Premessa
Il
libro
di Carlo Formenti “Il socialismo è morto. Viva il socialismo!” è stato
pubblicato in questo 2019 e segue altri due notevoli libri dell’autore, tutti pubblicati
a tre anni di distanza, “Utopie
letali. Il capitalismo senza democrazia”, del 2013, e “La variante populista. Lotta di
classe nel neoliberismo”, del 2016 (che abbiamo letto qui). I tre testi
individuano, insieme alle esplorazioni precedenti[1], molto attente alle
evoluzioni della sfera pubblica e delle tecnologie che vi impattano, una vasta ricostruzione,
ancora in corso sulle trasformazioni del socialismo in questo avvio di
millennio.
Se
il socialismo novecentesco è davvero morto le sinistre attuali ne sono il
becchino che cerca di guadagnarci ancora qualcosa. Ma se è morto occorre andare
verso ciò che nasce, ciò che ‘deve’ nascere: ancora viva il socialismo!
Il
libro cercherà di sviluppare questo difficilissimo programma concentrandosi,
per così dire, sulla ‘transizione’. Ovvero, per dir meglio, sulle condizioni
nella quali può essere avviata una ‘transizione alla transizione’.
Per
compiere questa paradossale operazione occorre, secondo Formenti, come prima
cosa capire in che modo le sinistre sono diventate il becchino del socialismo
morto, lasciandolo marcire. Per farlo ripercorre le tesi (dodici) dei due
precedenti libri.
Come
seconda cosa, necessaria per assumere il dovere di far nascere il nuovo, c’è
bisogno di rapportarsi al ‘momento populista’ in modo creativo, aggregando un “blocco
sociale” con quel che c’è, intorno a rivendicazioni anche diverse, purché
incompatibili con il sistema capitalistico nell’attuale forma neoliberale. L’idea
è di partire da un’ampia alleanza di soggetti sociali capace di riforme
radicali che abbiano almeno la potenzialità di evolvere in senso socialista,
rafforzando le forze che possono incarnarlo. Una simile strategia, nella prima fase
prevedibile, dovrà quindi assumere carattere nazional-popolare e neo-giocobino
con l’obiettivo primario di ricostruire almeno le precondizioni (del
socialismo) di reale partecipazione al processo decisionale e di
redistribuzione del reddito. Questa azione politica, ed anche la successiva se
le condizioni egemoniche lo consentono, dovrà svolgersi però nell’arena dello
Stato-nazione, anche data la fine della grande narrazione globalista. Una tesi,
questa, che era presente nei libri precedenti, esattamente in quello
sul populismo. Si giungeva a questa conclusione da un’ampia analisi della
situazione della fase internazionale, dell’assetto ordoliberale in particolare
europeo, della post-democrazia, e diagnosticando la necessità dell’emersione di
un “nuovo mosaico” all’altezza della crisi egemonica dopo la fine delle ipotesi
‘operaiste’ (ed anche post-operaiste).
Per
liberarsi dello spirito dell’operaismo, per Formenti, bisogna affrancarsi dalla
mitologia delle forze produttive e della capacità progressiva della “tecno-scienza”
e quindi dall’idea collaterale che il capitalismo contenga il principio
immanente che lo porta inesorabilmente al suo superamento[2]. Si connette a questa idea
quella che le forze produttive siano neutre, che non abbiano un proprio
‘codice’ e quindi siano riutilizzabili in un contesto non capitalista se solo
si cambia di segno al fatto giuridico della proprietà[3]. Consegue alla
critica di queste posizioni quella che le nuove forme di lavoro immateriali
siano in sé progresso, perché liberano le potenzialità e consentono
all’individuo di esprimersi.
Il
capitalismo cognitivo, invece, non genera affatto, da sé, le condizioni del suo
superamento grazie alla ricchezza “sociale” prodotta, il motivo è semplice:
questa viene appropriata, insieme alle soggettività che la producono, quasi
interamente dal capitale, e ciò non avviene a caso, si tratta, infatti di una
forma di produzione di valore che facilita il controllo centralizzato (in effetti
è giunta a livelli di centralizzazione del controllo, e quindi anche di
concentrazione del capitale, assolutamente impensabili[4], e genera immensi monopoli[5]). La particolare forma di cooperazione,
innervata da tecnologie digitali ubique il cui lato oscuro si manifesta ogni
giorno di più[6],
che queste tecnologie e pratiche producono è essa stessa una funzione del
capitale, che determina ed organizza il relativo modo della divisione del
lavoro; essa include nel suo farsi e rende pensabile e quindi possibile, codici
e condizioni materiali di comando, controllo ed organizzazione che sono oggi il
modo stesso di esistenza del capitale. Ovvero di sua insorgenza. Tutto questo
resta dentro il codice che, quindi, non è in sé veicolo di liberazione.
Questo
codice ha prodotto il paesaggio sociale che abbiamo davanti, nel quale le
catene del valore, e la subordinazione del lavoro entro queste, sono sparse
come tessere di un mosaico rotto, ma al contempo sono unite al livello al quale
si determina l’impero del capitale. Il risultato è che il lavoratore tipo è
ormai flessibile, specializzato, o al contrario del tutto deprivato di
competenze e rapidamente gettato; privo comunque di consapevolezza del processo
complessivo in cui viene coinvolto (data l’estrema parcellizzazione orizzontale
dei processi), privo di garanzie sindacali, ibridato tra lavoro manuale e
intellettuale, anche a causa della subordinazione crescente a routine
predefinite dalle tecnologie informatiche e da queste controllate.
Il
libro sul populismo si chiudeva con la proposta, forte entro la tradizione
marxista, di ricominciare per questo a costruire “dal basso” e dal “fuori”.
Non quindi dalle élite del lavoro, come vorrebbero sia in marxisti ortodossi
(il giudizio di Marx sul sottoproletariato sta a mostrarlo) sia i
postoperaisti; ma proprio dagli strati più deboli ed emarginati che oggi si
orientano verso le proposte delle destre difensive. I migranti, i working poor,
i lavoratori del terziario arretrato, i precari, i cognitivi declassati, ma
anche quelli che stanno “fuori” (i contadini, il sottoproletariato
metropolitano, il lavoro servile, le comunità indigene). Per farlo, senza
assumere la postura “missionaria” dell’attuale sinistra radicale che muove da
un’autossunta superiorità proponendosi come élite dirigente che conduce alla
modernità, bisogna superare il pregiudizio progressista/modernista e saper
guardare anche la lotta contro l’addomesticamento e per l’autonomia, dove e
nella forma in cui essa è (o “qualunque cosa questo significhi”, come disse
Gunder Frank riferendosi ai processi mondiali); ovvero anche se sembra “arretrata”.
Non si tratta infatti sempre di “residui” feudali, fatalmente destinati a
lasciare il passo al capitalismo, ma talvolta si tratta di modi di vita, o
“forme di vita” e quindi anche di eticità, in conflitto con la “forma di vita”
(e l’eticità) capitalista[7]. Si tratta allora di
abbandonare il punto di vista immanentista e la ricerca costante di facili
punti archimedei che consentano di trovare automaticamente la propria posizione;
in particolare abbandonare l’idea che tutto si riassuma nella forma del
capitale, considerata in ultima analisi la più evoluta, quella che si pone
al culmine di un processo evolutivo per stadi (idea illuminista[8] di grande tradizione) di
progressivo ‘apprendimento’[9].
Dodici
tesi sullo stato delle cose presenti
Le
dodici tesi presentate nella prima parte del libro
sono le seguenti:
1- Le
sinistre oggi cooperano con la cultura liberale nel fornire legittimazione
ideologica al neocapitalismo globale;
2- L’ammirazione
di Marx per il modernismo è rimasta come unico volto della sinistra, che si
vede solo entro la coppia conservazione/progresso;
3- Ma
le rivoluzioni novecentesche non sono mai state ‘progressiste’, bensì si sono
sviluppate come ‘rivoluzioni conservatrici’[10];
4- L’adorazione
della tecnologia, segno dell’integrazione nel paradigma progressista-borghese,
è un altro segno dell’incapacità storica del movimento operaio, o meglio delle
sue guide borghesi, di cogliere “l’elemento demoniaco della tecnica, la sua non
neutralità rispetto ai rapporti di forza tra le classi”, per cui finisce per
concepire l’apparato produttivo capitalista come un’immane collezione di merci
di cui appropriarsi già pronta. La formula contenuta nel ‘frammento delle
macchine’ è solo la versione più sofisticata di questa idea.
5- La
teoria operaista tenta di risolvere una contraddizione di fondo del marxismo
per la quale da un lato si descrive la forza lavoro come interna al capitale e
dall’altro si identifica la classe operaia come soggetto rivoluzionario. Di
fatto si rimuove però il problema, dicendo che è l’internità della classe,
portatrice della forza lavoro, a determinarne il ruolo rivoluzionario. Ma in
questo modo non è più possibile concepire un “fuori” al rapporto di produzione
capitalistico, e tutto si riduce ad esso (è questa una delle strade attraverso
le quali è diventato possibile, finanche necessario, sostenere il capitalismo
quando questo negli anni settanta è andato in crisi di valorizzazione). In
realtà, sostiene Formenti, “è solo al di fuori di tale rapporto che
l’antagonismo può esistere e manifestarsi”. E la storia della sinistra, in
particolare italiana, sta lì a dimostrarlo.
6- Questa
rappresentazione come totalità chiusa del capitalismo (per il quale solo un
piccolo slittamento ha consentito i vecchi marxisti dogmatici di diventare
cantori delle sorti progressive del libero mercato) è stata una caratteristica
molto estesa nel marxismo. Fanno in parte eccezione Rosa Luxemburg, David
Harvey, Nancy Fraser i quali riconoscono che il mercato capitalistico e
l’accumulazione possono esistere solo se ci sono almeno alcune relazioni
sociali non mercificate. Quindi che “gli ambiti delle relazioni affettive e
familiari, della riproduzione sociale, dei sistemi istituzionali e ambientali
conservano gradi più o meno elevati di autonomia nei confronti dei rapporti di
produzione”.
7- Le
sinistre sono mutate davanti alla crisi ed alla ristrutturazione degli anni
settanta (automazione, organizzazione a rete, decentramento e deregolazione,
finanziarizzazione, terziarizzazione); in pratica hanno scelto abbastanza
consapevolmente di cercare una nuova base elettorale nei ceti medio-alti e quindi
di diventare liberali. Anche le componenti radicali hanno subito un mutamento
che parte dal 1968, che nelle componenti studentesche e borghesi, in esso egemoni,
era sostanzialmente una spinta alla modernizzazione contro le vecchie caste
sociali. Questo spirito antiautoritario, libertario e antipaternalista, si
incarnava alla fine in una aspirazione di promozione sociale individuale.
