Un
altro libro
di occasione, nel quale un’intellettuale di fama si presta alla difesa di
ufficio della causa europea in vista delle elezioni. Non servirà a fermare la
Lega, ma forse questo alzare gli stendardi compatta l’esercito un poco
attempato e certamente molto demoralizzato della sinistra.
A
questo fine il testo ripercorre nella prima parte, la più interessante, la
storia della lunga costruzione europea, mettendo in evidenza la fonte
inaspettata (per una sinistra che ormai ha dimenticato tutto) delle sue radici,
ma nella seconda si mette la cotta di maglia e va alla guerra.
Come
capita a chi fa il suo mestiere, professoressa di teoria politica alla Columbia
University, tutta la ricostruzione si muove sulle nuvole del pensiero, non
tocca il volgare terreno degli interessi, tanto meno geopolitici. Quindi può
dire, entro le regole della sua disciplina, che l’Europa è il prodotto delle
idee degli “illuministi” e dei “cattolici” e che queste si muovono
attraverso il protagonismo dei paesi sconfitti (e dunque, necessariamente, con
l’autorizzazione dei vincitori, che sarebbe altrimenti curioso il progetto più
ambizioso della storia europea nasca da chi ha meno potere e meno sovranità).
Sono due i piani che propone: la creazione di una polis pacifica e democratica,
e il rispetto delle sfere di influenza. Ma l’ordine è palesemente invertito, il
fatto rilevante del primo dopoguerra è evidentemente la divisione dell’Europa sconfitta
e ridimensionata in due sfere di influenza nette, quella americana e quella
sovietica. Il progetto di una “polis” pacifica (ovvero disarmata e subalterna)
è l’ideologia di copertura e insieme la necessità pratica del progetto della
parte americana[1],
ovvero parte della tradizionale politica dell’indirect rule anglosassone e
strumento della riduzione dello sforzo e del costo di protezione e di controllo.
Lo dice, del resto, anche la nostra politologa: “il progetto nacque anche in
funzione antisovietica” (solo che “anche” è di troppo).
Certo
non è del tutto infondato che l’idea di un’unificazione europea fosse più
antica, e radicata in utopie settecentesche, poi rialzata negli anni venti
(anche se non solo da intellettuali antifascisti), e poi tanti altri, l’elenco è
lungo. E, se ci si sposta agli anni trenta, coinvolge anche gli stessi nazisti
(ma questo è politicamente scorretto e meglio non insistervi).
Come
sia, sulla base di una paginetta di esempi alla fine la conclusione è che “le
teorie e le culture politiche alla base dell’integrazione europea furono
essenzialmente due: una secolare e illuminista a cui si ispirerà, arricchendola
con il pensiero socialista, Altiero Spinelli”. L’altra tradizione fu quella
cristiana e cattolica, “con una dichiarata funzione antistatalista (nel senso
di contenimento del potere della sovranità statale su tutti gli ambiti della
vita delle persone e della società)”. In conseguenza la prima tradizione è
segnata da un’etica individualista dei diritti civili, l’altra da un’etica
della responsabilità della persona e della sussidiarietà come progetto di soccorso
e di cura che prescinde dallo stato, sospettato di eccessivo laicismo.
Non
stupisce che quindi siano le Democrazie Cristiane ad essere centrali nel primo
processo di costruzione europea (ma anche nel successivo): Schuman, Adenauer,
De Gasperi. Il punto era chiaro e politicamente rilevante: “la sussidiarietà
(su cui si regge la politica sociale dell’Unione Europea) piuttosto che la
redistribuzione via welfare-state è il perno per comprendere il contributo
cattolico al progetto europeo. La fonte è l’enciclica Quadragesimo Anno
del 1931, con la sua visione antistatalistica della politica e alternativa alla
programmazione del benessere sociale. La requisitoria si svolse direttamente contro
la “Statolatria”, ovvero la preminenza dello Stato (laico) nella vita della
società, in favore di un’idea di aiuto sociale basata sulla cooperazione
solidale dei “vicini”, al “sussidio” delle associazioni e dei territori.
Questo
principio prenderà con Delors il titolo di “sussidiarietà”, il cui scopo
è la sottrazione di competenze al livello statuale quando le medesime cose
possono essere svolte per “l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e
associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale”. Ma la
sussidiarietà funziona anche in un’altra direzione: consente di fare leva sui
livelli di governo esistenti per svolgere azioni dirette dal centro tramite
regolamenti, alla cui guardia è stata posta la Corte di Giustizia Europea. Dunque
la sussidiarietà è un’arma multiuso, disperde il potere “maggioritario” dello
Stato sia verso l’alto, sia verso il basso e con questo contribuisce in modo
decisivo a indebolire gli Stati Nazionali riportando l’equilibrio dei poteri
verso assetti in qualche modo premoderni, comunque inediti, e soprattutto, ciò
che più conta, lontani dalle arene nelle quali i corpi intermedi di massa
possono agire con efficacia. Si agisce molto meglio sulla governance
multilivello europeo con organizzazioni agili, estese a livello multinazionale,
ben finanziate, radicate in gruppi di pressione apolitici e capaci di
attraversare diagonalmente le varie coalizioni, e soprattutto ben determinate e
sicure di cosa vogliono. I vecchi partiti politici, in particolare popolari,
sono corpaccioni inadatti.
