Antonio
Gramsci, ottenuto in carcere il permesso di scrivere, all’inizio del ’29, stende
pochi anni dopo le sue “Notarelle” sul “Principe” di Machiavelli. Gli obiettivi
della scrittura sono molteplici: dal tempo dei suoi studi filologici all’Università
di Torino voleva scrivere del capolavoro del fiorentino ma, soprattutto, ora si
pone il problema di indagare il rapporto del partito politico con le classi e
lo Stato (Quaderno 4, 1930); cioè, di pensare “non il partito come categoria
sociologica, ma il partito che vuole fondare lo Stato”.
È
interessante rileggere oggi questa densissima riflessione di Gramsci, anche correndo il rischio della riattualizzazione e dunque del tradimento (ma non si può leggere senza inserire dei fili), perché è,
attraverso lo schermo della trattazione del Principe, lo sforzo di confrontarsi
con un momento di “crisi organica” e con l’insorgere in questa di momenti ‘cesaristi’
o ‘boulangeristi’[1],
facendo leva sul “partito” e la ripresa della politica. Al momento ‘boulangerista’
si risponde con l’azione politica e la “filosofia della praxis”. Al “momento populista”,
con il “momento politico” che ne incorpora tuttavia alcuni elementi: è in parte
autonomo rispetto all’economico[2] e legato ad una componente
emozionale e volontaristica, interamente connesso all’azione (l’obiettivo è
sempre la “praxis”, l’azione pratica). Il “partito-principe” è, cioè, il
suscitatore, quando se ne danno le condizioni, di una “volontà collettiva
nazionale-popolare”, ed al contempo è “l’organizzatore di una riforma intellettuale
e morale” e quindi di una “forma superiore di civiltà moderna”.
Il
Partito, vero “intellettuale collettivo”, attraverso quella che chiama l’azione
della filosofia della prassi, si impegna a trasformare il senso comune[3]
di strati sociali ampi, potenzialmente egemonici perché maggioritari, ma al
momento disgregati, e, in quanto “filosofia della prassi”, al contempo e
necessariamente li muove all’azione collettiva. Questa azione, prendendo in
qualche misura una certa distanza dalle forme più ingenue del marxismo, si
muove a livello della “soprastruttura” ma non senza “una precedente riforma
economica”. Anzi, continua subito, “il programma di riforma economica è il modo
concreto in cui si presenta ogni riforma intellettuale e morale”. Le due cose,
la riforma morale ed intellettuale, in seguito dirà di conoscenza, si connette
internamente, indissolubilmente, all’azione. Questa serve a quella e quella
senza questa non è possibile, né utile.
La
lettura del “libro vivente” del “Principe”, che fonde ideologia politica
e scienza nella forma del “mito”, mostra, attraverso le qualità, i tratti, i
doveri e le necessità di una persona, il processo di formazione della “volontà
collettiva”, che è lo scopo della politica stessa. Si tratta, per
Gramsci, detto in altro modo, dell’esercizio di “fantasia concreta che opera su
un popolo disperso e polverizzato per suscitarne e organizzarne la volontà
collettiva”.
Ogni
“partito politico” nasce dal “concretarsi” di una volontà collettiva che, però,
all’inizio non riesce ad affermarsi che parzialmente nell’azione, è quindi “già
dato dallo sviluppo storico” (è una necessità della situazione), ma, al
contempo quando nasce non è che la “prima cellula” che riassume (o, meglio, “in
cui si riassumono”) dei “germi di volontà collettiva che tendono a diventare
universali e totali”. Se i germi di volontà, intorno ai quali nasce il “partito
politico”[4] non hanno la tendenza a
diventare universali e “totali”[5], in altre parole, questo
non è il “Partito-Principe” e non è ciò di cui si parla. Questi germi, che
hanno la potenzialità, la spinta, a diventare universali, devono avere anche un
carattere “organico” ed essere “di vasto respiro”.
Soffermiamoci
su questa prima e straordinaria pagina (p. 1558):
-
l’opposizione è tra l’azione collettiva
messa in campo da un “partito”, capace di creare ex-novo una volontà
collettiva per indirizzare verso mete concrete e razionali, ma nuove (“di una
concretezza e razionalità non ancora verificate e criticate da una esperienza
storica effettuale e universalmente conosciuta”);
-
e l’azione storico politica che si
manifesta in modo rapido e fulmineo, resa necessaria da un grande pericolo
imminente, e che si manifesta in un individuo focale (qui ovviamente sta
parlando con la necessaria prudenza di Mussolini). Questa azione, nella
condizione di pericolo, “crea fulmineamente l’arroventarsi delle passioni e del
fanatismo, annichilendo il senso critico e la corrosività ironica (che,
altrimenti, potrebbero, se fatte agire, “distruggere il carattere ‘carismatico’
del condottiero)”. Il fatto è che, al contrario della prima strada, “un’azione
immediata di tal genere, per la sua stessa natura, non può essere di vasto
respiro e di carattere organico: sarà quasi sempre del tipo restaurazione e riorganizzazione
e non del tipo proprio alla fondazione di nuovi Stati e nuove strutture
nazionali e sociali, […] di tipo difensivo e non creativo originale, in cui,
cioè, si suppone che una volontà collettiva, già esistente, sia snervata,
dispersa, abbia subito un collasso pericoloso e minaccioso ma non decisivo e catastrofico
e occorra riconcentrarla e irrobustirla”.
