavoro saranno prodotti nei paesi periferici (o
“subimperiali”) a bassi salari, e questo anche per ragioni politiche di contrasto
della lotta di classe;
3- Saranno
richieste alleanze alle forze socialista, “sul modello del compromesso storico
del Pci” (p.56);
Alla
Università Cattolica di Tilburg in Olando, il 26 ottobre 1976, la prossima
conferenza, “Crisi mondiale e sottosviluppo”, affronta nuovamente questi
temi e ritorna sul passaggio dalla “sostituzione delle importazioni”
alla “sostituzione delle esportazioni”. La questione è che le due funzionano
esattamente all’opposto: i produttori non sono più anche consumatori e quindi
il capitale non è più interessato al loro reddito (p.77). Non è necessaria una
domanda effettiva perché la produzione è semplicemente rivolta ad una domanda
che è altrove.
In
altre parole: “la sostituzione delle esportazioni abolisce la base economica
dell’alleanza tra il capitalismo locale, la classe operaia e i sindacati” (ovvero
revoca il “compromesso keynesiano”). Si afferma, al contrario, una politica di
recessione deliberata che è esattamente preordinata a produrre disoccupazione e
per questa via rendere evidente che sono necessari “sacrifici”. Le misure di austerità
nel centro “metropolitano” (e la pura e semplice repressione “cilena” nelle
periferie) sono ordinate all’aumento dello sfruttamento e quindi al recupero
dei margini di profitto persi.
Si
affermeranno, allora, regimi “costruiti sulla collaborazione istituzionale tra
il capitale locale, lo Stato militare, le multinazionali ed evidentemente il
governo con il quale sono allineate, quello degli Stati Uniti” (p.79). Ma
questi regimi avranno bisogno di nuove forme politiche, una nuova ideologia per
sostituire quella della american way of life e della crescita.
Insomma,
entro la crisi economica strutturale in corso è contenuta una “crisi
ideologica grave” che obbligherà il capitalismo a trovare un’alternativa
ideologica che legittimi il suo dominio e le drastiche misure di austerità che
impone ai lavoratori.
La
troverà nel neoliberalismo[11].
“Imperialismo,
crisi e supersfruttamento nel terzo mondo”, 1977
Nel
1977 all’Università di Barcellona viene pronunciata la conferenza “Imperialismo,
crisi e supersfruttamento nel terzo mondo”, nella quale ribadisce la sua
profonda convinzione che alla radice di ogni mutamento politico sia una trasformazione
nella divisione internazionale del lavoro che vede emergere paesi “intermedi”,
o “semi-periferici” (o, come detto, “subimperiali”) i quali riescono ad esportare
anche prodotti dell’industria pesante, inclusi armamenti avanzati. Rispetto a pochi
anni prima l’elenco si è allungato, ne fanno parte insieme a Brasile ed Iran,
India, Messico, anche la Corea del Sud e Taiwan.
Ma
il meccanismo messo in evidenza è il medesimo, la “sostituzione delle esportazioni”
serve a disciplinare la classe operaia nelle “metropoli” attraverso l’imposizione
della “austerità”, ed a accrescere il saggio di sfruttamento, con ogni mezzo
brutale possibile, nei paesi ‘periferici’ o ‘semi-periferici’. Il mezzo è la
crisi della bilancia dei pagamenti che giustifica, appunto, la proiezione alle
esportazioni e questa la compressione salariale. A sua volta la crisi della bilancia
dei pagamenti, e la crisi fiscale, saranno tra i fattori che promuoveranno il
riciclo delle eccedenze (senza passare per i consumi) che diventerà nel tempo
il sistema d’ordine centrale del nuovo modello sociale e geopolitico fondato
sulla finanza e l’economia del debito.
