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giovedì 8 agosto 2019

Carlo Formenti, “Il socialismo è morto. Viva il socialismo!”




Premessa
Il libro di Carlo Formenti “Il socialismo è morto. Viva il socialismo!” è stato pubblicato in questo 2019 e segue altri due notevoli libri dell’autore, tutti pubblicati a tre anni di distanza, “Utopie letali. Il capitalismo senza democrazia”, del 2013, e “La variante populista. Lotta di classe nel neoliberismo”, del 2016 (che abbiamo letto qui). I tre testi individuano, insieme alle esplorazioni precedenti[1], molto attente alle evoluzioni della sfera pubblica e delle tecnologie che vi impattano, una vasta ricostruzione, ancora in corso sulle trasformazioni del socialismo in questo avvio di millennio.
Se il socialismo novecentesco è davvero morto le sinistre attuali ne sono il becchino che cerca di guadagnarci ancora qualcosa. Ma se è morto occorre andare verso ciò che nasce, ciò che ‘deve’ nascere: ancora viva il socialismo!
Il libro cercherà di sviluppare questo difficilissimo programma concentrandosi, per così dire, sulla ‘transizione’. Ovvero, per dir meglio, sulle condizioni nella quali può essere avviata una ‘transizione alla transizione’.



Per compiere questa paradossale operazione occorre, secondo Formenti, come prima cosa capire in che modo le sinistre sono diventate il becchino del socialismo morto, lasciandolo marcire. Per farlo ripercorre le tesi (dodici) dei due precedenti libri.
Come seconda cosa, necessaria per assumere il dovere di far nascere il nuovo, c’è bisogno di rapportarsi al ‘momento populista’ in modo creativo, aggregando un “blocco sociale” con quel che c’è, intorno a rivendicazioni anche diverse, purché incompatibili con il sistema capitalistico nell’attuale forma neoliberale. L’idea è di partire da un’ampia alleanza di soggetti sociali capace di riforme radicali che abbiano almeno la potenzialità di evolvere in senso socialista, rafforzando le forze che possono incarnarlo. Una simile strategia, nella prima fase prevedibile, dovrà quindi assumere carattere nazional-popolare e neo-giocobino con l’obiettivo primario di ricostruire almeno le precondizioni (del socialismo) di reale partecipazione al processo decisionale e di redistribuzione del reddito. Questa azione politica, ed anche la successiva se le condizioni egemoniche lo consentono, dovrà svolgersi però nell’arena dello Stato-nazione, anche data la fine della grande narrazione globalista. Una tesi, questa, che era presente nei libri precedenti, esattamente in quello sul populismo. Si giungeva a questa conclusione da un’ampia analisi della situazione della fase internazionale, dell’assetto ordoliberale in particolare europeo, della post-democrazia, e diagnosticando la necessità dell’emersione di un “nuovo mosaico” all’altezza della crisi egemonica dopo la fine delle ipotesi ‘operaiste’ (ed anche post-operaiste).

Per liberarsi dello spirito dell’operaismo, per Formenti, bisogna affrancarsi dalla mitologia delle forze produttive e della capacità progressiva della “tecno-scienza” e quindi dall’idea collaterale che il capitalismo contenga il principio immanente che lo porta inesorabilmente al suo superamento[2]. Si connette a questa idea quella che le forze produttive siano neutre, che non abbiano un proprio ‘codice’ e quindi siano riutilizzabili in un contesto non capitalista se solo si cambia di segno al fatto giuridico della proprietà[3]. Consegue alla critica di queste posizioni quella che le nuove forme di lavoro immateriali siano in sé progresso, perché liberano le potenzialità e consentono all’individuo di esprimersi.

Il capitalismo cognitivo, invece, non genera affatto, da sé, le condizioni del suo superamento grazie alla ricchezza “sociale” prodotta, il motivo è semplice: questa viene appropriata, insieme alle soggettività che la producono, quasi interamente dal capitale, e ciò non avviene a caso, si tratta, infatti di una forma di produzione di valore che facilita il controllo centralizzato (in effetti è giunta a livelli di centralizzazione del controllo, e quindi anche di concentrazione del capitale, assolutamente impensabili[4], e genera immensi monopoli[5]). La particolare forma di cooperazione, innervata da tecnologie digitali ubique il cui lato oscuro si manifesta ogni giorno di più[6], che queste tecnologie e pratiche producono è essa stessa una funzione del capitale, che determina ed organizza il relativo modo della divisione del lavoro; essa include nel suo farsi e rende pensabile e quindi possibile, codici e condizioni materiali di comando, controllo ed organizzazione che sono oggi il modo stesso di esistenza del capitale. Ovvero di sua insorgenza. Tutto questo resta dentro il codice che, quindi, non è in sé veicolo di liberazione. 
Questo codice ha prodotto il paesaggio sociale che abbiamo davanti, nel quale le catene del valore, e la subordinazione del lavoro entro queste, sono sparse come tessere di un mosaico rotto, ma al contempo sono unite al livello al quale si determina l’impero del capitale. Il risultato è che il lavoratore tipo è ormai flessibile, specializzato, o al contrario del tutto deprivato di competenze e rapidamente gettato; privo comunque di consapevolezza del processo complessivo in cui viene coinvolto (data l’estrema parcellizzazione orizzontale dei processi), privo di garanzie sindacali, ibridato tra lavoro manuale e intellettuale, anche a causa della subordinazione crescente a routine predefinite dalle tecnologie informatiche e da queste controllate.

Il libro sul populismo si chiudeva con la proposta, forte entro la tradizione marxista, di ricominciare per questo a costruire “dal basso” e dal “fuori”. Non quindi dalle élite del lavoro, come vorrebbero sia in marxisti ortodossi (il giudizio di Marx sul sottoproletariato sta a mostrarlo) sia i postoperaisti; ma proprio dagli strati più deboli ed emarginati che oggi si orientano verso le proposte delle destre difensive. I migranti, i working poor, i lavoratori del terziario arretrato, i precari, i cognitivi declassati, ma anche quelli che stanno “fuori” (i contadini, il sottoproletariato metropolitano, il lavoro servile, le comunità indigene). Per farlo, senza assumere la postura “missionaria” dell’attuale sinistra radicale che muove da un’autossunta superiorità proponendosi come élite dirigente che conduce alla modernità, bisogna superare il pregiudizio progressista/modernista e saper guardare anche la lotta contro l’addomesticamento e per l’autonomia, dove e nella forma in cui essa è (o “qualunque cosa questo significhi”, come disse Gunder Frank riferendosi ai processi mondiali); ovvero anche se sembra “arretrata”. Non si tratta infatti sempre di “residui” feudali, fatalmente destinati a lasciare il passo al capitalismo, ma talvolta si tratta di modi di vita, o “forme di vita” e quindi anche di eticità, in conflitto con la “forma di vita” (e l’eticità) capitalista[7]. Si tratta allora di abbandonare il punto di vista immanentista e la ricerca costante di facili punti archimedei che consentano di trovare automaticamente la propria posizione; in particolare abbandonare l’idea che tutto si riassuma nella forma del capitale, considerata in ultima analisi la più evoluta, quella che si pone al culmine di un processo evolutivo per stadi (idea illuminista[8] di grande tradizione) di progressivo ‘apprendimento’[9].