La
prima strada è rivolta alla creazione di una “volontà collettiva” nuova,
e di un nuovo senso comune, intorno al quale, facendo leva sia sulla praxis sia
sulla educazione e la critica, si possa creare una direzione politica originale
ed organica.
La
seconda strada, invece, si nutre dell’energia reattiva, fondata sul senso
comune che è in campo e su passioni e fanatismo. È radicalmente acritica e
manca sia di respiro sia di visione organica. In definitiva, anche se può sembrare
altro, è un movimento restaurativo.
Una
“volontà collettiva” nel primo senso, come “coscienza operosa della necessità
storica”, deve avere delle condizioni. Cioè deve nascere da condizioni
obiettive che la rendano possibile.
In
Italia, guardando all’esperienza rinascimentale, ed in particolare alla
parabola del Partito d’Azione è sempre stata contrastata, nel suo sorgere, dallo
sforzo delle “classi tradizionali” per mantenere in equilibrio passivo il
potere che altrimenti si potrebbe presentare sulla scena, quando le grandi
masse (dei contadini) irrompono simultaneamente sulla vita politica.
Ma
per questo il “moderno principe” (il partito) deve, come già detto,
essere “il banditore e l’organizzatore di una riforma intellettuale e morale”,
una riforma che ponga il terreno per lo sviluppo della volontà collettiva. Che sconvolga,
sviluppandosi, tutto il sistema dei rapporti intellettuali e morali
ridefinendone l’utilità o meno rispetto a sé. Questo, il moderno
principe, è cioè quel che, nel suscitare in sé la volontà collettiva, “prende
il posto, nelle coscienze, della divinità o dell’imperativo categorico, diventa
la base di un laicismo moderno e di una completa laicizzazione di tutta la vita
e di tutti i rapporti di costume”.
Ma
quale è lo spazio di azione? Per porsi questa domanda
in un’altra straordinaria pagina, subito seguente, Gramsci si chiede cosa
i diversi gradi dei rapporti di forza, in primo luogo internazionali, e quindi
sociali[6] determinino. E in
particolare si chiede se i rapporti internazionali reagiscano sui rapporti
politici e come. La risposta è che “quanto più la vita economica immediata di
una nazione è subordinata ai rapporti internazionali, tanto più un determinato
partito rappresenta questa situazione e la sfrutta per impedire il sopravvento
dei partiti avversari”. Spesso, anzi, il “partito dello straniero” è
quello più nazionalistico, che in realtà, però, non rappresenta le forze vitali
del paese, ma “ne rappresenta la subordinazione e l’asservimento economico alle
nazioni o a un gruppo di nazioni egemoniche”. Diventa particolarmente
importante, per l’intelligenza della situazione, identificare questo “partito
dello straniero”, anche e soprattutto quando è nascosto sotto mentite spoglie o
disseminato in più formazioni (anche apparentemente competitive, o competitive
su altri piani).
Quindi,
nel contesto di una concezione dell’azione dello Stato come ‘educatore’ e
maieuta di un “nuovo tipo o livello di civiltà”, ovvero di operatore non solo
sulle forze economiche, ma anche sulla ‘soprastruttura’ (che non va abbandonata
allo sviluppo spontaneo, ma razionalizzata, accelerata e “taylorizzata”),
Gramsci definisce il “politico in atto”, come un creatore, un suscitatore
che, tuttavia, non si muove nel vuoto dei suoi desideri (definito con bella
immagine “torbido”) o sogni, ma “si fonda sulla realtà effettuale”, cioè su “un
rapporto di forze in continuo movimento e mutamento di equilibrio” (p.1578).
Il
politico applica la volontà alla creazione di nuovi equilibri delle forze, che
tuttavia sono realmente esistenti ed operanti, e per farlo “si fonda su quella
determinata forza che si ritiene progressiva, e la si potenzia per farla
trionfare”. Ovvero si muove “sul piano della realtà effettuale ma per dominarla
e superarla”[7].