Si
tratta di una politica e di un equilibrio internazionale che non richiede una domanda
effettiva, “l’unica cosa che conta diventa allora il costo di produzione;
bisogna evidentemente che esso sia più basso possibile. I paesi sottosviluppati
gareggiano tra di loro per ridurre al massimo questo costo., allo scopo di essere
più competitivi. Ciò dà luogo ad una politica di riduzione dei salari e di
aumento dello sfruttamento, cioè di supersfruttamento, difeso da un’alleanza
politica diversa dalla precedente: un settore della borghesia monopolistica integrata
al capitale internazionale produce sempre di più per il mercato estero, senza
sviluppo di un capitale che lavori per il mercato interno (quando non è
addirittura eliminato come in Cile), produzione fondata sul supersfruttamento
del lavoro. Non v’è dunque la base economica per il tipo di alleanze prevalente
quando si applicava la politica di sostituzione delle importazioni; bisogna al
contrario opprimere la classe operaia e perfino una frazione della borghesia”
(p.104).
È
questa la base economica, opportunamente mascherata dalla necessaria ideologia,
che chiama al sacrificio per il bene della nazione, e crea le condizioni per
regimi sempre più repressivi.
Conversazione
con Samir Amin, 1974
Il
libro di Gunder Frank prosegue facendo un piccolo passo indietro e riportando
una conversazione con Samir Amin che cade nel 1974. In questa i due amici
concordano che ci si trovi davanti ad una crisi di accumulazione, anche se
divergono leggermente sulla componente storica. Mentre Frank dubita che questa
crisi segnali l’esaurimento della funzione storica del capitalismo (quella che
Arrighi chiamerà una ventina di anni dopo una “crisi spia”[12]) Amin è più incline a
ritenerlo possibile. Il movimento di estensione alle aree periferiche ed anche
a quelle del cosiddetto “mondo socialista” è una “strategia ‘naturale’ del
sistema” per Frank. Resta il consenso sulla forma di caduta del saggio di
profitto e la natura sistemica della crisi. Una crisi il cui superamento
richiederà una nuova “base tecnologica”. Ovvero (Amin): “modificazioni nei
rapporti intersettoriali e, quindi, anche tra le diverse potenze capitalistiche,
cioè una modifica nella divisione internazionale del lavoro e nelle alleanze
sociali interne che oggi le corrispondono” (p.116). Un cambiamento che si avrà
con l’insieme di informatizzazione, finanziarizzazione, reti lunghe,
deregolazione e riassetto fiscale (“austerità”)[13].
Qualcosa
che risolva i problemi cumulati determinati dalla stessa soluzione che fu
trovata nella fase 1945-67: la crescita del consumo “improduttivo” (ovvero dei
servizi) e quindi di una “area di parassitismo” ed insieme il progressivo
restringimento della base sociale.
Dalla
crisi si può uscire sulla base delle seguenti ipotesi di modello:
1- Il
modello “1984-1”. Si avrà un trasferimento nella “periferia”
della base produttiva ed al “centro” si affermeranno nuovi settori-guida imperniati
sul monopolio della tecnica. Si creerà anche lo spazio per il “subimperialismo”
di paesi intermedi, e un rovesciamento completo del meccanismo. Al centro si
avrà una sensibile riduzione della occupazione produttiva e forme di
trasferimento “coloniali” sempre più massive. In tutti i luoghi si creeranno
delle enclave proletarizzate (“anche sotto forma di lavoratori emigrati”) e forme
di apartheid, “la creazione di nuovi schiavi del sistema”, un razzismo
generalizzato e una fortissima gerarchizzazione sociale e politica. Chiaramente
il “parassitismo” delle aree avanzate (ottenuto poi di fatto come abbiamo visto
attraverso la finanziarizzazione e l’economia del debito) sarebbe alimentato, o
soddisfatto, dalle produzioni a basso costo dei paesi “subimperiali” e “periferici”,
ovvero della produzione industriale della periferia. Appunto, una “specie di
rovesciamento del meccanismo”. Chiaramente l’anello debole, in questo
meccanismo infernale, sarebbe quello intermedio e le industrie per il mercato
interno (e relativi ceti sociali di riferimento).
