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sabato 10 agosto 2019

Onofrio Romano, “La libertà verticale”





Onofrio Romano è un sociologo che insegna all’università di Bari ed ha scritto questo impegnativo libro nel 2019. Si tratta di un’ampia ricostruzione della logica della regolazione sociale lungo la storia del capitalismo interpretata con un modello binario di fondo: malgrado tutte le differenze e le specificità, si sono succeduti nel tempo due canoni: quello “orizzontale” e quello “verticale”. Il primo caratterizza profondamente la modernità capitalista, ma a lungo termine quando si presenta in forma pura risulta ogni volta insostenibile per la società, dissolta dal suo corrosivo acido. Il secondo ha dominato nella fase precapitalista, ma dopo il ‘disincanto’ del mondo seguito al processo di secolarizzazione e modernizzazione non riesce ad esse sopportato a lungo, entrando in contrasto con il desiderio di libertà individuale e l’autocomprensione dell’occidente.
Lo scontro tra i due ‘fratelli’ viene letto nel libro prevalentemente con gli strumenti della sociologia e con ampie ricostruzioni dei principali autori dell’ultimo secolo, a partire da quello in qualche modo centrale e dal quale il modello esplicativo viene ripreso: Karl Polanyi[1].



Al termine del lungo percorso emergerà una proposta che, in qualche modo, è perfettamente complementare con quella del libro di Carlo Formenti “Il socialismo è morto. Viva il socialismo!” che abbiamo appena finito di leggere: mentre quello cercava di identificare le condizioni oggi possibili di una “transizione alla transizione” verso il socialismo, Romano si impegna in un compito altrettanto arduo, fornire un abbozzo del possibile socialismo realizzato. Ovvero immaginare in che modo la giostra tra “orizzontalismo” e “verticalismo” può essere interrotta. Per dirla meglio: cosa bisogna mettere a tema per interromperla.

Per arrivarvi Romano disegna un percorso di esplorazione che potrebbe ricordare la “critica immanente” di Honneth e Jaeggi[2]: nella Prima Parte, riassume la storia della regolazione sociale nella modernità, poi, nella Seconda Parte ricostruisce l’evoluzione della sociologia in relazione alle fasi individuate e, infine, nella Terza Parte prova a tratteggiare la soluzione, ovvero la “libertà verticale”.

La Prima Parte è a sua volta divisa in tre fasi storiche: il “canone orizzontale”, nel periodo di ascesa del mercato auto-regolantesi descritto da Polanyi, fino al crollo del golden standard e la disgregazione che portò alla guerra mondiale; il “canone verticale” del novecento dal New Deal alla crisi degli anni settanta; il ritorno al “neo-orizzontalismo” a partire dagli anni ottanta (si potrebbe dire, con linguaggio più tradizionale, “liberismo”, “welfarismo”, “neo-liberismo”).
La Seconda Parte riaccompagna queste tre fasi guardando però ai paradigmi interpretativi “rovesciati” (ovvero rispettivamente “verticalisti”, quando impera l’”orizzontalismo” e viceversa quando si afferma il “verticalismo”). Si ha quindi una sociologia classica che reagisce all’anomia conseguente al dominio orizzontalista, che rende scarsa la coesione sociale, sviluppando una sociologia critica di ispirazione “verticalista”, e una di ispirazione “orizzontalista”, invece, nella fase in cui sembra imperare il “verticalismo”, ed appare scarsa l’individualizzazione.
Nella Terza Parte, per introdurre la proposta della “libertà verticale” Romano propone alcune interpretazioni delle posizioni dei principali sociologi contemporanei: dal “pensiero rispecchiante”, alla “nostalgia afasica” fino alle “alternative conformiste”. Si tratta sempre di varie forme di travestimento di soluzioni “orizzontaliste”. Infine emerge il “ballo verticale”, ovvero la soluzione possibile; l’unica, grazie ad una sorta di “verticalismo al quadrato” in grado di stabilizzare il gioco delle coppie che ha interessato gli ultimi due secoli.

Si tratta di una proposta coraggiosa e radicale, che sembrerà eccessiva a molti, ma che ha il pregio di essere perfettamente coerente e logica: in sostanza oltre ad essere un “verticalismo al quadrato” è anche un “comunismo rovesciato”.
Per la fattibilità ci dovremo mettere d’accordo tra di noi.





Varrà la pena di cominciare.
In tutto l’ottocento il sistema economico in espansione si organizza intorno al “perno centrale” del mercato auto-regolantesi (che, ovviamente, è sempre stato un’astrazione, dato che il “mercato” è un prodotto del potere di regolazione). Si tratta, come insiste a dire Karl Polanyi, di un elemento del tutto inedito nella storia dell’umanità, infatti: “un regime ‘orizzontalista’ emerge. L’ordine sociale non emana e non è disegnato ex-ante da un’entità eletta, ma appare come risultato spontaneo dell’interazione tra le singolarità liberate dalle vecchie comunità”. Secondo questa visione la cosa si riassume così: durante il XVIII secolo si “disincastrano” gli elementi fusi negli aggregati comunitari medioevali e in questo modo, da questo grande disgelo nasce il capitalismo occidentale moderno[3].

Questa lettura viene impostata richiamando la lezione di Max Weber[4], che individua nel capitalismo i necessari ingredienti della: “razionalità” (diretta allo scopo); la libertà di mercato; lo sviluppo di tecnologie razionali e l’amministrazione. Base di tutto è la disponibilità di “lavoro formalmente libero”, ma sostanzialmente obbligato (p.16).
Ci sono numerose altre interpretazioni dell’insorgere del capitalismo, vengono ricordati Riesman, il ruolo dei comuni medioevali, con il loro corporativismo, la scoperta dell’America e la dissoluzione dell’ordine medioevale. Quindi la vicenda, sulla quale insiste Polanyi, delle “recinzioni” inglesi, rallentate e contrastate dai Tudor, e le innovazioni della rivoluzione francese. In generale una emancipazione del soggetto dall’oggetto che fonda quella libertà di movimento la quale incarna il paradigma centrale dell’orizzontalismo. Si tratta di un nuovo statuto dell’oggettivo, che fonda ora sul “valore d’uso” il nuovo criterio di senso.

Avviene comunque un rovesciamento tra i rapporti sociali e l’economia. Mentre nella società tradizione quella era incorporata in questo, ora avviene il contrario: i rapporti sociali si definiscono a partire dall’economico. Nasce una “società economica”, gli attori sociali portano in primo piano la logica dell’interesse personale e la razionalità allo scopo che lo contraddistingue (rispetto alle forme di razionalità dirette al giusto o all’autoespressione di una identità ‘ben riuscita’). Gli esseri umani, insomma, ubbidivano prima “a un qualche principio di ispirazione verticale. Una verticalità dispiegata con gradazione diverse e all’interno di circoli sociali dalle dimensioni molto variabili (dalla famiglia fino all’impero), ma sempre ispirata ai principi di ‘simmetria’, di ‘centralità’, di ‘autarchia’” (p.43).