Queste spinte sono state cooptate e canalizzate dallo ‘spirito del capitalismo’[11] ed hanno portato lo
spirito collettivo e sociale della sinistra a mutare geneticamente nell’attuale
centralità della libera scelta individuale (magari condita di un solidarismo
verso ‘gli ultimi’ di sapore più cattolico che altro). Alla fine anche per
questa via il sistema liberale è stato accettato come l’unico possibile.
8- Ed
anche gli eredi ultimi del ’68, che Formenti riassume in “no global”,
ecopacifisti, onda, girotondi, benecomunisti, sono impegnati a promuovere
qualsiasi forma disponibile di ‘orizzontalismo’[12] senza neppure avvedersi
della sua relazione con le forme liberali le quali vedono tutto come rete di
relazioni individuali mediate dal mercato.
9- Tutte
queste mutazioni ideologiche sono connesse, anche se non coincidenti, con le
mutazioni della composizione delle classi avvenuta negli ultimi decenni. In
particolare delle classi medie, composte di dipendenti garantiti, ceti
istruiti, professionisti, si sono allontanate dalle classi subordinate, che
disprezzano e delle quali ignorano tutto. Bisogni, linguaggi, aspirazioni,
estetica. Si è avuta in questi segmenti una trasformazione per la quale un
largo strato di “lavoratori della conoscenza” (o “classe creativa”) prima si è
differenziato ed ha avuto l’illusione di poter ascendere, poi, con il procedere
dell’automazione e della messa in contatto orizzontale[13] sono stati espulsi. Di
qui l’attuale crisi politica.
10- Il
movimento femminista ha seguito una parabola simile, ai movimenti
anticapitalisti degli anni sessanta e settanta. Ha svolto una funzione
importante, ma ha compiuto anche la mossa di cercare di sostituire al soggetto
rivoluzionario e della storia del marxismo, la classe operaia, un altro
soggetto, incongruamente rappresentato nelle “donne” (ovvero in un soggetto che
è metà dell’umanità ed evidentemente accomuna posizioni del tutto diverse nella
stratificazione sociale e rapporto con il modo di produzione). Quindi, fatta
questa mossa, si è reso necessario identificare anche un nemico che in effetti
non fosse identificabile con la divisione del lavoro, ma con la divisione
sessuale: dunque il “patriarcato”. La liberazione dal ‘patriarcato’ con una
mossa esattamente copiata da quella ‘dialettica’ hegelo-marxista, coincide allora
con la liberazione dell’intera umanità. Successivamente il “femminismo della
differenza”, nella fase di drastico ridimensionamento dei rapporti di
forza, si è cetomedizzato e spostato su obiettivi di riconoscimento
identitario. Nella terza fase è emersa una piattaforma rivendicativa meramente
emancipatoria senza più elementi distintivi che possano caratterizzarla in
senso anti-liberale; qui cade la critica di Nancy Fraser[14].
11- Questo
movimento può essere messo in relazione con il movimento ad allargare (entro
l’occidente e fuori) il perimetro dei lavoratori, assorbendo il mondo femminile
dedito alla cura non mercificata, allo scopo di ridurne la forza ed il costo. La
gigantesca operazione di dumping sociale, essenziale per ricondurre il capitale
in “zona profitto”, continua oggi attraverso i differenziali di reddito che
permangono (dove lo fanno) tra maschi e femmine. Ma questi non sono tanto
effetto del “patriarcato” quanto svolgono nella logica capitalista la funzione
di disciplinare la forza lavoro maschile, per ragioni culturali e tradizionali
spesso più rivendicativa. Non c’è prova quindi del permanere di un cosiddetto
“dominio patriarcale”, ma sicuramente quella di una dinamica funzionale
necessaria del capitalismo, che deve avere differenziali da sfruttare. Il
patriarcato è invece, a ben vedere, “incompatibile con il nuovo regime di
accumulazione, sia perché le caratteristiche femminili vengono valorizzate ed
esaltate dalle nuove attività lavorative, le quali richiedono in misura
crescente empatia e competenze comunicative, sia perché la cultura patriarcale
rappresenta un ostacolo al dominio integrale di una forma merce che ingloba
sempre più la sfera della riproduzione”. La gender theory è esemplare in questo
senso.
12- Da
ultimo la neolingua del “politicamente corretto”[15] è un prodotto di nicchia
delle università americane che si è esteso nella convinzione che la denotazione
non rispecchia ma crea la realtà. Ciò determina in molti l’effetto che il
liberalismo cosmopolita antiautoritario dominante in alcuni ambienti
alto-borghesi ed in alcune aree specializzate molto presenti nei media, riesce
ad imporsi come visione del mondo egemone, minacciando chi non la condivide di
stigma di razzismo, fascismo, e riducendolo al silenzio.
Varianti
e letture
A
questa breve rassegna delle tesi della prima parte del libro, come sarà per la
seconda parte, segue un capitolo costruito sulla lettura di alcuni testi e
posizioni esemplari.
La
prima è quella di Mario Tronti, autore di “Operai e Capitale”, che
inizia a modificare la sua posizione quando riconosce, al riflusso delle lotte,
che il capitale ha una proteiforme capacità di riadattare tutte le spinte che
riceve ai suoi fini e l’ha potentemente messa in essere nel riassorbire le
spinte della mobilitazione operaia (e ancora più degli studenti). A questo
punto la diagnosi diventa crepuscolare: la sconfitta finale del movimento
operaio, che ha perso la guerra, mette al tramonto l’intera politica. Insomma,
la Storia finisce e resta l’amministrazione. La gestione amministrativa per
conto del capitale (quella che fa il suo partito, del resto, il PD). Un pessimismo
tragico, che si oppone all’ottimismo di Negri che reagisce alla stessa
consapevolezza rifugiandosi invece in figure sempre più evanescenti.
Il
secondo testo è quello di Boltanski e Chiapello[16] che sviluppano, come noto,
la critica del ’68 come insieme di una “critica sociale”, presto abbandonata, e
di una “critica artistica”, che invece è del tutto compatibile e viene di fatto
utilizzata dallo spirito del capitalismo. Il quale, come dice Formenti, non si
adatta né manipola, ma si integra ad essa, facendola diventare parte dei propri
meccanismi di funzionamento, controllo e dominio.
Segue
la lettura del famoso testo di Colin Crouch, “Postdemocrazia”
e quindi del testo di Onofrio Romano “La libertà verticale”, che
prossimamente leggeremo.
Completano
la rassegna le letture dei testi di Marcello Turi e del suo “pensiero
destituente”, dell’importante testo di Pierre Rosanvallon “La
società dell’uguaglianza”, e di Thomas Piketty, “Il
capitale del XXI secolo”, ma anche Richard Florida, Raffaele
Ventura, Marco D’Erasmo, David Harvey.
Tra
le parti più interessanti si trova la ricostruzione dello scontro tra
femminismi intorno ai fatti di Colonia tra la Butler e alcuni suoi critici
(p.63 e seg.). Si tratta di un’oscillazione tra quello che chiama ‘cattivo
universalismo’ e ‘cattivo relativismo’; il primo è attribuito al femminismo
classico, peraltro ereditato dal marxismo, il secondo ai gender studies, che
finiscono per risolversi in una sorta di utopia neoanarchica (p.71), criticata
anche grazie alla ripresa delle posizioni di Jessa Crispin, e successivamente
di Nancy Fraser (p.99).
Quindi
c’è un’interessante “nota sul caso Preve”, conosciuto dall’autore al
tempo di “Alfabeta”[17], nella quale la scomunica
subita da parte di numerosi ambienti della sinistra radicale e quindi l’accusa
di “rossobrunismo”, viene ricondotta “non al suo presunto deviazionismo di
destra, bensì all’impietosa lucidità con cui ha descritto il processo di
senescenza precoce e irreversibile delle sinistre” (p.86). Preve avrebbe,
insomma, “bestemmiato il nome del padre” mettendo in luce “il carattere
ossimorico della teoria marxiana” nel momento in cui tenta di dare vita ad un’utopia
al contempo “scientifica”. Si tratterebbe, in particolare, della sintesi di un
elemento romantico e di un elemento positivistico. Cercare di tenere insieme
acqua e olio conduce: a) alla convinzione, derivata dall’evoluzionismo
darwiniano, che il socialismo sarebbe iscritto nelle dinamiche immanenti del
capitalismo; b) alla concezione del comunismo come paradiso e quindi generale
riconciliazione dell’uomo con la natura (includendo la propria); c) alla
narrazione di un soggetto salvatore (identificato nella classe operaia).
Osservare
il fatale invecchiamento di questa sintesi, che poteva apparire ragionevole
solo ad orecchie ottocentesche e che via via avanzava il novecento ha posto
sempre più problemi, significa per Preve abbandonare non l’analisi del
capitalismo o delle crisi (che conserva una potente capacità di disvelamento)
bensì il cosmopolitismo di derivazione borghese e la radice illuminista in
comune tra marxismo e liberalismo. Ovvero mettere in questione l’idea che “la
lotta di classe si rivela in ultima istanza lo strumento per realizzare il
trionfo dell’individuo razionale universale”. Queste idee, che tendono a
funzionare “a pacchetto”, producono anche il razzismo e l’imperialismo
occidentale, travestito da universalità dei diritti umani.
Come
dice Formenti:
“Prendere
la distanza da questa logica significa riconoscere che l’internazionalismo
dovrebbe fondarsi sulla relazione fra comunità diverse che si riconoscono
reciprocamente quali portatrici di forme di vita legittime. La lotta
anticapitalistica è in primo luogo lotta fra individualismo e comunitarismo,
tra una visione del mondo che intende i rapporti fra esseri umano come rapporti
fra atomi individuali che si scambiano merci, e una visione del mondo che
valorizza la resistenza delle comunità locali all’espansionismo globale dei
mercati”.
E’
chiaro che una posizione in tal modo definita finisce per dare un ruolo
positivo alla sovranità nazionale, chiaramente intesa in senso non
nazionalista, razzista e imperialista.
La
seconda eresia è riferita al ruolo della classe operaia.
Essa non è il soggetto della rivoluzione, ma parte del ciclo di valorizzazione
del capitale, facilmente assorbita nelle priorità di questa, come peraltro è
avvenuto negli anni ottanta; se c’è speranza essa, casomai, “va riposta nei
limiti che il capitale può incontrare a causa delle sollecitazioni
antropologicamente insostenibili che impone all’umanità intera, e di quelle
ecologicamente insostenibili che impone al pianeta” (p.88).
Terza
eresia, l’inutilità dell’alternativa tra conservazione e
progresso come confine tra destra e sinistra. Come per l’ultimo Tronti ciò
porta Preve ad assumere posture conservatrici nella critica del dogma marxista
dello sviluppo delle forze produttive, pensate come necessaria premessa alla
transizione al socialismo. Seguendo la logica progressista, e la fascinazione
per la tecnica, si finisce di fatto per far coincidere la sinistra con il
liberalesimo. Ciò che occorre fare è invece proteggere la natura umana,
l’ambiente, il legame sociale e la sovranità nazionale dallo sradicamento
provocato per sua natura dai flussi imperiosi ed impersonali del capitalismo.