Dodici tesi sullo stato delle cose presenti
Le dodici tesi presentate nella prima parte del libro sono le seguenti:
1-     Le sinistre oggi cooperano con la cultura liberale nel fornire legittimazione ideologica al neocapitalismo globale;
2-     L’ammirazione di Marx per il modernismo è rimasta come unico volto della sinistra, che si vede solo entro la coppia conservazione/progresso;
3-     Ma le rivoluzioni novecentesche non sono mai state ‘progressiste’, bensì si sono sviluppate come ‘rivoluzioni conservatrici’[10];
4-     L’adorazione della tecnologia, segno dell’integrazione nel paradigma progressista-borghese, è un altro segno dell’incapacità storica del movimento operaio, o meglio delle sue guide borghesi, di cogliere “l’elemento demoniaco della tecnica, la sua non neutralità rispetto ai rapporti di forza tra le classi”, per cui finisce per concepire l’apparato produttivo capitalista come un’immane collezione di merci di cui appropriarsi già pronta. La formula contenuta nel ‘frammento delle macchine’ è solo la versione più sofisticata di questa idea.
5-     La teoria operaista tenta di risolvere una contraddizione di fondo del marxismo per la quale da un lato si descrive la forza lavoro come interna al capitale e dall’altro si identifica la classe operaia come soggetto rivoluzionario. Di fatto si rimuove però il problema, dicendo che è l’internità della classe, portatrice della forza lavoro, a determinarne il ruolo rivoluzionario. Ma in questo modo non è più possibile concepire un “fuori” al rapporto di produzione capitalistico, e tutto si riduce ad esso (è questa una delle strade attraverso le quali è diventato possibile, finanche necessario, sostenere il capitalismo quando questo negli anni settanta è andato in crisi di valorizzazione). In realtà, sostiene Formenti, “è solo al di fuori di tale rapporto che l’antagonismo può esistere e manifestarsi”. E la storia della sinistra, in particolare italiana, sta lì a dimostrarlo.
6-     Questa rappresentazione come totalità chiusa del capitalismo (per il quale solo un piccolo slittamento ha consentito i vecchi marxisti dogmatici di diventare cantori delle sorti progressive del libero mercato) è stata una caratteristica molto estesa nel marxismo. Fanno in parte eccezione Rosa Luxemburg, David Harvey, Nancy Fraser i quali riconoscono che il mercato capitalistico e l’accumulazione possono esistere solo se ci sono almeno alcune relazioni sociali non mercificate. Quindi che “gli ambiti delle relazioni affettive e familiari, della riproduzione sociale, dei sistemi istituzionali e ambientali conservano gradi più o meno elevati di autonomia nei confronti dei rapporti di produzione”.
7-     Le sinistre sono mutate davanti alla crisi ed alla ristrutturazione degli anni settanta (automazione, organizzazione a rete, decentramento e deregolazione, finanziarizzazione, terziarizzazione); in pratica hanno scelto abbastanza consapevolmente di cercare una nuova base elettorale nei ceti medio-alti e quindi di diventare liberali. Anche le componenti radicali hanno subito un mutamento che parte dal 1968, che nelle componenti studentesche e borghesi, in esso egemoni, era sostanzialmente una spinta alla modernizzazione contro le vecchie caste sociali. Questo spirito antiautoritario, libertario e antipaternalista, si incarnava alla fine in una aspirazione di promozione sociale individuale. Queste spinte sono state cooptate e canalizzate dallo ‘spirito del capitalismo’[11] ed hanno portato lo spirito collettivo e sociale della sinistra a mutare geneticamente nell’attuale centralità della libera scelta individuale (magari condita di un solidarismo verso ‘gli ultimi’ di sapore più cattolico che altro). Alla fine anche per questa via il sistema liberale è stato accettato come l’unico possibile.
8-     Ed anche gli eredi ultimi del ’68, che Formenti riassume in “no global”, ecopacifisti, onda, girotondi, benecomunisti, sono impegnati a promuovere qualsiasi forma disponibile di ‘orizzontalismo’[12] senza neppure avvedersi della sua relazione con le forme liberali le quali vedono tutto come rete di relazioni individuali mediate dal mercato.
9-     Tutte queste mutazioni ideologiche sono connesse, anche se non coincidenti, con le mutazioni della composizione delle classi avvenuta negli ultimi decenni. In particolare delle classi medie, composte di dipendenti garantiti, ceti istruiti, professionisti, si sono allontanate dalle classi subordinate, che disprezzano e delle quali ignorano tutto. Bisogni, linguaggi, aspirazioni, estetica. Si è avuta in questi segmenti una trasformazione per la quale un largo strato di “lavoratori della conoscenza” (o “classe creativa”) prima si è differenziato ed ha avuto l’illusione di poter ascendere, poi, con il procedere dell’automazione e della messa in contatto orizzontale[13] sono stati espulsi. Di qui l’attuale crisi politica.
10- Il movimento femminista ha seguito una parabola simile, ai movimenti anticapitalisti degli anni sessanta e settanta. Ha svolto una funzione importante, ma ha compiuto anche la mossa di cercare di sostituire al soggetto rivoluzionario e della storia del marxismo, la classe operaia, un altro soggetto, incongruamente rappresentato nelle “donne” (ovvero in un soggetto che è metà dell’umanità ed evidentemente accomuna posizioni del tutto diverse nella stratificazione sociale e rapporto con il modo di produzione). Quindi, fatta questa mossa, si è reso necessario identificare anche un nemico che in effetti non fosse identificabile con la divisione del lavoro, ma con la divisione sessuale: dunque il “patriarcato”. La liberazione dal ‘patriarcato’ con una mossa esattamente copiata da quella ‘dialettica’ hegelo-marxista, coincide allora con la liberazione dell’intera umanità. Successivamente il “femminismo della differenza”, nella fase di drastico ridimensionamento dei rapporti di forza, si è cetomedizzato e spostato su obiettivi di riconoscimento identitario. Nella terza fase è emersa una piattaforma rivendicativa meramente emancipatoria senza più elementi distintivi che possano caratterizzarla in senso anti-liberale; qui cade la critica di Nancy Fraser[14].
11- Questo movimento può essere messo in relazione con il movimento ad allargare (entro l’occidente e fuori) il perimetro dei lavoratori, assorbendo il mondo femminile dedito alla cura non mercificata, allo scopo di ridurne la forza ed il costo. La gigantesca operazione di dumping sociale, essenziale per ricondurre il capitale in “zona profitto”, continua oggi attraverso i differenziali di reddito che permangono (dove lo fanno) tra maschi e femmine. Ma questi non sono tanto effetto del “patriarcato” quanto svolgono nella logica capitalista la funzione di disciplinare la forza lavoro maschile, per ragioni culturali e tradizionali spesso più rivendicativa. Non c’è prova quindi del permanere di un cosiddetto “dominio patriarcale”, ma sicuramente quella di una dinamica funzionale necessaria del capitalismo, che deve avere differenziali da sfruttare. Il patriarcato è invece, a ben vedere, “incompatibile con il nuovo regime di accumulazione, sia perché le caratteristiche femminili vengono valorizzate ed esaltate dalle nuove attività lavorative, le quali richiedono in misura crescente empatia e competenze comunicative, sia perché la cultura patriarcale rappresenta un ostacolo al dominio integrale di una forma merce che ingloba sempre più la sfera della riproduzione”. La gender theory è esemplare in questo senso.
12- Da ultimo la neolingua del “politicamente corretto[15] è un prodotto di nicchia delle università americane che si è esteso nella convinzione che la denotazione non rispecchia ma crea la realtà. Ciò determina in molti l’effetto che il liberalismo cosmopolita antiautoritario dominante in alcuni ambienti alto-borghesi ed in alcune aree specializzate molto presenti nei media, riesce ad imporsi come visione del mondo egemone, minacciando chi non la condivide di stigma di razzismo, fascismo, e riducendolo al silenzio.



Varianti e letture
A questa breve rassegna delle tesi della prima parte del libro, come sarà per la seconda parte, segue un capitolo costruito sulla lettura di alcuni testi e posizioni esemplari.
La prima è quella di Mario Tronti, autore di “Operai e Capitale”, che inizia a modificare la sua posizione quando riconosce, al riflusso delle lotte, che il capitale ha una proteiforme capacità di riadattare tutte le spinte che riceve ai suoi fini e l’ha potentemente messa in essere nel riassorbire le spinte della mobilitazione operaia (e ancora più degli studenti). A questo punto la diagnosi diventa crepuscolare: la sconfitta finale del movimento operaio, che ha perso la guerra, mette al tramonto l’intera politica. Insomma, la Storia finisce e resta l’amministrazione. La gestione amministrativa per conto del capitale (quella che fa il suo partito, del resto, il PD). Un pessimismo tragico, che si oppone all’ottimismo di Negri che reagisce alla stessa consapevolezza rifugiandosi invece in figure sempre più evanescenti.
Il secondo testo è quello di Boltanski e Chiapello[16] che sviluppano, come noto, la critica del ’68 come insieme di una “critica sociale”, presto abbandonata, e di una “critica artistica”, che invece è del tutto compatibile e viene di fatto utilizzata dallo spirito del capitalismo. Il quale, come dice Formenti, non si adatta né manipola, ma si integra ad essa, facendola diventare parte dei propri meccanismi di funzionamento, controllo e dominio.
Segue la lettura del famoso testo di Colin Crouch, “Postdemocrazia” e quindi del testo di Onofrio Romano “La libertà verticale”, che prossimamente leggeremo.
Completano la rassegna le letture dei testi di Marcello Turi e del suo “pensiero destituente”, dell’importante testo di Pierre Rosanvallon “La società dell’uguaglianza”, e di Thomas Piketty, “Il capitale del XXI secolo”, ma anche Richard Florida, Raffaele Ventura, Marco D’Erasmo, David Harvey.
Tra le parti più interessanti si trova la ricostruzione dello scontro tra femminismi intorno ai fatti di Colonia tra la Butler e alcuni suoi critici (p.63 e seg.). Si tratta di un’oscillazione tra quello che chiama ‘cattivo universalismo’ e ‘cattivo relativismo’; il primo è attribuito al femminismo classico, peraltro ereditato dal marxismo, il secondo ai gender studies, che finiscono per risolversi in una sorta di utopia neoanarchica (p.71), criticata anche grazie alla ripresa delle posizioni di Jessa Crispin, e successivamente di Nancy Fraser (p.99).
Quindi c’è un’interessante “nota sul caso Preve”, conosciuto dall’autore al tempo di “Alfabeta[17], nella quale la scomunica subita da parte di numerosi ambienti della sinistra radicale e quindi l’accusa di “rossobrunismo”, viene ricondotta “non al suo presunto deviazionismo di destra, bensì all’impietosa lucidità con cui ha descritto il processo di senescenza precoce e irreversibile delle sinistre” (p.86). Preve avrebbe, insomma, “bestemmiato il nome del padre” mettendo in luce “il carattere ossimorico della teoria marxiana” nel momento in cui tenta di dare vita ad un’utopia al contempo “scientifica”. Si tratterebbe, in particolare, della sintesi di un elemento romantico e di un elemento positivistico. Cercare di tenere insieme acqua e olio conduce: a) alla convinzione, derivata dall’evoluzionismo darwiniano, che il socialismo sarebbe iscritto nelle dinamiche immanenti del capitalismo; b) alla concezione del comunismo come paradiso e quindi generale riconciliazione dell’uomo con la natura (includendo la propria); c) alla narrazione di un soggetto salvatore (identificato nella classe operaia).
Osservare il fatale invecchiamento di questa sintesi, che poteva apparire ragionevole solo ad orecchie ottocentesche e che via via avanzava il novecento ha posto sempre più problemi, significa per Preve abbandonare non l’analisi del capitalismo o delle crisi (che conserva una potente capacità di disvelamento) bensì il cosmopolitismo di derivazione borghese e la radice illuminista in comune tra marxismo e liberalismo. Ovvero mettere in questione l’idea che “la lotta di classe si rivela in ultima istanza lo strumento per realizzare il trionfo dell’individuo razionale universale”. Queste idee, che tendono a funzionare “a pacchetto”, producono anche il razzismo e l’imperialismo occidentale, travestito da universalità dei diritti umani.

Come dice Formenti:

“Prendere la distanza da questa logica significa riconoscere che l’internazionalismo dovrebbe fondarsi sulla relazione fra comunità diverse che si riconoscono reciprocamente quali portatrici di forme di vita legittime. La lotta anticapitalistica è in primo luogo lotta fra individualismo e comunitarismo, tra una visione del mondo che intende i rapporti fra esseri umano come rapporti fra atomi individuali che si scambiano merci, e una visione del mondo che valorizza la resistenza delle comunità locali all’espansionismo globale dei mercati”.

E’ chiaro che una posizione in tal modo definita finisce per dare un ruolo positivo alla sovranità nazionale, chiaramente intesa in senso non nazionalista, razzista e imperialista.
La seconda eresia è riferita al ruolo della classe operaia. Essa non è il soggetto della rivoluzione, ma parte del ciclo di valorizzazione del capitale, facilmente assorbita nelle priorità di questa, come peraltro è avvenuto negli anni ottanta; se c’è speranza essa, casomai, “va riposta nei limiti che il capitale può incontrare a causa delle sollecitazioni antropologicamente insostenibili che impone all’umanità intera, e di quelle ecologicamente insostenibili che impone al pianeta” (p.88).
Terza eresia, l’inutilità dell’alternativa tra conservazione e progresso come confine tra destra e sinistra. Come per l’ultimo Tronti ciò porta Preve ad assumere posture conservatrici nella critica del dogma marxista dello sviluppo delle forze produttive, pensate come necessaria premessa alla transizione al socialismo. Seguendo la logica progressista, e la fascinazione per la tecnica, si finisce di fatto per far coincidere la sinistra con il liberalesimo. Ciò che occorre fare è invece proteggere la natura umana, l’ambiente, il legame sociale e la sovranità nazionale dallo sradicamento provocato per sua natura dai flussi imperiosi ed impersonali del capitalismo.