Il liberalismo, invece, che è qualcosa di molto simile ad una fede, accetta ciò che c’è. In altre parole è “l’impero del male minore”[5].

Seguendo la narrazione di Polanyi, tutto questo inizia a cessare quando la società, sfidata dalla totale mercatizzazione e precarizzazione in particolare di “lavoro”, “terra” e “denaro”, si difende e nascono le legislazioni sociali. Allora tutto implode.

La prima guerra mondiale, e di poco sfalsato, il crollo del ’29, determinano l’avvio del “novecento verticale” il quale, tuttavia, è in particolare reso inevitabile dal ritiro degli Usa dalla “base aurea” (evento che, abbastanza a sorpresa, avviene nel 1933 come primo atto della nuova amministrazione Roosevelt[6]). Si apre una fase complessa e dolorosa, con numerose risposte autoritarie e varie forme di dittatura, ma si instaurano ovunque “regimi verticalisti” caratterizzati da notevoli continuità regolatrici e discontinuità politiche. Si va dalla soluzione sovietica, a quella delle destre continentali, dal New Deal alle varie forme di “capitalismo societario”, con la sua ricerca sistematica di uno spazio protetto alle grandi imprese monopoliste che hanno preso il centro del sistema capitalista.
Nell’insieme è una fondamentale mediazione tra la macchina capitalista e la società, realizzata dallo Stato, e capace di creare una sorta di “liberalismo embedded” nel quale il primato torna all’ordine sociale. Un liberalismo che si sviluppa, sia chiaro, all’ombra del dualismo con il Patto di Varsavia.
Sono create delle forti cornici esterne (in particolare nel secondo dopoguerra, con l’Accordo di Bretton Woods) che rendono anche possibili autonomie (relativamente) sovrane.

Tutto ciò dà straordinari risultati in termini di crescita e di rafforzamento della cittadinanza democratica. Ma a partire dai primi anni settanta avviene anche un progressivo “sgretolamento” dell’edificio “verticale”. Emergono, per Onofrio Romano due limiti seri: il primo ha a che fare con il funzionamento e lo sviluppo del sistema, ed è dunque interno; l’altro proviene dall’energia che è sprigionata dalle periferie. Si tratta dell’elefantiasi della macchina verticalista, che si vedeva già all’esordio con il New Deal e della pressione indotta dalle economie in crescita competitiva (Giappone, Germania, Italia) e in via di decolonizzazione (paesi arabi, estremo oriente). La crisi scatenante ha un punto di precipitazione, come fu per quella di segno inverso, nello sganciamento dei limiti del sistema finanziario. Anche in questo caso si esce da un accordo di cambio (quella volta dal gold standard, in questo caso dalla convertibilità del dollaro), ma nelle mutate condizioni si produce un effetto diverso.

Agiscono comunque sotto la pelle delle tensioni profonde, quella che chiama “la saturazione dei bisogni”, ovvero la riduzione dei margini di profitto per effetto della riduzione relativa delle occasioni di investimento profittevole e la pressione distributiva imposta dalle organizzazioni del lavoro. Gli anni settanta sono il canto del cigno delle mobilitazioni operaie, il tramonto scambiato per albeggiare.


L’insieme di questi fattori, e la spinta inflazionistica potente importata dal costo delle materie prime (che sono in robusta crescita per un insieme complesso di fattori, tra i quali la crescente massa finanziaria e speculativa, la decolonizzazione, l’autodifesa degli Usa contro le economie industriali emergenti, molto più dipendenti dai prodotti energetici), inducono una crisi sistemica che passa sotto il nome di “stagflazione”.

Ma c’è altro. Giustamente, Onofrio Romano ricorda l’influenza della contestazione studentesca, che abbiamo entrambi vissuto: “una sensazione di soffocamento e disseccamento nella clausura dorata dello Stato del benessere attanaglia il corpo sociale. Questo nodo costituisce il comune terreno di critica su cui si trovano i neoliberali e i radicali di sinistra” (p.75).
Insomma, il Welfare mostra crepe profonde e, inoltre, provoca effetti depressivi sull’attivazione sociale; si è come sovraccaricato.

Si aggiunge la problematica messa in evidenza da O’Connor della “crisi fiscale dello Stato[7], pur se la sensazione di assoluta assenza di vie di uscita che promana dalla lettura del libro risente dell’implicita mancata presa di consapevolezza degli spazi di espansione monetaria aperti dal delinking del dollaro con l’oro del 1971.

E poi, terzo, l’insorgere del “postmaterialismo”, come messo in evidenza da autori come Inglehart[8] e Giddens[9].

Quindi la convergenza di una parte del pensiero conservatore con le tesi avanzate in quegli anni dai rapporti della Trilaterale.



Si tratta, insomma, di una drammatica crisi socio-antropologica che viene diagnosticata da autori come Daniel Bell e Christopher Lasch, o Cornelius Castoridias[10], ed innumerevoli altri.

Il regime neo-orizzontalista, che prende esordio con l’austerità nei paesi colpiti dall’improvviso deficit delle partite correnti, pur nell’ultima fiammata del consenso ai partiti welfaristi sulla difensiva, produce allora un completo rovesciamento. Si passa ad una sorta di capitalismo tecno-nichilista che propone la guida automatica dell’economico, esautorando la volontà politica (è la logica del “vincolo esterno”). In effetti “agli standard tecnici si affiancano i sistemi integrati di regole e procedure transnazionali e transculturali, che danno ordine alle cosiddette ‘sfere istituzionali funzionaliste’ (mercati finanziari, sistemi sanitari, sistemi di polizia, sistemi legislativi, sport, ricerca, …)”. Prende piede la metafora del pubblico come “controllore del traffico”.
Naturalmente ci sono alcune differenze[11] tra la versione anglosassone, neoliberale e quella continentale, ordoliberale, ma all’altezza dalla quale Romano guarda il fenomeno sono poco rilevanti.
Prescindendo da queste, fanno parte di questa impostazione, nella quale lo Stato è gregario, l’enfasi sul “terzo settore” e sul welfare locale e comunitario di grande tradizione cattolica. Ed infine, l’intero progetto della Unione Europea, emersa da Maastricht.

Questo modello consegue alcuni successi (sui quali sarei meno enfatico dell’autore) ed avvia alcuni processi di modernizzazione, in particolare tecnologici. Ma come una farfalla ha in effetti vita breve.