Se
la sussidiarietà, incardinata ad ogni livello, è l’essenziale contributo
cattolico, quello illuminista, o meglio kantiano, è l’ostilità al
“volontarismo” (ovvero alla formazione ed espressione della volontà politica)
in favore di un ‘governo tramite le regole’, e, soprattutto, tramite i legami
commerciali (ovvero il lavoro di lobby), e quindi le “condizioni indirette di
legittimità”.
La
Urbinati sintetizza tutto ciò in modo fulminante: in questo modo, sotto la
costrizione del diritto, avviene che “anche chi non ‘vuole’ opererà come se
volesse, questa è la logica dell’Unione Europea” (p.29). Mi pare che ce ne
siamo ben accorti nel caso della Grecia.
Ecco
che dalla combinazione delle due ispirazioni “la Comunità Europea diventa un
ampio sistema di rinforzo regolativo, di monitoraggio, di controllo: affinché i
trattati siano rispettati, attuati, nel modo giusto. Un ordine dove deperisce
l’elemento politico, mentre si espande quello giuridico”.
Non
può sfuggire, da questa descrizione, il nesso interno fortissimo e necessario
tra il fatto più importante della seconda metà del XX secolo, la divisione in
blocchi, e l’incongrua presenza in occidente, in Francia, in Italia e
all’inizio anche in Germania di forti partiti di ispirazione socialista e/o
comunista il cui “elemento politico” si doveva quindi assolutamente ingabbiare
nella camicia giuridica. È questa la “volontà” che la logica dell’Unione
Europea intende bloccare. È, in effetti, ancora oggi questa che blocca.
In
sintesi, l’oggetto da moderare è sempre lo Stato Sovrano,
o meglio gli Stati Sovrani che volessero deviare dalle regole, ad esempio per
rispondere in una crisi alle esigenze dei propri cittadini e delle proprie
maggioranze politiche democratiche. Una caratteristica che, in momenti di
crisi, appunto scivola in direzione che la stessa Urbinati riconosce essere
“imperiale e autocratica”.
Su
questo albero storto, sin dagli anni quaranta, e prima nelle teorizzazioni di
Hayek[2], tentano di innestarsi le
ipotesi di sistema autoregolato neoliberali o ordoliberali, le quali non sono
-ma su questo la nostra glissa- neppure estranee alle idee che entrano[3] nel Manifesto di
Ventotene. La penetrazione ovviamente è lenta, e contrastata, e passa soprattutto
per quelle istituzioni nate per non essere autorità sovrane (democratiche) ma
per essere sussidiarie (ovvero per controllare) gli Stati membri, ovvero per la
Corte di Giustizia Europea, su cui dirà bene Scharpf[4], e la BCE. Entità che
hanno progressivamente esteso il loro raggio di azione direttamente nella
limitazione del potere degli Stati ed in favore degli input di mercato.
Si
è finiti al termine di questo percorso in quello che la stessa autrice chiama un
regime “dispotico” (che però qualifica come “illuminato”).
Il
centro emotivo del libro è un’appassionata pagina, la 37, nella quale partendo
dall’importanza del Trattato di Roma[5] dopo avere avuto il
coraggio di scrivere che “sono stati i confini degli Stati-nazione a scatenare
i drammi della Prima e Seconda Guerra Mondiale e il dramma dei totalitarismi”
(cosa vera e completamente vuota al contempo, e quindi falsa nei termini allusi[6]), falsifica il contenuto
del Trattato di Roma (che è geopolitico ed economico, in relazione all’estensione
del capitalismo monopolistico alla scala continentale) dichiarando che “la
grande idea che sprigionava dal Trattato è che fosse possibile eliminare lo
status di straniero in Europa”. Dopo aver scelto questa linea culturalista e
completamente sovrastrutturale, Nadia Urbinati può dire che:
“il
Trattato dà corpo per la prima volta all’utopia che due secoli prima Kant aveva
tratteggiato nel suo saggio sulla pace perpetua. Finalmente dopo la carneficina
della guerra si ebbero le condizioni per realizzarla: la nascita dello Stato di
diritto con la priorità assegnata ai diritti umani delle singole persone; la
volontà dei vinti di darsi regole e un diritto comune, uno spazio giuridico nel
quale le singole persone potessero circolare liberamente con la consapevolezza –
per riprendere Kant – che tutti gli umani sono ospiti su questa terra. Noi siamo
persone non costrette dal luogo dove per caso siamo nate, siamo ospiti su
questa Terra, e abbiamo le possibilità e l’ingegno di adattarci a tutti gli
habitat, contrariamente agli animali. E questa nostra capacità si manifesta nel
‘mondo’ tutto: rende il diritto di movimento non un optional ma una regola
per una condizione umana e naturale. Proprio perché nessuno è l’assoluto
possessore del Paese nel quale è nato e vive, l’idea che il territorio di uno
Stato sia l’equivalente della nostra proprietà privata (per cui, come dicono
gli inglesi, ciascuno è padrone del proprio castello) è indicativa di barbarie,
di una visione patrimoniale che era decaduta insieme ai sovrani dell’ancien
regime. Lo stato di diritto separa la fattualità del possesso dalla proprietà
riconosciuta per diritto. Anche se gli estensori arrivarono al Trattato per
ragioni economiche – la circolazione di manodopera a basso costo per la
ricostruzione – alla base c’è una visione universalista, che aveva il diritto
delle persone e non la fattualità della loro casuale nazionalità al centro.
