Onofrio
Romano è un sociologo che insegna all’università di Bari ed ha scritto questo
impegnativo libro
nel 2019. Si tratta di un’ampia ricostruzione della logica della regolazione
sociale lungo la storia del capitalismo interpretata con un modello binario
di fondo: malgrado tutte le differenze e le specificità, si sono succeduti nel
tempo due canoni: quello “orizzontale” e quello “verticale”. Il primo
caratterizza profondamente la modernità capitalista, ma a lungo termine quando
si presenta in forma pura risulta ogni volta insostenibile per la
società, dissolta dal suo corrosivo acido. Il secondo ha dominato nella fase
precapitalista, ma dopo il ‘disincanto’ del mondo seguito al processo di
secolarizzazione e modernizzazione non riesce ad esse sopportato a lungo, entrando
in contrasto con il desiderio di libertà individuale e l’autocomprensione
dell’occidente.
Lo
scontro tra i due ‘fratelli’ viene letto nel libro prevalentemente con gli
strumenti della sociologia e con ampie ricostruzioni dei principali autori
dell’ultimo secolo, a partire da quello in qualche modo centrale e dal quale il
modello esplicativo viene ripreso: Karl Polanyi[1].
Al
termine del lungo percorso emergerà una proposta che, in qualche modo, è
perfettamente complementare con quella del libro di Carlo Formenti “Il
socialismo è morto. Viva il socialismo!” che
abbiamo appena finito di leggere: mentre quello cercava di identificare le
condizioni oggi possibili di una “transizione alla transizione” verso il
socialismo, Romano si impegna in un compito altrettanto arduo, fornire un
abbozzo del possibile socialismo realizzato. Ovvero immaginare in che modo la
giostra tra “orizzontalismo” e “verticalismo” può essere interrotta. Per dirla
meglio: cosa bisogna mettere a tema per interromperla.
Per
arrivarvi Romano disegna un percorso di esplorazione che potrebbe ricordare la
“critica immanente” di Honneth e Jaeggi[2]: nella Prima Parte,
riassume la storia della regolazione sociale nella modernità, poi, nella Seconda
Parte ricostruisce l’evoluzione della sociologia in relazione alle fasi
individuate e, infine, nella Terza Parte prova a tratteggiare la
soluzione, ovvero la “libertà verticale”.
La
Prima Parte è a sua volta divisa in tre fasi storiche: il “canone
orizzontale”, nel periodo di ascesa del mercato auto-regolantesi descritto da
Polanyi, fino al crollo del golden standard e la disgregazione che portò alla
guerra mondiale; il “canone verticale” del novecento dal New Deal alla crisi
degli anni settanta; il ritorno al “neo-orizzontalismo” a partire dagli anni
ottanta (si potrebbe dire, con linguaggio più tradizionale, “liberismo”,
“welfarismo”, “neo-liberismo”).
La
Seconda Parte riaccompagna queste tre fasi guardando però ai paradigmi
interpretativi “rovesciati” (ovvero rispettivamente “verticalisti”, quando
impera l’”orizzontalismo” e viceversa quando si afferma il “verticalismo”). Si
ha quindi una sociologia classica che reagisce all’anomia conseguente al
dominio orizzontalista, che rende scarsa la coesione sociale, sviluppando una
sociologia critica di ispirazione “verticalista”, e una di ispirazione “orizzontalista”,
invece, nella fase in cui sembra imperare il “verticalismo”, ed appare scarsa l’individualizzazione.
Nella
Terza Parte, per introdurre la proposta della “libertà verticale”
Romano propone alcune interpretazioni delle posizioni dei principali sociologi
contemporanei: dal “pensiero rispecchiante”, alla “nostalgia afasica” fino alle
“alternative conformiste”. Si tratta sempre di varie forme di travestimento di
soluzioni “orizzontaliste”. Infine emerge il “ballo verticale”, ovvero la
soluzione possibile; l’unica, grazie ad una sorta di “verticalismo al quadrato”
in grado di stabilizzare il gioco delle coppie che ha interessato gli ultimi
due secoli.
Si
tratta di una proposta coraggiosa e radicale, che sembrerà eccessiva a molti,
ma che ha il pregio di essere perfettamente coerente e logica: in sostanza oltre
ad essere un “verticalismo al quadrato” è anche un “comunismo
rovesciato”.
Per
la fattibilità ci dovremo mettere d’accordo tra di noi.
Varrà
la pena di cominciare.
In
tutto l’ottocento il sistema economico in espansione si organizza intorno al
“perno centrale” del mercato auto-regolantesi (che, ovviamente, è sempre stato
un’astrazione, dato che il “mercato” è un prodotto del potere di regolazione).
Si tratta, come insiste a dire Karl Polanyi, di un elemento del tutto inedito
nella storia dell’umanità, infatti: “un regime ‘orizzontalista’ emerge.
L’ordine sociale non emana e non è disegnato ex-ante da un’entità eletta, ma
appare come risultato spontaneo dell’interazione tra le singolarità liberate
dalle vecchie comunità”. Secondo questa visione la cosa si riassume così:
durante il XVIII secolo si “disincastrano” gli elementi fusi negli aggregati
comunitari medioevali e in questo modo, da questo grande disgelo nasce il
capitalismo occidentale moderno[3].
Questa
lettura viene impostata richiamando la lezione di Max Weber[4], che individua nel
capitalismo i necessari ingredienti della: “razionalità” (diretta allo scopo);
la libertà di mercato; lo sviluppo di tecnologie razionali e l’amministrazione.
Base di tutto è la disponibilità di “lavoro formalmente libero”, ma
sostanzialmente obbligato (p.16).
Ci
sono numerose altre interpretazioni dell’insorgere del capitalismo, vengono
ricordati Riesman, il ruolo dei comuni medioevali, con il loro corporativismo,
la scoperta dell’America e la dissoluzione dell’ordine medioevale. Quindi la
vicenda, sulla quale insiste Polanyi, delle “recinzioni” inglesi, rallentate e
contrastate dai Tudor, e le innovazioni della rivoluzione francese. In generale
una emancipazione del soggetto dall’oggetto che fonda quella libertà di
movimento la quale incarna il paradigma centrale dell’orizzontalismo. Si tratta
di un nuovo statuto dell’oggettivo, che fonda ora sul “valore d’uso” il nuovo
criterio di senso.