Seconda
parte: ventidue tesi
Segue
la Parte Seconda, che è organizzata in ventidue tesi e un’ulteriore
rassegna di posizioni. Le tesi sono le seguenti:
1- La
prima è che il populismo non è una ideologia, ma ha elementi comuni e
caratterizzati. Tra questi l’uso di un linguaggio semplificato, emotivo,
diretto, orientato a creare opposizioni bipolari.
2- Quindi
che il “popolo” dei populisti non esiste. Ma è un effetto derivato dal discorso
politico, non si tratta di ‘riconoscerlo’, ma di ‘costruirlo’. Precisamente di
costruirlo, in una fase di crollo delle egemonie preesistenti, a partire da
relazioni antagonistiche ed in funzione di domande che non riescono a trovare
risposta.
3- Le
sinistre tradizionali negano che possano esistere populismi di sinistra, ma
questa distinzione è possibile proprio in funzione del tipo di domande che
acquistano centralità.
4- L’altro
punto di attacco è la rappresentazione del popolo come totalità. Cosa che
segnala una effettiva ambiguità, ma inevitabile “nella misura in cui esprimono
ampie alleanze fra classi sociali” altamente incerte della propria identità e
per lo più prive di autocoscienza. Si tratta di comprendere i limiti della
ricerca di un soggetto rivoluzionario privilegiato, oggi particolarmente
difficile per effetto della natura della società. Né questo problema è
risolvibile appellandosi alla vaga nozione di “moltitudine” di Negri.
L’obiettivo diventa piuttosto di “costruire il blocco sociale fra terzo Stato e
classi medie impoverite e/o minacciate dalla globalizzazione (ad esempio
piccoli e medi imprenditori).
5- Le
sinistre sono anche irritate dall’impossibilità a fare a meno di un leader
carismatico, che, invece appare centrale nelle strategie populiste.
6- La
globalizzazione non è l’esito di tendenze ‘oggettive’ del modo di produzione
capitalistico, e non anticipa, malgrado qualche effetto collaterale, un mondo
migliore. Se si accetta questa narrazione, tipica del liberalesimo dai tempi di
David Ricardo, non si può più distinguere tra la dimensione internazionale
degli scambi e della produzione e la “guerra di classe dall’alto” che, con
irradiazione dagli Usa e dalle imprese monopolistiche, si è estesa a partire
dalla crisi di valorizzazione degli anni settanta[18]. Pensare che questo sia
parte di un processo di indebolimento degli Stati in quanto tali significa
perdere di vista la meccanica della cosa. Quelli che si indeboliscono sono alcuni
Stati, a vantaggio di altri. Le grandi società multinazionali, oligopolistiche
o monopolistiche in alcune aree, riescono a indebolire la sovranità degli Stati
in cui operano in genere grazie al sostegno attivo dello stato di partenza (spesso
gli Usa) e sono usate per pompare valore dagli stati periferici, grazie alla
manipolazione politica delle ‘ragioni di scambio’[19] e la banale ragione che
il capitale è nazionale (per cui i flussi di remunerazione dello stesso vanno a
rinforzare il capitale nazionale[20]). La globalizzazione è quindi
un processo politico che usa mezzi economici e ha la funzione di mercatizzare
in modo subalterno il mondo e ristrutturare l’ordine mondiale, cooptando in
questa operazione le élite dei paesi periferici[21], tramite le relazioni
commerciali.
7- L’obiettivo
della globalizzazione non è liberare il capitale dal giogo degli Stati, ma da
quello della democrazia.
8- Gli
eventi del 2016 non sono esito della controffensiva di settori arretrati del
capitalismo quanto sintomi che la crisi della globalizzazione, già in atto, è
giunta ad una fase terminale.
9- La
crisi della globalizzazione ha colto di sorpresa le sinistre cosmopolite che
confondono un internazionalismo astratto per una reale prospettiva di
liberazione. Questa ideologia che fa leva su un mondo immaginato senza
frontiere rispecchia i valori e gli interessi del ceto medio riflessivo con le
sue aspirazioni di mobilità (in particolare sociale) che per salvarsi l’anima si
rifugia nella pietà per gli “ultimi”, dimenticando: 1) che la libera
circolazione non è affatto ‘libera’, in quanto sussistono coazioni economiche e
talvolta politiche che la generano, 2) che l’immigrazione serve al capitale per
abbassare il costo del lavoro ed aumentare la sua scelta, costringendo a
disciplinarsi il lavoro che c’è, 3) che questo fenomeno è difficilmente
compatibile con il finanziamento del welfare e quindi contribuisce al suo
smantellamento.
10- La
difesa della sovranità nazionale non è necessariamente di destra.
11- Il
rapporto tra nazioni del centro, della semi-periferia e della periferia
incorpora una relazione di dominio fra classi straniere e locali (non estesa
solo alla borghesia). Autori come Amin, Fanon, Wallerstein, hanno contribuito
in modo decisivo ad arricchire la teoria marxista sotto questo profilo, mostrando
le dinamiche dello “sviluppo del sottosviluppo”[22]. Questa dinamica non vale
solo verso l’ex terzo mondo, ma si estende ai rapporti a catena entro il
“centro sviluppato”, che è organizzato gerarchicamente attraverso i nessi
sistemici diretti e più spesso indiretti che connettono i grandi capitali e le
grandi aziende[23].
“Ecco perché la riconquista della sovranità nazionale è l’unica strada
percorribile per riottenere il controllo collettivo sulle proprie risorse,
sulle politiche economiche e sociali e sui flussi di capitali, merci e
persone”.
12- Contro
coloro che ritengono illusoria ogni prospettiva di aumento dell’autonomia dal
sistema globale capitalista, si può mobilitare il pensiero marxista di Samir
Amin e Hosea Jaffe che per decenni hanno riflettuto sulla prospettiva del “delinking”,
come unica via possibile per rendere possibile qualsiasi passo verso il socialismo.
Naturalmente “delinking” non vuol dire una impossibile ed antistorica anarchia,
ma ridurre a quanto utile le importazioni e al massimo possibile l’uso delle
risorse locali, accentrare il surplus economico nelle mani dello Stato e
ridistribuirlo in funzione dei bisogni settoriali di crescita, tenendo ferma la
centralità della piena occupazione e la difesa delle classi subalterne;
regolare i flussi di capitali garantendo la sovranità monetaria, far valere la
politica.
13- L’Unione
Europea è una prova dell’economicismo che regna a sinistra. Malgrado l’evidenza
della sua irreformabilità. Invariabilmente si ripete sempre che la
globalizzazione ha prodotto alterazioni che rendono impossibile gestire
l’economico dallo Stato-nazione (quando, casomai, è chiaro che è ingestibile,
se non a vantaggio dei più forti, dal lato Europeo). Altra tesi che si sente
ripetere è che l‘Unione deve diventare un solo blocco coeso e sovrano, per
confliggere con gli altri grandi blocchi (Usa e Cina) senza neppure accorgersi
che questa coincide perfettamente con quella del grande capitale. A voler
essere cinici questa tesi ha, in effetti, un suo fondamento, in quanto lo
sfruttamento del mondo dipende, immutati i rapporti di classe e potenza, dal
livello al quale si colloca lo Stato che protegge il capitale n.esimo, e/o
l’azienda multinazionale (aprendogli mercati in condizioni privilegiate,
ottenendo per lei commesse pubbliche riservate, proteggendola da scalate
ostili, garantendogli migliori condizioni di credito, se del caso salvandola).
Dunque dal lato della frazione di capitale dominante (allo stato tedesca) ha
perfettamente senso, in particolare se il parlante appartiene ad uno di quei
ceti coinvolti nella sua catena di valorizzazione e di estrazione del surplus
(potenziale[24]).
Comincia ad averne già meno dal lato della frazione di forza lavoro coinvolta
in posizione subalterna, che ne raccoglie le briciole, e ne ha davvero poco dal
lato della frazione di capitale dominata (ad esempio italiana, o spagnola, …)
che vedrà nel medio periodo consolidarsi il ruolo subalterno. Scarsissimo dal
lato degli interessi delle classi subalterne dei paesi periferici, coinvolti
solo nelle parti marginali delle catene di subfornitura, e costretti ad una
aspra competizione di prezzo. Uscendo dall’economicismo si comprende bene e facilmente
per quale ragione un’Europa democratica, attenta a bilanciare costi e benefici
sulle diverse classi ed a ricondurre il capitale alla funzione pubblica che
dovrebbe avere, non è possibile: manca del tutto una ragionevole comunanza
politica e culturale, a meno di considerare solo le classi alte, abituate a
frequentare gli stessi grandi alberghi e viaggiare nella classe business degli
aerei.
14- La
Ue è in effetti, un esperimento istituzionale che attua quanto immaginato da Hayek
all’avvio del secolo scorso[25]. Lo scopo era di spezzare
il rapporto tra politica e territorio che si apprestava ad obbligare il
capitale a tenere conto delle classi subordinate, in quanto capaci di
organizzarsi e di esercitare solidarietà interna. Attraverso un impianto
filosofico ordoliberale, imperniato sui poteri dello Stato per neutralizzarne
la democrazia, si assicura che domini invariabilmente il principio della
concorrenza.
15- È
la Germania, la patria dell’ordoliberalismo, a dominare in questa condizione.
Questa relazione asimmetrica è stata promossa proprio dai paesi periferici, da
scelte autonome di Andreatta, Ciampi, Padoa Schioppa, Prodi, ognuno per la sua
parte ed al suo momento, per assicurarsi che gli interessi del capitale verso
quelli dei lavoratori prevalesse, neutralizzando l’eccesso di socialismo della
Costituzione italiana. Si è trattato, in un percorso che prende avvio dallo
Sme, di implementare un sistematico “vincolo esterno” che impedisse ogni
possibilità di avanzamento alle forze sociali.
16- Il
meccanismo più potente è l’obbligo per qualsiasi necessità di finanziamento di
rivolgersi al mercato, senza poter esercitare i poteri di una Banca Centrale
che prima è stata resa “indipendente”, e poi, direttamente, resa
sovranazionale. È qui che il principio del ‘delinking’ può manifestare la
propria potenza, solo “uscendo dall’Euro e riconquistando la sovranità
monetaria sarà possibile ridare spazio al conflitto ridistributivo, invertire
la tendenza alla privatizzazione, nazionalizzare le banche e le imprese in
crisi e i servizi pubblici, ed infine adottare politiche fiscali progressive”.
17- Lo
scetticismo alla nazione si accompagna a quello per lo Stato, sulla base di un’ideologia
neoanarchica spesso inconsapevole. Lo Stato è sempre il nemico del popolo, e
quindi nessuna presa del potere può essere immaginata. È la versione di
sinistra della controdemocrazia di cui parla Rosanvallon[26]. Il benecomunismo e
l’attenzione per il “terzo settore” sono immagine di questa deriva, che
comporta l’abbandono all’aspirazione ad abolire il capitalismo e puntano su una
radicale spoliticizzazione della società civile.
