Pagine

mercoledì 10 luglio 2019

Antonio Gramsci, “Notarelle sul Machiavelli”




Antonio Gramsci, ottenuto in carcere il permesso di scrivere, all’inizio del ’29, stende pochi anni dopo le sue “Notarelle” sul “Principe” di Machiavelli. Gli obiettivi della scrittura sono molteplici: dal tempo dei suoi studi filologici all’Università di Torino voleva scrivere del capolavoro del fiorentino ma, soprattutto, ora si pone il problema di indagare il rapporto del partito politico con le classi e lo Stato (Quaderno 4, 1930); cioè, di pensare “non il partito come categoria sociologica, ma il partito che vuole fondare lo Stato”.



È interessante rileggere oggi questa densissima riflessione di Gramsci, anche correndo il rischio della riattualizzazione e dunque del tradimento (ma non si può leggere senza inserire dei fili), perché è, attraverso lo schermo della trattazione del Principe, lo sforzo di confrontarsi con un momento di “crisi organica” e con l’insorgere in questa di momenti ‘cesaristi’ o ‘boulangeristi’[1], facendo leva sul “partito” e la ripresa della politica. Al momento ‘boulangerista’ si risponde con l’azione politica e la “filosofia della praxis”. Al “momento populista”, con il “momento politico” che ne incorpora tuttavia alcuni elementi: è in parte autonomo rispetto all’economico[2] e legato ad una componente emozionale e volontaristica, interamente connesso all’azione (l’obiettivo è sempre la “praxis”, l’azione pratica). Il “partito-principe” è, cioè, il suscitatore, quando se ne danno le condizioni, di una “volontà collettiva nazionale-popolare”, ed al contempo è “l’organizzatore di una riforma intellettuale e morale” e quindi di una “forma superiore di civiltà moderna”.
Il Partito, vero “intellettuale collettivo”, attraverso quella che chiama l’azione della filosofia della prassi, si impegna a trasformare il senso comune[3] di strati sociali ampi, potenzialmente egemonici perché maggioritari, ma al momento disgregati, e, in quanto “filosofia della prassi”, al contempo e necessariamente li muove all’azione collettiva. Questa azione, prendendo in qualche misura una certa distanza dalle forme più ingenue del marxismo, si muove a livello della “soprastruttura” ma non senza “una precedente riforma economica”. Anzi, continua subito, “il programma di riforma economica è il modo concreto in cui si presenta ogni riforma intellettuale e morale”. Le due cose, la riforma morale ed intellettuale, in seguito dirà di conoscenza, si connette internamente, indissolubilmente, all’azione. Questa serve a quella e quella senza questa non è possibile, né utile.

La lettura del “libro vivente” del “Principe”, che fonde ideologia politica e scienza nella forma del “mito”, mostra, attraverso le qualità, i tratti, i doveri e le necessità di una persona, il processo di formazione della “volontà collettiva”, che è lo scopo della politica stessa. Si tratta, per Gramsci, detto in altro modo, dell’esercizio di “fantasia concreta che opera su un popolo disperso e polverizzato per suscitarne e organizzarne la volontà collettiva”.

Ogni “partito politico” nasce dal “concretarsi” di una volontà collettiva che, però, all’inizio non riesce ad affermarsi che parzialmente nell’azione, è quindi “già dato dallo sviluppo storico” (è una necessità della situazione), ma, al contempo quando nasce non è che la “prima cellula” che riassume (o, meglio, “in cui si riassumono”) dei “germi di volontà collettiva che tendono a diventare universali e totali”. Se i germi di volontà, intorno ai quali nasce il “partito politico”[4] non hanno la tendenza a diventare universali e “totali”[5], in altre parole, questo non è il “Partito-Principe” e non è ciò di cui si parla. Questi germi, che hanno la potenzialità, la spinta, a diventare universali, devono avere anche un carattere “organico” ed essere “di vasto respiro”.