Avviene
comunque un rovesciamento tra i rapporti sociali e l’economia. Mentre nella
società tradizione quella era incorporata in questo, ora avviene il contrario:
i rapporti sociali si definiscono a partire dall’economico. Nasce una “società
economica”, gli attori sociali portano in primo piano la logica dell’interesse
personale e la razionalità allo scopo che lo contraddistingue (rispetto alle
forme di razionalità dirette al giusto o all’autoespressione di una identità
‘ben riuscita’). Gli esseri umani, insomma, ubbidivano prima “a un qualche
principio di ispirazione verticale. Una verticalità dispiegata con gradazione
diverse e all’interno di circoli sociali dalle dimensioni molto variabili
(dalla famiglia fino all’impero), ma sempre ispirata ai principi di
‘simmetria’, di ‘centralità’, di ‘autarchia’” (p.43).
Il
liberalismo, invece, che è qualcosa di molto simile ad una fede, accetta ciò
che c’è. In altre parole è “l’impero del male minore”[5].
Seguendo
la narrazione di Polanyi, tutto questo inizia a cessare quando la società,
sfidata dalla totale mercatizzazione e precarizzazione in particolare di
“lavoro”, “terra” e “denaro”, si difende e nascono le legislazioni sociali. Allora
tutto implode.
La
prima guerra mondiale, e di poco sfalsato, il crollo del ’29, determinano
l’avvio del “novecento verticale” il quale, tuttavia, è in particolare reso
inevitabile dal ritiro degli Usa dalla “base aurea” (evento che, abbastanza a
sorpresa, avviene nel 1933 come primo atto della nuova amministrazione
Roosevelt[6]). Si apre una fase
complessa e dolorosa, con numerose risposte autoritarie e varie forme di
dittatura, ma si instaurano ovunque “regimi verticalisti” caratterizzati da
notevoli continuità regolatrici e discontinuità politiche. Si va dalla
soluzione sovietica, a quella delle destre continentali, dal New Deal alle
varie forme di “capitalismo societario”, con la sua ricerca sistematica di uno
spazio protetto alle grandi imprese monopoliste che hanno preso il centro del
sistema capitalista.
Nell’insieme
è una fondamentale mediazione tra la macchina capitalista e la società,
realizzata dallo Stato, e capace di creare una sorta di “liberalismo
embedded” nel quale il primato torna all’ordine sociale. Un liberalismo che
si sviluppa, sia chiaro, all’ombra del dualismo con il Patto di Varsavia.
Sono
create delle forti cornici esterne (in particolare nel secondo dopoguerra, con
l’Accordo di Bretton Woods) che rendono anche possibili autonomie
(relativamente) sovrane.
Tutto
ciò dà straordinari risultati in termini di crescita e di rafforzamento della
cittadinanza democratica. Ma a partire dai primi anni settanta avviene anche un
progressivo “sgretolamento” dell’edificio “verticale”. Emergono, per Onofrio
Romano due limiti seri: il primo ha a che fare con il funzionamento e lo
sviluppo del sistema, ed è dunque interno; l’altro proviene dall’energia che è
sprigionata dalle periferie. Si tratta dell’elefantiasi della macchina
verticalista, che si vedeva già all’esordio con il New Deal e della pressione
indotta dalle economie in crescita competitiva (Giappone, Germania, Italia) e
in via di decolonizzazione (paesi arabi, estremo oriente). La crisi scatenante
ha un punto di precipitazione, come fu per quella di segno inverso, nello
sganciamento dei limiti del sistema finanziario. Anche in questo caso si esce
da un accordo di cambio (quella volta dal gold standard, in questo caso dalla
convertibilità del dollaro), ma nelle mutate condizioni si produce un effetto
diverso.
Agiscono
comunque sotto la pelle delle tensioni profonde, quella che chiama “la
saturazione dei bisogni”, ovvero la riduzione dei margini di profitto per
effetto della riduzione relativa delle occasioni di investimento profittevole e
la pressione distributiva imposta dalle organizzazioni del lavoro. Gli anni
settanta sono il canto del cigno delle mobilitazioni operaie, il tramonto
scambiato per albeggiare.
L’insieme
di questi fattori, e la spinta inflazionistica potente importata dal costo
delle materie prime (che sono in robusta crescita per un insieme complesso di
fattori, tra i quali la crescente massa finanziaria e speculativa, la
decolonizzazione, l’autodifesa degli Usa contro le economie industriali
emergenti, molto più dipendenti dai prodotti energetici), inducono una crisi
sistemica che passa sotto il nome di “stagflazione”.
Ma
c’è altro. Giustamente, Onofrio Romano ricorda l’influenza della
contestazione studentesca, che abbiamo entrambi vissuto: “una sensazione di
soffocamento e disseccamento nella clausura dorata dello Stato del benessere
attanaglia il corpo sociale. Questo nodo costituisce il comune terreno di
critica su cui si trovano i neoliberali e i radicali di sinistra” (p.75).
Insomma,
il Welfare mostra crepe profonde e, inoltre, provoca effetti depressivi
sull’attivazione sociale; si è come sovraccaricato.
Si
aggiunge la problematica messa in evidenza da O’Connor della “crisi fiscale
dello Stato”[7],
pur se la sensazione di assoluta assenza di vie di uscita che promana dalla
lettura del libro risente dell’implicita mancata presa di consapevolezza degli
spazi di espansione monetaria aperti dal delinking del dollaro con l’oro del
1971.
E
poi, terzo, l’insorgere del “postmaterialismo”, come messo in evidenza
da autori come Inglehart[8] e Giddens[9].
Quindi
la convergenza di una parte del pensiero conservatore con le tesi avanzate in
quegli anni dai rapporti della Trilaterale.
Si
tratta, insomma, di una drammatica crisi socio-antropologica che viene
diagnosticata da autori come Daniel Bell e Christopher Lasch, o Cornelius Castoridias[10], ed innumerevoli altri.
Il
regime neo-orizzontalista, che prende esordio con l’austerità nei paesi colpiti
dall’improvviso deficit delle partite correnti, pur nell’ultima fiammata del
consenso ai partiti welfaristi sulla difensiva, produce allora un completo
rovesciamento. Si passa ad una sorta di capitalismo tecno-nichilista che
propone la guida automatica dell’economico, esautorando la volontà politica (è
la logica del “vincolo esterno”). In effetti “agli standard tecnici si
affiancano i sistemi integrati di regole e procedure transnazionali e
transculturali, che danno ordine alle cosiddette ‘sfere istituzionali
funzionaliste’ (mercati finanziari, sistemi sanitari, sistemi di polizia,
sistemi legislativi, sport, ricerca, …)”. Prende piede la metafora del pubblico
come “controllore del traffico”.