Seconda parte: ventidue tesi
Segue la Parte Seconda, che è organizzata in ventidue tesi e un’ulteriore rassegna di posizioni. Le tesi sono le seguenti:
    1-     La prima è che il populismo non è una ideologia, ma ha elementi comuni e caratterizzati. Tra questi l’uso di un linguaggio semplificato, emotivo, diretto, orientato a creare opposizioni bipolari.
     2-     Quindi che il “popolo” dei populisti non esiste. Ma è un effetto derivato dal discorso politico, non si tratta di ‘riconoscerlo’, ma di ‘costruirlo’. Precisamente di costruirlo, in una fase di crollo delle egemonie preesistenti, a partire da relazioni antagonistiche ed in funzione di domande che non riescono a trovare risposta.
    3-     Le sinistre tradizionali negano che possano esistere populismi di sinistra, ma questa distinzione è possibile proprio in funzione del tipo di domande che acquistano centralità.
   4-     L’altro punto di attacco è la rappresentazione del popolo come totalità. Cosa che segnala una effettiva ambiguità, ma inevitabile “nella misura in cui esprimono ampie alleanze fra classi sociali” altamente incerte della propria identità e per lo più prive di autocoscienza. Si tratta di comprendere i limiti della ricerca di un soggetto rivoluzionario privilegiato, oggi particolarmente difficile per effetto della natura della società. Né questo problema è risolvibile appellandosi alla vaga nozione di “moltitudine” di Negri. L’obiettivo diventa piuttosto di “costruire il blocco sociale fra terzo Stato e classi medie impoverite e/o minacciate dalla globalizzazione (ad esempio piccoli e medi imprenditori).
    5-     Le sinistre sono anche irritate dall’impossibilità a fare a meno di un leader carismatico, che, invece appare centrale nelle strategie populiste.
    6-     La globalizzazione non è l’esito di tendenze ‘oggettive’ del modo di produzione capitalistico, e non anticipa, malgrado qualche effetto collaterale, un mondo migliore. Se si accetta questa narrazione, tipica del liberalesimo dai tempi di David Ricardo, non si può più distinguere tra la dimensione internazionale degli scambi e della produzione e la “guerra di classe dall’alto” che, con irradiazione dagli Usa e dalle imprese monopolistiche, si è estesa a partire dalla crisi di valorizzazione degli anni settanta[18]. Pensare che questo sia parte di un processo di indebolimento degli Stati in quanto tali significa perdere di vista la meccanica della cosa. Quelli che si indeboliscono sono alcuni Stati, a vantaggio di altri. Le grandi società multinazionali, oligopolistiche o monopolistiche in alcune aree, riescono a indebolire la sovranità degli Stati in cui operano in genere grazie al sostegno attivo dello stato di partenza (spesso gli Usa) e sono usate per pompare valore dagli stati periferici, grazie alla manipolazione politica delle ‘ragioni di scambio[19] e la banale ragione che il capitale è nazionale (per cui i flussi di remunerazione dello stesso vanno a rinforzare il capitale nazionale[20]). La globalizzazione è quindi un processo politico che usa mezzi economici e ha la funzione di mercatizzare in modo subalterno il mondo e ristrutturare l’ordine mondiale, cooptando in questa operazione le élite dei paesi periferici[21], tramite le relazioni commerciali.
    7-     L’obiettivo della globalizzazione non è liberare il capitale dal giogo degli Stati, ma da quello della democrazia.
   8-     Gli eventi del 2016 non sono esito della controffensiva di settori arretrati del capitalismo quanto sintomi che la crisi della globalizzazione, già in atto, è giunta ad una fase terminale.
   9-     La crisi della globalizzazione ha colto di sorpresa le sinistre cosmopolite che confondono un internazionalismo astratto per una reale prospettiva di liberazione. Questa ideologia che fa leva su un mondo immaginato senza frontiere rispecchia i valori e gli interessi del ceto medio riflessivo con le sue aspirazioni di mobilità (in particolare sociale) che per salvarsi l’anima si rifugia nella pietà per gli “ultimi”, dimenticando: 1) che la libera circolazione non è affatto ‘libera’, in quanto sussistono coazioni economiche e talvolta politiche che la generano, 2) che l’immigrazione serve al capitale per abbassare il costo del lavoro ed aumentare la sua scelta, costringendo a disciplinarsi il lavoro che c’è, 3) che questo fenomeno è difficilmente compatibile con il finanziamento del welfare e quindi contribuisce al suo smantellamento.
   10- La difesa della sovranità nazionale non è necessariamente di destra.
  11- Il rapporto tra nazioni del centro, della semi-periferia e della periferia incorpora una relazione di dominio fra classi straniere e locali (non estesa solo alla borghesia). Autori come Amin, Fanon, Wallerstein, hanno contribuito in modo decisivo ad arricchire la teoria marxista sotto questo profilo, mostrando le dinamiche dello “sviluppo del sottosviluppo[22]. Questa dinamica non vale solo verso l’ex terzo mondo, ma si estende ai rapporti a catena entro il “centro sviluppato”, che è organizzato gerarchicamente attraverso i nessi sistemici diretti e più spesso indiretti che connettono i grandi capitali e le grandi aziende[23]. “Ecco perché la riconquista della sovranità nazionale è l’unica strada percorribile per riottenere il controllo collettivo sulle proprie risorse, sulle politiche economiche e sociali e sui flussi di capitali, merci e persone”.
  12- Contro coloro che ritengono illusoria ogni prospettiva di aumento dell’autonomia dal sistema globale capitalista, si può mobilitare il pensiero marxista di Samir Amin e Hosea Jaffe che per decenni hanno riflettuto sulla prospettiva del “delinking”, come unica via possibile per rendere possibile qualsiasi passo verso il socialismo. Naturalmente “delinking” non vuol dire una impossibile ed antistorica anarchia, ma ridurre a quanto utile le importazioni e al massimo possibile l’uso delle risorse locali, accentrare il surplus economico nelle mani dello Stato e ridistribuirlo in funzione dei bisogni settoriali di crescita, tenendo ferma la centralità della piena occupazione e la difesa delle classi subalterne; regolare i flussi di capitali garantendo la sovranità monetaria, far valere la politica.
  13- L’Unione Europea è una prova dell’economicismo che regna a sinistra. Malgrado l’evidenza della sua irreformabilità. Invariabilmente si ripete sempre che la globalizzazione ha prodotto alterazioni che rendono impossibile gestire l’economico dallo Stato-nazione (quando, casomai, è chiaro che è ingestibile, se non a vantaggio dei più forti, dal lato Europeo). Altra tesi che si sente ripetere è che l‘Unione deve diventare un solo blocco coeso e sovrano, per confliggere con gli altri grandi blocchi (Usa e Cina) senza neppure accorgersi che questa coincide perfettamente con quella del grande capitale. A voler essere cinici questa tesi ha, in effetti, un suo fondamento, in quanto lo sfruttamento del mondo dipende, immutati i rapporti di classe e potenza, dal livello al quale si colloca lo Stato che protegge il capitale n.esimo, e/o l’azienda multinazionale (aprendogli mercati in condizioni privilegiate, ottenendo per lei commesse pubbliche riservate, proteggendola da scalate ostili, garantendogli migliori condizioni di credito, se del caso salvandola). Dunque dal lato della frazione di capitale dominante (allo stato tedesca) ha perfettamente senso, in particolare se il parlante appartiene ad uno di quei ceti coinvolti nella sua catena di valorizzazione e di estrazione del surplus (potenziale[24]). Comincia ad averne già meno dal lato della frazione di forza lavoro coinvolta in posizione subalterna, che ne raccoglie le briciole, e ne ha davvero poco dal lato della frazione di capitale dominata (ad esempio italiana, o spagnola, …) che vedrà nel medio periodo consolidarsi il ruolo subalterno. Scarsissimo dal lato degli interessi delle classi subalterne dei paesi periferici, coinvolti solo nelle parti marginali delle catene di subfornitura, e costretti ad una aspra competizione di prezzo. Uscendo dall’economicismo si comprende bene e facilmente per quale ragione un’Europa democratica, attenta a bilanciare costi e benefici sulle diverse classi ed a ricondurre il capitale alla funzione pubblica che dovrebbe avere, non è possibile: manca del tutto una ragionevole comunanza politica e culturale, a meno di considerare solo le classi alte, abituate a frequentare gli stessi grandi alberghi e viaggiare nella classe business degli aerei.
  14- La Ue è in effetti, un esperimento istituzionale che attua quanto immaginato da Hayek all’avvio del secolo scorso[25]. Lo scopo era di spezzare il rapporto tra politica e territorio che si apprestava ad obbligare il capitale a tenere conto delle classi subordinate, in quanto capaci di organizzarsi e di esercitare solidarietà interna. Attraverso un impianto filosofico ordoliberale, imperniato sui poteri dello Stato per neutralizzarne la democrazia, si assicura che domini invariabilmente il principio della concorrenza.
  15- È la Germania, la patria dell’ordoliberalismo, a dominare in questa condizione. Questa relazione asimmetrica è stata promossa proprio dai paesi periferici, da scelte autonome di Andreatta, Ciampi, Padoa Schioppa, Prodi, ognuno per la sua parte ed al suo momento, per assicurarsi che gli interessi del capitale verso quelli dei lavoratori prevalesse, neutralizzando l’eccesso di socialismo della Costituzione italiana. Si è trattato, in un percorso che prende avvio dallo Sme, di implementare un sistematico “vincolo esterno” che impedisse ogni possibilità di avanzamento alle forze sociali.
  16- Il meccanismo più potente è l’obbligo per qualsiasi necessità di finanziamento di rivolgersi al mercato, senza poter esercitare i poteri di una Banca Centrale che prima è stata resa “indipendente”, e poi, direttamente, resa sovranazionale. È qui che il principio del ‘delinking’ può manifestare la propria potenza, solo “uscendo dall’Euro e riconquistando la sovranità monetaria sarà possibile ridare spazio al conflitto ridistributivo, invertire la tendenza alla privatizzazione, nazionalizzare le banche e le imprese in crisi e i servizi pubblici, ed infine adottare politiche fiscali progressive”.
  17- Lo scetticismo alla nazione si accompagna a quello per lo Stato, sulla base di un’ideologia neoanarchica spesso inconsapevole. Lo Stato è sempre il nemico del popolo, e quindi nessuna presa del potere può essere immaginata. È la versione di sinistra della controdemocrazia di cui parla Rosanvallon[26]. Il benecomunismo e l’attenzione per il “terzo settore” sono immagine di questa deriva, che comporta l’abbandono all’aspirazione ad abolire il capitalismo e puntano su una radicale spoliticizzazione della società civile.
  18- Le ideologie criticate possono essere sintetizzate nella formula “cambiare il mondo senza prendere il potere”, che ha un sapore obiettivamente cristiano.
  19- Le rivoluzioni bolivariane non sono direttamente socialiste, ma si tratta di capire in che misura hanno messo in movimento un processo reale di democratizzazione dello Stato e aumentato l’indipendenza nazionale dall’imperialismo occidentale, che a quella latitudine più che altrove significa americano. “Questo perché non va dimenticato che la lotta di classe in certe circostanze assume forma geopolitica, e che il conflitto tra nazioni del centro e nazioni periferiche ha di per sé la natura di un conflitto di classe, per cui schierarsi dalla parte delle seconde è più importante che tracciare un confine astratto fra rivoluzione nazional-democratica e rivoluzione socialista. Che poi la rivoluzione nazional-democratica possa evolvere in rivoluzione socialista dipende da fattori economici, sociali, geopolitici in larga misura contingenti e imprevedibili” (p.124).
  20- La novità è che a causa degli effetti della rivoluzione liberale sia nella composizione sociale nei paesi “avanzati”, sia nei rapporti di subordinazione centro-periferia, anche eventuali rivoluzioni anti-liberiste dovrebbero attraversare una fase nazional-democratica e riformista. Sia per ragioni soggettive (il proletariato non è pronto), sia per la necessità di ricostruire le solidarietà politico-sociali, valorizzando la resistenza dei luoghi, attivando politiche redistributive graduali, unendo forze eterogenee, cercando il sostegno di blocchi sociali maggioritari e quindi necessariamente trasversali. Quel che qualche anno fa sarebbe stato considerato socialdemocratico oggi, in questo contesto altamente degradato, suona sovversivo.
  21- Questo avvio di trasformazione, anche se passa per una fase democratica e giacobina, è altamente difficile e può avvenire solo in presenza di una profonda crisi.
  22- Naturalmente in simile processo ha in sé dei rischi di degenerazione che possono essere contrastati attivando istituzioni popolari di democrazia. Capaci di contrapporsi alle decisioni degli organi rappresentativi e avviare un conflitto nei confronti dello Stato sancito costituzionalmente.