Soffermiamoci su questa prima e straordinaria pagina (p. 1558):
-        l’opposizione è tra l’azione collettiva messa in campo da un “partito”, capace di creare ex-novo una volontà collettiva per indirizzare verso mete concrete e razionali, ma nuove (“di una concretezza e razionalità non ancora verificate e criticate da una esperienza storica effettuale e universalmente conosciuta”);
-        e l’azione storico politica che si manifesta in modo rapido e fulmineo, resa necessaria da un grande pericolo imminente, e che si manifesta in un individuo focale (qui ovviamente sta parlando con la necessaria prudenza di Mussolini). Questa azione, nella condizione di pericolo, “crea fulmineamente l’arroventarsi delle passioni e del fanatismo, annichilendo il senso critico e la corrosività ironica (che, altrimenti, potrebbero, se fatte agire, “distruggere il carattere ‘carismatico’ del condottiero)”. Il fatto è che, al contrario della prima strada, “un’azione immediata di tal genere, per la sua stessa natura, non può essere di vasto respiro e di carattere organico: sarà quasi sempre del tipo restaurazione e riorganizzazione e non del tipo proprio alla fondazione di nuovi Stati e nuove strutture nazionali e sociali, […] di tipo difensivo e non creativo originale, in cui, cioè, si suppone che una volontà collettiva, già esistente, sia snervata, dispersa, abbia subito un collasso pericoloso e minaccioso ma non decisivo e catastrofico e occorra riconcentrarla e irrobustirla”.

La prima strada è rivolta alla creazione di una “volontà collettiva” nuova, e di un nuovo senso comune, intorno al quale, facendo leva sia sulla praxis sia sulla educazione e la critica, si possa creare una direzione politica originale ed organica.
La seconda strada, invece, si nutre dell’energia reattiva, fondata sul senso comune che è in campo e su passioni e fanatismo. È radicalmente acritica e manca sia di respiro sia di visione organica. In definitiva, anche se può sembrare altro, è un movimento restaurativo.


Una “volontà collettiva” nel primo senso, come “coscienza operosa della necessità storica”, deve avere delle condizioni. Cioè deve nascere da condizioni obiettive che la rendano possibile.
In Italia, guardando all’esperienza rinascimentale, ed in particolare alla parabola del Partito d’Azione è sempre stata contrastata, nel suo sorgere, dallo sforzo delle “classi tradizionali” per mantenere in equilibrio passivo il potere che altrimenti si potrebbe presentare sulla scena, quando le grandi masse (dei contadini) irrompono simultaneamente sulla vita politica.
Ma per questo il “moderno principe” (il partito) deve, come già detto, essere “il banditore e l’organizzatore di una riforma intellettuale e morale”, una riforma che ponga il terreno per lo sviluppo della volontà collettiva. Che sconvolga, sviluppandosi, tutto il sistema dei rapporti intellettuali e morali ridefinendone l’utilità o meno rispetto a sé. Questo, il moderno principe, è cioè quel che, nel suscitare in sé la volontà collettiva, “prende il posto, nelle coscienze, della divinità o dell’imperativo categorico, diventa la base di un laicismo moderno e di una completa laicizzazione di tutta la vita e di tutti i rapporti di costume”.


Ma quale è lo spazio di azione? Per porsi questa domanda in un’altra straordinaria pagina, subito seguente, Gramsci si chiede cosa i diversi gradi dei rapporti di forza, in primo luogo internazionali, e quindi sociali[6] determinino. E in particolare si chiede se i rapporti internazionali reagiscano sui rapporti politici e come. La risposta è che “quanto più la vita economica immediata di una nazione è subordinata ai rapporti internazionali, tanto più un determinato partito rappresenta questa situazione e la sfrutta per impedire il sopravvento dei partiti avversari”. Spesso, anzi, il “partito dello straniero” è quello più nazionalistico, che in realtà, però, non rappresenta le forze vitali del paese, ma “ne rappresenta la subordinazione e l’asservimento economico alle nazioni o a un gruppo di nazioni egemoniche”. Diventa particolarmente importante, per l’intelligenza della situazione, identificare questo “partito dello straniero”, anche e soprattutto quando è nascosto sotto mentite spoglie o disseminato in più formazioni (anche apparentemente competitive, o competitive su altri piani).

Quindi, nel contesto di una concezione dell’azione dello Stato come ‘educatore’ e maieuta di un “nuovo tipo o livello di civiltà”, ovvero di operatore non solo sulle forze economiche, ma anche sulla ‘soprastruttura’ (che non va abbandonata allo sviluppo spontaneo, ma razionalizzata, accelerata e “taylorizzata”), Gramsci definisce il “politico in atto”, come un creatore, un suscitatore che, tuttavia, non si muove nel vuoto dei suoi desideri (definito con bella immagine “torbido”) o sogni, ma “si fonda sulla realtà effettuale”, cioè su “un rapporto di forze in continuo movimento e mutamento di equilibrio” (p.1578).
Il politico applica la volontà alla creazione di nuovi equilibri delle forze, che tuttavia sono realmente esistenti ed operanti, e per farlo “si fonda su quella determinata forza che si ritiene progressiva, e la si potenzia per farla trionfare”. Ovvero si muove “sul piano della realtà effettuale ma per dominarla e superarla”[7].