18- Le
ideologie criticate possono essere sintetizzate nella formula “cambiare il
mondo senza prendere il potere”, che ha un sapore obiettivamente cristiano.
19- Le
rivoluzioni bolivariane non sono direttamente socialiste, ma si tratta di
capire in che misura hanno messo in movimento un processo reale di
democratizzazione dello Stato e aumentato l’indipendenza nazionale
dall’imperialismo occidentale, che a quella latitudine più che altrove
significa americano. “Questo perché non va dimenticato che la lotta di classe
in certe circostanze assume forma geopolitica, e che il conflitto tra nazioni
del centro e nazioni periferiche ha di per sé la natura di un conflitto di
classe, per cui schierarsi dalla parte delle seconde è più importante che
tracciare un confine astratto fra rivoluzione nazional-democratica e
rivoluzione socialista. Che poi la rivoluzione nazional-democratica possa
evolvere in rivoluzione socialista dipende da fattori economici, sociali,
geopolitici in larga misura contingenti e imprevedibili” (p.124).
20- La
novità è che a causa degli effetti della rivoluzione liberale sia nella
composizione sociale nei paesi “avanzati”, sia nei rapporti di subordinazione
centro-periferia, anche eventuali rivoluzioni anti-liberiste dovrebbero
attraversare una fase nazional-democratica e riformista. Sia per ragioni
soggettive (il proletariato non è pronto), sia per la necessità di ricostruire
le solidarietà politico-sociali, valorizzando la resistenza dei luoghi,
attivando politiche redistributive graduali, unendo forze eterogenee, cercando
il sostegno di blocchi sociali maggioritari e quindi necessariamente
trasversali. Quel che qualche anno fa sarebbe stato considerato socialdemocratico
oggi, in questo contesto altamente degradato, suona sovversivo.
21- Questo
avvio di trasformazione, anche se passa per una fase democratica e giacobina, è
altamente difficile e può avvenire solo in presenza di una profonda crisi.
22- Naturalmente
in simile processo ha in sé dei rischi di degenerazione che possono essere
contrastati attivando istituzioni popolari di democrazia. Capaci di
contrapporsi alle decisioni degli organi rappresentativi e avviare un conflitto
nei confronti dello Stato sancito costituzionalmente.
Varianti
e letture
La
sezione di “varianti sul tema”, ovvero quella che ripercorre letture di autori
e testi, parte con una restrospettiva su Ernesto Laclau e Chantal Mouffe. Il
primo ripensa le dinamiche politiche populiste, di cui ha fatto esperienza in
Argentina, interpolando fonti diverse, come il marxismo originale, lo
strutturalismo e post-strutturalismo e infine una rilettura originale di
Gramsci. Un ‘momento populista’ per Laclau si verifica quando un sistema
egemonico è scosso e si insediano delle “catene equivalenziali” che riescono a
mettere insieme l’energia delle domande inevase dal sistema stesso. Intorno a
domande inevase, anche se diverse, si può quindi articolare una nuova
soggettività sociale. Ma il vero e proprio “momento populista” si verifica
quando da una serie disparata di domande istituzionali si innesca un discorso
antagonista e si forma quindi una “frontiera antagonista”, intorno alla quale
si dispongono amici e nemici. Prendendo le distanze dal marxismo queste domande
si aggregano non in riferimento al modo di produzione, alla posizione rispetto
alla produzione o distribuzione di ricchezza, ma sul piano simbolico.
Quindi diventano rilevanti tutti i piani di frattura potenzialmente antagonista
e i relativi movimenti.
Quindi
se una domanda o una rivendicazione riesce ad incarnare simbolicamente, grazie
ad una opportuna rappresentazione e narrazione, una catena equivalenziale
abbastanza larga assume un carattere “egemonico”. Su questa base, aggregando
altri gruppi sociali, si può costituire un blocco sociale. Blocco che è
aggregato sulla base di un linguaggio necessariamente impreciso, fluttuante,
eterogeneo, mettendo in campo parole generiche (come giustizia) che significano
cose diverse per gruppi diversi.
Questa
operazione di grande difficoltà, e sempre a rischio di disgregarsi per effetto
dell’eterogeneità delle soggettività e dei potenziali conflitti di interesse
tra di esse, deve essere tenuta insieme non solo dal discorso politico, quanto
dai processi di identificazione sia entro il gruppo sia in verticale, con il
leader. Che risulta quindi essenziale per il successo dell’operazione
egemonica.
Rispetto
a questo discorso, che comunque, tiene fermo l’obiettivo di criticare il potere
e non solo chi lo occupa pro-tempore (risolvendosi in un discorso sulla ‘casta’
o sulla ‘onestà di questa’), la Mouffe produce una versione piuttosto debole ed
“edulcorata”.
Secondo
l’opinione di Formenti Chantal Mouffe, dopo la scomparsa del marito e coautore,
ha depotenziato la valenza antisistemica e utilizzato la struttura concettuale
messa a punto per disancorarsi da qualsiasi riferimento alle classi subalterne,
arrivando ad una definizione di “sociale” come “spazio discorsivo, prodotto di
articolazioni politiche contingenti, che non hanno nulla di necessario e
potrebbero sempre assumere una forma differente”. Questa definizione
evenemenziale, concentrata sull’attimo, manifesta più profondamente una diversa
intenzionalità politica, più volta alla conquista del potere (per la quale
l’aggregazione episodica e contingente di interessi diversi e segmenti di
classe eterogenei ed incompatibili è sufficiente, purché avvenga ad una
votazione), che alla trasformazione delle strutture sociali-statuali (per la
quale è necessario che la coalizione regga nel medio periodo ed attraversi significative
tensioni). Il centro della sua teoria è quella che l’autore chiama “una
versione radicale del concetto di autonomia del politico”, che si colloca
“nella congiuntura”, anziché “ragionale sulla congiuntura” (distinzione
attribuita alla postura di Machiavelli).
Potrebbe
sembrare un progetto politico di sapore soreliano (volontaristico e
soggettivo), ma viene speso esplicitamente entro il quadro della democrazia
rappresentativa e la lotta per la successione, quella che chiama “una
democrazia agonistica”[27].
Seguono
alcune letture dei testi sul populismo di Damiano Palano[28], Marco Tarchi[29] e Andrea Ricolfi[30], l’ultimo dei quali
abbiamo letto tempo fa.
Quindi
un inserto di grande rilevanza sulla “questione nazionale nel marxismo”.
Qui la tesi di Formenti è netta: Marx non ha mai confuso cosmopolitismo
borghese e internazionalismo proletario e la battuta finale del “Manifesto
del Partito Comunista”[31], nel momento in cui
afferma che “gli operai non hanno patria” è spesa perché di essa sono privati, non
perché non la possono avere[32]. Del resto proprio nella
parte in cui delinea il movimento della liberazione del proletariato[33], che con tipica riduzione
economicista (le cose si incaricheranno di mostrare la loro maggiore
complessità) dichiara essere “spogliato di ogni carattere nazionale”[34], Marx scrive anche:
“sebbene non sia tale per il contenuto, la lotta del proletariato contro la
borghesia è però all’inizio, per la sua forma, una lotta nazionale. Il
proletariato di ogni paese deve naturalmente farla finita prima con la propria
borghesia” (ivi., p.66).
Per
inciso, l’equazione sulla quale è impostata l’azione di Marx si può derivare
con evidenza da queste poche pagine: 1- la borghesia non riesce a garantire la
ricchezza distribuita e accumula nelle sue mani tutto, lasciando il
proletariato con la sua crescente disperazione e senza vie di uscita; 2- ma se
il proletariato è un prodotto del capitale (“condizione del capitale è il
lavoro salariato”) e “si fonda sulla concorrenza degli operai tra di loro”, allora
3- è il progresso dell’industria, mosso dalla tecnica (ovvero dall’automazione
pesante, tipica del suo tempo), che sostituisce alla competizione tra gli
operai la loro unione e quindi, 4- “lo sviluppo della grande industria toglie
di sotto i piedi della borghesia il terreno stesso sul quale essa produce e si
appropria dei prodotti. Essa produce innanzi tutto i suoi propri seppellitori.
Il suo tramonto e la vittoria del proletariato sono ugualmente inevitabili”. La
condizione di validità di questa equazione, scossa dalla fase monopolistica e
imperialista del capitalismo (che crea le condizioni per cooptare almeno
consistenti “aristocrazie operaie” e, con l’aumento della produttività, di
allargare le fasce medie), è quindi distrutta dalla svolta che si riassume
nella piattaforma tecnologica della “accumulazione flessibile” (formula
proposta da David Harvey[35]).
Di
seguito è analizzata la questione della lotta di liberazione nazionale
irlandese[36],
come condizione perché cessi la lotta interna nella classe operaia inglese,
messa in concorrenza con quella irlandese dalla borghesia (la quale, per così
dire, prende due piccioni con una fava, prima sfrutta i latifondi irlandesi,
espellendo parte della popolazione e sottraendogli i mezzi di sostentamento,
poi li importa in Inghilterra per mettere pressione agli operai inglesi). Per
Formenti “si tratta di un cambiamento cruciale di prospettiva: si passa infatti
dall’idea che la rivoluzione è il prodotto di condizioni oggettive, che possono
darsi solo dove lo sviluppo delle forze produttive raggiunge i livelli più
elevati, all’idea secondo cui il capitalismo può e deve essere aggredito
laddove si accumulano le contraddizioni politiche più radicali” (p.145). In
alcuni casi è proprio la soluzione della questione nazionale ad aiutare il
socialismo. Un dibattito che si ravviva nella Seconda Internazionale, ed in
particolare nel confronto tra le posizioni di Rosa Luxemburg e Lenin[37].
Ancora
viene analizzata la posizione di Antonio Gramsci e la sua teoria del blocco
sociale “nazional-popolare”. Si tratta della reazione al fatto che la fine
della prima globalizzazione[38], nel quale si è spesa
buona parte della vita dei fondatori, ed il fallimento nei paesi
industrializzati delle spallate seguite al ’17, con i variamente tragici esiti,
portano alla necessità di una “guerra di posizione” tra borghesia e
proletariato allo scopo di conquistare l’egemonia. A questo punto, anche a
causa del riflusso della pauperizzazione, almeno parziale, e delle misure di
espansione dello stato nel nascente welfare (che si avvia in Germania e in
Inghilterra, proprio in risposta alle agitazioni socialiste, intorno all’ultimo
ventennio del secolo XIX), la teoria della costruzione di un blocco sociale
rivoluzionario non può assumere che un carattere nazional-popolare.