Varianti e letture
La sezione di “varianti sul tema”, ovvero quella che ripercorre letture di autori e testi, parte con una restrospettiva su Ernesto Laclau e Chantal Mouffe. Il primo ripensa le dinamiche politiche populiste, di cui ha fatto esperienza in Argentina, interpolando fonti diverse, come il marxismo originale, lo strutturalismo e post-strutturalismo e infine una rilettura originale di Gramsci. Un ‘momento populista’ per Laclau si verifica quando un sistema egemonico è scosso e si insediano delle “catene equivalenziali” che riescono a mettere insieme l’energia delle domande inevase dal sistema stesso. Intorno a domande inevase, anche se diverse, si può quindi articolare una nuova soggettività sociale. Ma il vero e proprio “momento populista” si verifica quando da una serie disparata di domande istituzionali si innesca un discorso antagonista e si forma quindi una “frontiera antagonista”, intorno alla quale si dispongono amici e nemici. Prendendo le distanze dal marxismo queste domande si aggregano non in riferimento al modo di produzione, alla posizione rispetto alla produzione o distribuzione di ricchezza, ma sul piano simbolico. Quindi diventano rilevanti tutti i piani di frattura potenzialmente antagonista e i relativi movimenti.
Quindi se una domanda o una rivendicazione riesce ad incarnare simbolicamente, grazie ad una opportuna rappresentazione e narrazione, una catena equivalenziale abbastanza larga assume un carattere “egemonico”. Su questa base, aggregando altri gruppi sociali, si può costituire un blocco sociale. Blocco che è aggregato sulla base di un linguaggio necessariamente impreciso, fluttuante, eterogeneo, mettendo in campo parole generiche (come giustizia) che significano cose diverse per gruppi diversi.
Questa operazione di grande difficoltà, e sempre a rischio di disgregarsi per effetto dell’eterogeneità delle soggettività e dei potenziali conflitti di interesse tra di esse, deve essere tenuta insieme non solo dal discorso politico, quanto dai processi di identificazione sia entro il gruppo sia in verticale, con il leader. Che risulta quindi essenziale per il successo dell’operazione egemonica.

Rispetto a questo discorso, che comunque, tiene fermo l’obiettivo di criticare il potere e non solo chi lo occupa pro-tempore (risolvendosi in un discorso sulla ‘casta’ o sulla ‘onestà di questa’), la Mouffe produce una versione piuttosto debole ed “edulcorata”.
Secondo l’opinione di Formenti Chantal Mouffe, dopo la scomparsa del marito e coautore, ha depotenziato la valenza antisistemica e utilizzato la struttura concettuale messa a punto per disancorarsi da qualsiasi riferimento alle classi subalterne, arrivando ad una definizione di “sociale” come “spazio discorsivo, prodotto di articolazioni politiche contingenti, che non hanno nulla di necessario e potrebbero sempre assumere una forma differente”. Questa definizione evenemenziale, concentrata sull’attimo, manifesta più profondamente una diversa intenzionalità politica, più volta alla conquista del potere (per la quale l’aggregazione episodica e contingente di interessi diversi e segmenti di classe eterogenei ed incompatibili è sufficiente, purché avvenga ad una votazione), che alla trasformazione delle strutture sociali-statuali (per la quale è necessario che la coalizione regga nel medio periodo ed attraversi significative tensioni). Il centro della sua teoria è quella che l’autore chiama “una versione radicale del concetto di autonomia del politico”, che si colloca “nella congiuntura”, anziché “ragionale sulla congiuntura” (distinzione attribuita alla postura di Machiavelli).
Potrebbe sembrare un progetto politico di sapore soreliano (volontaristico e soggettivo), ma viene speso esplicitamente entro il quadro della democrazia rappresentativa e la lotta per la successione, quella che chiama “una democrazia agonistica”[27].


Seguono alcune letture dei testi sul populismo di Damiano Palano[28], Marco Tarchi[29] e Andrea Ricolfi[30], l’ultimo dei quali abbiamo letto tempo fa.

Quindi un inserto di grande rilevanza sulla “questione nazionale nel marxismo”. Qui la tesi di Formenti è netta: Marx non ha mai confuso cosmopolitismo borghese e internazionalismo proletario e la battuta finale del “Manifesto del Partito Comunista[31], nel momento in cui afferma che “gli operai non hanno patria” è spesa perché di essa sono privati, non perché non la possono avere[32]. Del resto proprio nella parte in cui delinea il movimento della liberazione del proletariato[33], che con tipica riduzione economicista (le cose si incaricheranno di mostrare la loro maggiore complessità) dichiara essere “spogliato di ogni carattere nazionale”[34], Marx scrive anche: “sebbene non sia tale per il contenuto, la lotta del proletariato contro la borghesia è però all’inizio, per la sua forma, una lotta nazionale. Il proletariato di ogni paese deve naturalmente farla finita prima con la propria borghesia” (ivi., p.66).
Per inciso, l’equazione sulla quale è impostata l’azione di Marx si può derivare con evidenza da queste poche pagine: 1- la borghesia non riesce a garantire la ricchezza distribuita e accumula nelle sue mani tutto, lasciando il proletariato con la sua crescente disperazione e senza vie di uscita; 2- ma se il proletariato è un prodotto del capitale (“condizione del capitale è il lavoro salariato”) e “si fonda sulla concorrenza degli operai tra di loro”, allora 3- è il progresso dell’industria, mosso dalla tecnica (ovvero dall’automazione pesante, tipica del suo tempo), che sostituisce alla competizione tra gli operai la loro unione e quindi, 4- “lo sviluppo della grande industria toglie di sotto i piedi della borghesia il terreno stesso sul quale essa produce e si appropria dei prodotti. Essa produce innanzi tutto i suoi propri seppellitori. Il suo tramonto e la vittoria del proletariato sono ugualmente inevitabili”. La condizione di validità di questa equazione, scossa dalla fase monopolistica e imperialista del capitalismo (che crea le condizioni per cooptare almeno consistenti “aristocrazie operaie” e, con l’aumento della produttività, di allargare le fasce medie), è quindi distrutta dalla svolta che si riassume nella piattaforma tecnologica della “accumulazione flessibile” (formula proposta da David Harvey[35]).

Di seguito è analizzata la questione della lotta di liberazione nazionale irlandese[36], come condizione perché cessi la lotta interna nella classe operaia inglese, messa in concorrenza con quella irlandese dalla borghesia (la quale, per così dire, prende due piccioni con una fava, prima sfrutta i latifondi irlandesi, espellendo parte della popolazione e sottraendogli i mezzi di sostentamento, poi li importa in Inghilterra per mettere pressione agli operai inglesi). Per Formenti “si tratta di un cambiamento cruciale di prospettiva: si passa infatti dall’idea che la rivoluzione è il prodotto di condizioni oggettive, che possono darsi solo dove lo sviluppo delle forze produttive raggiunge i livelli più elevati, all’idea secondo cui il capitalismo può e deve essere aggredito laddove si accumulano le contraddizioni politiche più radicali” (p.145). In alcuni casi è proprio la soluzione della questione nazionale ad aiutare il socialismo. Un dibattito che si ravviva nella Seconda Internazionale, ed in particolare nel confronto tra le posizioni di Rosa Luxemburg e Lenin[37].

Ancora viene analizzata la posizione di Antonio Gramsci e la sua teoria del blocco sociale “nazional-popolare”. Si tratta della reazione al fatto che la fine della prima globalizzazione[38], nel quale si è spesa buona parte della vita dei fondatori, ed il fallimento nei paesi industrializzati delle spallate seguite al ’17, con i variamente tragici esiti, portano alla necessità di una “guerra di posizione” tra borghesia e proletariato allo scopo di conquistare l’egemonia. A questo punto, anche a causa del riflusso della pauperizzazione, almeno parziale, e delle misure di espansione dello stato nel nascente welfare (che si avvia in Germania e in Inghilterra, proprio in risposta alle agitazioni socialiste, intorno all’ultimo ventennio del secolo XIX), la teoria della costruzione di un blocco sociale rivoluzionario non può assumere che un carattere nazional-popolare.