Fu proprio Kant, e prima di lui Montesquieu a intuire il valore dello scambio,
delle cose e delle idee: è la condizione per la cooperazione dei popoli”.
In
questo vero e proprio manifesto liberale[7], interamente astratto, l’individualismo
metodologico conduce a “non senso” come “noi siamo persone non costrette nel
luogo dove per caso siamo nate”. È palese che “noi” siamo quel che siamo perché
siamo nati; e nessuno può nascere, per ora, in nessun luogo. Chiunque nasce
da un padre ed una madre, in una famiglia, in un agglomerato, una regione, una
nazione, un continente. Nessuno può crescere senza essere socializzato, e
socializzarsi significa propriamente essere inserito in un’istituzione sociale,
comprendere il comune di questa e connettersi in una solidarietà situata e
concreta[8]. Il punto di vista
individualista, incorporato come destino morale dall’Urbinati, dissolve tutto
ciò e lascia ognuno da solo, rigettando i propri vincoli e quindi obblighi
sociali (in primis, non si dimentichi, quelli di solidarietà concreta incarnati
nelle strutture statuali e nel sistema di tassazione). È palese, peraltro, che
la possibilità e l’ingegno di abbandonare i propri obblighi e trasferirsi non è
di tutti, ma solo di chi dispone delle opportune risorse, lasciando gli altri
al loro destino. Si tratta di una posizione da “free rider” e una concezione
direi “turistica” della vita.
Nella
seconda parte, quando cita il motto inglese, avviene infatti una magia: dal “noi
siamo persone” (che in questo contesto significa siamo soli e senza radici e
doveri di solidarietà concreta) si passa alla strana ed incongrua idea che si
possa possedere individualmente il paese in cui si abita. In questo modo
la confutazione viene facile, ma si tratta di fantoccini. Il “diritto
delle persone”, cui si riferisce, con gli opportuni esempi liberali, si deve incorniciare
nel “dovere” di queste e, soprattutto, nel diritto e nella volontà comune,
costituiti attraverso le forme della partecipazione alla ‘casa’. Chi da questa
vuol fuggire, per non sostenere i figli minori, dovrebbe avere da decenza
almeno di non ammantarsi di belle parole.
Del
resto ovunque saltano all'occhio gli esempi che manifestano l'inconsapevole
punto di vista borghese (e da expat) dal quale complessivamente l’autrice guarda
il fenomeno europeo. Ciò che più vede come valore è la libertà di muoversi
attraverso le frontiere liberamente per studiare, fare cultura, fare ricerca.
Con formule che escono dal cuore, dichiara essere, questa, “la natura stessa
dell'Europa” (p.55), e, non senza i rituali momenti autorazzisti (p.65), e le consuete
dichiarazioni di impotenza dello Stato di fronte alle multinazionali (p.87)
finisce nella contraddizione di dire reiteratamente che controllare le
frontiere fatalmente porrebbe a fine la libertà di movimenti anche per gli
europei stessi (dato che sarebbe necessario mostrare un documento, p.112 e 122)
per poi, subito dopo, dire che “il governo dei confini deve essere una prerogativa
europea”, distinguendo tra gli asili e gli altri (p.123).
Il
vero punto non è che dunque non si possono avere confini, o che non si può
negare l'accesso se non si può accogliere in modo degno e coerente con una
politica sociale che ponga limiti ai mercati (p.116), ma che questi non li
possono avere gli Stati-Nazione, ma solo il superstato europeo.
Comunque
nel capitolo sulle sinistre la frizione tra il punto di vista liberale e quello
socialista emerge nuovamente in luce, tanto è difficile nasconderlo: riconosce
che il socialismo europeo è sempre stato combattuto nel dilemma tra sfera
nazionale e internazionale, tra concretezza e utopia. Del resto, come ammette, “il
campo dell’azione riformatrice è stato storicamente quello dello Stato
nazionale. La sinistra riformista di matrice socialdemocratica ha inteso, in
parte idealizzandolo, lo Stato come strumento di redistribuzione e di sostegno
a istanze di emancipazione sociale e di formazione dei cittadini”. Quindi, e
non a caso punto di attacco specifico della struttura sovranazionale, imposta
con il fattivo impegno atlantico in una fase di sovranità altamente limitata,
per i socialdemocratici “l’elemento di stabilità della popolazione è cruciale”.
La mobilità e la facilità di chiamarsi fuori di uomini, merci e capitali, rompe
necessariamente la solidarietà e ci depriva delle condizioni materiali per attuare
una qualche redistribuzione. Se in risposta si può espatriare nessuno può chiedere
solidarietà effettiva (al di là di qualche sentimentale lamento), perché si
attiva un meccanismo inibente di tipo ricattatorio. Del resto persino John
Rawls, liberale ma welfarista, o nei termini proposti “liberale di formazione ma
interventista per quanto riguarda le politiche sociali negli Stati Uniti” (notare
l’ammissione della contraddizione tra liberalismo ed intervento pubblico), “nella
sua ‘Teoria della giustizia’ presuppone una popolazione stabile”.