Subentra, infatti, una repentina “crisi da orizzontalismo”, analoga a quella mostratasi nel 1929. Il modello ha infatti prodotto, e lasciato accumulare come la cenere sotto un camino, una proliferazione della finanza speculativa ed altamente inefficiente in termini di sistema, una crescita alla lunga insostenibile di ineguaglianze che scavano sotto i bastioni del consenso e producono una enorme quantità di disattivazione esistenziale e rabbia. L’assottigliamento, sempre più visibile, della classe media.
Si tratta, in altre parole, alla prova dei fatti di un sistema insostenibile nel lungo periodo e che, infatti, ad un certo punto si manifesta come tale.



Nella Seconda Parte, viene enunciata una tesi di ordine generale: mentre la filosofia di un’epoca viene diagnosticata al tramonto, la sua descrizione sociologica apparirebbe all’alba. Nella sociologia della conoscenza il pensiero ha sempre intravisto in anticipo le falle di un sistema di regolazione, sforzandosi quindi di tratteggiare un sistema alternativo.
Alcuni esempi sono nel lavoro di Durkheim e Mauss, i quali già nel 1903 diagnosticano l’insostenibile antropologia liberale. Purtoppo questo meccanismo virtuoso viene inceppato dalla rinuncia alle grandi diagnosi, in favore della concentrazione sulle microanalisi e sui frammenti, delle sociologie secondo novecentesche. Del resto “per il paradigma orizzontalista l’immanenza è la dimensione privilegiata. Per comprendere la società occorre fare riferimento innanzi tutto agli individui e alle loro strategie relazionali. In generale, si ritiene possibile rintracciare il vero significato di un organismo sociale guardando i singoli attori e le reti che essi intrecciano. L’ordine non promana da cabine di regia centrali, ma è il risultato ex post della dinamica delle interazioni tra attori sociali.” (p.124)
Ogni ordine dall’esterno è giudicato immorale ed abusivo. L’orizzontalismo vede nell’ordine, in sé, un elemento autoritario, coercitivo, innaturale.
L’alternativa è secca: autoritarismo o libertà.

Il punto di vista “verticalista” è opposto: “il sistema sociale non è la somma delle sue parti, ma un’entità sui generis che funziona come un organismo, secondo un principio di unità che lo trascende e che occorre sempre decodificare”, dunque ratificare il risultato delle interazioni spontanee (se pure ve ne sono) significherebbe solo ratificare l’ingiustizia, la legge del più forte. La libertà dell’orizzontalismo è sospettata di astrazione e di falsa coscienza.

Nella descrizione che segue del “verticalismo sociologico”, dopo la presentazione di una radicale quanto debole tesi di Nisbet, l’autore mostra come i padri fondatori della sociologia (in particolare Durkheim) compiano tre mosse fondamentali:
1-      Smascherano l’orizzontalismo decostruendo la credenza del carattere originario dell’attore sociale e rivelandone, al contrario, la natura verticalista,
2-      Denunciano gli effetti perversi di questo,
3-      Elaborano terapie verticaliste.
Il primo effetto si ottiene attaccando il presupposto di naturalità e mostrando il carattere derivato dell’individuo. Una mossa simile la fa già Hegel, l’individuo si mostra essere frutto di eventi storici e costruito a ridosso “dell’altro” (è la natura “intersoggettiva” del soggetto). Altri autori che compiono questo percorso sono Karl Marx (che mostra il carattere alienante della regolazione orizzontale e la sua logica strutturalmente fondata sulla sfruttamento) e Max Weber, e poi Durkheim, che in particolare si concentra sul “fatto sociale” e la religione (il sacro è come una cassaforte “dove vengono custodite le norme fondamentali che tengono insieme la società”, p.166)[12]. Una menzione viene fatta anche a Simmel.

La cura “verticale” comincia ad essere messa a punto da Auguste Comte, che versa il suo vino positivista in botti medioevali. Ci sarebbe anche Marx, ma per Romano:

“l’atteggiamento di Marx, invece, è molto più incerto. Come noto, Marx si concentra principalmente sull’analisi del capitalismo, ma non sviluppò mai in profondità la proposta di una società comunista. L’impressione è che Marx non si sia mai affrancato dall’utopia orizzontalista. Di fatto, egli sogna un orizzontalismo senza mercato e senza capitalismo. Ciò che è chiaro è che egli intende il comunismo come un ritorno alla natura ‘sociale’ dell’uomo, al riconoscimento della reciproca dipendenza tra soggetto e comunità societaria. Egli tenta di tenere assieme il massimo sviluppo del potenziale individuale con un’unità collettiva ‘eletta’”, p.170.


Invece “l’orizzontalismo sociologico” muove nel novecento dove meno si aspetta, dal lavoro di Parsons, il quale assume e riconnette in una potente cornice teorica le principali acquisizioni multidisciplinari e conia lo “struttural-funzionalismo”. Le sue teoria, però, “evocano, in fin dei conti, una nuova forma di automatismo dell’ordine sociale, che ancora una volta tiene fuori la deliberazione umana. Anch’essi alludono, in definitiva, a una sorta di ‘naturalizzazione’ che sistema sociale, speculare alla classica naturalizzazione del mercato operato dal vecchio pensiero liberale e che provocò la reazione dei padri della sociologia” (p.178).
Segue anche una nuova epistemologia orizzontalista, i cui esponenti sono Albert Eistein, con la sua “teoria della relatività”, il “principio di indeterminazione” di Heisenberg, e soprattutto e con notevole intenzionalità politica Karl Popper ed il suo “falsificazionalismo”, diretto espressamente contro il marxismo. Un esempio diretto è il libro “La società aperta e i suoi nemici”.
Si tratta interamente di argomenti che transitano nel post-modernismo.

Guida l’opposizione allo struttural funzionalismo la proposta di una “funzione senza struttura” di Merton e poi la vera e propria rivolta degli anni sessanta contro la monotonia dell’edificio verticale e la soffocante presenza dello Stato.
Partecipano a questo movimento Wright Mills, Touraine e la Scuola di Francoforte, in particolare Adorno (di cui occorre ascoltare il dibattito con Gehlen, ricordato da Cassano). E quindi un autore totalmente orizzontalista, per l’autore, come Michel Foucault (e Jacques Derrida).