2- 1984-2.
Il secondo modello sarebbe invece l’estremizzazione di quello vigente (all’epoca),
ovvero l’esasperazione della concentrazione nella “metropoli”, ma prevedrebbe
un regime di repressione sociale totale per recuperare i margini di
profittabilità (senza il ricatto delle delocalizzazioni) e notevole durezza
nella fase di ristrutturazione. Questo modello richiederebbe venti anni e la
ripetizione del drammatico periodo 1914-45.
3- 1984-3.
Il terzo è intermedio, una concentrazione al centro con alcune briciole alla
periferia e la stabilizzazione di alcuni minisubimperialismi.
“Eurocomunismo”,
1977
Dopo
questo notevolissimo esercizio di previsione (siamo decisamente nel modello
1984-1), Frank passa a commentare un libro del 1977 di un dirigente del Partito
Comunista spagnolo, Fernando Claudìn “Eurocomunismo y socialismo”[14], concordando sulla tesi
che questo è, in sostanza, una risposta richiesta dalla crisi del capitalismo
mondiale insieme alle politiche di austerità. Questa posizione si muove nel
contesto del dominio monopolista e del “compromesso storico imperiale” tra Usa
e Urss contro la possibilità di una rivoluzione socialista nelle aree di influenza
del primo.
I
difetti dei Partiti euro-comunisti (in Spagna, Francia e Italia) sono quindi i
seguenti:
1- Mancano
di una politica internazionale all’altezza del carattere internazionale della
problematica economica e politica contemporanea (a chi scrive);
2- Propongono
una politica antimonopolistica che, però non è anticapitalista e quindi
sterile;
3- La
politica riformista con il conseguente appoggio ai piani di austerità (citato
quello ad Andreotti, o il Patto della Moncloa) consolida i regimi borghesi
sulla base della valutazione che questi siano “il male minore di fronte al
pericolo fascista”. Ma in questo modo si finisce per aiutare il capitalismo a
superare il periodo di crisi economica e politica.
4- La
lunga durata sperata dalla direzione dei movimenti eurocomunisti si traduce in
una sorta di “transizione alla transizione” (sotto forma di stabilizzazione
democratica) che ricorda la perdente strategia del Partico Comunista Cileno di
Corvalan durante la Unidad Popolar. Il sinistro esempio indica che in questo
modo si dà tempo alla “controrivoluzione di mobilitarsi ed organizzarsi” e di
rifluire verso destra.
5- Di
fatto i partiti comunisti, sulla base di questa agenda di “stabilizzazione” si
fanno carico di fare il lavoro della destra borghese e di frenare le lotte sindacali
e popolari, anche di combatterle (come in Italia, Spagna e Francia), persino
appoggiandosi alle forze dei corpi repressivi dello Stato.
6- Ovvero
“invece di mobilitarle e organizzarle, disarmano la classe operaia e le altre
forze popolari di fronte alla questione principale del potere, quando questa si
presenterà nell’ora della verità” (p.138).
Tutto
ciò è accentuato dalla mancanza di democrazia interna nella direzione dei
Partiti eurocomunisti e dalla ritrosia (che sarà superata ma in direzione opposta)
a rompere il cordone con l’Urss.
La
critica al testo di Claudin, che potrebbe essere riprodotta identicamente per
le famose conferenze di Giovanni Berlinguer del 1977 sulla “austerità”[15], è che da politiche che
comportano sacrifici per le masse non si può derivare in alcun modo un “ampliarsi
e approfondirsi della democrazia”. Il nostro, pur vedendo la funzione di stabilizzazione
della crisi capitalistica di accumulazione, e quindi il segno di classe, delle
politiche di “austerità”, infatti sperava di riuscire a produrre comunque una “uscita
da sinistra”. Ovvero una “uscita dalla crisi mediante politiche che, anche implicando
sacrifici per le masse, introducano modifiche profonde nelle strutture economiche
e sociali in maniera che comincino a fondarsi le premesse della transizione
socialista. l’opzione in questo secondo senso esigerà necessariamente l’ampliarsi
e l’approfondirsi della democrazia” (Claudin, cit, p.140).