Questo
dibattito scompare del tutto quando si riavvia la nuova globalizzazione[39], in uno con il sorgere
del modo di produzione della “accumulazione flessibile” e quindi con la
distruzione delle condizioni di forza delle classi lavoratrici. Il massimo
esponente di questa ripresa del cosmopolitismo è naturalmente Toni Negri, in “Impero”
e negli scritti successivi. Come scrive Formenti:
“Negri ripropone /al
pari della maggioranza degli intellettuali della sinistra occidentali) un
internazionalismo dottrinale ed astratto, assieme alla tesi secondo cui la transizione
al comunismo può avvenire solo ai più alti livelli di sviluppo delle forze
produttive. Questo punto di vista rimuove ogni riflessione sulla contraddizione
centro/periferia (nell’Impero negriano il centro è ovunque e in nessun luogo)
teorizzata dai vari Wallerstein, Samir Amin e Arrighi, e quindi liquida come
anacronistica, se non reazionaria, qualsiasi rivendicazione di indipendenza e
sovranità nazionali”.
giudizio
è drastico:
“Si tratta di un
pensiero sciovinista/eurocentrico che, da un lato, torna ad esaltare la
missione ‘civilizzatrice’ del capitale e dello sviluppo delle forze produttive
(delle quali viene ignorato/rimosso il contenuto di classe), dall’altro
considera irreversibile, oltre che ‘progressivo’, il processo di
globalizzazione capitalista, finendo di fatto per celebrare il processo di
americanizzazione della cultura planetaria”.
Quel
che appare come una ‘buona novella’ è, insomma, l’unificazione del mondo attraverso
i mercati. La quintessenza del pensiero borghese: “la pace universale”.
Per
criticare questa posizione viene richiamato il lavoro di Wolfgang Streeck[40] che inquadra la crisi
nella lunga trasformazione avviata negli anni settanta, non senza l’alleanza
con l’onda lunga del ’68.
E
richiama anche il recente libro di Thomas Fazi e William Mitchell “Sovranità
o barbarie”, che abbiamo letto in questo post,
in particolare il ruolo strategico delle sinistre socialdemocratiche.
Viene
quindi una rilettura del lavoro di Hosea Jaffe e Samir Amin sul ruolo della
nazione in una prospettiva anticapitalista che prende le mosse dalla
ridefinizione della lotta di classe in termini di scontro geopolitico tra
centri e periferie. Il rovesciamento totale della prospettiva, rispetto a
quella di Negri (con numerose, peraltro, polemiche dirette), è originato dalla
diversa posizione di parlante: le università centrali o semi-centrali e la
lotta terzomondista concreta e materiale. Il giudizio su quello che Losurdo
chiamerà “marxismo occidentale” è particolarmente severo in Jaffe[41] che propone la priorità
delle lotte per la rottura del dominio del “Nord” sulle lotte per il socialismo
(tesi alla quale viene opposta la posizione “postcoloniale”, secondo la quale
il ciclo delle lotte di liberazione nazionale è ormai concluso e la questione
della disuguaglianza deriva da endogeni fattori di sottosviluppo e non dallo
sfruttamento, si potrebbe dire dai residui feudali e non dal capitalismo[42]).
Samir
Amin sostiene che oppressione e sfruttamento, ora da parte della cosiddetta
“Triade” (Usa, Europa e Giappone), è ancora del tutto presente, anche se passa
per il controllo della tecnica. Anzi le società del terzo mondo, salvo quelle
che hanno schermato il proprio sistema, sono state “ri-compradorizzate” e il
loro sottosviluppo è condizione dello sviluppo dei centri. La cosa però si
estende anche entro i “centri”, ad esempio nella relazione tra la Germania ed i
paesi “semi-centrali” del sud Europa e dell’Est. La conseguenza è che “la lotta
di classe non può essere ridotta all’opposizione [idealtipica]
borghesia/proletariato in campo economico, ma chiama in causa il ruolo della
politica, dello Stato e della nazione”.
Nasce
da questa teoria[43]
l’idea che il superamento del capitalismo passi necessariamente dalle periferie
e dal loro sganciamento dalle relazioni di subordinazione, ed estrazione di
surplus, imposte dal mercato globale. Si tratta di opporre una strategia di
sviluppo autocentrato, fondato sulla protezione della domanda interna e
l’orientamento ai bisogni.
Altri
approfondimenti presenti nel libro sono la lettura del testo di Dardot e Laval
“La nuova ragione del mondo”, che abbiamo letto qui,
di cui è criticato l’esito anarchico che segue ad un’analisi precisa e
ficcante. E la ripresa di alcuni libri[44] di Alessandro Somma e Sergio
Cesaratto[45]
sull’Unione Europea.
In
definitiva l’attivazione di un processo, necessariamente complesso ed anche
disordinato, di superamento dello stato attuale delle cose non potrà venire,
non è mai venuto, dalle classi integrate, sia pure in posizione di debolezza,
nel sistema e connesse strutturalmente con il capitale. Quelle classi che, come
vedeva anche Marx, sono prodotte dal capitale.
Ma
potrà eventualmente scaturire, è la tesi centrale del libro, da quel genere di
“popolo” che si aggrega intorno a chi questa ‘rivoluzione’ la vuole. Non potrà
avvenire dunque al punto più alto di manifestazione del capitale e delle forze
produttive, ma nell’anello più debole; non avverrà tra le classi
“creative”, che sono la manodopera della forma di capitale oggi dominante,
quello connesso con la “conoscenza”. Tutte queste strade sono state tentate e si
sono rivelate sterili.
Al
contrario la speranza di rimettere in questione il sistema di sfruttamento
capitalistico può scaturire, oggi, dopo che cinquanta anni di neoliberismo
hanno riportato in auge l’ipotesi “pauperista” di Marx, per quelli per i quali
ciò avviene; emergere da coloro che esprimono una domanda impellente di
protezione e spesso lottano per la conservazione del poco che hanno. Quindi può
prodursi da un “blocco sociale spurio”, che apparirà ai giovani e belli
‘lavoratori della conoscenza’, colti e plurilaureati, abituati a muoversi e
desiderosi di promozione nelle lucenti case del capitalismo internazionale
(anche quando sono intrappolati nel sottoscala del precariato “cognitivo”), come
“sporco, brutto e cattivo” e quindi anche, ovviamente, politicamente davvero
scorretto. Sia chiaro: questo “blocco sociale” produrrà un movimento confuso,
come è sempre stato[46] che almeno all’inizio
avrà caratteri “nazional-popolari” e, se va bene, democratici e persino
giacobini. Una rivoluzione che non sembrerà tale, fatta come sarà di
compromessi, alleanze e mediazioni di ogni tipo. Ma se diretta correttamente,
se agita dalle forze che si muovono nei margini e sono determinate per questo,
unite dal comune senso di esserlo, il movimento potrà evolvere e un passo alla
volta, man mano che si spostano i rapporti di forza e si guadagnano alleati tra
le classi inizialmente ostili.
Naturalmente
qui non si sta parlando solo di conquistare il potere, vincere le elezioni e
sostituire un governo. Si tratta di ciò, ma bisogna anche che serva a creare le
condizioni per la costruzione di una nuova forza popolare, un nuovo potere.
Trasformando le strutture statuali, in un processo costituente che ridefinisca
le stesse regole del gioco. In Italia significa in primo luogo attuare, e per
questo rinforzare, i principi sanciti nella prima parte della Costituzione,
liberarsi del “vincolo esterno”, ripristinare la possibilità di governo
politico in vece della governance neoliberale[47].
Si
tratterà anche di garantire, come dice Formenti, “la separazione fra società e
Stato, consentendo alla prima di creare organismi popolari autonomi, separati
tra Stato e partito, cui deve essere assicurata la possibilità di valutare e
controllare le decisioni del potere politico (nonché di criticarle e
opporvisi!)”. Si tratterebbe, in effetti, di una “rivoluzione riformista” dai
caratteri inizialmente radical-liberali, o almeno ibridi.
E’
un punto decisivo, bisogna attraversarlo prima ancora di
passare a quello eventualmente successivo del socialismo (che richiede profonde
modifiche del modo di produzione): abbiamo visto che la prassi rivoluzionaria
immaginata dal Marx del 1848, sulla base di un teorema innestato su una visione
a stadi del processo storico e una rappresentazione della tecnica linearmente
proiettata, si è rovesciata nel corso del novecento (ma a partire dalla fase
monopolista ed imperialista già presente nell’ultimo quarto del XIX secolo),
attraverso un compromesso risarcitorio profondamente innestato di logica di
potere e riduzione amministrativa. Vengono in questa fase scolpiti in norme e
procedure un insieme di diritti politici e di diritti sociali di ripartizione
di parte della ricchezza sociale prodotta. Si ottengono però due effetti
co-sviluppati: si dischiude, via via fino alla crisi degli anni settanta, la
prospettiva di vivere in sicurezza e garanzia, godendo di un crescente
benessere in cambio della disponibilità di fornire lealtà e di un certo grado
di spontanea disattivazione. In conseguenza tutta la società è sussunta entro
la logica del capitale, ovvero è estesa alla funzione del ‘lavoro salariato’
(diretto o indiretto) ed è chiamata alla disciplina ed alla promozione della
crescita capitalistica. Questa crescita è interiorizzata come obiettivo per
tutti anche dalle formazioni dei lavoratori, dal sindacato e dai partiti.
Gradualmente,
come vede ad esempio Ignazi[48], però i partiti sono
risucchiati dall’espansione dell’apparato statale, il quale come un giano
bifronte guarda alle forze sociali che beneficia ed alle forze del capitale che
alimenta e sempre più sembra autoprogrammato. Habermas, nel 1989, dirà che
“così l’altra faccia di uno ‘stato sociale’ diventa la democrazia di massa:
cioè un processo di legittimazione controllato e diretto dall’amministrazione”[49].
La
crisi degli anni sessanta, dalla quale emergono le energie vampirizzate dal
capitalismo e rivolte contro le stesse energie rivoluzionarie, ovvero contro
l’azione collettiva che ne è il presupposto, emerge direttamente da questa
contraddizione. La tendenza alla burocratizzazione ed alla riduzione di
ogni bisogno, una volta che sia riconosciuto, tipizzato ed erogata la risposta
in forma normale, ad una mera gestione amministrativa, incoraggia apatia e
spinge a rinunciare alla democratizzazione radicale in cambio dell’accesso al
mercato del lavoro, apre, inoltre quel vuoto di senso diagnosticato da Pasolini[50], nel quale si precipita
il sostituto del consumismo[51].
È
necessario dunque trovare la via per riattivare queste energie ed incanalarle
senza presumere la dissoluzione dello Stato o del potere amministrativamente
impiegato, del quale continua ad esserci bisogno (in quanto l’unica alternativa
reale è il potere impersonale, muto e disgregante del codice-denaro, o il puro
e semplice dispotismo, o la combinazione delle due verso cui ci avviamo). La
soluzione – che resta nel quadro liberale - di Habermas, come noto, è una
dialettica tra questo ed il potere “comunicativamente prodotto”, ovvero
l’istituzionalizzazione di obblighi di giustificazione sistematici insieme alla
garanzia e protezione di una sfera pubblica autonoma e dei suoi organismi alla
quale deve essere attribuito il monopolio delle ragioni. Ovvero, nel suo
linguaggio, “il pool di ragioni dalle quali le decisioni amministrative devono
necessariamente essere razionalizzate”. Palesemente ciò implica che nessuna
schermatura post-democratica (e dunque tutta l’architettura dell’Unione
Europea, per come si è costituita sin dall’inizio) è legittimabile[52].