Nella “Parte Terza”, viene denunciato il ritardo con il quale la critica del neo-orizzontalismo si fa attendere sulla scena. Non è, infatti, emerso ancora un organico pensiero contrario mentre il modello è repentinamente entrato in crisi. In effetti in questo momento tutte le élite intellettuali sono connesse con l’orizzontalismo anche quando pensano di criticare l’ordine esistente.
Ci sono alcuni diversi atteggiamenti di questa critica mimetica. Romano ne individua alcuni:
1-      Il “pensiero rispecchiante
Si tratta di una sociologia che resta entro la logica orizzontalista e non tenta più quello sguardo sulla totalità i cui ultimi esponenti furono Antony Giddens e Jurgen Habermas che tentano comunque di disegnare due grandi sistemi teorici (la cui versione più raffinata ed al tempo stesso astratta è del tedesco). Altra versione sistemica è quella di Niklas Luhman e Edgard Morin, il pensiero della complessità che però, per paradosso, finisce per svuotare la fonte dell’autonomia (p.217).

2-      La seconda fonte è quella della “nostalgia afasica
Si tratta del lavoro di quei sociologi che sviluppano una critica di alcuni aspetti del modello orizzontalista, ma senza proporre una alternativa e senza rivendicare il verticalismo. I due campioni sono Zygmund Bauman e Ulrich Beck.

3-      Quindi ci sono le “alternative conformiste”.
Romano propone con questa formula di classificare quei pensieri che si oppongono, anche con vigore, al modo “orizzontalista”, ma dalla denuncia delle conseguenze nefaste ripropongono come soluzioni ancora l’“orizzontalismo”. Con le sue parole: “la critica del regime neoliberale viene condotta da una prospettiva orizzontalista e le ricette per uscire dalla crisi, pur da punti di vista differenti e spesso reciprocamente oppositivi, vengono ottenute dallo stesso filone di pensiero che costituisce la base ispiratrice del modello regolativo entrato in disgrazia” (p.231).
Fanno parte di questa sorta di “terza via”:
a.       Il “dirittismo”
Si tratta di reagire alla anomia indotta dall’orizzontalismo ancora potenziando l’individuo e la sua capacità di agire come singolo. Ci sono esponenti come la Nussbaum e Amartya Sen e poi giuristi come Stefano Rodotà. Concentrandosi su quest’ultimo, Romano evidenzia come per il nostro tutto il bene venga sempre dal basso, e tutto il male sia sempre nelle istituzioni, nel potere, nella sovranità. Per Rodotà, “la vita degna di essere vissuta è quella che la persona autonomamente costruisce come tale”. Ne deriva una sorta di marcia universale, che punta all’annichilimento della politica e all’individuazione dei beni comuni come “l’opposto della sovranità”.
Tutto si muove sul vero terreno comune tra destra e sinistra: l’intolleranza per il progetto collettivo.
b.      Il “terzo paradigma”, il convivialismo
Il progetto del Mauss e di Caillè è diretto espressamente contro l’utilitarismo e compie allusioni ambigue ad una logica verticale, ma alla fine arriva ad una sorta di iper-orizzontalità, come è mostrato dai cavalli di battaglia del ‘reddito di cittadinanza’ e del ‘sorteggio’ (p.246), oltre che dalla esaltazione della “cittadinanza attiva” che viene interpretata come automaticamente dalla parte dell’interesse generale, per il solo fatto di essersi individualmente attivata senza ordini ed esercizio di potere.
c.       Il “bene comune”
Questa “parola ameba” viene messa al centro da autori come Negri e Dardot e Laval, insieme al “non concetto” di “comune”. In questo caso lo slogan è chiarissimo: né mercato, né Stato ma ‘comunità’. Per Romano “il successo della nozione si deve in buona parte al suo elevato grado di ambiguità, tipico di tutte le alternative conformiste” (p.253). C’è di più: “da un lato l’ideologia dei commons si scaglia contro gli effetti del regime orizzontalista ed esprime una chiara aspirazione alla verticalità, dall’altro rivela una forte subordinazione all’egemonia dell’orizzontalismo”.
Inoltre capita che gli studiosi dei beni comuni, immersi nel razionalismo occidentale, restino incapaci di accettare la complessità dei quadri culturali altrui e concepiscano il male sempre nelle istituzioni.
d.      La decrescita
La società della decrescita è abitata da un paradosso: da un lato denuncia gli effetti dell’orizzontalismo dall’altro promuove un’alternativa che è radicalmente orizzontalista. Nella quale la salvezza e l’azione sono rigorosamente individuali e spontanei. Una liberazione che ancora una volta cerca di fare a meno di qualsiasi sovrastruttura, prescindendo da quelle istituzionali, e denunciando la natura religiosa delle altre.



Alla fine ci sono diverse ragioni per le quali il paradigma è in ritardo, alcune sono che la crisi è giunta troppo presto (per Khun il rovesciamento di paradigma avviene anche quando c’è un cambio generazionale), e lo stile di vita orizzontalista è ancora egemonico, mentre il trauma del verticalismo è ancora vivo (insieme ad alcuni di quelli che lo vissero negli anni sessanta e settanta).

Ma è pure vero che in effetti il regime verticalista del novecento perseguiva finalità orizzontaliste di liberazione individuale del singolo, e che l’attuale neo-orizzontalismo è verticalista per come utilizza i poteri istituzionali. Si tratta di un paradosso.
Per portare avanti l’analisi e proporre una via di uscita Onofrio Romano propone allora un’ultimo autore: la lettura di Bataille[13] dell’energia e della dissipazione[14]. Secondo lo scrittore francese quando si verifica un sovrappiù di energia vitale, ovvero quando abbiamo superato i problemi di imminente rilevanza per sopravvivere ed abbiamo ancora un surplus significativo da attivare, che ci chiama ad agire, allora siamo di fronte, per la prima volta, al problema della “libertà”. In altre parole, cessiamo di essere servi e diventiamo uomini. Cosa succede: che “l’energia in sovrappiù ci chiama all’agire, in un contesto in cui l’unica certezza è il ‘nulla’. Per questa ragione tutte le società umane hanno elaborato pratiche e rituali di depense, di dissipazione deliberata dell’energia eccedente”. Riti, feste, opere.



La modernità orizzontale invece ha rimosso rutti questi rituali collettivi di distruzione dell’eccedente. Li ha razionalizzati, e quindi “tende a esasperare il momento servile originario, vale a dire la tensione alla crescita economica illimitata” (p.282). Ma in questo modo tende anche a rimuovere il ‘senso’ dell’agire. In effetti ciò che è successo è che quando si è passato al ‘verticale’, le vite sono state messe in sicurezza, ma una volta trovatesi così nel campo dell’umano si è posta la questione della sovranità: che fare di questa energia? In assenza dei rituali che lo risolvevano ex ante entro strutture di ruoli il singolo si è trovato davanti al ‘nulla’ e si è arrivati quindi alla paralisi sociale. In effetti “tutti sono entrati in sciopero”, questo è stato all’origine della crisi del welfare state.