Questo dibattito scompare del tutto quando si riavvia la nuova globalizzazione[39], in uno con il sorgere del modo di produzione della “accumulazione flessibile” e quindi con la distruzione delle condizioni di forza delle classi lavoratrici. Il massimo esponente di questa ripresa del cosmopolitismo è naturalmente Toni Negri, in “Impero” e negli scritti successivi. Come scrive Formenti:

“Negri ripropone /al pari della maggioranza degli intellettuali della sinistra occidentali) un internazionalismo dottrinale ed astratto, assieme alla tesi secondo cui la transizione al comunismo può avvenire solo ai più alti livelli di sviluppo delle forze produttive. Questo punto di vista rimuove ogni riflessione sulla contraddizione centro/periferia (nell’Impero negriano il centro è ovunque e in nessun luogo) teorizzata dai vari Wallerstein, Samir Amin e Arrighi, e quindi liquida come anacronistica, se non reazionaria, qualsiasi rivendicazione di indipendenza e sovranità nazionali”.

giudizio è drastico:

“Si tratta di un pensiero sciovinista/eurocentrico che, da un lato, torna ad esaltare la missione ‘civilizzatrice’ del capitale e dello sviluppo delle forze produttive (delle quali viene ignorato/rimosso il contenuto di classe), dall’altro considera irreversibile, oltre che ‘progressivo’, il processo di globalizzazione capitalista, finendo di fatto per celebrare il processo di americanizzazione della cultura planetaria”.

Quel che appare come una ‘buona novella’ è, insomma, l’unificazione del mondo attraverso i mercati. La quintessenza del pensiero borghese: “la pace universale”.

Per criticare questa posizione viene richiamato il lavoro di Wolfgang Streeck[40] che inquadra la crisi nella lunga trasformazione avviata negli anni settanta, non senza l’alleanza con l’onda lunga del ’68.
E richiama anche il recente libro di Thomas Fazi e William Mitchell “Sovranità o barbarie”, che abbiamo letto in questo post, in particolare il ruolo strategico delle sinistre socialdemocratiche.

Viene quindi una rilettura del lavoro di Hosea Jaffe e Samir Amin sul ruolo della nazione in una prospettiva anticapitalista che prende le mosse dalla ridefinizione della lotta di classe in termini di scontro geopolitico tra centri e periferie. Il rovesciamento totale della prospettiva, rispetto a quella di Negri (con numerose, peraltro, polemiche dirette), è originato dalla diversa posizione di parlante: le università centrali o semi-centrali e la lotta terzomondista concreta e materiale. Il giudizio su quello che Losurdo chiamerà “marxismo occidentale” è particolarmente severo in Jaffe[41] che propone la priorità delle lotte per la rottura del dominio del “Nord” sulle lotte per il socialismo (tesi alla quale viene opposta la posizione “postcoloniale”, secondo la quale il ciclo delle lotte di liberazione nazionale è ormai concluso e la questione della disuguaglianza deriva da endogeni fattori di sottosviluppo e non dallo sfruttamento, si potrebbe dire dai residui feudali e non dal capitalismo[42]).
Samir Amin sostiene che oppressione e sfruttamento, ora da parte della cosiddetta “Triade” (Usa, Europa e Giappone), è ancora del tutto presente, anche se passa per il controllo della tecnica. Anzi le società del terzo mondo, salvo quelle che hanno schermato il proprio sistema, sono state “ri-compradorizzate” e il loro sottosviluppo è condizione dello sviluppo dei centri. La cosa però si estende anche entro i “centri”, ad esempio nella relazione tra la Germania ed i paesi “semi-centrali” del sud Europa e dell’Est. La conseguenza è che “la lotta di classe non può essere ridotta all’opposizione [idealtipica] borghesia/proletariato in campo economico, ma chiama in causa il ruolo della politica, dello Stato e della nazione”.
Nasce da questa teoria[43] l’idea che il superamento del capitalismo passi necessariamente dalle periferie e dal loro sganciamento dalle relazioni di subordinazione, ed estrazione di surplus, imposte dal mercato globale. Si tratta di opporre una strategia di sviluppo autocentrato, fondato sulla protezione della domanda interna e l’orientamento ai bisogni.

Altri approfondimenti presenti nel libro sono la lettura del testo di Dardot e Laval “La nuova ragione del mondo”, che abbiamo letto qui, di cui è criticato l’esito anarchico che segue ad un’analisi precisa e ficcante. E la ripresa di alcuni libri[44] di Alessandro Somma e Sergio Cesaratto[45] sull’Unione Europea.



In definitiva l’attivazione di un processo, necessariamente complesso ed anche disordinato, di superamento dello stato attuale delle cose non potrà venire, non è mai venuto, dalle classi integrate, sia pure in posizione di debolezza, nel sistema e connesse strutturalmente con il capitale. Quelle classi che, come vedeva anche Marx, sono prodotte dal capitale.
Ma potrà eventualmente scaturire, è la tesi centrale del libro, da quel genere di “popolo” che si aggrega intorno a chi questa ‘rivoluzione’ la vuole. Non potrà avvenire dunque al punto più alto di manifestazione del capitale e delle forze produttive, ma nell’anello più debole; non avverrà tra le classi “creative”, che sono la manodopera della forma di capitale oggi dominante, quello connesso con la “conoscenza”. Tutte queste strade sono state tentate e si sono rivelate sterili.

Al contrario la speranza di rimettere in questione il sistema di sfruttamento capitalistico può scaturire, oggi, dopo che cinquanta anni di neoliberismo hanno riportato in auge l’ipotesi “pauperista” di Marx, per quelli per i quali ciò avviene; emergere da coloro che esprimono una domanda impellente di protezione e spesso lottano per la conservazione del poco che hanno. Quindi può prodursi da un “blocco sociale spurio”, che apparirà ai giovani e belli ‘lavoratori della conoscenza’, colti e plurilaureati, abituati a muoversi e desiderosi di promozione nelle lucenti case del capitalismo internazionale (anche quando sono intrappolati nel sottoscala del precariato “cognitivo”), come “sporco, brutto e cattivo” e quindi anche, ovviamente, politicamente davvero scorretto. Sia chiaro: questo “blocco sociale” produrrà un movimento confuso, come è sempre stato[46] che almeno all’inizio avrà caratteri “nazional-popolari” e, se va bene, democratici e persino giacobini. Una rivoluzione che non sembrerà tale, fatta come sarà di compromessi, alleanze e mediazioni di ogni tipo. Ma se diretta correttamente, se agita dalle forze che si muovono nei margini e sono determinate per questo, unite dal comune senso di esserlo, il movimento potrà evolvere e un passo alla volta, man mano che si spostano i rapporti di forza e si guadagnano alleati tra le classi inizialmente ostili.

Naturalmente qui non si sta parlando solo di conquistare il potere, vincere le elezioni e sostituire un governo. Si tratta di ciò, ma bisogna anche che serva a creare le condizioni per la costruzione di una nuova forza popolare, un nuovo potere. Trasformando le strutture statuali, in un processo costituente che ridefinisca le stesse regole del gioco. In Italia significa in primo luogo attuare, e per questo rinforzare, i principi sanciti nella prima parte della Costituzione, liberarsi del “vincolo esterno”, ripristinare la possibilità di governo politico in vece della governance neoliberale[47].
Si tratterà anche di garantire, come dice Formenti, “la separazione fra società e Stato, consentendo alla prima di creare organismi popolari autonomi, separati tra Stato e partito, cui deve essere assicurata la possibilità di valutare e controllare le decisioni del potere politico (nonché di criticarle e opporvisi!)”. Si tratterebbe, in effetti, di una “rivoluzione riformista” dai caratteri inizialmente radical-liberali, o almeno ibridi.

E’ un punto decisivo, bisogna attraversarlo prima ancora di passare a quello eventualmente successivo del socialismo (che richiede profonde modifiche del modo di produzione): abbiamo visto che la prassi rivoluzionaria immaginata dal Marx del 1848, sulla base di un teorema innestato su una visione a stadi del processo storico e una rappresentazione della tecnica linearmente proiettata, si è rovesciata nel corso del novecento (ma a partire dalla fase monopolista ed imperialista già presente nell’ultimo quarto del XIX secolo), attraverso un compromesso risarcitorio profondamente innestato di logica di potere e riduzione amministrativa. Vengono in questa fase scolpiti in norme e procedure un insieme di diritti politici e di diritti sociali di ripartizione di parte della ricchezza sociale prodotta. Si ottengono però due effetti co-sviluppati: si dischiude, via via fino alla crisi degli anni settanta, la prospettiva di vivere in sicurezza e garanzia, godendo di un crescente benessere in cambio della disponibilità di fornire lealtà e di un certo grado di spontanea disattivazione. In conseguenza tutta la società è sussunta entro la logica del capitale, ovvero è estesa alla funzione del ‘lavoro salariato’ (diretto o indiretto) ed è chiamata alla disciplina ed alla promozione della crescita capitalistica. Questa crescita è interiorizzata come obiettivo per tutti anche dalle formazioni dei lavoratori, dal sindacato e dai partiti.
Gradualmente, come vede ad esempio Ignazi[48], però i partiti sono risucchiati dall’espansione dell’apparato statale, il quale come un giano bifronte guarda alle forze sociali che beneficia ed alle forze del capitale che alimenta e sempre più sembra autoprogrammato. Habermas, nel 1989, dirà che “così l’altra faccia di uno ‘stato sociale’ diventa la democrazia di massa: cioè un processo di legittimazione controllato e diretto dall’amministrazione”[49].

La crisi degli anni sessanta, dalla quale emergono le energie vampirizzate dal capitalismo e rivolte contro le stesse energie rivoluzionarie, ovvero contro l’azione collettiva che ne è il presupposto, emerge direttamente da questa contraddizione. La tendenza alla burocratizzazione ed alla riduzione di ogni bisogno, una volta che sia riconosciuto, tipizzato ed erogata la risposta in forma normale, ad una mera gestione amministrativa, incoraggia apatia e spinge a rinunciare alla democratizzazione radicale in cambio dell’accesso al mercato del lavoro, apre, inoltre quel vuoto di senso diagnosticato da Pasolini[50], nel quale si precipita il sostituto del consumismo[51].