Chiaramente:
“i
procedimenti democratici giuridicamente strutturati possono condurre a una
formazione razionale della volontà solo nella misura in cui l'organizzata
formazione d'opinione che all'interno degli organi statali produce decisioni
responsabili resti permeabile ai valori, temi, contributi e argomenti
liberamente fluttuanti in quella comunicazione politica che le fa da sfondo e
che, come tale, non è mai completamente organizzabile”.
La
sfera pubblica è quindi “non programmata per decidere” (e dunque può essere anche
non organizzata). Si tratta di un concetto normativo che sul piano
fattuale si articola in una rete comunicativa di sfere pubbliche variamente
specializzate nel produrre e diffondere convinzioni, nell'individuare temi, fornire
contributi, interpretare valori, produrre o contrastare argomenti. Sono
influenti ma solo indirettamente, articolando il set di ragioni che sono
mobilitabili (ma non complessivamente aggirabili senza prezzo) dalle sfere
politiche.
Un
simile potere (che può anche, e deve, essere visto anche in modo molto meno
disincarnato di quanto faccia il francofortese), secondo la bella metafora
usata, è “esercitato secondo le modalità di un assedio”, e si concentra,
nella separazione tra società e Stato di cui parla Formenti, sull’influenza
sulle premesse dei processi decisionali del sistema amministrativo, ovvero nel
“regolare e contingentare il pool di ragioni che esso può trattare strumentalmente”,
ma mai permettersi di ignorare.
Da
una rivoluzione di questo genere ad una eventualmente socialista si passa
mettendo mano alla proprietà (che è un concetto multidimensionale e quindi può
essere articolato per gradi) dei mezzi di produzione. Riconducendoli alla
propria sostanza e funzione sociale. Ma anche dei processi riproduttivi (sui
quali è interessante la riflessione di Nancy Fraser) e di scambio (in primo
luogo internazionali)[53].
Quindi
mettendo mano alla divisione del lavoro nazionale ed internazionale (seguendo
le intuizioni di Samir Amin). Questa ultima dimensione è necessaria per avere
lo spazio di riconquistare la sovranità popolare e per costruire un nuovo spazio
internazionale di cooperazione e si può giovare dell’attuale trasformazione in
corso in senso multipolare[54]. Il libro si concentra
quindi nell’ampia descrizione degli scenari geopolitici in mutamento,
richiamando le ipotesi in tal senso di Pierluigi Fagan[55], e la valutazione del
ruolo crescente del “capitalismo di Stato” cinese.
Da
ultimo, prima di un interessante Atlante, su l’America Latina, gli Stati Uniti,
l’Europa e l’Italia, nel paragrafo “appunti sparsi sui Quaderni di Antonio
Gramsci”, Formenti torna su alcuni noti passi dell’opera maggiore, anche se
incompiuta, del grande rivoluzionario sardo per riassumere i temi della grande
crisi[56], della “grande e piccola”
ambizione[57],
che amplia la riflessione sul Partito e i gruppi dirigenti in esso, del
concetto di egemonia. In questa ricostruzione per punti emerge, alla fine, un
notevole punto di differenza con la rilettura che Laclau compie di Gramsci: quello
circa il ruolo dell’ideologia, che per Gramsci è “la soprastruttura necessaria
di una data struttura”[58]. Il filosofo argentino,
invece, rovescia i termini e determina la struttura dalla soprastruttura (o
meglio la dissolve). Si tratta, precisamente dell’esatto simmetrico degli errori
indicati dal nostro: “1) si identifica l’ideologia come distinta dalla
struttura e si afferma che non le ideologie mutano la struttura ma viceversa 2)
si afferma che una certa soluzione politica è ‘ideologica’ cioè è insufficiente
a mutare la struttura, mentre si crede di poterla mutare si afferma che è
inutile, stupida etc. 3) si passa ad affermare che ogni ideologia è ‘pura’
apparenza, inutile, stupida, etc.” Ora il nostro in effetti qui distingue tra
“ideologie storicamente organiche”, ovvero “necessarie a una certa struttura”
ed altre “arbitrarie”. Le prime hanno una validità per così dire ‘psicologica’,
ma in un senso forte. Esse, infatti, “formano il terreno in cui gli uomini si
muovono, acquistano coscienza della loro posizione, lottano, ecc”.
La
relazione è molto interna e profonda:
“…
rafforzare la concezione di ‘blocco storico’, in cui appunto le forze materiali
sono il contenuto e le ideologie la forma, distinzione di forma e contenuto
meramente didascalica, perché le forze materiali e non sarebbero concepibili
storicamente senza forma e le ideologie sarebbero ghiribizzi individuali senza
le forze materiali” (7, $ 21)
Si
tratta del campo di battaglia, o meglio un campo di battaglia; la
battaglia ideologica è quindi anche quella per la risignificazione del senso
comune, ma non disgiunta da una relazione con le “forze materiali”.
Questo
è il problema.
[1] - Carlo Formenti,
“Incantati dalla rete. Immaginari, utopie e
conflitti nell’epoca di internet”, 2000; “Cybersoviet. Utopie postdemocratiche e nuovi
media”, 2007; “Se questa è
democrazia. problemi e paradossi della politica on line”, 2008; “Felici e sfruttati. Capitalismo digitale ed eclissi
del lavoro”,
2011; “Magia bianca magia nera. Ecuador: la
guerra fra culture come guerra di classe”, 2014;
[2] - Idea di
derivazione marxiana, ma tra le più legate allo spirito del tempo nel quale
scriveva. Tuttavia idea resistente, ancora oggi Mario Tronti attribuisce, quasi
distrattamente, alla mondializzazione, messa in crisi dalla elezione di Trump
(quasi come questa sia un accidente e non il segno di tensioni giunte a
rottura), lo status di “ragione del mondo” e coerentemente indica che questa
“viene dall’occidente”. Cfr. Mario Tronti, “Il popolo perduto”. Chiaramente si
tratta di una frase la sua interpretazione richiede contesto, non è che l'occidente
“ha” ragione, bensì che 1-esiste “una” ragione del mondo; 2- che questa, la
ragione, viene dall'occidente. Ovvero che l'occidente la incarna. Si tratta di
avere un destino manifesto, l'occidente, a produrre e far affermare finalmente
il vero del mondo, il razionale delle cose, l'essere e lo spirito del mondo.
Dal contesto si intravede che questa “ragione” ha a che fare con la
mondializzazione (cosa che spiega anche la chiamata in causa di Trump), e più
profondamente probabilmente la mondializzazione attraverso la forza anonima e
astratta del capitalismo (vero “spirito del mondo”, e quindi sua “ragione”, una
volta che si sia abbandonata la speranza di superarlo). La ragione del mondo
“viene” dall'occidente, non è “sua”). In ogni caso questa idea pervasiva
contiene una radice espansiva ed imperialista, la base del colonialismo (che si
è sempre descritto come “ragione” e sempre come “bene” elargito a minori per
elevarli).
[3] - Per una critica
a questa idea, che attribuisce alla ricezione volgare del leninismo, si può
leggere il libro di Bruno Trentin “La città del
lavoro. Sinistra e crisi del fordismo”, 1997.
[4] - Per un libro
rassegna semplice si veda Riccardo Staglianò, “Lavoretti”, ma anche il
post sulla “Gig
economy” , o “Platform
capitalismo e confini del lavoro negli spazi digitali”
[7] - Molti sono i cantieri
aperti per addivenire a questa forma di “universalismo esemplare”, in vece
dell’universalismo astratto e primomoderno che innerva tanta parte del
marxismo, come delle filosofie coeve, incluso ovviamente il liberalesimo. Tra
questi segnalo le ultime versioni della Scuola di Francoforte (Honneth, “Il diritto della
libertà”,
ma soprattutto la sua ex allieva Rahel Jaeggi di cui si può leggere “Forme di vita e
capitalismo”)
[10]
- In primo luogo la prima, la
rivoluzione messicana, che è agita dalle rivolte dei campesinos Emiliano Zapata
e Pancho Villa, nelle due aree più povere ed “arretrate” del paese. Una rivoluzione
che affonda le sue radici nella tripartizione del territorio messicano che quando
viene colonizzato dai conquistadores è occupato al centro dal grande impero
Atzeco e aveva un nord occupato da popolazioni seminomadi e il sud con residui
dell’antica cultura Maya. La rivoluzione sorge il 7 marzo 1911 e finisce dopo venti
anni e novecentomila morti, porta in una delle sue numerose pause alla Costituzione
del 1917, avanzatissima, nel 1913 sembra vincere ma le formazioni di “Tierra y
libertad!” del sud, dell’anarchico Zapata, e quelle del nord di Villa, insieme
alle innumerevoli frazioni non trovano una sintesi. Lo scontro principale è con
gli interessi della borghesia agraria del nord, rappresentata da Carranza, che,
dopo una prima sconfitta nel 1914 riesce a portare dalla propria parte gli operai
della parte più “sviluppata” del paese, promettendogli un dividendo dalle risorse
da estrarre dai contadini del nord e del sud. Nel 1919, mentre Villa a nord è
sulla difensiva Zapata viene ucciso a tradimento, è il 10 aprile 1919. Nel 1920
le formazioni del sud si accordano e Villa si ritira nella sua ‘hacienda’ nella
quale sarà assassinato nel 1923. Le timide riforme degli anni venti (lavori pubblici
ed irrigazione, leggi sull’esproprio) e quelle più energiche degli anni trenta,
che cercano di pacificare la situazione non modificano la condizione di
sottocapitalizzazione e debolezza competitiva della agricoltura familiare. Le aziende
familiari hanno meno di tre ettari, di qualità inferiore, con meno terra
irrigata e meno di un sesto dei capitali senza accesso al credito privato, più
di un milione di campesinos restano senza terra. Molti ejiendatarios sono
costretti, dalla mancanza di capitale di esercizio, ad affittare le proprie
assegnazioni ai borghesi che poi li prendono come lavoranti, o sono costretti
ad emigrare. Gli investimenti vanno solo alle colture da esportazione verso il
vicino americano. La rivoluzione non ha modificato la piramide sociale che vede
da sotto a sopra: indigeni, “senza terra”, disoccupati urbani, ejiendatarios, operai,
piccola classe media (commercianti, impiegati, professionisti, clero),
borghesia (direttori degli apparati militari, finanziari, commerciali e
industriali, grandi proprietari terrieri, ex aristocratici). Questa struttura “metropoli-satellite”
caratterizza lo sviluppo ineguale e contraddittorio, strettamente connesso all’attrazione
della “metropoli dominante” statunitense, ed alimentata dall’estrazione di
surplus dalla grandissima parte della popolazione e dalla concentrazione del
capitale in poche aree e settori. Lo sviluppo delle “semi-metropoli” del centro
e delle grandi aree di esportazione del nord si verifica a spese del colonialismo
interno, degli slums, degli ejiendatarios (spesso ex rivoluzionari), degli
indios che sono gli ultimi degli ultimi. Sono classi dominanti quelle che riescono
a porsi nella posizione giusta nel grande processo di drenaggio e
canalizzazione del surplus, necessario per interconnettersi con i centri “dominanti”
e da questi attratto. Si tratta di un “sistema totale” che identifica il posto
di ognuno in una gerarchia di centralità, geografiche e sociali. La colpa di
Emiliano Zapata (con l’esperimento del Comune di Morelos) e di Pancho Villa
(con la hacienda di Canutillo nella quale introduce salari alti e servizi
scolastici per tutti) fu di non averlo capito. Si vedano: “7
marzo 1911, la rivoluzione messicana”, e “10
aprile 1919, Emiliano Zapata”.