Altrimenti nessuna applicazione dei principi di giustizia, ed in particolare
delle regole redistributive, sarebbero possibili.
Ne
deriva che “le frontiere sono un problema serio per la sinistra” e sono proprio
i neoliberisti che ne sostengono la fine “quelli che guardano alla libera
circolazione della manodopera come a uno strumento per abbassare le richieste
dei lavoratori, attraverso una concorrenza indiscriminata” (p.41).
Ma
ad un certo momento, “quando il progetto di trasformazione socialista a livello
nazionale è venuto a decadere”, ovvero quando la sinistra si è piegata al “compromesso”
ed ha progressivamente lasciato le sue posizioni, le sinistre si sono “aggrappate”
ad un sostituto del “sole dell’avvenire”, ed hanno investito le loro energie
utopiche all’Europa. Come dice la Urbinati, “per molti diventa una specie di
salvagente ideologico”.
Insomma,
si passa al nemico, ma con trasporto ed entusiasmo.
Quindi
i comunisti passano all’eurocomunismo (si veda la critica per tempo di Gunder
Frank[9]) ed assumono quello che
per secoli è stata la bandiera dei cattolici e delle correnti liberali
orientate contro lo Stato sovrano come proprio orizzonte: il federalismo.
È chiaro, d’altra parte, che “l’eurocomunismo” fu l’altra faccia necessaria del
“compromesso storico”; esito del fallimento del tentativo di resistere all’ondata
della ristrutturazione capitalistica in corso (anche se fu ‘venduto’, ed ancora
l’Urbinati lo fa, come riconoscimento dell’impossibilità di governare da soli),
spostando l’attenzione dalla realizzazione del socialismo all’espansione delle
libertà politiche antiautoritarie. Il socialismo viene, insomma, abbandonato in
favore di un generico progressismo (che, via via si schiaccia sulla posizione
liberale, diventandone solo una variante).
La
ricostruzione storica, scheletrica e quindi particolarmente di parte (dalla
parte del socialismo liberale, con il secondo termine molto preminente sul primo)
termina con una rilettura della posizione di Spinelli che evito di commentare[10].
Nella
seconda parte del testo, la meno interessante, Urbinati
insiste su quello che è il tema per lei fondamentale del progetto europeo: la
possibilità di uscire dal paese ed andare dove si vuole. Quello che chiama “un
diritto civile fondamentale” (in realtà non ancora implementato se per andare
dove si vuole non si hanno le risorse e quindi si ha bisogno della solidarietà[11]),
in quanto l’Europa è nata “come progetto di libera interazione” ed “in coerenza
con il progetto che Kant si era posto nel 1795”. Sulla base di questa
impostazione idealistica (l’Europa nasce su ben più concrete basi, ed anche
quelle della libera circolazione solo per i “lavoratori”, allo scopo di ridurre
il costo dello stesso per le grandi imprese monopolistiche), si sarebbe passati,
con Maastricht, all’annullamento del concetto stesso di ‘emigrazione’. In realtà,
ad onta dell’enfasi con la quale si dichiara che l’Europa “voleva essere ed è
ancora uno spazio aperto” (come ovvio incompatibile con l’assenza di
prestazioni assistenziali uniformi e di trattamento fiscale analogo) la
Direttiva 2004/38/Ce che “regola il diritto dei cittadini dell’Unione e dei
loro familiari a soggiornare liberamente nel territorio degli stati membri”, al
suo punto 2) recita “La libera circolazione delle persone costituisce una
delle libertà fondamentali nel mercato interno che comprende uno spazio
senza frontiere interne nel quale è assicurata tale libertà secondo le
disposizioni del trattato”. Ma le “disposizioni del Trattato” (che traduce
l’Acquis di Schengen) sono in realtà un faticoso e contraddittorio
compromesso pieno di clausole di salvaguardia (della stessa esistenza dei
welfare nazionali). Al punto 10) recita infatti: “Occorre tuttavia evitare che
coloro che esercitano il loro diritto di soggiorno diventino un onere
eccessivo per il sistema di assistenza sociale dello Stato membro
ospitante durante il periodo iniziale di soggiorno. Pertanto il diritto di
soggiorno dei cittadini dell'Unione e dei loro familiari per un periodo
superiore a tre mesi dovrebbe essere subordinato a condizioni.”
Tutto
ciò è poi reso operativo dal dispositivo dell’art.7 della Direttiva la cui
lettura è molto istruttiva[12].
Insomma,
scendendo dalle nuvole dell’ideologia le cose si complicano, e si complica
notevolmente la compatibilità (che infatti è diretta contro) tra solidarietà e
redistribuzione e libero movimento senza limiti.