In questo senso il problema è nato dal fatto che le istituzioni verticali in effetti rispondevano, senza comprenderlo, ad una logica orizzontale: “permettere alle persone di costruire la propria autonomia e sostenerle nel conseguimento di obiettivi la loro eletti. L’impresa però ha solo scoperchiato il vuoto” (p.286). Accade in questo senso una cosa rilevante: il fallimento delle istituzioni verticaliste occulta il fallimento della visione orizzontalista.
Negli anni ottanta si è allora puntato a tornare al “servile”, all’emergenza esistenziale, alla “precarizzazione mobilitante”, per superare lo “sciopero”, invece di allestire un “tutto” comunitario che era impensabile nei termini del paradigma orizzontalista[15].
La precarizzazione è dunque un’auto-difesa antropologica, ed attiva anche una sorta di ‘depense’ privatizzata (ovvero il ‘consumismo’ compulsivo allargato a tutti i ceti e le condizioni, p. 294).



Ma la “libertà verticale” emerge a questo punto, dal dovere di dare una chance alla sovranità dell’uomo, sfuggendo al “servile”. Bisogna, insomma, cercare di sfuggire allo spazio stretto tra l’urgenza della precarizzazione, che riduce l’uomo alla condizione di una macchina servile tutta presa nella sua mera riproduzione, e il consumismo vuoto, edonistico, privatizzato (la “depense privatizzata”).

Del resto la modernità è d’essenza orizzontalista, dunque i critici che sospettano sempre in ogni forma di verticalità un regresso premoderno hanno qualche ragione. E’ un problema, ma non si sfugge. Questa modernità è abitata da un mito: l’esistenza di un qualche livello “autentico”, così come è, che si albergherebbe sotto la crosta di forme sociali inessenziali e quindi alienanti.
La modernità è, in altre parole, essa stessa un mito fondato su una trasposizione del religioso che si rifiuta di prendere atto del vuoto. Grazie a questo rifiuto risulta invivibile, presa nello scontro tra un regime verticalista privatizzato, che conduce alle forme più dissipative e disumanizzanti di “depense”, ed un regime orizzontalista, che respinge la maggioranza dell’umanità nella condizione servile e pressa la minoranza ad assumere il ruolo ‘padronale’. Secondo le parole di Romano “il soggetto è privo di auto-consistenza, perciò un ordine sociale fondato sull’illimitato disvelamento delle particelle elementari -coerente con l’idea che siano queste le forme ultime dell’ordine- è destinato a fallire. L’uomo è sospeso nel vuoto, nella vertigine del senso.

Tre domande di fondo emergono:
1-      Quali sono le condizioni che consentono di perseguire il disvelamento dell’umanità?
2-      Una volta disvelate, le società umane sono in grado di stare in piedi?
3-      In caso contrario, cosa occorre fare per consentire a una società disvelata di funzionare e di durare, godendo effettivamente della sua sovranità?

Secondo la proposta dell’autore è da qui che si parte. Bisogna rispondere proprio muovendo dal fatto che l’uomo è sospeso nel vuoto e che, quindi, anche qualsiasi costruzione sociale affonda le sue radici nel nulla.

Ma per fare su questo nulla, senza ritrarsi nel “servile”, ovvero senza uscire dall’umano, bisogna mettere in campo un “verticalismo al quadrato”: funzionale e sostanziale. Qualcosa che sfugga sia al “orizzontalismo verticale (o sovrano)” degli anni del dopoguerra, sia al “orizzontalismo servile” degli ultimi quaranta anni.

Sia alla paralisi sociale sia alla lotta per la mera sopravvivenza.

La questione che pone Onofrio Romano, e va ben compresa, è che entrambi i regimi sono invivibili.

Qui non si tratta, dunque, di immaginare un mero ritorno alla fase “keynesiana”. Si tratta di un’aggiunta.
Alle operazioni necessarie, debitamente aggiornate, per mettere in sicurezza le vite e uscire dal “servile”, occorre aggiungere quelle indispensabili per fronteggiare le disfunzioni che si presentano senza ridurre tutto ad una privatizzazione, in quanto il singolo, vuoto, non ha le risorse per trovare da sé il senso. Questo “territorio” va gestito in comune.

In particolare, nei paesi mediterranei che hanno memoria del vecchio “verticalismo” e che sono presi nella tenaglia tra una dotazione cognitiva di livello elevato e una disponibilità materiale inadeguata, ci sono le condizioni perché si avii la transizione. Dove mancano disponibilità che sono inadeguate per ragioni strutturali e non aggirabili, tanto meno esponendosi ulteriormente alla competizione. Quel che bisogna fare è, allora, “adoperare la logica verticale per sottrarsi all’ottimo globale. Occorre usare la politica per ripararsi dalla barbarie competitiva e per conseguire l’ottimo sociale e ambientale” (p.310).

Rovesciando l’obiettivo dalla competizione al benessere collettivo (non solo di “chi vince”, ovvero strutturalmente di pochi), e alla “Vita buona”. Ciò significa anche che “il potere pubblico deve fermare la logica della crescita e vegliare sul mantenimento di uno stato stazionario”. Al quale il sud saprà portare in dote “le risorse energetiche, la terra, la creatività, la bellezza, la vita all’aria aperta, la beatitudine del rapporto con la natura, l’andatura lenta, gaudente e spensierata”.

In termini diversi bisogna gestire verticalmente sia l’integrazione sistemica (garantendo le risorse e proteggendo i singoli dagli effetti dell’aperto competitivo), sia l’integrazione socio-culturale. Si tratterebbe di aumentare i consumi collettivi rispetto a quelli privati, in particolare i consumi culturali e di svago. Rilanciare la “grande depense” ed il reincanto.
Un ruolo particolarmente importante lo deve svolgere la funzione educativa, la continua interrogazione sul senso attraverso cicli educativi obbligatori e permanenti. Allestire le arene della discussione collettiva sui nodi della condizione umana e sulle idee della vita buona.

Chiaramente davanti a queste proposte, che per certi versi ricordano alcune sperimentazioni del New Deal globale, poi lasciate cadere e/o anche esse privatizzate, ci sarà chi parlerà di approccio illiberale e Stato Etico. In un certo senso è corretto, purtuttavia l’autore non intende rinunciare alla libertà. La sua mossa è più sottile, e la sua antropologia meno consolatoria. Riprendendo il saggio di Cassano sull’umiltà del male[16], ciò di cui bisogna liberarsi è della illusione che il bene sia a portata di mano, disponibile, nella natura umana. Invece occorre costruirlo, bisogna sostenere chi sta nel vuoto, o, in altre parole, “le istituzioni devono aiutare gli uomini a tollerare il nulla, senza mai lasciarli soli” (p.316).