È necessario dunque trovare la via per riattivare queste energie ed incanalarle senza presumere la dissoluzione dello Stato o del potere amministrativamente impiegato, del quale continua ad esserci bisogno (in quanto l’unica alternativa reale è il potere impersonale, muto e disgregante del codice-denaro, o il puro e semplice dispotismo, o la combinazione delle due verso cui ci avviamo). La soluzione – che resta nel quadro liberale - di Habermas, come noto, è una dialettica tra questo ed il potere “comunicativamente prodotto”, ovvero l’istituzionalizzazione di obblighi di giustificazione sistematici insieme alla garanzia e protezione di una sfera pubblica autonoma e dei suoi organismi alla quale deve essere attribuito il monopolio delle ragioni. Ovvero, nel suo linguaggio, “il pool di ragioni dalle quali le decisioni amministrative devono necessariamente essere razionalizzate”. Palesemente ciò implica che nessuna schermatura post-democratica (e dunque tutta l’architettura dell’Unione Europea, per come si è costituita sin dall’inizio) è legittimabile[52].
Chiaramente:

i procedimenti democratici giuridicamente strutturati possono condurre a una formazione razionale della volontà solo nella misura in cui l'organizzata formazione d'opinione che all'interno degli organi statali produce decisioni responsabili resti permeabile ai valori, temi, contributi e argomenti liberamente fluttuanti in quella comunicazione politica che le fa da sfondo e che, come tale, non è mai completamente organizzabile”.

La sfera pubblica è quindi “non programmata per decidere” (e dunque può essere anche non organizzata). Si tratta di un concetto normativo che sul piano fattuale si articola in una rete comunicativa di sfere pubbliche variamente specializzate nel produrre e diffondere convinzioni, nell'individuare temi, fornire contributi, interpretare valori, produrre o contrastare argomenti. Sono influenti ma solo indirettamente, articolando il set di ragioni che sono mobilitabili (ma non complessivamente aggirabili senza prezzo) dalle sfere politiche.  

Un simile potere (che può anche, e deve, essere visto anche in modo molto meno disincarnato di quanto faccia il francofortese), secondo la bella metafora usata, è “esercitato secondo le modalità di un assedio”, e si concentra, nella separazione tra società e Stato di cui parla Formenti, sull’influenza sulle premesse dei processi decisionali del sistema amministrativo, ovvero nel “regolare e contingentare il pool di ragioni che esso può trattare strumentalmente”, ma mai permettersi di ignorare.



Da una rivoluzione di questo genere ad una eventualmente socialista si passa mettendo mano alla proprietà (che è un concetto multidimensionale e quindi può essere articolato per gradi) dei mezzi di produzione. Riconducendoli alla propria sostanza e funzione sociale. Ma anche dei processi riproduttivi (sui quali è interessante la riflessione di Nancy Fraser) e di scambio (in primo luogo internazionali)[53].
Quindi mettendo mano alla divisione del lavoro nazionale ed internazionale (seguendo le intuizioni di Samir Amin). Questa ultima dimensione è necessaria per avere lo spazio di riconquistare la sovranità popolare e per costruire un nuovo spazio internazionale di cooperazione e si può giovare dell’attuale trasformazione in corso in senso multipolare[54]. Il libro si concentra quindi nell’ampia descrizione degli scenari geopolitici in mutamento, richiamando le ipotesi in tal senso di Pierluigi Fagan[55], e la valutazione del ruolo crescente del “capitalismo di Stato” cinese.


Da ultimo, prima di un interessante Atlante, su l’America Latina, gli Stati Uniti, l’Europa e l’Italia, nel paragrafo “appunti sparsi sui Quaderni di Antonio Gramsci”, Formenti torna su alcuni noti passi dell’opera maggiore, anche se incompiuta, del grande rivoluzionario sardo per riassumere i temi della grande crisi[56], della “grande e piccola” ambizione[57], che amplia la riflessione sul Partito e i gruppi dirigenti in esso, del concetto di egemonia. In questa ricostruzione per punti emerge, alla fine, un notevole punto di differenza con la rilettura che Laclau compie di Gramsci: quello circa il ruolo dell’ideologia, che per Gramsci è “la soprastruttura necessaria di una data struttura”[58]. Il filosofo argentino, invece, rovescia i termini e determina la struttura dalla soprastruttura (o meglio la dissolve). Si tratta, precisamente dell’esatto simmetrico degli errori indicati dal nostro: “1) si identifica l’ideologia come distinta dalla struttura e si afferma che non le ideologie mutano la struttura ma viceversa 2) si afferma che una certa soluzione politica è ‘ideologica’ cioè è insufficiente a mutare la struttura, mentre si crede di poterla mutare si afferma che è inutile, stupida etc. 3) si passa ad affermare che ogni ideologia è ‘pura’ apparenza, inutile, stupida, etc.” Ora il nostro in effetti qui distingue tra “ideologie storicamente organiche”, ovvero “necessarie a una certa struttura” ed altre “arbitrarie”. Le prime hanno una validità per così dire ‘psicologica’, ma in un senso forte. Esse, infatti, “formano il terreno in cui gli uomini si muovono, acquistano coscienza della loro posizione, lottano, ecc”.

La relazione è molto interna e profonda:

“… rafforzare la concezione di ‘blocco storico’, in cui appunto le forze materiali sono il contenuto e le ideologie la forma, distinzione di forma e contenuto meramente didascalica, perché le forze materiali e non sarebbero concepibili storicamente senza forma e le ideologie sarebbero ghiribizzi individuali senza le forze materiali” (7, $ 21)

Si tratta del campo di battaglia, o meglio un campo di battaglia; la battaglia ideologica è quindi anche quella per la risignificazione del senso comune, ma non disgiunta da una relazione con le “forze materiali”.

Questo è il problema.



[2] - Idea di derivazione marxiana, ma tra le più legate allo spirito del tempo nel quale scriveva. Tuttavia idea resistente, ancora oggi Mario Tronti attribuisce, quasi distrattamente, alla mondializzazione, messa in crisi dalla elezione di Trump (quasi come questa sia un accidente e non il segno di tensioni giunte a rottura), lo status di “ragione del mondo” e coerentemente indica che questa “viene dall’occidente”. Cfr. Mario Tronti, “Il popolo perduto”. Chiaramente si tratta di una frase la sua interpretazione richiede contesto, non è che l'occidente “ha” ragione, bensì che 1-esiste “una” ragione del mondo; 2- che questa, la ragione, viene dall'occidente. Ovvero che l'occidente la incarna. Si tratta di avere un destino manifesto, l'occidente, a produrre e far affermare finalmente il vero del mondo, il razionale delle cose, l'essere e lo spirito del mondo. Dal contesto si intravede che questa “ragione” ha a che fare con la mondializzazione (cosa che spiega anche la chiamata in causa di Trump), e più profondamente probabilmente la mondializzazione attraverso la forza anonima e astratta del capitalismo (vero “spirito del mondo”, e quindi sua “ragione”, una volta che si sia abbandonata la speranza di superarlo). La ragione del mondo “viene” dall'occidente, non è “sua”). In ogni caso questa idea pervasiva contiene una radice espansiva ed imperialista, la base del colonialismo (che si è sempre descritto come “ragione” e sempre come “bene” elargito a minori per elevarli).
[3] - Per una critica a questa idea, che attribuisce alla ricezione volgare del leninismo, si può leggere il libro di Bruno Trentin “La città del lavoro. Sinistra e crisi del fordismo”, 1997.
[4] - Per un libro rassegna semplice si veda Riccardo Staglianò, “Lavoretti”, ma anche il post sulla “Gig economy” , o “Platform capitalismo e confini del lavoro negli spazi digitali
[7] - Molti sono i cantieri aperti per addivenire a questa forma di “universalismo esemplare”, in vece dell’universalismo astratto e primomoderno che innerva tanta parte del marxismo, come delle filosofie coeve, incluso ovviamente il liberalesimo. Tra questi segnalo le ultime versioni della Scuola di Francoforte (Honneth, “Il diritto della libertà”, ma soprattutto la sua ex allieva Rahel Jaeggi di cui si può leggere “Forme di vita e capitalismo”)
[8] - Si veda Pierre Dardot, Christian Laval, “La nuova ragione del mondo
[9] - Questa idea problematica, è, ad esempio, ripresa da Habermas in “Verbalizzare il sacro”.
[10] - In primo luogo la prima, la rivoluzione messicana, che è agita dalle rivolte dei campesinos Emiliano Zapata e Pancho Villa, nelle due aree più povere ed “arretrate” del paese. Una rivoluzione che affonda le sue radici nella tripartizione del territorio messicano che quando viene colonizzato dai conquistadores è occupato al centro dal grande impero Atzeco e aveva un nord occupato da popolazioni seminomadi e il sud con residui dell’antica cultura Maya. La rivoluzione sorge il 7 marzo 1911 e finisce dopo venti anni e novecentomila morti, porta in una delle sue numerose pause alla Costituzione del 1917, avanzatissima, nel 1913 sembra vincere ma le formazioni di “Tierra y libertad!” del sud, dell’anarchico Zapata, e quelle del nord di Villa, insieme alle innumerevoli frazioni non trovano una sintesi. Lo scontro principale è con gli interessi della borghesia agraria del nord, rappresentata da Carranza, che, dopo una prima sconfitta nel 1914 riesce a portare dalla propria parte gli operai della parte più “sviluppata” del paese, promettendogli un dividendo dalle risorse da estrarre dai contadini del nord e del sud. Nel 1919, mentre Villa a nord è sulla difensiva Zapata viene ucciso a tradimento, è il 10 aprile 1919. Nel 1920 le formazioni del sud si accordano e Villa si ritira nella sua ‘hacienda’ nella quale sarà assassinato nel 1923. Le timide riforme degli anni venti (lavori pubblici ed irrigazione, leggi sull’esproprio) e quelle più energiche degli anni trenta, che cercano di pacificare la situazione non modificano la condizione di sottocapitalizzazione e debolezza competitiva della agricoltura familiare. Le aziende familiari hanno meno di tre ettari, di qualità inferiore, con meno terra irrigata e meno di un sesto dei capitali senza accesso al credito privato, più di un milione di campesinos restano senza terra. Molti ejiendatarios sono costretti, dalla mancanza di capitale di esercizio, ad affittare le proprie assegnazioni ai borghesi che poi li prendono come lavoranti, o sono costretti ad emigrare. Gli investimenti vanno solo alle colture da esportazione verso il vicino americano. La rivoluzione non ha modificato la piramide sociale che vede da sotto a sopra: indigeni, “senza terra”, disoccupati urbani, ejiendatarios, operai, piccola classe media (commercianti, impiegati, professionisti, clero), borghesia (direttori degli apparati militari, finanziari, commerciali e industriali, grandi proprietari terrieri, ex aristocratici). Questa struttura “metropoli-satellite” caratterizza lo sviluppo ineguale e contraddittorio, strettamente connesso all’attrazione della “metropoli dominante” statunitense, ed alimentata dall’estrazione di surplus dalla grandissima parte della popolazione e dalla concentrazione del capitale in poche aree e settori. Lo sviluppo delle “semi-metropoli” del centro e delle grandi aree di esportazione del nord si verifica a spese del colonialismo interno, degli slums, degli ejiendatarios (spesso ex rivoluzionari), degli indios che sono gli ultimi degli ultimi. Sono classi dominanti quelle che riescono a porsi nella posizione giusta nel grande processo di drenaggio e canalizzazione del surplus, necessario per interconnettersi con i centri “dominanti” e da questi attratto. Si tratta di un “sistema totale” che identifica il posto di ognuno in una gerarchia di centralità, geografiche e sociali. La colpa di Emiliano Zapata (con l’esperimento del Comune di Morelos) e di Pancho Villa (con la hacienda di Canutillo nella quale introduce salari alti e servizi scolastici per tutti) fu di non averlo capito. Si vedano: “7 marzo 1911, la rivoluzione messicana”, e “10 aprile 1919, Emiliano Zapata”.
[11] - Si veda L.Boltanski, E. Chiappello, “Il nuovo spirito del capitalismo”, 2014.
[12] - Si vedano le tesi del capitolo “Le alternative conformiste”, del libro “La libertà verticale” di Onofrio Romano.
[15] - Si veda Jonathan Friedman, “Politicamente corretto”. Identifico con questo termine una forma di categorizzazione e quindi di comunicazione caratterizzata dalla ‘logica associativa’ (se dici una cosa, allora devi essere in quella data identità preclassificata), e che fa prevalere la ‘valenza indessicale’ (cioè il contesto della comunicazione) sul contenuto semantico (il significato)” rifiutandosi all’argomentazione l’effetto sociale, e di potere, che si produce è che inquadrare un’affermazione come “politicamente corretta” (o s-corretta) consente di neutralizzarla; essa non può più essere localmente vera, perché è semplicemente troppo terribile. Al contrario diventa vero ciò che è buono, e perché lo è. Insomma, “il terribile e il meraviglioso sono autoevidenti”. Dunque si ha un utilizzo politico della morale per controllare la comunicazione e censurarla ab origine in tempi di incertezza. Il “politicamente corretto” è coevo all’insorgere di una nuova élite transnazionale (ben vista da autori chiave come RortyLasch Dahrendorf) che cerca di neutralizzare l’opposizione moralizzando l’universo sociale e dunque mobilitando, a fini di controllo, la vergogna. La simmetria essenziale è con la politica mondiale a taglia unica (il “Washington Consensus”) ed i suoi TINA e passa per la riclassificazione del liberale come progressista e del socialista come reazionario. Ciò che è progressista è l’olistico, il nomade/rizomatico, il diffuso e l’orizzontale. Ciò che è reazionario è il moderno, razionale, astratto, verticale.
La ‘vecchia’ classe lavoratrice diventa, da soggetto storico del progresso, ‘deplorabile’ e nazionalista, egoista e meschina. Mentre il migrante, rifugiato, le minoranze colorate, le identità plurali, diventano i nuovi eroi.
Questa è una cultura fondata sul narcisismo (Lasch) che egemonizza una forma di controllo basata sulla classificazione creando un controllo operativo (“matriarcale”) basato sulla vergogna. Le varie versioni del “politicamente corretto” sono l’ideologia funzionale allo stato della tecnica e ad un modo di produzione che da lungo tempo ha dismesso i ferri vecchi della triade Dio-Stato-Famiglia, inseguendo la forma ‘liquida’ della merce e costruendo un ‘umano non sociale’ abbandonato a tutte quelle forme di autoritarismo nascoste nell’apparenza di pienezza di diritti la cui piena espressione è il mercato autoregolato.