Naturalmente
ci sono alcune differenze[11] tra la versione
anglosassone, neoliberale e quella continentale, ordoliberale, ma all’altezza
dalla quale Romano guarda il fenomeno sono poco rilevanti.
Prescindendo
da queste, fanno parte di questa impostazione, nella quale lo Stato è gregario,
l’enfasi sul “terzo settore” e sul welfare locale e comunitario di grande
tradizione cattolica. Ed infine, l’intero progetto della Unione Europea, emersa
da Maastricht.
Questo
modello consegue alcuni successi (sui quali sarei meno enfatico dell’autore) ed
avvia alcuni processi di modernizzazione, in particolare tecnologici. Ma
come una farfalla ha in effetti vita breve.
Subentra,
infatti, una repentina “crisi da orizzontalismo”, analoga a quella
mostratasi nel 1929. Il modello ha infatti prodotto, e lasciato accumulare come
la cenere sotto un camino, una proliferazione della finanza speculativa ed
altamente inefficiente in termini di sistema, una crescita alla lunga
insostenibile di ineguaglianze che scavano sotto i bastioni del consenso e
producono una enorme quantità di disattivazione esistenziale e rabbia.
L’assottigliamento, sempre più visibile, della classe media.
Si
tratta, in altre parole, alla prova dei fatti di un sistema insostenibile nel
lungo periodo e che, infatti, ad un certo punto si manifesta come tale.
Nella
Seconda Parte, viene enunciata una tesi di ordine generale: mentre la
filosofia di un’epoca viene diagnosticata al tramonto, la sua descrizione
sociologica apparirebbe all’alba. Nella sociologia della conoscenza il pensiero
ha sempre intravisto in anticipo le falle di un sistema di regolazione,
sforzandosi quindi di tratteggiare un sistema alternativo.
Alcuni
esempi sono nel lavoro di Durkheim e Mauss, i quali già nel 1903 diagnosticano
l’insostenibile antropologia liberale. Purtoppo questo meccanismo virtuoso
viene inceppato dalla rinuncia alle grandi diagnosi, in favore della
concentrazione sulle microanalisi e sui frammenti, delle sociologie secondo
novecentesche. Del resto “per il paradigma orizzontalista l’immanenza è la
dimensione privilegiata. Per comprendere la società occorre fare riferimento innanzi
tutto agli individui e alle loro strategie relazionali. In generale, si ritiene
possibile rintracciare il vero significato di un organismo sociale guardando i
singoli attori e le reti che essi intrecciano. L’ordine non promana da cabine
di regia centrali, ma è il risultato ex post della dinamica delle interazioni
tra attori sociali.” (p.124)
Ogni
ordine dall’esterno è giudicato immorale ed abusivo. L’orizzontalismo vede
nell’ordine, in sé, un elemento autoritario, coercitivo, innaturale.
L’alternativa
è secca: autoritarismo o libertà.
Il
punto di vista “verticalista” è opposto: “il sistema sociale non è la somma
delle sue parti, ma un’entità sui generis che funziona come un organismo,
secondo un principio di unità che lo trascende e che occorre sempre
decodificare”, dunque ratificare il risultato delle interazioni spontanee (se
pure ve ne sono) significherebbe solo ratificare l’ingiustizia, la legge del
più forte. La libertà dell’orizzontalismo è sospettata di astrazione e di falsa
coscienza.
Nella
descrizione che segue del “verticalismo sociologico”, dopo la
presentazione di una radicale quanto debole tesi di Nisbet, l’autore mostra
come i padri fondatori della sociologia (in particolare Durkheim) compiano tre
mosse fondamentali:
1- Smascherano
l’orizzontalismo decostruendo la credenza del carattere originario dell’attore
sociale e rivelandone, al contrario, la natura verticalista,
2- Denunciano
gli effetti perversi di questo,
3- Elaborano
terapie verticaliste.
Il
primo effetto si ottiene attaccando il presupposto di naturalità e mostrando il
carattere derivato dell’individuo. Una mossa simile la fa già Hegel,
l’individuo si mostra essere frutto di eventi storici e costruito a ridosso
“dell’altro” (è la natura “intersoggettiva” del soggetto). Altri autori che
compiono questo percorso sono Karl Marx (che mostra il carattere alienante
della regolazione orizzontale e la sua logica strutturalmente fondata sulla
sfruttamento) e Max Weber, e poi Durkheim, che in particolare si concentra sul
“fatto sociale” e la religione (il sacro è come una cassaforte “dove vengono
custodite le norme fondamentali che tengono insieme la società”, p.166)[12]. Una menzione viene fatta
anche a Simmel.
La
cura “verticale” comincia ad essere messa a punto da Auguste Comte, che versa
il suo vino positivista in botti medioevali. Ci sarebbe anche Marx, ma per
Romano:
“l’atteggiamento di
Marx, invece, è molto più incerto. Come noto, Marx si concentra principalmente
sull’analisi del capitalismo, ma non sviluppò mai in profondità la proposta di
una società comunista. L’impressione è che Marx non si sia mai affrancato
dall’utopia orizzontalista. Di fatto, egli sogna un orizzontalismo senza
mercato e senza capitalismo. Ciò che è chiaro è che egli intende il comunismo
come un ritorno alla natura ‘sociale’ dell’uomo, al riconoscimento della
reciproca dipendenza tra soggetto e comunità societaria. Egli tenta di tenere
assieme il massimo sviluppo del potenziale individuale con un’unità collettiva
‘eletta’”, p.170.
Invece
“l’orizzontalismo sociologico” muove nel novecento dove meno si aspetta,
dal lavoro di Parsons, il quale assume e riconnette in una potente cornice
teorica le principali acquisizioni multidisciplinari e conia lo
“struttural-funzionalismo”. Le sue teoria, però, “evocano, in fin dei conti,
una nuova forma di automatismo dell’ordine sociale, che ancora una volta tiene
fuori la deliberazione umana. Anch’essi alludono, in definitiva, a una sorta di
‘naturalizzazione’ che sistema sociale, speculare alla classica naturalizzazione
del mercato operato dal vecchio pensiero liberale e che provocò la reazione dei
padri della sociologia” (p.178).