Chiaramente per riuscire in questo difficile compito bisogna “impostare esattamente e risolvere” il problema dei rapporti tra struttura e soprastrutture, attraverso una “giusta analisi delle forze che operano nella storia di un determinato periodo e determinare il loro rapporto”. Per questo occorre distinguere tra i “movimenti organici” e quelli di congiuntura, di minore portata storica.
Occorre anche evitare di immaginare che le crisi storiche fondamentali, nelle quali possono darsi diversi rapporti di forza e possono determinarsi opposizioni “politico-militari” efficaci, siano direttamente determinate da crisi economiche. Per Gramsci è evidente che non è così, esse possono certo creare condizioni più favorevoli per la diffusione di un certo modo di pensare, o per impostare delle questioni, tuttavia la cosa dipende sempre dall’insieme dei rapporti sociali di forza.

“Ma l’osservazione più importante da fare a proposito di ogni analisi concreta dei rapporti di forza è questa: che tali analisi non possono e non debbono essere fine a se stesse (a meno che non si scriva un capitolo di storia del passato) ma acquistano una significato solo se servono a giustificare una attività pratica, una iniziativa di volontà. Esse mostrano quali sono i punti di minore resistenza, dove la forza della volontà può essere applicata più fruttuosamente, suggeriscono le operazioni tattiche immediate, indicano come si può meglio impostare una campagna di agitazione politica, quale linguaggio sarà meglio compreso dalle moltitudini, ecc. L’elemento decisivo di ogni situazione è la forza permanentemente organizzata e predisposta di lunga mano che si può fare avanzare quando si giudica che una situazione è favorevole (ed è favorevole solo in quanto una tale forza esista e sia piena di ardore combattivo); perciò il compito essenziale è quello di attendere sistematicamente e pazientemente a formare, sviluppare, rendere sempre più omogenea, compatta, consapevole di se stessa questa forza” (p.1588).

E questi rapporti di forza, sono giocati anche sul terreno delle ‘ideologie’, in quanto non bisogna dimenticare che le credenze popolari (di qualsiasi tipo) “hanno la validità delle forze materiali”. E questa non è una verità di carattere moralistico o psicologico, ma gnoseologica. Ne consegue che la politica non è un continuo marché de duples, un gioco di illusionismi e di prestidigitazione, come l’attività critica non si deve ridurre a “svelare trucchi, suscitare scandali, fare i conti in tasca agli uomini rappresentativi”. Antonio Gramsci non è affatto un pensatore post-moderno, anche se sembra intravedere questa deriva.

Dunque, continua, quando un movimento di tipo boulangista si produce, occorre analizzare:
1.     il contenuto sociale della massa che aderisce al movimento,
2.     che funzione questa massa ha nell’equilibrio di forze che va formandosi,
3.     quali sono le rivendicazioni che i suoi dirigenti presentano e che significato hanno, politicamente e socialmente, ma soprattutto a quali esigenze effettive corrispondono,
4.     quale è la conformità dei mezzi al fine che è proposto,
5.     e solo alla fine l’ipotesi che il movimento necessariamente verrà snaturato e servirà altri fini rispetto a quelli proposti alle moltitudini che lo seguono. Una diagnosi che deve scaturire, se del caso, dall’analisi concreta e non dalla presunzione di avere “il diavolo nell’ampolla”.

Chiaramente simili processi possono verificarsi nelle fasi di “crisi organica”, quando ad un certo punto i gruppi sociali si staccano dai loro partiti tradizionali e i gruppi dirigenti non sono più riconosciuti. Allora la situazione diventa delicata e pericolosa, “perché il campo è aperto alle soluzioni di forza, all’attività di potenze oscure rappresentata da uomini provvidenziali o carismatici”. Questa crisi di egemonia della classe dirigente avviene perché grandi masse passano dalla passività ad un certo grado di attivismo e non sono in grado di orientarsi rapidamente.

Una osservazione particolarmente rilevante per noi, che siamo, o ci avviciniamo molto velocemente ad una “crisi organica”. In parte a causa della perdurante crisi economica, che è stata uno dei fattori scatenanti, come se fosse un’artiglieria campale che ha aperti il varco nella difesa (resa solida, come vede già Gramsci negli anni trenta dallo stato corporativo e/o liberale burocratizzato[8] che emerge come risposta dalla crisi del finire dell’ottocento, ovvero dalla crisi della prima globalizzazione).