Ma
la più probabile evoluzione sarà che le politiche di austerità, una volta impiantate,
siano estese da politiche di ultra-austerità producendo una società
autoritaria.
Gunder
Frank individua, sulla base non di facoltà profetiche, ma di una corretta
analisi delle dinamiche di movimento strutturali, quello che sarà l’esito reale
dell’adesione del eurocomunismo alle necessità della ristrutturazione
capitalista: l’estensione progressiva ed allargamento della austerità,
in una dinamica autorafforzante di competizione reciproca allargata alla scala
mondiale, con la necessità interna di depotenziamento e non rafforzamento delle
soggettività politiche e quindi della democrazia. E quindi l’insorgere di ideologie
di copertura tecnocratiche (e di una infrastruttura istituzionale) specificamente
finalizzate a neutralizzare la possibilità di una risposta.
Questa
estensione è stata inoltre favorita dalla mancanza di dialettica politica anche
entro le organizzazioni di classe.
In
definitiva tutto parla contro la soluzione eurocomunista, meno la speranza, o
meglio l’utopia e la fede. Quello a cui militanti disperati e generosi come Claudin
si aggrapparono in quegli anni difficili.
Conclusioni
Il
libro raccolto da Andre Gunder Frank, in prima edizione francese, ripercorre
alcune conferenze che hanno avuto luogo tra il 1972 ed il 1976 e che trattano
della prima concettualizzazione della crisi da accumulazione che conclude il
ciclo di crescita inaugurato con il secondo dopoguerra e giunto in crisi nella
seconda metà degli anni sessanta. Muovendo dalla consapevolezza della “morte”
della “teoria della dipendenza” (ovvero della strategia della “sostituzione
delle importazioni” e del modulo politico di alleanza populista e nazionale
che la sosteneva) Frank produce una chiara schematizzazione delle ragioni non già
della cessazione della dipendenza, quanto, della forma nella quale si sta
presentando sotto la spinta della crisi degli investimenti e del saggio di
profitto.
Conduce
questa analisi sino a criticare l’accettazione da parte delle forze
socialdemocratiche, e di quelle “eurocomuniste”, della via di fuga che il
capitalismo sta prendendo, nella riarticolazione delle catene di sfruttamento,
intorno ad anelli intermedi, che fanno a meno di coltivare la domanda,
disgiungendola dalla produzione e quindi ponendo le condizioni per il recupero
del saggio di profitto attraverso l’intensificazione del saggio di sfruttamento.
Nelle ultime conferenze si delinea un modello tendenziale, chiamato “1984-1”,
nel quale si addiviene alla “sostituzione delle esportazioni” e quindi
ad un modello di divisione internazionale del lavoro direttamente opposto al
precedente. Seguendo il principio che ogni parte si comprende solo se si guarda
al tutto, nello schema di Frank ogni attore trova la sua posizione dal sistema di
relazioni complessivo che si istituisce in un modo di produzione
necessariamente allargato a scala mondiale e solo a questa comprensibile.
La
prima conferenza si apre con l’esergo: “la dipendenza e morta, viva la
dipendenza e la lotta di classe!”. Lo è non perché non ci sia più dipendenza,
che anzi si accentua, ma perché si restringono gli spazi di manovra e quindi resta
solo la lotta di classe, unica possibilità per non essere costretti ad
accettare il ruolo di vittima nella tragedia che si presenta.