Segue
anche una nuova epistemologia orizzontalista, i cui esponenti sono Albert
Eistein, con la sua “teoria della relatività”, il “principio di indeterminazione”
di Heisenberg, e soprattutto e con notevole intenzionalità politica Karl Popper
ed il suo “falsificazionalismo”, diretto espressamente contro il marxismo. Un
esempio diretto è il libro “La società aperta e i suoi nemici”.
Si
tratta interamente di argomenti che transitano nel post-modernismo.
Guida
l’opposizione allo struttural funzionalismo la proposta di una “funzione senza
struttura” di Merton e poi la vera e propria rivolta degli anni sessanta contro
la monotonia dell’edificio verticale e la soffocante presenza dello Stato.
Partecipano
a questo movimento Wright Mills, Touraine e la Scuola di Francoforte, in
particolare Adorno (di cui occorre ascoltare il dibattito con Gehlen, ricordato
da Cassano). E quindi un autore totalmente orizzontalista, per l’autore, come
Michel Foucault (e Jacques Derrida).
Nella
“Parte Terza”, viene denunciato il ritardo con il quale la critica del
neo-orizzontalismo si fa attendere sulla scena. Non è, infatti, emerso ancora
un organico pensiero contrario mentre il modello è repentinamente entrato in
crisi. In effetti in questo momento tutte le élite intellettuali sono connesse
con l’orizzontalismo anche quando pensano di criticare l’ordine esistente.
Ci
sono alcuni diversi atteggiamenti di questa critica mimetica. Romano ne
individua alcuni:
1- Il
“pensiero rispecchiante”
Si
tratta di una sociologia che resta entro la logica orizzontalista e non tenta
più quello sguardo sulla totalità i cui ultimi esponenti furono Antony Giddens
e Jurgen Habermas che tentano comunque di disegnare due grandi sistemi teorici
(la cui versione più raffinata ed al tempo stesso astratta è del tedesco).
Altra versione sistemica è quella di Niklas Luhman e Edgard Morin, il pensiero
della complessità che però, per paradosso, finisce per svuotare la fonte
dell’autonomia (p.217).
2- La
seconda fonte è quella della “nostalgia afasica”
Si
tratta del lavoro di quei sociologi che sviluppano una critica di alcuni
aspetti del modello orizzontalista, ma senza proporre una alternativa e senza
rivendicare il verticalismo. I due campioni sono Zygmund Bauman e Ulrich Beck.
3- Quindi
ci sono le “alternative conformiste”.
Romano
propone con questa formula di classificare quei pensieri che si oppongono,
anche con vigore, al modo “orizzontalista”, ma dalla denuncia delle conseguenze
nefaste ripropongono come soluzioni ancora l’“orizzontalismo”. Con le sue
parole: “la critica del regime neoliberale viene condotta da una prospettiva
orizzontalista e le ricette per uscire dalla crisi, pur da punti di vista
differenti e spesso reciprocamente oppositivi, vengono ottenute dallo stesso
filone di pensiero che costituisce la base ispiratrice del modello regolativo
entrato in disgrazia” (p.231).
Fanno
parte di questa sorta di “terza via”:
a. Il
“dirittismo”
Si
tratta di reagire alla anomia indotta dall’orizzontalismo ancora potenziando
l’individuo e la sua capacità di agire come singolo. Ci sono esponenti come la
Nussbaum e Amartya Sen e poi giuristi come Stefano Rodotà. Concentrandosi su
quest’ultimo, Romano evidenzia come per il nostro tutto il bene venga sempre
dal basso, e tutto il male sia sempre nelle istituzioni, nel potere, nella
sovranità. Per Rodotà, “la vita degna di essere vissuta è quella che la persona
autonomamente costruisce come tale”. Ne deriva una sorta di marcia universale,
che punta all’annichilimento della politica e all’individuazione dei beni
comuni come “l’opposto della sovranità”.
Tutto
si muove sul vero terreno comune tra destra e sinistra: l’intolleranza per il
progetto collettivo.
b. Il
“terzo paradigma”, il convivialismo
Il
progetto del Mauss e di Caillè è diretto espressamente contro l’utilitarismo e
compie allusioni ambigue ad una logica verticale, ma alla fine arriva ad una
sorta di iper-orizzontalità, come è mostrato dai cavalli di battaglia del
‘reddito di cittadinanza’ e del ‘sorteggio’ (p.246), oltre che dalla
esaltazione della “cittadinanza attiva” che viene interpretata come
automaticamente dalla parte dell’interesse generale, per il solo fatto di
essersi individualmente attivata senza ordini ed esercizio di potere.
c. Il
“bene comune”
Questa
“parola ameba” viene messa al centro da autori come Negri e Dardot e Laval,
insieme al “non concetto” di “comune”. In questo caso lo slogan è chiarissimo:
né mercato, né Stato ma ‘comunità’. Per Romano “il successo della nozione si
deve in buona parte al suo elevato grado di ambiguità, tipico di tutte le
alternative conformiste” (p.253). C’è di più: “da un lato l’ideologia dei
commons si scaglia contro gli effetti del regime orizzontalista ed esprime una
chiara aspirazione alla verticalità, dall’altro rivela una forte subordinazione
all’egemonia dell’orizzontalismo”.
Inoltre
capita che gli studiosi dei beni comuni, immersi nel razionalismo occidentale,
restino incapaci di accettare la complessità dei quadri culturali altrui e concepiscano
il male sempre nelle istituzioni.
d. La
decrescita
La
società della decrescita è abitata da un paradosso: da un lato denuncia gli
effetti dell’orizzontalismo dall’altro promuove un’alternativa che è
radicalmente orizzontalista. Nella quale la salvezza e l’azione sono
rigorosamente individuali e spontanei. Una liberazione che ancora una volta
cerca di fare a meno di qualsiasi sovrastruttura, prescindendo da quelle
istituzionali, e denunciando la natura religiosa delle altre.
Alla
fine ci sono diverse ragioni per le quali il paradigma è in ritardo, alcune
sono che la crisi è giunta troppo presto (per Khun il rovesciamento di
paradigma avviene anche quando c’è un cambio generazionale), e lo stile di vita
orizzontalista è ancora egemonico, mentre il trauma del verticalismo è ancora
vivo (insieme ad alcuni di quelli che lo vissero negli anni sessanta e settanta).