[11] - Si veda L.Boltanski,
E. Chiappello, “Il nuovo spirito del capitalismo”, 2014.
[12]
- Si vedano le tesi del
capitolo “Le alternative conformiste”, del libro “La libertà verticale”
di Onofrio Romano.
[15]
- Si veda Jonathan Friedman, “Politicamente corretto”. Identifico
con questo termine una forma di categorizzazione e quindi di comunicazione
caratterizzata dalla ‘logica associativa’ (se dici una cosa, allora devi essere in
quella data identità preclassificata), e che fa prevalere la ‘valenza
indessicale’ (cioè il contesto della comunicazione) sul contenuto semantico (il
significato)” rifiutandosi all’argomentazione l’effetto sociale, e di potere,
che si produce è che inquadrare un’affermazione come “politicamente corretta”
(o s-corretta) consente di neutralizzarla; essa non può più
essere localmente vera, perché è semplicemente troppo terribile. Al
contrario diventa vero ciò che è buono, e perché lo è.
Insomma, “il terribile e il meraviglioso sono autoevidenti”. Dunque si ha un
utilizzo politico della morale per controllare la comunicazione e
censurarla ab origine in tempi di incertezza. Il “politicamente
corretto” è coevo all’insorgere di una nuova élite transnazionale (ben
vista da autori chiave come Rorty, Lasch e Dahrendorf) che cerca di neutralizzare l’opposizione moralizzando
l’universo sociale e dunque mobilitando, a fini di controllo, la
vergogna. La simmetria essenziale è con la politica mondiale a taglia unica
(il “Washington Consensus”) ed i suoi TINA e passa per la
riclassificazione del liberale come progressista e del socialista come
reazionario. Ciò che è progressista è l’olistico, il nomade/rizomatico, il
diffuso e l’orizzontale. Ciò che è reazionario è il moderno, razionale,
astratto, verticale.
La
‘vecchia’ classe lavoratrice diventa, da soggetto storico del progresso,
‘deplorabile’ e nazionalista, egoista e meschina. Mentre il migrante,
rifugiato, le minoranze colorate, le identità plurali, diventano i nuovi eroi.
Questa
è una cultura fondata sul narcisismo (Lasch) che egemonizza una forma di
controllo basata sulla classificazione creando un controllo operativo
(“matriarcale”) basato sulla vergogna. Le
varie versioni del “politicamente corretto” sono l’ideologia funzionale allo
stato della tecnica e ad un modo di produzione che da lungo tempo ha dismesso i
ferri vecchi della triade Dio-Stato-Famiglia, inseguendo la forma ‘liquida’
della merce e costruendo un ‘umano non sociale’ abbandonato a tutte quelle
forme di autoritarismo nascoste nell’apparenza di pienezza di diritti la cui
piena espressione è il mercato autoregolato.
[16] - Luc Boltanski,
Eve Chiappello, “Il nuovo spirito del capitalismo”
[18] - Si veda, ad
esempio, la raccolta di conferenze del 1972-77 di Andre Gunder Frank in “Riflessioni sulla
crisi economica mondiale”
[19] - Il prezzo tra due
beni (o di un bene e di un altro rispetto ad una unità di misura comune, ad
esempio il denaro internazionalmente accettato come il dollaro) è relativo ai
rapporti di forza che si determinano sul “mercato”, e che dipendono da
molteplici fattori non tutti economici. Ad esempio, se un paese ha un surplus
di vino, essendosi specializzato solo in tale produzione di esportazione,
poniamo di Porto, e l’unico grande mercato “libero”, nel quale può vendere il
prodotto è la Gran Bretagna, dovrà accettare il prezzo determinato dai
grossisti anglosassoni, detentori del monopolio di accesso al mercato, anche se
è di poco superiore al suo prezzo di produzione, l’alternativa è riempire i
magazzini e non avere la moneta per comprare, al prezzo anche qui determinato
dai commercianti esteri, in quando detentori di un monopsonio (sostenuto da
Trattati e, se del caso, cannoniere), e sul limite della loro capacità di
spesa. L’effetto è che un paese a sovranità molto limitata (avendola perso sui
campi di battaglia), progressivamente si impoverisce. Tutto questo scompare
nelle formule semplificate, potenza della matematica, e nelle alate parole di
David Ricardo. L’ipotesi, fondativa della disciplina economica internazionale,
che il ‘libero scambio’ sia sempre a vantaggio reciproco, è, per usare le parole di Keen “una fallacia fondata
su una fantasia”. Questa teoria ignora direttamente la realtà, nota a
chiunque, che quando la concorrenza estera riduce la redditività di una data
industria il capitale in essa impiegato non può essere “trasformato”
magicamente in una pari quantità di capitale impiegato in un altro settore.
Normalmente invece “va in ruggine”. Insomma, questo piccolo apologo morale di
Ricardo è come la maggior parte della teoria economica convenzionale: “ordinata,
plausibile e sbagliata”. E’, come scrive Keane “il prodotto del pensiero
da poltrona di persone che non hanno mai messo piede nelle fabbriche che le
loro teorie economiche hanno trasformato in mucchi di ruggine”.
[20]
- Credere che il capitale sia denazionalizzato
è un errore di “cattiva astrazione”. Non esiste “il” capitale, ma solo “i”
capital”i”, e questi sono sempre in reciproca competizione seguendo lo spirito
del capitalismo e la sua auto-programmazione, quello che Marx chiamava il “sistema
automatico”. Le molteplici relazioni dei capitali con i sistemi sociali e
istituzionali determinano una reciproca influenza e una solidarietà profonda
che, per molte vie, contribuisce a creare l’effetto di controllo imperiale e la
dinamica “centro-periferia” sulla quale insiste la complessiva “scuola della
dipendenza”, in particolare Arrighi.
[21] - Ovvero le
relative “borghesie compradore”, quelle borghesie parassitarie che si organizzano e traggono
il suo ruolo dal flusso di surplus che è estratto da centri (o ‘metropoli’, con
il linguaggio di Gunder Frank) dominanti da periferie diversificate. Si tratta
di ceti connessi con le industrie di esportazione, manager, azionisti,
operatori di logistica, produttori di informazione e/o di decisioni, operatori
finanziari. La borghesia ‘compradora’, il capitale monopolistico, e tutti i
loro agenti e meccanismi sono parte nel loro insieme, come totalità, del modo
di produzione necessariamente allargato alla scala mondiale che determina
l’accumulazione (‘flessibile’) del capitale.
[22] - Formula
proposta negli anni sessanta da Andre Gunder Frank, si veda in particolare, “Capitalismo e
sottosviluppo in America Latina”, 1967.
[23] - Uno degli esempi
che fa Paul Baran, nel suo classico “Il surplus
economico”,
del 1957 è l’eliminazione dal mercato della nascente elettronica da consumo,
decisivo per lo sviluppo, dei concorrenti italiani della Olivetti da parte del
sistema Usa che ha compiuto un perfetto “gioco di squadra” economico-politico.
Per una ricostruzione dei fatti si veda “27 febbraio 1960,
Adriano Olivetti”.
Si può leggere anche “Pagine: Giovanni
Arrighi e il ruolo delle grandi imprese internazionali”.
[24] - La nozione di
“surplus potenziale” è al centro della scuola marxista americana e decisiva
nella concettualizzazione, anche in altra forma, dello sviluppo ineguale
diagnosticato dalla “scuola della dipendenza”. La relazione tra ‘metropoli’ e
‘satellite’, si presenta scalata in tutta l’estensione del sistema economico
mondiale, ed è letta con gli strumenti messi a disposizione da Paul Baran, in
particolare attraverso la nozione di surplus (e la distinzione tra
surplus potenziale ed effettivo). Questa nozione che affonda nei
classici (i fisiocratici, Quesnay, e poi Smith, Ricardo), fa riferimento
semplicemente al prodotto sociale che rimane dopo che sono stati
reintegrate le dotazioni produttive necessarie alla generazione (lavoro e
riproduzione incluse). Ma per Baran solo il surplus effettivo è
osservabile in una data società concreta, il secondo è “la differenza tra il
prodotto che si potrebbe ottenere in un dato ambiente naturale e tecnologico
con le risorse produttive impiegabili, e ciò che si potrebbe considerare come
consumo indispensabile”. Tra sviluppo e sottosviluppo, individuabile come
differenza maggiore o minore tra surplus effettivo e potenziale,
c’è quindi una relazione dialettica in quanto i paesi che si sviluppano lo
fanno nella misura in cui drenano il potenziale di quelli che, per questo,
restano ‘sottosviluppati’.
[26] - Pierre
Rosanvallon, “Controdemocrazia”
[27] - Si vedano i
testi che prossimamente leggeremo, “Il conflitto democratico”, Mimesis
2015 e “Per un populismo di sinistra”, Laterza 2018.
[28] - Damiano Palano,
“Populismo”, 2017
[29] - Marco Tarchi, “Italia
populista”, 2015
[31] - Il “Manifesto”,
scritto nel 1848, quando Marx aveva trenta anni e da aprile 1842 collabora al
foglio borghese-radicale Rheinische Zeitung, di cui diviene redattore capo, per
poi dimettersi un anno dopo, dopo aver abbandonato l’anno prima la speranza di
insegnare all’università di Bonn, dove insegnava Bruno Bauer prima della
censura. Nel 1844 Marx scrive “Sulla questione ebraica”, e “Critica
della filosofia del diritto di Hegel”, Engels scrive la sua opera sulla
classe operaia inglese “La situazione
della classe operaia in Inghilterra”, e insieme, l’anno successivo pubblicano
“La sacra famiglia”. Nel 1845 Marx scrive anche, ma non pubblica, le
“Tesi su Feuerbach”, e il lavoro sulla “Ideologia tedesca”. Nel 1846 Marx rompe
con Proudhon, l’anno successivo scrive la “Miseria della filosofia”, e
si formano i gruppi comunisti “di corrispondenza” che coinvolgono anche la
parigina “Lega dei giusti”. Il 7 e 9 giugno 1847 si tiene il congresso
fondativo della “Lega dei Comunisti”, come erede della “Lega dei giusti”
(fondata nel 1836 come scissione della “Lega dei proscritti”). Il motto della
“Lega” diventa “Proletari di tutti i paesi, unitevi!”, che sostituisce il vecchio
“Tutti gli uomini sono fratelli”. Il 16 settembre Marx scrive, per il Congresso
internazionale degli economisti, il saggio “Protezionismo, libero scambio e
classe operaia”, che abbiamo letto attraverso la prefazione postuma di Engels
in “Dazio protettivo e
libero scambio, 1888”.