Faccio
un esempio:
Immaginiamo
un paese 1 ed un paese 2, confinanti; il primo ha un reddito pro-capite “a” ed
il secondo “5*a” (cinque volte superiore); hanno lo stesso numero di abitanti e
quindi il secondo ha un Pil cinque volte superiore, un bilancio dello Stato
cinque volte superiore (per semplicità immaginiamo abbiano la stessa esazione
fiscale), e quindi finanzia cinque volte di più i suoi ospedali, le sue scuole,
i programmi di case popolari, ha strade migliori, servizi urbani migliori, forme
di assistenza al reddito e tutela dalla disoccupazione cinque volte più
generosi… mettiamo che i confini venissero veramente e del tutto aboliti ed i
cittadini di 1 e 2 avessero su entrambi i territori esattamente gli stessi
diritti, ma le tasse continuassero ad essere nazionali. Cosa succederebbe? Un
comportamento caro alla teoria economica (razionale) direbbe che tutti i
disoccupati, i sottoccupati e chiunque avesse un reddito nel paese 1 inferiore
al saldo delle prestazioni sociali del paese 2 avrebbe convenienza a
trasferirsi lì per fuirne. Diciamo che un terzo della popolazione di 1 si
trasferirebbe liberamente in 2. Come effetto in 2 le tasse per finanziare il welfare
dovrebbero salire e si dovrebbe avviare un grande programma di opere pubbliche
per accogliere la nuova popolazione.
Nel
medio periodo questo renderebbe più povero il paese 2 ed avrebbe effetti di
difficile valutazione in 1 (lo spopolamento potrebbe indebolire la società
locale e rendere più difficile finanziare i servizi a costi fissi, come quelli
a rete, la caduta del mercato interno potrebbe innescare una crisi) e quindi
renderebbe difficile conservare il consenso alla politica di apertura e
renderebbe molto più difficile restare solidali.
Al
contrario di quanto ipotizza la Urbinati la libera circolazione, senza freni e
senza controllo, favorirebbe, come in effetti fa, la richiusura identitaria e i
nazionalismi.
Nel
prosieguo la politologa si esercita nella difesa dell’Euro (anche qui
ricondotta a ragioni politiche, ovvero al telos della storia), del patto di
Stabilità che “nasce per costringere i paesi non virtuosi (come il nostro),
afflitti da corruzione endemica[13] e incapacità gestionale,
a tenere sotto controllo la loro spesa”, ma di cui sarebbe stato compiuto
abuso.
L’autorazzismo,
anzi “il circolo dell’autorazzismo”[14] è qui all’opera
potentemente, identificando con certezza l’autrice alla ‘tribù della sinistra’
(che più di altre ne è infetta, dai tempi della reazione di Berlinguer al
fallimento storico della sua prospettiva), per cui non si connette il fatto che,
come dice, “tutte le istituzioni liberali sono pensate in funzione della
limitazione del potere politico” (p.67), e che l’Europa è “bloccata in questa
concezione di ‘duro liberalismo economico’ fondata sulla concorrenza di tutti i
settori e a tutti i livelli” (p.69), con la prevalenza strutturale “dell’Europa
della forza su quella del diritto” e la conseguente neutralizzazione dell’autogoverno
(e con essa della democrazia).
Chiamo
“circolo dell’autorazzismo”:
- La denuncia della minorità di
una parte del paese (alla quale ovviamente non si pensa di appartenere, in
quanto élite).
- Parte di questo stesso movimento, ed a sé
necessario, l’autoattribuzione di una differenza implicita. Di
una sorta di eroismo di chi riesce a guardare le cose in faccia, si distingue
con ciò per la posizione morale del denunciante, dell’intransigente eroe, che
magari ha avuto il coraggio di andarsene.
- I due movimenti creano una espulsione,
dell’inferiore, come ex parte di sé, quindi come depurazione preliminare.
- E la creazione, contemporanea, dell’altro.
Nel quale sono concentrate le negatività e le brutture, tutto ciò che trattiene
e lega.
- Se l’altro non è me, allora dovrò trovare il mio
luogo, dovrò trovare “ciò che salva”. E lo farò in un altrove radicale,
in un luogo che non è coinvolto in nulla di ciò che denuncio, un altrove
mitico. Un luogo di eletti, nel quale sarò al termine di una dolorosa
purificazione necessaria, accolto (il paradiso del sogno europeo, eletto a tale
funzione sin dai tempi dell’eurocomunismo).
- Una volta posto questo potente schema
“bene/male”, chi appartiene, e chi no, al luogo eletto è definito. La
strada è chiara e tracciata.
- L’eletto si identifica in un “fuori” radicale, ed il
sé dell’aspirante come “chi sta fuori”.
- La focalizzazione è sul negativo (espulso
all’esterno). Per poter essere positivo (e superiore).
Nel
seguito, non prima di essersi spesa per i migranti con un curioso argomento
egoista (chiudere a loro alla fine significa chiudere anche alla nostra
circolazione), ed aver spezzato la rituale, per ogni liberale, lancia in favore
di libera circolazione delle merci e dei lavoratori, il testo si concentra
sulle trasformazioni in corso delle società europee. Secondo la sua analisi la
società si sta destrutturando e tutti i corpi intermedi stanno soffrendo una
acuta crisi di legittimità, per cui emergono una versione estrema dei “partiti
pigliatutto” nella forma di partiti populisti che sono una “forma estrema di
short-terminism”.
Quindi
commenta il fenomeno dei gilet gialli (altra dimostrazione di disgregazione partitica
e di orizzontalismo della rappresentanza immediata), quindi l’urgente necessità
di forme nuove di aggregazione politica.