Ma
è pure vero che in effetti il regime verticalista del novecento perseguiva
finalità orizzontaliste di liberazione individuale del singolo, e che l’attuale
neo-orizzontalismo è verticalista per come utilizza i poteri istituzionali. Si tratta
di un paradosso.
Per
portare avanti l’analisi e proporre una via di uscita Onofrio Romano propone allora
un’ultimo autore: la lettura di Bataille[13] dell’energia e della
dissipazione[14].
Secondo lo scrittore francese quando si verifica un sovrappiù di energia
vitale, ovvero quando abbiamo superato i problemi di imminente rilevanza per
sopravvivere ed abbiamo ancora un surplus significativo da attivare, che ci chiama
ad agire, allora siamo di fronte, per la prima volta, al problema della
“libertà”. In altre parole, cessiamo di essere servi e diventiamo uomini. Cosa
succede: che “l’energia in sovrappiù ci chiama all’agire, in un contesto in cui
l’unica certezza è il ‘nulla’. Per questa ragione tutte le società umane hanno
elaborato pratiche e rituali di depense, di dissipazione deliberata
dell’energia eccedente”. Riti, feste, opere.
La
modernità orizzontale invece ha rimosso rutti questi rituali collettivi di
distruzione dell’eccedente. Li ha razionalizzati, e quindi “tende a esasperare
il momento servile originario, vale a dire la tensione alla crescita economica
illimitata” (p.282). Ma in questo modo tende anche a rimuovere il ‘senso’
dell’agire. In effetti ciò che è successo è che quando si è passato al ‘verticale’,
le vite sono state messe in sicurezza, ma una volta trovatesi così nel campo dell’umano
si è posta la questione della sovranità: che fare di questa energia? In
assenza dei rituali che lo risolvevano ex ante entro strutture di ruoli il
singolo si è trovato davanti al ‘nulla’ e si è arrivati quindi alla
paralisi sociale. In effetti “tutti sono entrati in sciopero”, questo è stato
all’origine della crisi del welfare state.
In
questo senso il problema è nato dal fatto che le istituzioni verticali in
effetti rispondevano, senza comprenderlo, ad una logica orizzontale:
“permettere alle persone di costruire la propria autonomia e sostenerle nel
conseguimento di obiettivi la loro eletti. L’impresa però ha solo scoperchiato
il vuoto” (p.286). Accade in questo senso una cosa rilevante: il fallimento
delle istituzioni verticaliste occulta il fallimento della visione
orizzontalista.
Negli
anni ottanta si è allora puntato a tornare al “servile”, all’emergenza esistenziale,
alla “precarizzazione mobilitante”, per superare lo “sciopero”, invece di
allestire un “tutto” comunitario che era impensabile nei termini del paradigma
orizzontalista[15].
La
precarizzazione è dunque un’auto-difesa antropologica, ed attiva anche una sorta
di ‘depense’ privatizzata (ovvero il ‘consumismo’ compulsivo allargato a tutti
i ceti e le condizioni, p. 294).
Ma
la “libertà verticale” emerge a questo punto, dal dovere di dare una
chance alla sovranità dell’uomo, sfuggendo al “servile”. Bisogna, insomma,
cercare di sfuggire allo spazio stretto tra l’urgenza della precarizzazione,
che riduce l’uomo alla condizione di una macchina servile tutta presa nella sua
mera riproduzione, e il consumismo vuoto, edonistico, privatizzato (la “depense
privatizzata”).
Del
resto la modernità è d’essenza orizzontalista, dunque i critici che sospettano
sempre in ogni forma di verticalità un regresso premoderno hanno qualche
ragione. E’ un problema, ma non si sfugge. Questa modernità è abitata da un
mito: l’esistenza di un qualche livello “autentico”, così come è, che si
albergherebbe sotto la crosta di forme sociali inessenziali e quindi alienanti.
La
modernità è, in altre parole, essa stessa un mito fondato su una trasposizione
del religioso che si rifiuta di prendere atto del vuoto. Grazie a questo rifiuto
risulta invivibile, presa nello scontro tra un regime verticalista
privatizzato, che conduce alle forme più dissipative e disumanizzanti di “depense”,
ed un regime orizzontalista, che respinge la maggioranza dell’umanità nella
condizione servile e pressa la minoranza ad assumere il ruolo ‘padronale’. Secondo
le parole di Romano “il soggetto è privo di auto-consistenza, perciò un ordine
sociale fondato sull’illimitato disvelamento delle particelle elementari
-coerente con l’idea che siano queste le forme ultime dell’ordine- è destinato
a fallire. L’uomo è sospeso nel vuoto, nella vertigine del senso.
Tre
domande di fondo emergono:
1- Quali
sono le condizioni che consentono di perseguire il disvelamento dell’umanità?
2- Una
volta disvelate, le società umane sono in grado di stare in piedi?
3- In
caso contrario, cosa occorre fare per consentire a una società disvelata di
funzionare e di durare, godendo effettivamente della sua sovranità?
Secondo
la proposta dell’autore è da qui che si parte. Bisogna rispondere proprio muovendo
dal fatto che l’uomo è sospeso nel vuoto e che, quindi, anche qualsiasi
costruzione sociale affonda le sue radici nel nulla.
Ma
per fare su questo nulla, senza ritrarsi nel “servile”, ovvero senza uscire
dall’umano, bisogna mettere in campo un “verticalismo al quadrato”:
funzionale e sostanziale. Qualcosa che sfugga sia al “orizzontalismo verticale
(o sovrano)” degli anni del dopoguerra, sia al “orizzontalismo servile” degli
ultimi quaranta anni.
Sia
alla paralisi sociale sia alla lotta per la mera sopravvivenza.
La
questione che pone Onofrio Romano, e va ben compresa, è che entrambi i
regimi sono invivibili.
Qui
non si tratta, dunque, di immaginare un mero ritorno alla fase “keynesiana”. Si
tratta di un’aggiunta.
Alle
operazioni necessarie, debitamente aggiornate, per mettere in sicurezza le vite
e uscire dal “servile”, occorre aggiungere quelle indispensabili per
fronteggiare le disfunzioni che si presentano senza ridurre tutto ad una
privatizzazione, in quanto il singolo, vuoto, non ha le risorse per trovare da
sé il senso. Questo “territorio” va gestito in comune.