La
creazione di nuove gerarchie, con livelli intermedi di ordine capaci di
produrre e vendere beni manifatturati anche complessi e quindi di attrarre su
di sé i capitali e depotenziare i simmetrici centri industriali “metropolitani”
(a danno della forza della classe lavoratrice, messa in concorrenza verso l’esterno
e verso l’interno), produce tensioni che possono essere contrastate solo con il
rafforzamento della lotta di classe e che, invece, la borghesia propone di
trattare con l’acquiescenza e l’austerità. Una soluzione che sarà sposata dalla
sinistra, determinandone il declino progressivo.
Questa
ristrutturazione, che si dispiega negli anni successivi alle conferenze e dunque
può essere solo intravista nella sua dinamica di movimento, ma non nei
dettagli, produrrà un equilibrio del tutto nuovo, fondato su diverse tecnologie
(i gemelli siamesi della informatica e della finanza) e su una diversa e per
certi versi opposta divisione del lavoro: i paesi “metropolitani”
controlleranno le tecnologie fondamentali, ma delegheranno la produzione ai
paesi “subimperialisti” e “periferici” (secondo il tipo) nei quali strutture
più autoritarie garantiranno un maggiore saggio di sfruttamento e quindi il
recupero dei margini di profitto. Questi, senza cadere nell’economia locale, né
al centro come in periferia, andranno ad alimentare il circuito di ricircolo
della finanza e al più l’economia del debito (pubblico e privato). L’accumulazione,
nei termini di Frank, sarà garantita dai settori dei beni capitale e delle industrie
di esportazione, quella quota di domanda necessaria a sostenere i profitti sarà
sostenuta dalla crescente espansione della finanza e delle sue piramidi di
debito (anziché pagare il lavoro, perché si consumi acquistando i prodotti di importazione,
è meglio vendere credito, ovvero vendere due volte). Come mostra bene Wolfgang Streeck[16] si è trattato di “comprare
tempo” per un quarantennio.
La
rottura dello schema della “sostituzione delle importazioni” (ovvero, in
altri termini, dell’alleanza e cooptazione delle classi lavoratrici, almeno in
parte, per sostenere la domanda interna che tiene in movimento il ciclo di
valorizzazione), e la sua sostituzione, in seguito ad una crisi di profitti e
quindi di investimenti, con lo schema della “sostituzione delle esportazioni”
produce come conseguenza politica che dei produttori non c’è più bisogno nella
qualità di consumatori e lo sfruttamento (i “sacrifici”) può crescere
impunemente. Cade la base economica del “compromesso keynesiano” (che “compromesso”
fu sempre poco, ma cade la base di forza della parte popolare) e si afferma una
politica di “recessione deliberata” e di deliberata crescita della
disoccupazione.
Si
rende anche necessaria una nuova ideologia che si presenterà a partire dalla “rivoluzione
reaganiana” (e thatcheriana) come neo-liberalesimo nelle sue diverse forme.
Gli
elementi della nuova base tecnologica sono dunque: informatizzazione, finanziarizzazione,
reti lunghe, deregolazione e austerità (riassetto fiscale). Essenzialmente messa
in contatto delle ‘periferie’ e ‘semi-periferie’ con il ‘centro’ dominante al
fine della codificazione, normalizzazione, trasmissione ed accumulazione del
valore in forma astratta.
È
il modello “1984-1” ipotizzato nel 1974 da Samir Amin e Gunder Frank
Non
averlo compreso per tempo, per le forze che si riferivano a “l’eurocomunismo”,
ha comportato la cieca adesione alle esigenze della ristrutturazione
capitalistica e l’estensione, progressiva come necessaria, della logica della “austerità”
in una irresistibile e drammatica competizione sempre più feroce alla scala mondiale.
Questo meccanismo della “sostituzione delle esportazioni” ha comportato
la necessità non solo dei “sacrifici” unilaterali e senza contropartite, quanto
anche il depotenziamento della democrazia e delle soggettività politiche, e ha
fatto precipitare quindi il mondo “metropolitano” (ovvero occidentale) nell’antipolitica[17] conducendo, da ultimo, a
quello che appare come “la fine della sinistra”[18].