Chiaramente
per riuscire in questo difficile compito bisogna “impostare esattamente e
risolvere” il problema dei rapporti tra struttura e soprastrutture, attraverso
una “giusta analisi delle forze che operano nella storia di un determinato
periodo e determinare il loro rapporto”. Per questo occorre distinguere tra i “movimenti
organici” e quelli di congiuntura, di minore portata storica.
Occorre
anche evitare di immaginare che le crisi storiche fondamentali, nelle quali
possono darsi diversi rapporti di forza e possono determinarsi opposizioni “politico-militari”
efficaci, siano direttamente determinate da crisi economiche. Per Gramsci è
evidente che non è così, esse possono certo creare condizioni più favorevoli
per la diffusione di un certo modo di pensare, o per impostare delle questioni,
tuttavia la cosa dipende sempre dall’insieme dei rapporti sociali di forza.
“Ma l’osservazione più
importante da fare a proposito di ogni analisi concreta dei rapporti di forza è
questa: che tali analisi non possono e non debbono essere fine a se stesse (a
meno che non si scriva un capitolo di storia del passato) ma acquistano una
significato solo se servono a giustificare una attività pratica, una iniziativa
di volontà. Esse mostrano quali sono i punti di minore resistenza, dove la
forza della volontà può essere applicata più fruttuosamente, suggeriscono le
operazioni tattiche immediate, indicano come si può meglio impostare una campagna
di agitazione politica, quale linguaggio sarà meglio compreso dalle
moltitudini, ecc. L’elemento decisivo di ogni situazione è la forza permanentemente
organizzata e predisposta di lunga mano che si può fare avanzare quando si
giudica che una situazione è favorevole (ed è favorevole solo in quanto una
tale forza esista e sia piena di ardore combattivo); perciò il compito
essenziale è quello di attendere sistematicamente e pazientemente a formare,
sviluppare, rendere sempre più omogenea, compatta, consapevole di se stessa
questa forza” (p.1588).
E
questi rapporti di forza, sono giocati anche sul terreno delle ‘ideologie’, in
quanto non bisogna dimenticare che le credenze popolari (di qualsiasi tipo) “hanno
la validità delle forze materiali”. E questa non è una verità di carattere moralistico
o psicologico, ma gnoseologica. Ne consegue che la politica non è un continuo marché
de duples, un gioco di illusionismi e di prestidigitazione, come l’attività
critica non si deve ridurre a “svelare trucchi, suscitare scandali, fare i
conti in tasca agli uomini rappresentativi”. Antonio Gramsci non è affatto un
pensatore post-moderno, anche se sembra intravedere questa deriva.
Dunque,
continua, quando un movimento di tipo boulangista si produce, occorre
analizzare:
1. il
contenuto sociale della massa che aderisce al movimento,
2. che
funzione questa massa ha nell’equilibrio di forze che va formandosi,
3. quali
sono le rivendicazioni che i suoi dirigenti presentano e che significato hanno,
politicamente e socialmente, ma soprattutto a quali esigenze effettive
corrispondono,
4. quale
è la conformità dei mezzi al fine che è proposto,
5. e
solo alla fine l’ipotesi che il movimento necessariamente verrà snaturato e
servirà altri fini rispetto a quelli proposti alle moltitudini che lo seguono. Una
diagnosi che deve scaturire, se del caso, dall’analisi concreta e non dalla
presunzione di avere “il diavolo nell’ampolla”.
Chiaramente
simili processi possono verificarsi nelle fasi di “crisi organica”, quando ad
un certo punto i gruppi sociali si staccano dai loro partiti tradizionali e i
gruppi dirigenti non sono più riconosciuti. Allora la situazione diventa delicata
e pericolosa, “perché il campo è aperto alle soluzioni di forza, all’attività
di potenze oscure rappresentata da uomini provvidenziali o carismatici”. Questa
crisi di egemonia della classe dirigente avviene perché grandi masse passano
dalla passività ad un certo grado di attivismo e non sono in grado di
orientarsi rapidamente.
Una
osservazione particolarmente rilevante per noi, che siamo, o ci avviciniamo
molto velocemente ad una “crisi organica”. In parte a causa della perdurante
crisi economica, che è stata uno dei fattori scatenanti, come se fosse un’artiglieria
campale che ha aperti il varco nella difesa (resa solida, come vede già Gramsci
negli anni trenta dallo stato corporativo e/o liberale burocratizzato[8] che emerge come risposta
dalla crisi del finire dell’ottocento, ovvero dalla crisi della prima
globalizzazione).
La
riflessione di Gramsci è particolarmente utile per orientarsi in questa fase di
crisi politica ‘organica’ (ovvero nella quale grandi masse hanno abbandonato i
propri riferimenti politici e si stanno riorientando nella più completa
confusione ideologica e perdita di senso), soggetta al rischio di ‘cesarismo’,
ben difficilmente progressivo[9], ed alla quale bisogna
rispondere con lo sforzo della politica.