In
particolare, nei paesi mediterranei che hanno memoria del vecchio “verticalismo”
e che sono presi nella tenaglia tra una dotazione cognitiva di livello elevato
e una disponibilità materiale inadeguata, ci sono le condizioni perché si avii
la transizione. Dove mancano disponibilità che sono inadeguate per ragioni strutturali
e non aggirabili, tanto meno esponendosi ulteriormente alla competizione. Quel che
bisogna fare è, allora, “adoperare la logica verticale per sottrarsi all’ottimo
globale. Occorre usare la politica per ripararsi dalla barbarie competitiva e
per conseguire l’ottimo sociale e ambientale” (p.310).
Rovesciando
l’obiettivo dalla competizione al benessere collettivo (non solo di “chi vince”,
ovvero strutturalmente di pochi), e alla “Vita buona”. Ciò significa anche che “il
potere pubblico deve fermare la logica della crescita e vegliare sul
mantenimento di uno stato stazionario”. Al quale il sud saprà portare in dote “le
risorse energetiche, la terra, la creatività, la bellezza, la vita all’aria
aperta, la beatitudine del rapporto con la natura, l’andatura lenta, gaudente e
spensierata”.
In
termini diversi bisogna gestire verticalmente sia l’integrazione sistemica
(garantendo le risorse e proteggendo i singoli dagli effetti dell’aperto
competitivo), sia l’integrazione socio-culturale. Si tratterebbe di
aumentare i consumi collettivi rispetto a quelli privati, in particolare i
consumi culturali e di svago. Rilanciare la “grande depense” ed il reincanto.
Un
ruolo particolarmente importante lo deve svolgere la funzione educativa, la
continua interrogazione sul senso attraverso cicli educativi obbligatori e
permanenti. Allestire le arene della discussione collettiva sui nodi della
condizione umana e sulle idee della vita buona.
Chiaramente
davanti a queste proposte, che per certi versi ricordano alcune sperimentazioni
del New Deal globale, poi lasciate cadere e/o anche esse privatizzate, ci sarà
chi parlerà di approccio illiberale e Stato Etico. In un certo senso è corretto,
purtuttavia l’autore non intende rinunciare alla libertà. La sua mossa è
più sottile, e la sua antropologia meno consolatoria. Riprendendo il saggio di
Cassano sull’umiltà del male[16], ciò di cui bisogna
liberarsi è della illusione che il bene sia a portata di mano, disponibile,
nella natura umana. Invece occorre costruirlo, bisogna sostenere chi sta
nel vuoto, o, in altre parole, “le istituzioni devono aiutare gli uomini a
tollerare il nulla, senza mai lasciarli soli” (p.316).
Quindi,
si. “La libertà verticale è, ancora e sempre, “comunismo”. Ma si erge
sul rovesciamento della visione antropologica positiva su cui il comunismo si è
sempre fondato, generando per questo, al meglio, impotenza politica, al peggio,
tragedie storiche inenarrabili”.
Si
tratta di assumere, una buona volta, che non ci sono terre promesse, e che la “libertà
verticale”, che occorre costruire, è radicata nel tragico.
Ancora,
si tratta, probabilmente, di superare il tema dello “sviluppo senza
progresso”, che un angosciato e cinquantatreenne Pier Paolo Pasolini intravede
attraverso il rimontaggio, tanto più aspro e doloroso e meno risolto, di “Salò o le 120 giornate
di Sodoma”, e nell’articolo di abiura della “Trilogia
della vita” (tre film che fecero molto scandalo, “Decameron”, “I racconti di
Canterbury”, “Il fiore delle mille e
una notte”), compiuta appena due anni dopo il completamento
del terzo film. In un articolo del 15 giugno 1975, pubblicato postumo il 9
novembre, nel quale dichiarerà essere stata “asservita e manipolata” dal potere
che va denunciando. Infatti se i tre film si inserivano nella “lotta per
la democratizzazione del ‘diritto di esprimersi’” ed in particolare per la
“liberazione sessuale” (parte essenziale della “tensione progressista” degli
anni cinquanta e sessanta nella quale aveva allora preso corpo la poetica e
l’azione politica -ed esistenziale- dell’autore), ora la situazione era
mutata[17].
Pasolini nei suoi ultimi anni focalizza sempre più, e sempre più disperatamente,
un processo di “mutazione antropologica” che, in ritardo su altri paesi, ha
investito ormai l’Italia a partire dagli anni sessanta: inizia, cioè, a
trionfare quella che chiama “l’irrealtà della sottocultura dei ‘mass media’
e quindi della comunicazione di massa” (Lettere Luterane, p.84) e questa
rovescia completamente il quadro della lotta culturale. Ormai anche quella che
era una lotta progressista è “brutalmente superata e vanificata dalla decisione
del potere consumistico (di ciò che Onofrio Romano chiama “depense privatizzata”)
di concedere una vasta (quanto falsa) tolleranza” e, forse soprattutto, anche
la “’realtà’ dei corpi innocenti” che i film espongono è stata ormai “violata,
manomessa dal potere consumistico”. Anzi, Pasolini va oltre: “tale violenza sui
corpi è diventato il dato più macroscopico della nuova epoca umana”[18].
Come
dirà altrove: dare uniformemente obiettivi puramente quantitativi (di
consumo come rappresentazione di vita buona), senza i mezzi per
ottenerli, lasciandoli alla lotta per la vita individuale, apre lo spazio di
una “falsa felicità”, che “rende superflua la vita”, mentre “umilia
orrendamente” (Scritti Corsari, p 60) mettendo in evidenza una inferiorità
sociale senza soluzione. Quel che si ricava “almeno per ora”, come dirà nella
sua replica all’amico Moravia, “è pura degradazione”, una vera e propria
“tragedia, che si manifesta come delusione, rabbia, taedium vitae, accidia
e, infine, come rivolta idealistica, come rifiuto dello status quo” (SC.
P.107).