Che
soluzione riesce a immaginare di fronte a questi problemi, correttamente
descritti? La solita. Quella che tutti coloro che accettano le premesse date,
senza metterle in discussione e considerando di fatto irreversibile la
sconfitta e la trasformazione neoliberale avviata negli anni settanta, propongono:
se “la sovranità dello stato nazione, che attraverso il welfare state aveva
fatto sognare a molti la possibilità di una coesistenza tra capitalismo e democrazia
è oggi un ricordo del passato”, allora alla globalizzazione si può solo rispondere
alzando il livello delle decisioni sovrane. Ma, a tutta evidenza, decisioni
sovrane ma non democratiche. L’esempio portato, a dimostrazione del suo teorema
di impossibilità, è quanto di più debole si possa immaginare: lo Stato sarebbe
sconfitto perché nessuno può costringere Amazon, Apple, Facebook, … ovvero chi
ci vende le cose che consumiamo[15].
Allora,
se questo è vero, bisogna necessariamente stare sotto la protezione dell’Europa
(p.90) e in questa approntare politiche sociali a livello europeo (peccato che,
come lei stesso ha evidenziato nella prima parte è proprio per neutralizzare e
rendere impossibili le politiche sociali che è nato il progetto europeo).
Per
il resto ribadisce la solita politica di potenza (l’Europa come arma contro il
resto del mondo, p.112) e il sogno di una politica sociale che contenga limiti
alle prerogative del mercato, ovvero che abroghi praticamente tutti i Trattati,
dal 1957 in avanti. Ovviamente bisogna alla fine avere “più Europa” e una “perfetta
unione”, nella quale tutto il repertorio delle riforme che la Ue blocca negli
stati nazionali sia realizzato e tutto insieme: politiche occupazionali,
redistribuzione attraverso tassazione, ecosostenibilità a danno degli interessi
delle multinazionali.
Anche
qui, come per la requisitoria di Mario Tronti[16] il progetto europeo è alla fine, malgrado tutta la
ricostruzione storica della prima parte quel che non è, e non può né vuole
essere: un progetto sfortunatamente incompleto capace di andare verso un
superstato imperialmente dominante e socialmente avanzato e progressista. Come
avevamo scritto le cose non stanno così: il progetto europeo è piuttosto una
strana, ma concreta, struttura multiobiettivo egemonizzata sin dall’inizio dalle
forze concrete del grande capitale, prima industriale e poi finanziario,
europeo e statunitense. Esso viene montato, un pezzo alla volta, a furia di
compromessi faticosi, per garantire il dominio di questo sulle forze che
gli resistono, quelle popolari in primis. Quindi è colonizzato dalle volontà
di potenza imperiali e fatto strumento del dominio dei paesi più forti,
ovvero delle coalizioni sociali dirette al controllo esterno e connesse con il
capitale capace di proiezione e la sua logica (proteggere i propri
investimenti, garantire i crediti, occupare i mercati, acquisire il controllo
dei concorrenti). Coalizioni sociali che sono trasversalmente connesse
internazionalmente, si pensano con esercizio di falsa coscienza come
‘cosmopolite’, e dominano attraverso una rete di agenti che per questo si
costituiscono ovunque in ‘borghesia’ (‘compradora’). Il progetto europeo
realmente esistente, che è quanto più lontano si possa immaginare dai sogni
della sinistra, alla quale Mario Tronti e Nadia Urbinati dimostrano di
appartenere in pieno, non vuole e non può diventare uno Stato, tanto
meno sociale, perché se lo facesse dovrebbe assumersi la responsabilità e
pagare il prezzo dei costi di protezione. Esso è perfetto in sé e concluso,
può al massimo estendere ancora il controllo senza responsabilità. Ovvero, in
termini gramsciani il dominio senza direzione.
Come
aveva scritto Peter Mair[17]: l’Unione Europea,
semplicemente, non è democratica nel senso abituale del termine e non può
esserlo, “se potesse essere democratizzata allora non sarebbe necessaria”.
Il
sogno resterà sempre tale.
[1] - Il processo di
unificazione europeo è dall’inizio, e per decenni, influenzato e in parte
diretto dagli USA. La cosa non può apparire strana, e certamente non appare
tale ai contemporanei come Monnet o Schuman; gli Stati Uniti emergono dalle due
guerre come egemoni incontrastati del campo occidentale. Nulla si può fare
contro di loro senza stare con i sovietici. Come descrive questo articolo di Evans-Pritchard peraltro
i documenti recentemente declassificati del Dipartimento di Stato mostrano
l’entità dell’impegno dietro le quinte dell’intelligence USA; sin dal 1950 il
generale Donovan (capo dell’ASS, poi divenuta CIA) si impegnò ad esempio per promuovere un Parlamento
Europeo. Nel 1958 un’organizzazione creata dai servizi americani, l’American
Commitee for a United Europe, creata nel 1948, fornisce, ad esempio, il 60% dei
fondi al Movimento Europeo (la più importante organizzazione federalista
europea nel dopoguerra), i suoi leader Robert Schuman, Joseph Retinger,
Paul-Henri Spaak, sono stati tutti connessi con questa linea di fondi,
protezione ed influenza. Molti finanziamenti venivano dalla Fondazione Ford e Fondazione
Rokefeller, molto attive in linea generale nella politica estera e coloniale
americana sin dagli anni trenta ed in particolare nello stesso estremo oriente
in cui opera Monnet (un’indiretta documentazione di tale ruolo, che non
esplicita il ruolo in Europa, nel libro di Easterly “La
tirannia degli esperti”). Ancora l’11 giugno 1965 è disponibile un
memorandum del Dipartimento di Stato USA in cui viene consigliato al
vice Presidente della CEE di procedere di nascosto a implementare un’unione
monetaria, agendo per sopprimere il dibattito fino a che, dice, “l’adozione di
queste proposte sarebbe diventata praticamente ineludibile”.