Una
fine che viene da lontano.
[1] - L’11 settembre 1973 il capo
delle forze armate cilene, generale Augusto Pinochet, compie un brutale colpo
di stato contro il governo eletto del paese, di orientamento socialista, retto
dal Presidente Salvator Allende, che morirà nell’assedio del suo palazzo. Andre
Gunder Frank aveva speso i suoi servizi per il governo Allende e lo sostenne
fino alla fine, anche se con qualche riserva che è ben visibile nel testo, sia
pure in controluce. In particolare con la riserva di un certo “interclassismo”
e di una eccessiva speranza nella strategia della “sostituzione delle
importazioni”, per la quale mancavano sia le condizioni materiali, sia quelle
sociali e politiche. La “teoria della dipendenza”, nell’accezione del “desarrolismo”
di Prebisch, e dei tentativi ‘populisti’ degli anni sessanta, era infatti per
Frank già “morta” prima del colpo di stato (la prima conferenza è del 1972 e si
apre con “la dipendenza è morta, viva la dipendenza e la lotta di classe!”),
proprio sulla base della sua tesi dello “sviluppo del sottosviluppo”, messa a
punto nel finire degli anni sessanta. Il colpo di stato la suggella soltanto.
[2] - Come abbiamo
visto, nel 1999 Gunder Frank pubblica il libro “ReOrient” nel quale
propone di considerare un unico “sistema-mondo” sin dagli ultimi cinquemila
anni, di fatto dissolvendo ogni specificità del capitalismo e la centralità
dell’occidente. Le reazioni dei suoi vecchi amici saranno furiose.
[4] - L’autore è in possesso di un
dottorato in economia conseguito a Chicago sotto la guida di Milton Friedman.
[5] - Una delle questioni che emergerà,
come differenza cruciale, nella rottura del fine secolo è che per Frank è l’economico
a determinare il politico ed il sociale. In questo è più marxista dei suoi
compagni.
[6] - Termine al centro della teoria
di Paul Baran, come abbiamo visto nella lettura di “Il
surplus economico”, 1957.
[7] - Si veda, per una discussione che
ha elementi in comune con questa, pur senza essere affatto coincidente, la
sequenza di post: “Discussioni
sull’Italia: lotta nazionale o lotta di classe?”, e il commento “Antonio
Gramsci, ‘Notarelle sul Machiavelli’”.
[8] - Ci sarà anche chi trarrà dalla tragica
esperienza cilena la conclusione esattamente opposta, ma fondandola su una
analisi del tutto diversa. Ci torneremo.
[9] - In Italia nel biennio 1976-78, e
negli anni immediatamente seguenti. Si veda, ad esempio, questo post sulla lotta
di classe alla Fiat, “Le
lotte operaie alla Fiat negli anni settanta: il lavoro e la questione del
potere” ed il seguente “Le
lotte operaie alla Fiat negli anni settanta: sicurezza sul lavoro e tecnologia”.