Bisogna
provare a capire: il centro della critica di Pasolini è l’unificazione che
chiama totalitaria dell’Italia intorno alla società dei consumi; una
società che distrugge la capacità dei ceti popolari di essere “se stessi” in
modo “assoluto”, in quanto rispondenti ad una propria scala di valori,
espressione della propria cultura materiale (“del pane”) e portato delle
civilizzazioni precedenti. È dunque una critica conservatrice, ed anche a
rischio di naturalismo. Ma la cultura precedente, che è distrutta dal potere
dei consumi (ovvero dall’esposizione della sua semplice, pragmatica, forza e
dalla potenza dei segni degli stessi oggetti prodotti dal nuovo capitalismo di
massa, LL., 43-56) non riesce ad essere sostituita efficacemente da una nuova,
per carenza della possibilità stessa di rispondere ai suoi standard. L’effetto
è una sconvolgente crisi dei valori, una “falsa felicità” fondata sulla mera
produzione e consumo. Una crisi dei valori che determina un’incapacità di
parlare in nome di qualcosa alle masse ormai criminaloidi. Anche
una crisi delle élite (siano esse socialiste, radicali o cattoliche avanzate)
soffocate dal conformismo o paralizzate dalla disperazione determinata dall’assenza
di alternative e dalla semplice paura.
Si
tratta, si vede bene, della descrizione della stessa crisi antropologica,
prima che fiscale, delle ragioni di scambio, finanziaria o quel che si vuole,
dell’assetto del benessere medionovecentesco.
Il
nuovo modo di produzione, infatti, “non è solo produzione di merce, ma di
umanità”. E, imponendosi, ha fatto “ruotare” la realtà, ha cambiato il
senso della stessa povertà, e delle vite “povere”, che prima non lo erano
mentre ora sono “misere” e disperate. Edonismo, falsa tolleranza, laicismo
connesso al consumo, creano cioè una massa impietrita, da SS, per Pasolini.
Qui siamo negli stessi anni del “compromesso storico”,
di cui non vedrà l’esito, ma Pasolini ne intravede egualmente la parabola. Che
succede, infatti, se si accetta la centralità dei “beni superflui, della
democratizzazione consumistica, della falsa tolleranza”, cioè dei fenomeni che
caratterizzano il nuovo potere (cioè il nuovo modo di produzione)? Cioè se
anche il PCI lo accetta? Per Pasolini, il 25 agosto 1975 a poco più di sessanta
giorni dalla morte, la risposta è semplice e chiara: “I comunisti [allora]
non sarebbero altro che i veri democristiani” (“Il Processo”, LL.
p.136). Alla fine, se accettano questa continuità, potranno fare solo della
morale e non della politica.
La previsione che fa a questa data, appunto sull’orlo
della morte, è semplice e chiara: “è inevitabile che il vuoto di potere
democristiano venga riempito dal potere comunista, e ciò al di là del ‘compromesso
storico’. … e sorgerà un grande partito teologico: un tecnofascismo,
finanziato, dunque, da due grandi potenze straniere, e in grado di trovare, nelle
enormi masse ‘imponderabili’ di giovani che vivono in un mondo senza valori,
una potente truppa psicologicamente neonazista” (LL. p.138).
Resta funzionale a questo, quindi,
anche l’abrogazione di ogni “reale alterità”, persino tramite i diritti civili,
evento per il quale il potere (consumista) si prepara ad “assumere di fatto gli
intellettuali progressisti come i propri chierici” (Lettera al Congresso
Radicale, ultimo scritto, LL p.214).
Si tratta di mettere a tema la distinzione tra “sviluppo”
(economico) e “progresso” (culturale e civile). L’articolazione maggiore
è nell’articolo “Sviluppo e Progresso”, inedito, SC,. P.175, in questo
intervento alla festa del PCI Pasolini si limita a chiamare una drastica
distinzione tra i due termini. Infatti, come dice, senza che allo sviluppo
economico (pure necessario ma da estendere a chi non ne è interessato) si
accompagni un corretto progresso culturale e civile, che introduca valori
allineati ed idonei al popolo il rischio è enorme.
È, in effetti, lo stesso tema di Onofrio
Romano.
[1] - Ovviamente Karl Polanyi, “La
grande trasformazione”, 1944
[2] - Una “critica immanente” non muove dal
riconoscimento di norme o si contrappone alla realtà con un ideale
prefabbricato ma muove da norme sempre inerenti una situazione
esistente; e che per essa sono costitutive e sono razionalmente
fondate (questa razionalità è una delle cose da spiegare);
- Non
si chiede tanto se la comunità ha perso il contatto con i suoi ideali (secondo
un modello ermeneutico), ma ricerca quei rovesciamenti per cui norme
efficaci ed operative in quanto efficaci generano effetti contraddittori;
- Ricerca
quindi la contraddittorietà interna (come quella tra libertà e
eguaglianza nella forma del contratto, data la condizione delle società reali
in cui si esercita), e ne ricerca la condizione per cui essa è necessaria, non
è casuale, e dunque le norme non possono essere di fatto realizzate in modo non
contraddittorio;
- Quindi
essa è trasformativa, punta a creare qualcosa di nuovo, non a ripristinare
uno stato;
- Ma
nel trasformare opera necessariamente sia sulla realtà sia sulle norme
stesse, “la critica immanente, pertanto, è la critica di una prassi a
partire dalle norme (con le quali questa non concorda), e sincronicamente la
critica di queste stesse norme”.
Si tratta di
avviare un processo di sviluppo e di apprendimento (che ha
anche la forma di un problem solving) che opera su contraddizioni
pratiche e non meramente logiche una “negazione determinata” (Hegel). È dunque,
in certo senso, una “riformulazione pragmatista del modello hegeliano”, in un
processo fallibile e orientato al “sempre meglio”.
[3] - Si tratta, in altre parole e
secondo il taglio del libro, di una narrazione culturalista della nascita del
capitalismo. L’altra grande narrazione egemone lo vorrebbe scaturito dalla
“accumulazione primaria” determinata dal flusso di metalli preziosi e servi
dalle americhe, poi rafforzata dal dominio dei commerci e, per questa via,
l’estrazione di ricchezza dal resto del mondo, ed infine cementata dal predominio
tecnologico che emerge tra XVIII e XIC secolo sulla base della “rivoluzione
scientifica” (che, a sua volta, è strettamente connessa con lo sviluppo della
borghesia e la crescita dei commerci di lunga percorrenza).