[2] - Si veda
Friedrich Hayek, “Le
condizioni economiche del federalismo tra stati”.
[3] - La relazione
tra Ernesto Rossi, Altiero Spinelli e le fonti in Italia e Germania del pensiero
ordoliberale sono descritte a partire dalla stessa voce di uno dei protagonisti
del nostro novecento in questo post: “Luigi
Einaudi, ‘Il paradosso della concorrenza”
[4] - Friz Scharpf, “La
doppia asimmetria dell’integrazione europea”, 2009.
[5] - Al quale, come
noto, tutte le sinistre con sfumature diverse si opposero denunciandone il
carattere “atlantico”, ed intravedendovi non solo la chiarissima impostazione
ordoliberale, ben esplicita nella Relazione di presentazione del Governo alla
seduta parlamentare di approvazione (cfr. “25
marzo 1957, il Trattato di Roma, parte prima”), quanto la neutralizzazione
dei governi, vista come progresso, e soprattutto, come dirà Napolitano, l’arresto
delle riforme sociali nei singoli paesi aderenti. Sono le riforme sociali
socialiste ad essere, infatti, il bersaglio. Inoltre viene denunciato, da
Giolitti, l’effetto di aumentare gli squilibri economici (concentrando capitali
e sistemi industriali, come implicitamente chiarito nella Relazione), con danni
particolarmente gravi per il sud Italia (per una brevissima stagione, sotto la
spinta del centrosinistra, contrastati dal “programma straordinario”). In uno
dei passaggi più significativi chiarisce la differenza fondamentale tra una
impostazione liberista ed una socialista: Se si vuole sostituire la protezione
determinata da dazi doganali e altre barriere, bisogna introdurre nuove
strutture che “possano correggere le cause di fondo che hanno reso necessario
il ricorso alle barriere doganali”. Il relatore di minoranza, Berti, evidenzia
la dissimmetria dei benefici tra aree e gruppi sociali, e quindi l’effetto
distributivo del Trattato a vantaggio dei ceti borghesi e delle aree forti, il
carattere ostile al blocco sovietico, la natura antidemocratica dei meccanismi
messi in essere. Questo Trattato, secondo il giudizio del PCI, insomma “per
la sua natura, intacca alle radici le riforme di struttura della società
italiana, rinnega lo spirito che è alla base della nostra Costituzione e del
nostro Stato; si propone di spezzare le nostre strutture tradizionali
democratiche, di favorire un governo sovranazionale dei monopoli fondato sulla
discriminazione e sulla lotta contro le masse lavoratrici e i piccoli produttori”.
[6] - E’ vera,
ma tautologica, perché se non ci fossero confini, ovvero un unico Stato ed un
unico esercito non ci potrebbe essere per definizione una guerra, al più
operazioni di “polizia” e, se del caso, guerra civile. E’ falsa perché
le cause della guerra non sono l’esistenza delle nazioni (che sono sempre
esistite, per lo più senza guerra), ma molto più specificamente gli squilibri
di potenza e le tensioni interne causate dal crollo della struttura della prima
mondializzazione (gold standard, interconnessione finanziaria con particolare
riferimento ai debiti sovrani, liberalismo). Se così non fosse l’umanità
sarebbe solo un’unica, immane, ininterrotta guerra fino a che non si fosse
arrivati al sogno di Star Trek.
[7] - Il liberalismo
è una filosofia-mondo apparentemente molto austera ed economica, deriva
conseguenze completamente antistoriche e antropologicamente insostenibili da un
insieme molto limitato di postulati direttamente derivati dal mondo vitale
della borghesia commerciale e cosmopolita nel quale è stato incubato. Può essere
criticato sotto diversi profili, riprendendo Sandel (es. il classico “Il
Liberalesimo e i limiti della giustizia”, 1982) sul piano della natura
disincarnata del suo concetto di persona, riprendendo Polanyi (“La
grande trasformazione”, 1944) evidenziando la sua insostenibilità
sociale, sulla linea di Hisrchman (“Le
passioni e gli interessi”, 1975) ricostruendo il rapporto con le
passioni egoiste (o ‘tristi’), seguendo Mauss (“Saggio
sul dono”, 1923 o “La
nozione di persona”, 1938) mostrando la natura del rapporto sociale
tradizionale, o con Sahlins (“Un
grosso sbaglio. L’idea occidentale di natura umana”), allargare lo
sguardo. Ma anche con Charles Taylor, “La
topografia morale del sé”, 1988, inquadrare la critica dell’io
puntiforme lockiano (alla radice del neoliberismo). E quindi rileggere la
ricostruzione dello stesso neoliberismo, come nuova ragione del mondo, condotta
nel classico libro di Dardot e Laval “La
nuova ragione del mondo”.