[10] - L’estensione della finanza che muove visibilmente
dai primi anni ottanta fa da ponte per il ricircolo dei surplus creati in
questo circuito allargato di accumulazione. Il presupposto perché ciò avvenga è
anche tecnologico, e si sviluppa proprio negli anni in cui Frank scrive, anche
se resta fuori del suo campo visivo, è la informatizzazione che potenzia
enormemente le infrastrutture terziarie create negli anni del ciclo espansivo,
insieme ad un ulteriore salto di automazione (alla Fiat le prime macchine automatiche
sono introdotte nel 1972). Secondo lo schema analitico (uno dei tanti che
possono essere qui evocati) di Wolfgang Streeck (in “L’ascesa
dello Stato di Consolidamento Europeo”) la risposta alla “crisi
fiscale dello Stato” (si veda O’Connor nel suo libro del 1973) è stata una
sorta di “stabilizzazione fiscale asimmetrica” che risponde alla crescita in
tutti paesi Ocse del debito a partire dal 1974, con una accelerazione nel
1980-86 e poi intorno alle crisi ricorrenti. Una enorme massa di debiti pubblici
e crediti privati (in mano alle classi borghesi e medie) che, insieme al riciclo
delle ingenti somme destinate al pagamento delle materie prime è andato ad
alimentare circuiti finanziari tra le due sponde dell’oceano Atlantico (e poi
le riserve sovrane dei paesi asiatici dopo la “lezione” del 1997. Secondo
analisi anche recenti (Desmond Re, Patric Le Galés, 2015) questo trend è stato
ubicuo e indifferente al paese, alle performance economiche ed ai colori
politici, il debito è sempre cresciuto insieme alla finanza. Questo problema,
utilizzato ampiamente per giustificare i “vincoli esterni” e quindi l’austerità,
era in campo già dagli anni sessanta attraverso un crescente divario tra le
risorse fiscali mobilitabili dai governi e le necessità di spesa sotto la
duplice pressione degli investimenti capitalistici (cioè della richiesta di
aiuti e sovvenzioni dirette ed indirette, infrastrutture e consumi, per coprire
le necessità di investimento assumendo il relativo rischio) e della crescente
pressione sulle finanze statali portata dai sindacati del settore pubblico che
rivendicano le conquiste del settore privato “monopolistico”. Cioè le stesse
conquiste di un settore in cui la produttività è molto più alta. Una condizione
difficile che si è retta su un “compromesso” (in realtà una dinamica
conflittuale) fragile tra crescente spesa in equilibrio dinamico e crescente
debito nominale, alta inflazione che ne erode il valore reale, inseguimento tra
la crescita della produttività e dei consumi e salari, investimenti sostenuti
dallo stato (via incentivi e spesa pubblica) ma largamente privatizzati (come
evidenzia Minsky). Uno schema dinamico in equilibrio costantemente precario in
cui le direzioni causali sono altamente incerte. Un sistema di interdipendenze.
Quando condizioni interne ed esterne, soprattutto nel centro imperiale, ne
decretano la fine, e quindi dopo la fine dell’inflazione (1980, a seguito delle
politiche draconiane di Volker volte espressamente a congelare gli investimenti
privati e far esplodere la disoccupazione) il debito, non più calmierato dalla
tassa implicita in essa contenuta, è cresciuto in modo cumulativo. Contemporaneamente
sono venute meno, una ad una, le condizioni dell’equilibrio. Dunque per effetto
di questi fattori non semplici “con la stabilizzazione monetaria, la
disoccupazione è diventata alta e cronica, provocando l‘aumento della spesa
sociale fino a quando, con un ritardo di una decina di anni, è stata nuovamente
portata sotto controllo da parte delle ‘riforme’ neoliberiste”. Fino agli anni
novanta, il debito pubblico era fondamentalmente una questione di l'inerzia dei
sistemi di sicurezza sociale funzionanti come “stabilizzatori automatici” in un
contesto di accumulo progressivo di debito pubblico, anche spinto da alti tassi
e inflazione bassa. Non era, quindi, questione di richieste crescenti di
sussidi pubblici da parte di cittadini viziati, ma un insieme di fattori tra i
quali trovano posto anche la riduzione delle imposte ai ceti alti e mobili,
negli anni ottanta e novanta (Reagan e Bush). Nel complesso, la “crisi fiscale
dello Stato” è stata causata in misura minore dall’aumento dei diritti dei cittadini
(e solo nella prima fase) ma molto più da un generale declino dell’imponibilità
della società democratica-capitalista.
Un fattore di questo disallineamento tra
spesa dello stato (combinata per investimenti, consumi e remunerazione debito)
e gettito fiscale è stata anche la cosiddetta “globalizzazione” (ovvero, nei
termini di Frank, la nuova divisione internazionale del lavoro risposta alla
crisi di accumulazione dei primi anni settanta), che ha portato ad una maggiore
concorrenza fiscale per attrarre i capitali. Una concorrenza concentrata, come
ovvio, sui fattori mobili, cioè grandi imprese e percettori di redditi alti. Il
responsabile è esattamente opposto alla visione della scuola della “scelta
pubblica”.