La riflessione di Gramsci è particolarmente utile per orientarsi in questa fase di crisi politica ‘organica’ (ovvero nella quale grandi masse hanno abbandonato i propri riferimenti politici e si stanno riorientando nella più completa confusione ideologica e perdita di senso), soggetta al rischio di ‘cesarismo’, ben difficilmente progressivo[9], ed alla quale bisogna rispondere con lo sforzo della politica.
Ovvero con la creazione di un “momento politico”, capace di suscitare una volontà collettiva e le giuste emozioni e volontà. Una “volontà”, nazionale-popolare che sia insieme suscitatore di riforma intellettuale e di riforma morale, che non si adatti al ‘senso comune’ esistente, ma che, senza essere estraneo alle forze in campo e restando connesso ad strati sociali ampi, con i quali entrare in rapporto affettivo e intellettuale, lo trasformi.
La “filosofia della prassi”, che Gramsci cerca, è capace di muoversi sia al livello della soprastruttura sia della struttura, anzi passa per la riforma economica per stimolare una riforma morale ed intellettuale, ovvero una riforma del senso e della conoscenza, ma anche una riforma dei criteri e dei valori.

Si tratta di un compito molto difficile, per il quale ci vuole un “Partito-Principe”, e non un “Cesare”. Un “Partito” che sia orientato a raccogliere germi nel reale, ma a trasfigurarli in universali e renderli ‘totali’, dargli un carattere ‘organico’. Solo il “Partito” può fare questo, l’individuo focale, il “Cesare” può solo suscitare quel che c’è già, può sfruttare parassitariamente forze reattive, è una forza sempre ed intrinsecamente reazionaria. Il nuovo può nascere solo dal Partito.

Solo da chi ponga correttamente e risolva il problema del rapporto tra soprastrutture e strutture, senza presumere che le prime ‘germinino’ spontaneamente dalle seconde e quindi non possano essere oggetto di critica, di ridefinizione, di lavoro. Chi si impegni nell’analisi concreta dei rapporti di forza, e lo faccia avendo a mente, davanti agli occhi, l’azione e la volontà. Che cerchi i luoghi di minore resistenza sulla quale applicare la propria forza, il proprio linguaggio, la propria azione politica. Solo chi si impegni a creare questa forza, a renderla omogenea, compatta, consapevole di sé.

Questa è la lezione da ascoltare, in particolare oggi.



[1] - Georges Boulanger è stato un generale francese che da Ministro della Guerra, nel 1886, sollevò il desiderio di rivalsa contro la Germania che aveva umiliato la Francia nel 1871, rieletto alla camera dopo l’espulsione dall’esercito, nel 1888 era al vertice della fama e sembrava voler fare un colpo di stato. Raggiunto da un mandato di arresto fuggì e finì, sconfitto e suicida nel 1891. La sua fama travolgente fu una brevissima fiammata, ma spaventò tutti e per un breve tratto sembrò poter ottenere tutto.
[2] - Si tratta, in certo senso, di una ripresa del pensiero di Georges Sorel, che aveva seguito da giovane, quando era militante del Partito Socialista e non distante da uno dei leader di questo: Benito Mussolini.
[3] - Il Partito, questo è essenziale, non assorbe il senso comune, senza sottoporlo a critica e facendosene trasportare, ma lo trasforma, contribuendo, sulla base di un fondo di esistenza, a creare una volontà collettiva che sia parte di una riforma sia intellettuale (nuovi concetti e critica dei concetti esistenti, ridefinizione dell’egemonia ideologica) sia morale (nuovi valori, scale di priorità, metri di giudizio).
[4] - Si intende qui sempre il “Partito-principe”, ovvero il partito che ha in sé la vocazione e la missione concreta di cambiare e suscitare la “volontà collettiva” da una situazione dispersa.
[5] - Su questo termine si gioca l’interpretazione se qui Gramsci intendesse il Partito in un normale gioco dialettico democratico (alla maniera in cui lo interpreta Chantal Mouffe), o, invece, strumento una “Volontà generale” totalitaria e quindi antipluralista. Per i nostri scopi questa importante domanda può essere oltrepassata.
[6] - “Cioè al grado di sviluppo delle forze produttive, ai rapporti di forza politica e di partito ed ai rapporti politici immediati”.
[7] - Come fece Machiavelli, si tratta di “mostrare come avrebbero dovuto operare le forze storiche per essere efficienti”.
[8] - Negli Stati più avanzati la “società civile” è “diventata una struttura molto complessa e resistente alle irruzioni catastrofiche dell’elemento economico immediato (crisi, depressioni, ecc.); le superstrutture della società civile sono come il sistema delle trincee della guerra moderna” (p.1615).
[9] - Anche se Gramsci non esclude a priori che ci possa essere un “Cesare progressista”, ovvero che attiva elementi progressisti nella situazione.

Nessun commento:

Posta un commento