Quindi, si. “La libertà verticale è, ancora e sempre, “comunismo”. Ma si erge sul rovesciamento della visione antropologica positiva su cui il comunismo si è sempre fondato, generando per questo, al meglio, impotenza politica, al peggio, tragedie storiche inenarrabili”.

Si tratta di assumere, una buona volta, che non ci sono terre promesse, e che la “libertà verticale”, che occorre costruire, è radicata nel tragico.

Ancora, si tratta, probabilmente, di superare il tema dello “sviluppo senza progresso”, che un angosciato e cinquantatreenne Pier Paolo Pasolini intravede attraverso il rimontaggio, tanto più aspro e doloroso e meno risolto, diSalò o le 120 giornate di Sodoma”, e nell’articolo di abiura della “Trilogia della vita” (tre film che fecero molto scandalo, “Decameron”, “I racconti di Canterbury”, “Il fiore delle mille e una notte”), compiuta appena due anni dopo il completamento del terzo film. In un articolo del 15 giugno 1975, pubblicato postumo il 9 novembre, nel quale dichiarerà essere stata “asservita e manipolata” dal potere che va denunciando. Infatti se i tre film si inserivano nella “lotta per la democratizzazione del ‘diritto di esprimersi’” ed in particolare per la “liberazione sessuale” (parte essenziale della “tensione progressista” degli anni cinquanta e sessanta nella quale aveva allora preso corpo la poetica e l’azione politica -ed esistenziale- dell’autore), ora la situazione era mutata[17]. Pasolini nei suoi ultimi anni focalizza sempre più, e sempre più disperatamente, un processo di “mutazione antropologica” che, in ritardo su altri paesi, ha investito ormai l’Italia a partire dagli anni sessanta: inizia, cioè, a trionfare quella che chiama “l’irrealtà della sottocultura dei ‘mass media’ e quindi della comunicazione di massa” (Lettere Luterane, p.84) e questa rovescia completamente il quadro della lotta culturale. Ormai anche quella che era una lotta progressista è “brutalmente superata e vanificata dalla decisione del potere consumistico (di ciò che Onofrio Romano chiama “depense privatizzata”) di concedere una vasta (quanto falsa) tolleranza” e, forse soprattutto, anche la “’realtà’ dei corpi innocenti” che i film espongono è stata ormai “violata, manomessa dal potere consumistico”. Anzi, Pasolini va oltre: “tale violenza sui corpi è diventato il dato più macroscopico della nuova epoca umana”[18].
Come dirà altrove: dare uniformemente obiettivi puramente quantitativi (di consumo come rappresentazione di vita buona), senza i mezzi per ottenerli, lasciandoli alla lotta per la vita individuale, apre lo spazio di una “falsa felicità”, che “rende superflua la vita”, mentre “umilia orrendamente” (Scritti Corsari, p 60) mettendo in evidenza una inferiorità sociale senza soluzione. Quel che si ricava “almeno per ora”, come dirà nella sua replica all’amico Moravia, “è pura degradazione”, una vera e propria “tragedia, che si manifesta come delusione, rabbia, taedium vitae, accidia e, infine, come rivolta idealistica, come rifiuto dello status quo” (SC. P.107).
Bisogna provare a capire: il centro della critica di Pasolini è l’unificazione che chiama totalitaria dell’Italia intorno alla società dei consumi; una società che distrugge la capacità dei ceti popolari di essere “se stessi” in modo “assoluto”, in quanto rispondenti ad una propria scala di valori, espressione della propria cultura materiale (“del pane”) e portato delle civilizzazioni precedenti. È dunque una critica conservatrice, ed anche a rischio di naturalismo. Ma la cultura precedente, che è distrutta dal potere dei consumi (ovvero dall’esposizione della sua semplice, pragmatica, forza e dalla potenza dei segni degli stessi oggetti prodotti dal nuovo capitalismo di massa, LL., 43-56) non riesce ad essere sostituita efficacemente da una nuova, per carenza della possibilità stessa di rispondere ai suoi standard. L’effetto è una sconvolgente crisi dei valori, una “falsa felicità” fondata sulla mera produzione e consumo. Una crisi dei valori che determina un’incapacità di parlare in nome di qualcosa alle masse ormai criminaloidi. Anche una crisi delle élite (siano esse socialiste, radicali o cattoliche avanzate) soffocate dal conformismo o paralizzate dalla disperazione determinata dall’assenza di alternative e dalla semplice paura. 

Si tratta, si vede bene, della descrizione della stessa crisi antropologica, prima che fiscale, delle ragioni di scambio, finanziaria o quel che si vuole, dell’assetto del benessere medionovecentesco.

Il nuovo modo di produzione, infatti, “non è solo produzione di merce, ma di umanità”. E, imponendosi, ha fatto “ruotare” la realtà, ha cambiato il senso della stessa povertà, e delle vite “povere”, che prima non lo erano mentre ora sono “misere” e disperate. Edonismo, falsa tolleranza, laicismo connesso al consumo, creano cioè una massa impietrita, da SS, per Pasolini.
  
Qui siamo negli stessi anni del “compromesso storico”, di cui non vedrà l’esito, ma Pasolini ne intravede egualmente la parabola. Che succede, infatti, se si accetta la centralità dei “beni superflui, della democratizzazione consumistica, della falsa tolleranza”, cioè dei fenomeni che caratterizzano il nuovo potere (cioè il nuovo modo di produzione)? Cioè se anche il PCI lo accetta? Per Pasolini, il 25 agosto 1975 a poco più di sessanta giorni dalla morte, la risposta è semplice e chiara: “I comunisti [allora] non sarebbero altro che i veri democristiani” (“Il Processo”, LL. p.136). Alla fine, se accettano questa continuità, potranno fare solo della morale e non della politica.
La previsione che fa a questa data, appunto sull’orlo della morte, è semplice e chiara: “è inevitabile che il vuoto di potere democristiano venga riempito dal potere comunista, e ciò al di là del ‘compromesso storico’. … e sorgerà un grande partito teologico: un tecnofascismo, finanziato, dunque, da due grandi potenze straniere, e in grado di trovare, nelle enormi masse ‘imponderabili’ di giovani che vivono in un mondo senza valori, una potente truppa psicologicamente neonazista” (LL. p.138).


Resta funzionale a questo, quindi, anche l’abrogazione di ogni “reale alterità”, persino tramite i diritti civili, evento per il quale il potere (consumista) si prepara ad “assumere di fatto gli intellettuali progressisti come i propri chierici” (Lettera al Congresso Radicale, ultimo scritto, LL p.214).