[8]
- Su questo
tema praticamente l’intera disciplina antropologica, ma anche molta filosofia
morale, ad esempio autori come Charles Taylor, “Radici dell’Io”, 1989,
per il quale risolvere il problema di sapere “Chi sono”, vuol dire “comprendere
ciò che per noi è di importanza cruciale. Sapere chi sono vuol dire in un certo
senso capire dove sono. La mia identità è costituita dagli impegni e dalle
identificazioni che costituiscono il quadro o l’orizzonte entro il quale posso
cercare di stabilire, caso per caso, che cosa è buono o apprezzabile, che cosa
devo fare, che cosa devo avversare o sottoscrivere. In altre parole è l’orizzonte
entro il quale mi è possibile assumere una posizione” (p.43). Ogni io è quindi costituito
almeno in parte dalle sue autointerpretazioni, che, però non possono essere
completamente esplicite e “è tale solo tra gli altri io”, e dunque “non può
essere mai descritto senza fare riferimento a quelli che lo circondano”. Una
posizione del tutto opposta alla ricerca normativa dell’”io puntiforme” di
Locke o Hume.
[9] - Andre Gunder
Frank “Riflessioni
sulla crisi economica mondiale”, 1978.
[10] - Si può comunque
vedere quanto scritto di passaggio in questo post: “Luigi
Einaudi, ‘Il paradosso della concorrenza”
[11] - Solo per fare
un esempio si vedano le recenti restrizioni imposte dalla Germania, con in
alcuni casi espulsioni, per i cittadini italiani privi di risorse e lavoro
(cfr. “Respingere
o riconoscere: italiani in Germania”).
[12]
- Art 7: Ciascun cittadino dell'Unione ha il diritto di soggiornare per un
periodo superiore a tre mesi nel territorio di un altro Stato membro, a
condizione:
a)
|
di essere
lavoratore subordinato o autonomo nello Stato membro ospitante; o
|
||||
b)
|
di disporre, per se stesso e per i propri
familiari, di risorse economiche sufficienti, affinché non divenga un onere a
carico dell'assistenza sociale dello Stato membro ospitante durante il
periodo di soggiorno, e di un'assicurazione malattia che copra tutti i
rischi nello Stato membro ospitante; o
|
||||
c)
|
|
||||
d)
|
di essere un familiare che accompagna o
raggiunge un cittadino dell'Unione rispondente alle condizioni di cui alle
lettere a), b) o c).
|
2. Il
diritto di soggiorno di cui al paragrafo 1 è esteso ai familiari non
aventi la cittadinanza di uno Stato membro quando accompagnino o raggiungano
nello Stato membro ospitante il cittadino dell'Unione, purché questi risponda
alle condizioni di cui al paragrafo 1, lettere a), b) o c).
3. Ai sensi del paragrafo 1, lettera a), il
cittadino dell'Unione che abbia cessato di essere un lavoratore subordinato o
autonomo conserva la qualità di lavoratore subordinato o autonomo nei seguenti
casi:
a)
|
l'interessato
è temporaneamente inabile al lavoro a seguito di una malattia o di un
infortunio;
|
b)
|
l'interessato,
trovandosi in stato di disoccupazione involontaria debitamente comprovata
dopo aver esercitato un'attività per oltre un anno, si è registrato presso
l'ufficio di collocamento competente al fine di trovare un lavoro;
|
c)
|
l'interessato,
trovandosi in stato di disoccupazione involontaria debitamente comprovata al
termine di un contratto di lavoro di durata determinata inferiore ad un anno
o venutosi a trovare in tale stato durante i primi dodici mesi, si è
registrato presso l'ufficio di collocamento competente al fine di trovare un
lavoro. In tal caso, l'interessato conserva la qualità di lavoratore subordinato
per un periodo che non può essere inferiore a sei mesi;
|
d)
|
l'interessato
segue un corso di formazione professionale. Salvo il caso di disoccupazione
involontaria, la conservazione della qualità di lavoratore subordinato
presuppone che esista un collegamento tra l'attività professionale
precedentemente svolta e il corso di formazione seguito.
|
4. In deroga al paragrafo 1, lettera d) e al
paragrafo 2, soltanto il coniuge, il partner che abbia contratto un'unione
registrata prevista all'articolo 2, punto 2, lettera b) e i figli a carico
godono del diritto di soggiorno in qualità di familiari di un cittadino
dell'Unione che soddisfa le condizioni di cui al paragrafo 1, lettera c).
L'articolo 3, paragrafo 2, si applica ai suoi ascendenti diretti e a quelli del
coniuge o partner registrato.
[13] - Sempre la
solita bufala propagata da razzisti ed autorazzisti (cfr, “Del
rimbalzo delle bufale”)
[15] - E’ palese che
costringere chi per esistere ha bisogno di una autorizzazione a vendere è la
cosa più facile del mondo, se non avviene non è perché gli Stati sovrani sono
impotenti, ma perché non sono sovrani. Ovvero perché c’è uno Stato veramente
sovrano che le protegge. Basta andare in un paese nel quale questo stato non domina
(es. Iran, Cina, Russia) per scoprire che non c’è Amazon, non c’è Facebook, o
devono rispettare le regole date.
[16] - Si veda, Mario
Tronti, “Il
popolo perduto”, 2019.
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