[16] - Luc Boltanski, Eve Chiappello, “Il nuovo spirito del capitalismo
[17] - Rivista fondata da Nanni Balestrini di cui Carlo Formenti a partire da decimo numero fu redattore. Uscì tra il 1979 ed il 1988.
[18] - Si veda, ad esempio, la raccolta di conferenze del 1972-77 di Andre Gunder Frank in “Riflessioni sulla crisi economica mondiale
[19] - Il prezzo tra due beni (o di un bene e di un altro rispetto ad una unità di misura comune, ad esempio il denaro internazionalmente accettato come il dollaro) è relativo ai rapporti di forza che si determinano sul “mercato”, e che dipendono da molteplici fattori non tutti economici. Ad esempio, se un paese ha un surplus di vino, essendosi specializzato solo in tale produzione di esportazione, poniamo di Porto, e l’unico grande mercato “libero”, nel quale può vendere il prodotto è la Gran Bretagna, dovrà accettare il prezzo determinato dai grossisti anglosassoni, detentori del monopolio di accesso al mercato, anche se è di poco superiore al suo prezzo di produzione, l’alternativa è riempire i magazzini e non avere la moneta per comprare, al prezzo anche qui determinato dai commercianti esteri, in quando detentori di un monopsonio (sostenuto da Trattati e, se del caso, cannoniere), e sul limite della loro capacità di spesa. L’effetto è che un paese a sovranità molto limitata (avendola perso sui campi di battaglia), progressivamente si impoverisce. Tutto questo scompare nelle formule semplificate, potenza della matematica, e nelle alate parole di David Ricardo. L’ipotesi, fondativa della disciplina economica internazionale, che il ‘libero scambio’ sia sempre a vantaggio reciproco, è, per usare le parole di Keen “una fallacia fondata su una fantasia”. Questa teoria ignora direttamente la realtà, nota a chiunque, che quando la concorrenza estera riduce la redditività di una data industria il capitale in essa impiegato non può essere “trasformato” magicamente in una pari quantità di capitale impiegato in un altro settore. Normalmente invece “va in ruggine”. Insomma, questo piccolo apologo morale di Ricardo è come la maggior parte della teoria economica convenzionale: “ordinata, plausibile e sbagliata”. E’, come scrive Keane “il prodotto del pensiero da poltrona di persone che non hanno mai messo piede nelle fabbriche che le loro teorie economiche hanno trasformato in mucchi di ruggine”.
[20] - Credere che il capitale sia denazionalizzato è un errore di “cattiva astrazione”. Non esiste “il” capitale, ma solo “i” capital”i”, e questi sono sempre in reciproca competizione seguendo lo spirito del capitalismo e la sua auto-programmazione, quello che Marx chiamava il “sistema automatico”. Le molteplici relazioni dei capitali con i sistemi sociali e istituzionali determinano una reciproca influenza e una solidarietà profonda che, per molte vie, contribuisce a creare l’effetto di controllo imperiale e la dinamica “centro-periferia” sulla quale insiste la complessiva “scuola della dipendenza”, in particolare Arrighi.  
[21] - Ovvero le relative “borghesie compradore”, quelle borghesie parassitarie che si organizzano e traggono il suo ruolo dal flusso di surplus che è estratto da centri (o ‘metropoli’, con il linguaggio di Gunder Frank) dominanti da periferie diversificate. Si tratta di ceti connessi con le industrie di esportazione, manager, azionisti, operatori di logistica, produttori di informazione e/o di decisioni, operatori finanziari. La borghesia ‘compradora’, il capitale monopolistico, e tutti i loro agenti e meccanismi sono parte nel loro insieme, come totalità, del modo di produzione necessariamente allargato alla scala mondiale che determina l’accumulazione (‘flessibile’) del capitale.
[22] - Formula proposta negli anni sessanta da Andre Gunder Frank, si veda in particolare, “Capitalismo e sottosviluppo in America Latina”, 1967.
[23] - Uno degli esempi che fa Paul Baran, nel suo classico “Il surplus economico”, del 1957 è l’eliminazione dal mercato della nascente elettronica da consumo, decisivo per lo sviluppo, dei concorrenti italiani della Olivetti da parte del sistema Usa che ha compiuto un perfetto “gioco di squadra” economico-politico. Per una ricostruzione dei fatti si veda “27 febbraio 1960, Adriano Olivetti”. Si può leggere anche “Pagine: Giovanni Arrighi e il ruolo delle grandi imprese internazionali”.
[24] - La nozione di “surplus potenziale” è al centro della scuola marxista americana e decisiva nella concettualizzazione, anche in altra forma, dello sviluppo ineguale diagnosticato dalla “scuola della dipendenza”. La relazione tra ‘metropoli’ e ‘satellite’, si presenta scalata in tutta l’estensione del sistema economico mondiale, ed è letta con gli strumenti messi a disposizione da Paul Baran, in particolare attraverso la nozione di surplus (e la distinzione tra surplus potenziale ed effettivo). Questa nozione che affonda nei classici (i fisiocratici, Quesnay, e poi Smith, Ricardo), fa riferimento semplicemente al prodotto sociale che rimane dopo che sono stati reintegrate le dotazioni produttive necessarie alla generazione (lavoro e riproduzione incluse). Ma per Baran solo il surplus effettivo è osservabile in una data società concreta, il secondo è “la differenza tra il prodotto che si potrebbe ottenere in un dato ambiente naturale e tecnologico con le risorse produttive impiegabili, e ciò che si potrebbe considerare come consumo indispensabile”. Tra sviluppo e sottosviluppo, individuabile come differenza maggiore o minore tra surplus effettivo e potenziale, c’è quindi una relazione dialettica in quanto i paesi che si sviluppano lo fanno nella misura in cui drenano il potenziale di quelli che, per questo, restano ‘sottosviluppati’.
[26] - Pierre Rosanvallon, “Controdemocrazia
[27] - Si vedano i testi che prossimamente leggeremo, “Il conflitto democratico”, Mimesis 2015 e “Per un populismo di sinistra”, Laterza 2018.
[28] - Damiano Palano, “Populismo”, 2017
[29] - Marco Tarchi, “Italia populista”, 2015
[30] - Luca Ricolfi, “Sinistra e popolo”, 2017
[31] - Il “Manifesto”, scritto nel 1848, quando Marx aveva trenta anni e da aprile 1842 collabora al foglio borghese-radicale Rheinische Zeitung, di cui diviene redattore capo, per poi dimettersi un anno dopo, dopo aver abbandonato l’anno prima la speranza di insegnare all’università di Bonn, dove insegnava Bruno Bauer prima della censura. Nel 1844 Marx scrive “Sulla questione ebraica”, e “Critica della filosofia del diritto di Hegel”, Engels scrive la sua opera sulla classe operaia inglese “La situazione della classe operaia in Inghilterra”, e insieme, l’anno successivo pubblicano “La sacra famiglia”. Nel 1845 Marx scrive anche, ma non pubblica, le “Tesi su Feuerbach”, e il lavoro sulla “Ideologia tedesca”. Nel 1846 Marx rompe con Proudhon, l’anno successivo scrive la “Miseria della filosofia”, e si formano i gruppi comunisti “di corrispondenza” che coinvolgono anche la parigina “Lega dei giusti”. Il 7 e 9 giugno 1847 si tiene il congresso fondativo della “Lega dei Comunisti”, come erede della “Lega dei giusti” (fondata nel 1836 come scissione della “Lega dei proscritti”). Il motto della “Lega” diventa “Proletari di tutti i paesi, unitevi!”, che sostituisce il vecchio “Tutti gli uomini sono fratelli”. Il 16 settembre Marx scrive, per il Congresso internazionale degli economisti, il saggio “Protezionismo, libero scambio e classe operaia”, che abbiamo letto attraverso la prefazione postuma di Engels in “Dazio protettivo e libero scambio, 1888”. A dicembre Marx ed Engels vengono incaricati dalla “Lega” di scrivere un “Manifesto”. A fine gennaio 1848 il testo è pronto.
[32] - E’ scritto: “si rimprovera inoltre ai comunisti di voler sopprimere la patria, la nazionalità. Gli operai non hanno patria. Non si può togliere loro ciò che non hanno. Ma poiché il proletariato deve conquistarsi prima il dominio politico, elevarsi a classe nazionale (nel 1888 cambiato da Engels in “a classe dirigente della nazione”), costituirsi in nazione, è anch’esso nazionale, benché certo non nel senso della borghesia”.