A dicembre Marx ed Engels vengono incaricati dalla “Lega” di scrivere un
“Manifesto”. A fine gennaio 1848 il testo è pronto.
[32] - E’ scritto: “si
rimprovera inoltre ai comunisti di voler sopprimere la patria, la nazionalità.
Gli operai non hanno patria. Non si può togliere loro ciò che non hanno. Ma
poiché il proletariato deve conquistarsi prima il dominio politico, elevarsi a
classe nazionale (nel 1888 cambiato da Engels in “a classe dirigente della
nazione”), costituirsi in nazione, è anch’esso nazionale, benché certo non nel
senso della borghesia”.
[33] - Che deriva,
vale la pena ricordarlo, dalla ipotesi pauperista. Ovvero dalla circostanza,
che è descrizione abbastanza corretta del movimento in corso nella sua epoca
(ma sarà invertito di segno nel novecento) che: “l’operaio moderno, al
contrario, invece di elevarsi col progresso dell’industria, cade sempre più in
basso, al di sotto delle condizioni della propria classe. L’operaio diventa il
povero, e il pauperismo si sviluppa ancora più rapidamente della popolazione e
della ricchezza. Appare da tutto ciò manifesto che la borghesia è incapace di
rimanere ancora più a lungo la classe dominante della società e di imporre alla
società, come legge regolatrice, le condizioni di esistenza della sua classe.
Essa è incapace di dominare perché è incapace di assicurare al suo schiavo
l’esistenza persino nei limiti della schiavitù, perché è costretta a lasciarlo
cadere in condizioni tali, da doverlo poi nutrire anziché esserne nutrita. La
società non può più vivere sotto il suo dominio, cioè l’esistenza della
borghesia non è più compatibile con la società” (p.66). La relazione di questa
analisi con il lavoro di Engels sulla classe operaia inglese è abbastanza
palese.
[34] - “Il moderno
lavoro industriale, il moderno soggiogamento al capitale, eguale in Inghilterra
come in Francia, in America come in Germania, lo ha spogliato di ogni carattere
nazionale”, (Manifesto, Editori Riuniti, ed. 1983, p. 65).
[35] - Si veda per il concetto
di “accumulazione flessibile” David Harvey. Si tratta del modello di
accumulazione che prende piede, trasformandosi continuamente, quando crollano
le condizioni internazionali, tecnologiche e socio-politiche del modello keynesiano.
Alla crisi di accumulazione, determinata da tanti e diversi fattori ma nella
quale la capacità della ‘forza-lavoro’, nelle condizioni della fabbrica
fordista, di imporsi come soggettività politica, e quindi di pretendere
rispetto ed estrarre maggior valore, sottraendosi alla logica di comando
verticale, è centrale. La crisi di redditività induce prima una fuga degli
investimenti nella finanza, quindi crea le condizioni della ri-subordinazione
dei lavoratori e della interscambiabilità, su base globale, della loro
forza-lavoro. Dunque in questa de-soggettivazione della forza-lavoro viene
ricreato un ‘esercito industriale di riserva’ per via di allargamento a
popolazioni non inserite (donne, minoranze), inserimento di centinaia di
milioni di nuovi individui incapaci di esprimere soggettività politica nel
mondo ‘in convergenza’, e immigrazione. Le condizioni di questa nuova forma di
accumulazione, che, però, ha scavato sotto le proprie fondamenta sia sul piano
economico sia politico, sono anche tecnologiche e commerciali e rendono
possibile scambiare la ‘forza-lavoro’ in modo del tutto nuovo, rendendola
indefinitamente flessibile, rapidamente sostituibile, esposta al ricatto del
capitale.
[37] - Si veda per
questo scontro e la sua cornice, Domenico Losurdo, “Il marxismo
occidentale”,
2017, che del resto è oggetto di un excursus.
[39] - Per una
ricostruzione generale, necessariamente sommaria, si veda “La globalizzazione
come crisi continua”
[41] - Si veda, Hosea
Jaffe, “Era necessario il
capitalismo?”,
2008, e l’inquadramento della “Teoria della dipendenza” in questo post.
[42] - Una tesi che
finisce per coincidere, salvo toni estetici, con le posizioni della destra
borghese, si veda ad esempio, Daron Acemoglu, James Robinson, “Perché le nazioni
falliscono”,
o William Easterly, “La tirannia degli
esperti”.
[43] - Si vedano Samir
Amin, 1973 “Lo sviluppo
ineguale”;
1999, “Oltre la
mondializzazione”;
2006, “Per un mondo
multipolare”;
2009, “La Crisi”; “La sovranità
popolare unico antidoto all’offensiva del capitale”.
[44] - Alessandro
Somma, “Sovranismi” 2018
[45] - Sergio
Cesaratto, “Chi non rispetta le regole?”, 2018
[46]
- In un post di occasione “Circa Marco Bascetta, ‘Una formula
di moda per edulcorare il nazionalismo’”,
richiamai la famosa frase di Lenin “La frase rivoluzionaria può causare la
rovina della rivoluzione”. Come avevo scritto si tratta della ripetizione di
parole d’ordine senza tenere conto delle circostanze obiettive. La definizione
è perfetta: “parole d’ordine magnifiche, attraenti, inebrianti, che non
hanno nessun fondamento sotto di sé”. Le parole d’ordine sono ‘magnifiche’
perché contengono solo “sentimenti, desideri, collera, indignazione”, ma niente
di altro. Quando si pronunciano ‘frasi rivoluzionarie’, continuo a leggere, “si
ha paura di analizzare la realtà oggettiva”. E, ancora, poco dopo, “se non sai
adattarti, se non sei disposto a strisciare sul ventre, nel fango, non sei un
rivoluzionario, ma un chiacchierone”, ciò non significa che piaccia, ma che
“non c’è altra via” che tenere conto della realtà; la “rivoluzione
mondiale”, che prevedrebbe di abbandonare la costruzione del socialismo intanto
dove concretamente si può tentare, per Lenin arriverà pure, ma, scrivendo nel
1918, “per ora è solo una magnifica favola, una bellissima favola”; dunque
crederci nell’immediato significa che “solo nel vostro pensiero, nei vostri
desideri superate le difficoltà che la storia ha fatto sorgere”. Ciò che va
fatto è del tutto diverso, dice il vecchio rivoluzionario russo: bisogna “porre
alla base della propria tattica, anzitutto e soprattutto, l’analisi
precisa della situazione obiettiva”. Da: Vladimir
I. Lenin, “Rivoluzione in occidente e infantilismo di sinistra”, ed.
Riuniti, 1974, p.3. Il libretto è in realtà una raccolta di interventi diversi
nell’aspro dibattito che nel 1918 si tenne sulla pace separata con la Germania
(pace di Brest-Litovsk), che Lenin difende dalle critiche rivolte in nome della
necessaria “guerra rivoluzionaria” e dell’imminente aiuto da parte del
proletariato tedesco. Quando a gennaio 1918 la Germania avanza un ultimatum,
chiedendo condizioni molto dure in termini di perdite territoriali e versamenti
in natura, si apre un dibattito nel quale gli allora alleati dei bolscevichi, i
‘socialisti-rivoluzionari di sinistra’, propongono, insieme a Nikolai Bucharin,
la prosecuzione della guerra. Contro tutte queste opposizioni Lenin scrive a
febbraio l’articolo “Sulla frase rivoluzionaria”, mentre l’esercito di
oltre sei milioni di uomini russo era stato smobilitato, per sostituirlo con un
esercito volontario più efficace (la “Armata Rossa”), da Lev Trotsky e la
Germania aveva ripreso l’avanzata. Il 3 marzo Lenin, che aveva proposto le sue
dimissioni, impone la firma del Trattato, perdendo circa 56 milioni di
abitanti, ovvero il 32% della popolazione, un terzo delle ferrovie, tre quarti
dei minerari ferrosi e il 90% della produzione di carbone. Fortunatamente la
successiva sconfitta della Germania, che aveva occupato i territori
nominalmente indipendenti, porta al ritiro delle truppe e quindi alla loro
contesa nella guerra civile russa che infurierà fino al 1923.
[47] - Una delle
migliori dimostrazioni di questa logica in A.La Spina, G. Majone, “Lo Stato
regolatore”.
[51]
- Una dinamica simile è descritta
da Onofrio Romano, nel capitolo terzo “il neo-orizzontalismo”, ed interpretata
come una “drammatica crisi socio-antropologica” (p.77) quindi spiegata come lo “scoperchiamento
del vuoto” sul quale si fonda l’essere dell’uomo nel momento in cui la sicurezza,
nelle condizioni della secolarizzazione e della perdita di senso della
modernità, ha lasciato il singolo davanti alla libertà alla quale non era
pronto (p.282). Si veda, Onofrio Romano, “La libertà verticale”.
[52]
- Per una particolare forma
di incoerenza, peraltro tipica di moltissimi pensatori progressisti, queste
conseguenze non sono tratte da Habermas, che, per ragioni sistemiche in particolare
connesse con la sua visione del progresso e della storia (o meglio, della
dinamica di apprendimento storica), resta ancorato all’idea che il processo di
unificazione “alzato di un piano”, sia comunque da preferire al rischio del “rinserrarsi”
nelle “bucherellate mura” degli stati nazionali. In questa posizione non è
esente un tratto biografico, essendo l’anziano pensatore figlio di un quadro
nazista e acutamente presente nella transizione del dopoguerra. Si veda in
proposito la lunga polemica con Wolfgang Streeck.
[53] - Su questo tema
si può leggere il libro di Onofrio Romano “La libertà verticale”, 2019
[55] - Pierluigi
Fagan, “Verso un mondo multipolare”.
[56] - In parte
toccata dalle “Notarelle
su Machiavelli”, in parte dalla nota su “Passato e presente” (3, $ 34).
Vale la pena vedere come questa continua: “…il problema è questo: una rottura
così grave tra masse popolari e ideologie dominanti come quella che si è
verificata nel dopoguerra, può essere ‘guarita’ col puro esercizio della forza
che impedisce a nuove ideologie di imporsi? Questa è la giusta domanda.
[58] - Quaderno 7, $
19
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