Ne consegue che se l’accesso a grandi
masse di credito mobile ha determinato un progressivo incremento dei costi di
finanziamento ha pure consentito ai governi di rinviare il momento in cui i
fabbisogni (del “corporate welfare” come di quello “sociale”) dovevano
collimare con le entrate.
Un fattore di equilibrio indispensabile e
parte centrale del modello messo in campo da Gunder Frank è stato il fabbisogno
di riciclo delle eccedenze dei paesi ricchi di materie prime (che, per controllare
le loro classe lavoratrici e recuperare margini di profittabilità non hanno
investito le stesse nel mercato interno e/o in consumi locali, essendo passate
al modello della “sostituzione delle esportazioni”), i paesi arabi sono
un esempio. Qui lo scambio ha anche valenze geopolitiche, la sottoscrizione di
titoli di stato è stato un modo per “pagare” la protezione militare e la
stabilità politica. Ovvero un effetto del dominio e della relazione tra i ceti “compradori”
locali e le “metropoli” ormai soprattutto finanziarie.
Queste importanti funzioni di
stabilizzazione hanno fatto sì che il settore finanziario, nel contesto della
fine di Bretton Woods, e della conseguente capacità degli Stati Uniti di
finanziare il proprio debito (esorbitante, data la funzione di riserva mondiale
della sua moneta e dei suoi titoli) generando moneta (“fiat dollari”) hanno
coltivato un settore finanziario in costante espansione. Le cosiddette
“innovazioni” degli anni novanta, nel contesto della rivoluzione informatica ma
da essa anche indipendente, hanno finito quindi per diventare un importante
strumento per governi alla costante, e disperata, ricerca di nuovo credito ed
un fattore essenziale di equilibrio per l’affermazione di quello che Frank (e
Amin) chiameranno “il modello 1984-1”.
La “leva finanziaria”, esercitata sulla
enorme massa di manovra del debito pubblico, si è poi estesa alle imprese e,
infine, alle famiglie. In conseguenza l’espansione dello “stato indebitato”
venne incorporato in un movimento del capitalismo avanzato nel suo complesso
che produsse un sempre maggiore indebitamento complessivo. La trasformazione
nella “società indebitata” è trasformazione in una società attraversata
diagonalmente da un rapporto di potere crescente. Una società in cui cala
l’indipendenza (dai due lati) e quindi è la società autoritaria a democrazia calante
del modello frankiano.
[11] - Si veda, ad esempio, Jean-Claude
Michéa “L’impero
del male minore”, e Samir Amin, “Il
virus liberale”
[12] - Si veda, Giovanni Arrighi, “Il
lungo XX secolo”.
[14] - In edizione spagnola qui, e in edizione italiana qui, ma si veda anche Massimo Salvadori, “Eurocomunismo e socialismo sovietico”,
Einaudi, 1977 e il testo “Eurocomunismo e
Stato”, di Santiago Carrillo.
[16] - Si veda, Wolgang Streck, “Tempo
guadagnato, la crisi rinviata del capitalismo democratico”, 2013.
[17] - Una lunga deriva che si è
manifestata in piena luce con la ripresa della crisi al crollo dell’economia
del debito e delle sue piramidi volte a comprare tempo (crollo, ovviamente,
solo delle punte più temerarie di debito privato, ma immediato trasferimento in
debito pubblico), ma che era attiva e potente a partire dagli ultimi anni del
secolo venendo descritta come “controdemocrazia”,
o “postdemocrazia”,
e “contro-rappresentanza”. Una forma di sistematica sfiducia e
depoliticizzazione derivata come effetto in parte non voluto dalla deriva
tecnocratica neoliberale.
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