[33] - Che deriva, vale la pena ricordarlo, dalla ipotesi pauperista. Ovvero dalla circostanza, che è descrizione abbastanza corretta del movimento in corso nella sua epoca (ma sarà invertito di segno nel novecento) che: “l’operaio moderno, al contrario, invece di elevarsi col progresso dell’industria, cade sempre più in basso, al di sotto delle condizioni della propria classe. L’operaio diventa il povero, e il pauperismo si sviluppa ancora più rapidamente della popolazione e della ricchezza. Appare da tutto ciò manifesto che la borghesia è incapace di rimanere ancora più a lungo la classe dominante della società e di imporre alla società, come legge regolatrice, le condizioni di esistenza della sua classe. Essa è incapace di dominare perché è incapace di assicurare al suo schiavo l’esistenza persino nei limiti della schiavitù, perché è costretta a lasciarlo cadere in condizioni tali, da doverlo poi nutrire anziché esserne nutrita. La società non può più vivere sotto il suo dominio, cioè l’esistenza della borghesia non è più compatibile con la società” (p.66). La relazione di questa analisi con il lavoro di Engels sulla classe operaia inglese è abbastanza palese.
[34] - “Il moderno lavoro industriale, il moderno soggiogamento al capitale, eguale in Inghilterra come in Francia, in America come in Germania, lo ha spogliato di ogni carattere nazionale”, (Manifesto, Editori Riuniti, ed. 1983, p. 65).
[35] - Si veda per il concetto di “accumulazione flessibile” David Harvey. Si tratta del modello di accumulazione che prende piede, trasformandosi continuamente, quando crollano le condizioni internazionali, tecnologiche e socio-politiche del modello keynesiano. Alla crisi di accumulazione, determinata da tanti e diversi fattori ma nella quale la capacità della ‘forza-lavoro’, nelle condizioni della fabbrica fordista, di imporsi come soggettività politica, e quindi di pretendere rispetto ed estrarre maggior valore, sottraendosi alla logica di comando verticale, è centrale. La crisi di redditività induce prima una fuga degli investimenti nella finanza, quindi crea le condizioni della ri-subordinazione dei lavoratori e della interscambiabilità, su base globale, della loro forza-lavoro. Dunque in questa de-soggettivazione della forza-lavoro viene ricreato un ‘esercito industriale di riserva’ per via di allargamento a popolazioni non inserite (donne, minoranze), inserimento di centinaia di milioni di nuovi individui incapaci di esprimere soggettività politica nel mondo ‘in convergenza’, e immigrazione. Le condizioni di questa nuova forma di accumulazione, che, però, ha scavato sotto le proprie fondamenta sia sul piano economico sia politico, sono anche tecnologiche e commerciali e rendono possibile scambiare la ‘forza-lavoro’ in modo del tutto nuovo, rendendola indefinitamente flessibile, rapidamente sostituibile, esposta al ricatto del capitale.
[37] - Si veda per questo scontro e la sua cornice, Domenico Losurdo, “Il marxismo occidentale”, 2017, che del resto è oggetto di un excursus.
[39] - Per una ricostruzione generale, necessariamente sommaria, si veda “La globalizzazione come crisi continua
[40] - In particolare Wolfgang Streeck, “Tempo guadagnato“, 2013.
[41] - Si veda, Hosea Jaffe, “Era necessario il capitalismo?”, 2008, e l’inquadramento della “Teoria della dipendenza” in questo post.
[42] - Una tesi che finisce per coincidere, salvo toni estetici, con le posizioni della destra borghese, si veda ad esempio, Daron Acemoglu, James Robinson, “Perché le nazioni falliscono”, o William Easterly, “La tirannia degli esperti”.
[44] - Alessandro Somma, “Sovranismi” 2018
[45] - Sergio Cesaratto, “Chi non rispetta le regole?”, 2018
[46] - In un post di occasione “Circa Marco Bascetta, ‘Una formula di moda per edulcorare il nazionalismo’”, richiamai la famosa frase di Lenin “La frase rivoluzionaria può causare la rovina della rivoluzione”. Come avevo scritto si tratta della ripetizione di parole d’ordine senza tenere conto delle circostanze obiettive. La definizione è perfetta: “parole d’ordine magnifiche, attraenti, inebrianti, che non hanno nessun fondamento sotto di sé”. Le parole d’ordine sono ‘magnifiche’ perché contengono solo “sentimenti, desideri, collera, indignazione”, ma niente di altro. Quando si pronunciano ‘frasi rivoluzionarie’, continuo a leggere, “si ha paura di analizzare la realtà oggettiva”. E, ancora, poco dopo, “se non sai adattarti, se non sei disposto a strisciare sul ventre, nel fango, non sei un rivoluzionario, ma un chiacchierone”, ciò non significa che piaccia, ma che “non c’è altra via” che tenere conto della realtà; la “rivoluzione mondiale”, che prevedrebbe di abbandonare la costruzione del socialismo intanto dove concretamente si può tentare, per Lenin arriverà pure, ma, scrivendo nel 1918, “per ora è solo una magnifica favola, una bellissima favola”; dunque crederci nell’immediato significa che “solo nel vostro pensiero, nei vostri desideri superate le difficoltà che la storia ha fatto sorgere”. Ciò che va fatto è del tutto diverso, dice il vecchio rivoluzionario russo: bisogna “porre alla base della propria tattica, anzitutto e soprattutto, l’analisi precisa della situazione obiettiva”. Da: Vladimir I. Lenin, “Rivoluzione in occidente e infantilismo di sinistra”, ed. Riuniti, 1974, p.3. Il libretto è in realtà una raccolta di interventi diversi nell’aspro dibattito che nel 1918 si tenne sulla pace separata con la Germania (pace di Brest-Litovsk), che Lenin difende dalle critiche rivolte in nome della necessaria “guerra rivoluzionaria” e dell’imminente aiuto da parte del proletariato tedesco. Quando a gennaio 1918 la Germania avanza un ultimatum, chiedendo condizioni molto dure in termini di perdite territoriali e versamenti in natura, si apre un dibattito nel quale gli allora alleati dei bolscevichi, i ‘socialisti-rivoluzionari di sinistra’, propongono, insieme a Nikolai Bucharin, la prosecuzione della guerra. Contro tutte queste opposizioni Lenin scrive a febbraio l’articolo “Sulla frase rivoluzionaria”, mentre l’esercito di oltre sei milioni di uomini russo era stato smobilitato, per sostituirlo con un esercito volontario più efficace (la “Armata Rossa”), da Lev Trotsky e la Germania aveva ripreso l’avanzata. Il 3 marzo Lenin, che aveva proposto le sue dimissioni, impone la firma del Trattato, perdendo circa 56 milioni di abitanti, ovvero il 32% della popolazione, un terzo delle ferrovie, tre quarti dei minerari ferrosi e il 90% della produzione di carbone. Fortunatamente la successiva sconfitta della Germania, che aveva occupato i territori nominalmente indipendenti, porta al ritiro delle truppe e quindi alla loro contesa nella guerra civile russa che infurierà fino al 1923.
[47] - Una delle migliori dimostrazioni di questa logica in A.La Spina, G. Majone, “Lo Stato regolatore”.
[48] - Piero Ignazi, “Forza senza legittimità”,
[49] - Jurgen Habermas “Sovranità popolare come procedura
[50] - Si veda Pier Paolo Pasolini “Scritti corsari”.
[51] - Una dinamica simile è descritta da Onofrio Romano, nel capitolo terzo “il neo-orizzontalismo”, ed interpretata come una “drammatica crisi socio-antropologica” (p.77) quindi spiegata come lo “scoperchiamento del vuoto” sul quale si fonda l’essere dell’uomo nel momento in cui la sicurezza, nelle condizioni della secolarizzazione e della perdita di senso della modernità, ha lasciato il singolo davanti alla libertà alla quale non era pronto (p.282). Si veda, Onofrio Romano, “La libertà verticale”.
[52] - Per una particolare forma di incoerenza, peraltro tipica di moltissimi pensatori progressisti, queste conseguenze non sono tratte da Habermas, che, per ragioni sistemiche in particolare connesse con la sua visione del progresso e della storia (o meglio, della dinamica di apprendimento storica), resta ancorato all’idea che il processo di unificazione “alzato di un piano”, sia comunque da preferire al rischio del “rinserrarsi” nelle “bucherellate mura” degli stati nazionali. In questa posizione non è esente un tratto biografico, essendo l’anziano pensatore figlio di un quadro nazista e acutamente presente nella transizione del dopoguerra. Si veda in proposito la lunga polemica con Wolfgang Streeck.
[53] - Su questo tema si può leggere il libro di Onofrio Romano “La libertà verticale”, 2019
[54] - Si veda la prima parte del post “La grande partita”.
[55] - Pierluigi Fagan, “Verso un mondo multipolare”.
[56] - In parte toccata dalle “Notarelle su Machiavelli”, in parte dalla nota su “Passato e presente” (3, $ 34). Vale la pena vedere come questa continua: “…il problema è questo: una rottura così grave tra masse popolari e ideologie dominanti come quella che si è verificata nel dopoguerra, può essere ‘guarita’ col puro esercizio della forza che impedisce a nuove ideologie di imporsi? Questa è la giusta domanda.
[58] - Quaderno 7, $ 19

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