Si tratta di mettere a tema la distinzione tra “sviluppo” (economico) e “progresso” (culturale e civile). L’articolazione maggiore è nell’articolo “Sviluppo e Progresso”, inedito, SC,. P.175, in questo intervento alla festa del PCI Pasolini si limita a chiamare una drastica distinzione tra i due termini. Infatti, come dice, senza che allo sviluppo economico (pure necessario ma da estendere a chi non ne è interessato) si accompagni un corretto progresso culturale e civile, che introduca valori allineati ed idonei al popolo il rischio è enorme.


È, in effetti, lo stesso tema di Onofrio Romano.




[1] - Ovviamente Karl Polanyi, “La grande trasformazione”, 1944
[2] - Una “critica immanente” non muove dal riconoscimento di norme o si contrappone alla realtà con un ideale prefabbricato ma muove da norme sempre inerenti una situazione esistente; e che per essa sono costitutive e sono razionalmente fondate (questa razionalità è una delle cose da spiegare);
-      Non si chiede tanto se la comunità ha perso il contatto con i suoi ideali (secondo un modello ermeneutico), ma ricerca quei rovesciamenti per cui norme efficaci ed operative in quanto efficaci generano effetti contraddittori;
-      Ricerca quindi la contraddittorietà interna (come quella tra libertà e eguaglianza nella forma del contratto, data la condizione delle società reali in cui si esercita), e ne ricerca la condizione per cui essa è necessaria, non è casuale, e dunque le norme non possono essere di fatto realizzate in modo non contraddittorio;
-      Quindi essa è trasformativa, punta a creare qualcosa di nuovo, non a ripristinare uno stato;
-      Ma nel trasformare opera necessariamente sia sulla realtà sia sulle norme stesse, “la critica immanente, pertanto, è la critica di una prassi a partire dalle norme (con le quali questa non concorda), e sincronicamente la critica di queste stesse norme”.
Si tratta di avviare un processo di sviluppo e di apprendimento (che ha anche la forma di un problem solving) che opera su contraddizioni pratiche e non meramente logiche una “negazione determinata” (Hegel). È dunque, in certo senso, una “riformulazione pragmatista del modello hegeliano”, in un processo fallibile e orientato al “sempre meglio”.
[3] - Si tratta, in altre parole e secondo il taglio del libro, di una narrazione culturalista della nascita del capitalismo. L’altra grande narrazione egemone lo vorrebbe scaturito dalla “accumulazione primaria” determinata dal flusso di metalli preziosi e servi dalle americhe, poi rafforzata dal dominio dei commerci e, per questa via, l’estrazione di ricchezza dal resto del mondo, ed infine cementata dal predominio tecnologico che emerge tra XVIII e XIC secolo sulla base della “rivoluzione scientifica” (che, a sua volta, è strettamente connessa con lo sviluppo della borghesia e la crescita dei commerci di lunga percorrenza).
[4] - In particolare Max Weber, “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo”, del 1904, che inaugura una lunga tradizione (per la verità anticipata dalle intuizioni di Marx) poi ripresa da Benjamin nel frammento “Il capitalismo come religione”, del 1921, e riprende molti elementi da “Il capitalismo moderno”, di Werner Sombart, del 1902.
[5] - Si veda Jean-Claude Michéa, “l’impero del male minore
[6] - Si veda Kiran Patel, “Il new deal
[7] - James O’Connor, “La crisi fiscale dello Stato”, 1973. Lettura parziale qui.
[8] - Ronald Inglehart, “La società postmoderna”, 1996
[9] - Antony Giddens, “identità e società moderna”, 1991
[10] - Castoridias, Lasch, “La cultura dell’egoismo”, 1986.
[11] - Naturalmente si deve intendere sui termini, è vero che ci sono differenze rilevanti tra il neo-liberismo e l'ordoliberismo. Le formule che scaturiscono in diversi ambienti culturali ed orientamenti politici dalla crisi del liberismo originario, nei primi anni del novecento, e fanno parte di una vasta ricerca di un "nuovo liberalismo" -Keynes- o di un "neoliberismo". Ma mentre il primo si propone di limitare il mercato attraverso un’azione statale compensativa, che salvi di questo l’essenziale, ovvero la libertà di azione degli individui; il secondo, al contrario, intende usare una gabbia normativa sostenuta dalla forza dello stato per purificare il mercato e far affermare in esso la forma pura della concorrenza. La mossa eleva la concorrenza a principio centrale della vita sia sociale sia individuale, ma lo fa riconoscendo che l’ordine di mercato non è affatto un ordine di natura: è il prodotto di una costruzione politica intrinsecamente storica. Questo movimento che porta alla messa a punto della proposta neoliberale parte per gli autori dal “Convegno Lippman”, dal 26 al 30 agosto 1938, che precede di qualche anno la fondazione della Società Mont Pelerin (1947). Sono invitati Hayek, von Mises, Rueff, Aron, Ropke, Von Rustow, Rougier. Nel discorso inaugurale Rougier ricorda che il liberalismo non si identifica affatto con il laissez-faire, ma è un ordine legale che richiede l’intervento dello stato. Malgrado l’opposizione di Von Mises (che sarà in minoranza anche nella successiva Società Mont Pelerin), la linea centrale condivide questa impostazione, in favore di un “interventismo liberale”. Lo scontro si determina tra ortodossi (Von Mises e Hayek, Robbins e Rueff) e i riformatori (Ropke e von Rustow, che insistono sul fondamento sociale del mercato, ma anche Lippman e Rougier) per i quali ‘essere liberali significa essere progressisti’ adeguando continuamente l’ordine sociale e legale alle scoperte, ai cambiamenti strutturali, senza pianificare interamente il traffico, ma creando un “codice della strada”. Insomma, come scrive Lippman, “gli ‘ultimi liberali’ non hanno capito che ‘ben lungo dall’essere astensionista, l’economia liberista presuppone un ordine giuridico attivo e progressista, teso al continuo adattamento dell’uomo a condizioni sempre mutevoli. Serve un ‘interventismo liberista’, un ‘liberalismo costruttivo’ ed un dirigismo statale che certo si deve differenziare sostanzialmente rispetto alla pianificazione ed al collettivismo” (Dardot e Laval "Il nuovo spirito del mondo", p.182). Un dirigismo “che implica la protezione della libertà, non il suo asservimento; deve garantire che la conquista di benefici sia il frutto di una vittoria dei più adatti all’interno di una competizione leale, e non il privilegio dei più garantiti o di coloro meglio collocati socialmente”. Questo liberismo rinnovato è, insomma, il regno della legge, e contemporaneamente il governo delle élite, uno stato forte organizzato da competenti la cui qualità sia l’esatto opposto della “mentalità magica e impaziente delle