Ovvero
con la creazione di un “momento politico”, capace di suscitare una volontà
collettiva e le giuste emozioni e volontà. Una “volontà”, nazionale-popolare
che sia insieme suscitatore di riforma intellettuale e di riforma morale, che
non si adatti al ‘senso comune’ esistente, ma che, senza essere estraneo alle
forze in campo e restando connesso ad strati sociali ampi, con i quali entrare
in rapporto affettivo e intellettuale, lo trasformi.
La
“filosofia della prassi”, che Gramsci cerca, è capace di muoversi sia al
livello della soprastruttura sia della struttura, anzi passa per la riforma
economica per stimolare una riforma morale ed intellettuale, ovvero una riforma
del senso e della conoscenza, ma anche una riforma dei criteri e dei valori.
Si
tratta di un compito molto difficile, per il quale ci vuole un “Partito-Principe”,
e non un “Cesare”. Un “Partito” che sia orientato a raccogliere germi nel
reale, ma a trasfigurarli in universali e renderli ‘totali’, dargli un carattere
‘organico’. Solo il “Partito” può fare questo, l’individuo focale, il “Cesare”
può solo suscitare quel che c’è già, può sfruttare parassitariamente forze
reattive, è una forza sempre ed intrinsecamente reazionaria. Il nuovo
può nascere solo dal Partito.
Solo
da chi ponga correttamente e risolva il problema del rapporto tra soprastrutture
e strutture, senza presumere che le prime ‘germinino’ spontaneamente dalle
seconde e quindi non possano essere oggetto di critica, di ridefinizione, di
lavoro. Chi si impegni nell’analisi concreta dei rapporti di forza, e lo faccia
avendo a mente, davanti agli occhi, l’azione e la volontà. Che cerchi i luoghi
di minore resistenza sulla quale applicare la propria forza, il proprio
linguaggio, la propria azione politica. Solo chi si impegni a creare questa
forza, a renderla omogenea, compatta, consapevole di sé.
Questa
è la lezione da ascoltare, in particolare oggi.
[1] - Georges Boulanger
è stato un generale francese che da Ministro della Guerra, nel 1886, sollevò il
desiderio di rivalsa contro la Germania che aveva umiliato la Francia nel 1871,
rieletto alla camera dopo l’espulsione dall’esercito, nel 1888 era al vertice
della fama e sembrava voler fare un colpo di stato. Raggiunto da un mandato di
arresto fuggì e finì, sconfitto e suicida nel 1891. La sua fama travolgente fu
una brevissima fiammata, ma spaventò tutti e per un breve tratto sembrò poter
ottenere tutto.
[2] - Si tratta, in
certo senso, di una ripresa del pensiero di Georges Sorel, che aveva seguito da
giovane, quando era militante del Partito Socialista e non distante da uno dei
leader di questo: Benito Mussolini.
[3] - Il Partito,
questo è essenziale, non assorbe il senso comune, senza sottoporlo a
critica e facendosene trasportare, ma lo trasforma, contribuendo, sulla base di
un fondo di esistenza, a creare una volontà collettiva che sia parte di una
riforma sia intellettuale (nuovi concetti e critica dei concetti esistenti, ridefinizione
dell’egemonia ideologica) sia morale (nuovi valori, scale di priorità, metri di
giudizio).
[4] - Si intende qui
sempre il “Partito-principe”, ovvero il partito che ha in sé la vocazione e la
missione concreta di cambiare e suscitare la “volontà collettiva” da una situazione
dispersa.
[5] - Su questo
termine si gioca l’interpretazione se qui Gramsci intendesse il Partito in un
normale gioco dialettico democratico (alla maniera in cui lo interpreta Chantal
Mouffe), o, invece, strumento una “Volontà generale” totalitaria e quindi
antipluralista. Per i nostri scopi questa importante domanda può essere
oltrepassata.
[6] - “Cioè al grado
di sviluppo delle forze produttive, ai rapporti di forza politica e di partito
ed ai rapporti politici immediati”.
[7] - Come fece
Machiavelli, si tratta di “mostrare come avrebbero dovuto operare le forze
storiche per essere efficienti”.
[8] - Negli Stati più
avanzati la “società civile” è “diventata una struttura molto complessa e
resistente alle irruzioni catastrofiche dell’elemento economico immediato (crisi,
depressioni, ecc.); le superstrutture della società civile sono come il sistema
delle trincee della guerra moderna” (p.1615).
[9] - Anche se
Gramsci non esclude a priori che ci possa essere un “Cesare progressista”,
ovvero che attiva elementi progressisti nella situazione.
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