masse” (ivi. p.196). Ne deriva, ovviamente, che la democrazia è affetta da una debolezza congenita determinata dalla eccessiva influenza dei popoli sul governo, attraverso l’opinione pubblica ed il suffragio universale. L’eterno bersaglio del neoliberalismo, per la stretta logica interna che lo contraddistingue, è dunque il potere del popolo, che va limitato e ricondotto alla guida degli esperti. Ma nel neoliberalismo, e sin dai suoi esordi, è presente anche un’altra corrente, non perfettamente coincidente: l’ordoliberalismo tedesco. L’ordine è concepito come dovere politico, nato come movimento conservatore nei circoli antinazisti, prevede “una teoria della trasformazione sociale che fa appello alla responsabilità degli uomini” ed il cui problema fondamentale è come riformare l’ordine sociale dopo lo stato totalitario. Certo l’ordine liberale muove dalla creazione di uno stato di diritto che è all’origine stessa della forma capitalista, l’economico non è per loro un insieme di processi naturali ai quali in qualche modo si aggiunge la regolazione ed il diritto, in accordo o in ritardo. L’ordoliberalismo respinge dunque ogni forma di riduzione del giuridico a sovrastruttura, e ogni concezione unitaria del ‘capitalismo’ fondata su una autonomia dell’economico. Ne sono espressione autori importanti come Ropke, che in “Civitas umana” rifiuta frontalmente il laissez-faire e identifica l’economia di mercato “vitale”, come un’opera d’arte, un prodotto della civiltà particolarmente difficile e che presuppone molto. L’ordoliberalismo è, a sua volta, diviso in due gruppi principali: gli economisti e giuristi della Scuola di Friburgo, come Euckel e Bohm, i sociologi Alfred Muller-Armack, Wilhelm Ropke e Alexander von Rustow. La distinzione è tra la struttura giuridica e quella sociale come focus, i primi sono concentrati sulla crescita economica, dalla quale deriverebbero i progressi sociali, mentre i secondi sono preoccupati degli effetti di disintegrazione sociale propri dei meccanismi di mercato e allo Stato affidano anche il compito di garantire e strutturare un soziale umwelt, un ‘ambiente sociale’, che reintegri gli individui nella società. Alla wirtschaftspolitik, ‘politica economica’, si contrappone la gesellschaftspolitick, ‘politica della società’.
[12] - Si veda anche Jurgen Habermas, “Verbalizzare il sacro”,
[13] - Si veda “La parte maledetta”, 1972; “La sovranità”, 1990;
[14] - Tema che riprende da una lettura del saggio di Marcel Mauss “Saggio sul dono
[15] - In effetti la proposta di Hyman Mynski potrebbe essere interpretata in questo modo nel gergo economista, si veda “Keynes e l’instabilità del capitalismo”, 1975.
[16] - Franco Cassano, “L’umiltà del male”, 2011. Nella Leggenda del Grande Inquisitore nel Fratelli Karamazov. Ivan racconta al fratello Alioscia una storia: di fronte alla violenza esercitata dalla Inquisizione nella Siviglia del XVI secolo, Cristo torna sulla terra e viene riconosciuto dalla folla che si accalca intorno a lui. Quindi non si nega e compie diversi miracoli; a quel punto passa l’Inquisitore che lo riconosce e ordina di arrestarlo. La folla non lo difende e Cristo viene tradotto nella galera dell’Inquisizione. L’anziano prelato lo accompagna e gli rivolge un lungo monologo nel quale annuncia che l’indomani lo brucerà sul rogo. Rimprovera a Cristo di aver insegnato la libertà, un compito del tutto superiore alle forze degli uomini. Una concezione aristocratica, raggiungibile solo da pochissimi eletti e non dalla grande massa dei deboli. La concezione aristocratica ed altera della libertà è –per l’Inquisitore- priva di amore, priva di senso di realtà verso gli uomini per come sono di fatto; è invece piena di orgoglio. Se non è adeguato a questi standard, l’uomo comune ricava infatti da questo ideale solo “incertezza, angoscia e smarrimento”. L’uomo vuole sicurezza e certezze, vuole mistero ed autorità.
Per l’inquisitore gli uomini non potranno mai essere liberi, “sono deboli, pieni di vizi, inconsistenti e sediziosi”. Gli uomini sono “degli schiavi”.
Nella visione cinica, ma realista, dell’inquisitore gli uomini, la loro grande maggioranza, hanno cioè solo bisogno di protezione e sottomissione; questa consapevolezza isola i migliori, la loro presunzione ed il loro narcisismo. Il motivo di tale inefficacia è proprio il giudizio morale altero con il quale condanno i più.
[17] - nell’articolo del 1° marzo 1975 <Non aver paura di avere un cuore>, Pasolini replica a Calvino nell'ambito dell'aspra polemica sull'aborto sostenendo che mentre da giovani, opponendosi alla “merda che i clerico-fascisti avevano consacrato”, era “giusto essere laici, illuministi, progressisti a qualunque patto”, ora l'obbligo di “rimettere sempre in discussione” anche la propria funzione ed i propri presupposti (obbligo di un intellettuale) implica comprendere che “il nuovo potere consumistico e permissivo si è valso proprio delle nostre conquiste mentali di laici, di illuministi, di razionalisti, per costruire la propria impalcatura di falso laicismo, di falso illuminismo, di falsa razionalità [che dunque va rimessa in questione per rispondere al dovere dell'essere realmente intellettuali]. Si è valso delle nostre sconsacrazioni per liberarsi di un passato che, con tutte le sue atroci e idiote consacrazioni, non gli serviva più. In compenso però tale nuovo potere ha portato al limite massimo la sua unica possibile sacralità: la sacralità del consumo come rito, e, naturalmente, della merce come feticcio. Nulla più osta a tutto questo”. Come prosegue (dopo aver indicato la televisione come focus del potere di attrazione irresistibile, perché meramente esposto e non declinato della “nuova qualità di vita che il potere promette”, e dunque de “la sacralità, non nominata, della merce e del suo consumo”) “in questo contesto, i nostri vecchi argomenti di laici, illuministi, razionalisti, non sono solo spuntati ed inutili, ma, anzi, fanno il gioco del potere”. Per questo “Al contrario di Calvino, io dunque penso che - senza venire meno alla nostra tradizione mentale umanistica e razionalistica - non bisogna aver più paura - come giustamente un tempo - di non screditare abbastanza il sacro o di avere un cuore”.
[18]. Il crollo del presente fa “della vita un mucchio di insignificanti ed ironiche rovine” (LL, p.86), anche i vecchi <doveri> della “lotta per il progresso, il miglioramento, la liberalizzazione, la tolleranza” vengono falsificati dall’interno. Divengono funzionali al nuovo potere che si manifesta attraverso l’espansione dei consumi e delle libertà ad essi connesse.

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