[4] - In particolare Max Weber, “L’etica
protestante e lo spirito del capitalismo”, del 1904, che inaugura una
lunga tradizione (per la verità anticipata dalle intuizioni di Marx) poi
ripresa da Benjamin nel frammento “Il
capitalismo come religione”, del 1921, e riprende molti elementi da “Il
capitalismo moderno”, di Werner Sombart, del 1902.
[5] - Si veda Jean-Claude Michéa, “l’impero
del male minore”
[6] - Si veda Kiran Patel, “Il
new deal”
[8] - Ronald Inglehart, “La
società postmoderna”, 1996
[9] - Antony Giddens, “identità
e società moderna”, 1991
[10] - Castoridias, Lasch, “La
cultura dell’egoismo”, 1986.
[11] - Naturalmente si
deve intendere sui termini, è vero che ci sono differenze rilevanti tra il
neo-liberismo e l'ordoliberismo. Le formule che scaturiscono in diversi
ambienti culturali ed orientamenti politici dalla crisi del liberismo originario,
nei primi anni del novecento, e fanno parte di una vasta ricerca di un
"nuovo liberalismo" -Keynes- o di un "neoliberismo". Ma
mentre il primo si propone di limitare il mercato attraverso un’azione statale
compensativa, che salvi di questo l’essenziale, ovvero la libertà di azione
degli individui; il secondo, al contrario, intende usare una gabbia normativa
sostenuta dalla forza dello stato per purificare il mercato e far affermare in
esso la forma pura della concorrenza. La mossa eleva la concorrenza a principio
centrale della vita sia sociale sia individuale, ma lo fa riconoscendo che
l’ordine di mercato non è affatto un ordine di natura: è il prodotto di una
costruzione politica intrinsecamente storica. Questo movimento che porta alla
messa a punto della proposta neoliberale parte per gli autori dal “Convegno
Lippman”, dal 26 al 30 agosto 1938, che precede di qualche anno la fondazione
della Società Mont Pelerin (1947). Sono
invitati Hayek, von Mises, Rueff, Aron, Ropke, Von Rustow, Rougier. Nel discorso
inaugurale Rougier ricorda che il liberalismo non si identifica affatto con il
laissez-faire, ma è un ordine legale che richiede l’intervento dello stato.
Malgrado l’opposizione di Von Mises (che sarà in minoranza anche nella successiva
Società Mont Pelerin), la linea centrale condivide questa impostazione, in
favore di un “interventismo liberale”. Lo scontro si determina tra ortodossi
(Von Mises e Hayek, Robbins e Rueff) e i riformatori (Ropke e von Rustow, che
insistono sul fondamento sociale del mercato, ma anche Lippman e Rougier) per i
quali ‘essere liberali significa essere progressisti’ adeguando continuamente
l’ordine sociale e legale alle scoperte, ai cambiamenti strutturali, senza
pianificare interamente il traffico, ma creando un “codice della strada”.
Insomma, come scrive Lippman, “gli ‘ultimi liberali’ non hanno capito che ‘ben
lungo dall’essere astensionista, l’economia liberista presuppone un ordine
giuridico attivo e progressista, teso al continuo adattamento dell’uomo a
condizioni sempre mutevoli. Serve un ‘interventismo liberista’, un ‘liberalismo
costruttivo’ ed un dirigismo statale che certo si deve differenziare
sostanzialmente rispetto alla pianificazione ed al collettivismo” (Dardot e
Laval "Il nuovo spirito del mondo", p.182). Un dirigismo “che implica
la protezione della libertà, non il suo asservimento; deve garantire che la
conquista di benefici sia il frutto di una vittoria dei più adatti all’interno
di una competizione leale, e non il privilegio dei più garantiti o di coloro
meglio collocati socialmente”. Questo liberismo rinnovato è, insomma, il regno
della legge, e contemporaneamente il governo delle élite, uno stato forte
organizzato da competenti la cui qualità sia l’esatto opposto della “mentalità
magica e impaziente delle masse” (ivi. p.196). Ne deriva, ovviamente, che la
democrazia è affetta da una debolezza congenita determinata dalla eccessiva
influenza dei popoli sul governo, attraverso l’opinione pubblica ed il
suffragio universale. L’eterno bersaglio del neoliberalismo, per la stretta
logica interna che lo contraddistingue, è dunque il potere del popolo, che va
limitato e ricondotto alla guida degli esperti. Ma nel neoliberalismo, e sin
dai suoi esordi, è presente anche un’altra corrente, non perfettamente
coincidente: l’ordoliberalismo tedesco. L’ordine è concepito come dovere
politico, nato come movimento conservatore nei circoli antinazisti, prevede
“una teoria della trasformazione sociale che fa appello alla responsabilità
degli uomini” ed il cui problema fondamentale è come riformare l’ordine sociale
dopo lo stato totalitario. Certo l’ordine liberale muove dalla creazione di uno
stato di diritto che è all’origine stessa della forma capitalista, l’economico
non è per loro un insieme di processi naturali ai quali in qualche modo si
aggiunge la regolazione ed il diritto, in accordo o in ritardo.
L’ordoliberalismo respinge dunque ogni forma di riduzione del giuridico a
sovrastruttura, e ogni concezione unitaria del ‘capitalismo’ fondata su una
autonomia dell’economico. Ne sono espressione autori importanti come Ropke, che
in “Civitas umana” rifiuta frontalmente il laissez-faire e identifica
l’economia di mercato “vitale”, come un’opera d’arte, un prodotto della civiltà
particolarmente difficile e che presuppone molto. L’ordoliberalismo è, a sua
volta, diviso in due gruppi principali: gli economisti e giuristi della Scuola
di Friburgo, come Euckel e Bohm, i sociologi Alfred Muller-Armack, Wilhelm
Ropke e Alexander von Rustow. La distinzione è tra la struttura giuridica e quella
sociale come focus, i primi sono concentrati sulla crescita economica, dalla
quale deriverebbero i progressi sociali, mentre i secondi sono preoccupati
degli effetti di disintegrazione sociale propri dei meccanismi di mercato e allo
Stato affidano anche il compito di garantire e strutturare un soziale umwelt,
un ‘ambiente sociale’, che reintegri gli individui nella società. Alla
wirtschaftspolitik, ‘politica economica’, si contrappone la
gesellschaftspolitick, ‘politica della società’.
[12] - Si veda anche Jurgen Habermas, “Verbalizzare
il sacro”,
[15] - In effetti la proposta di Hyman
Mynski potrebbe essere interpretata in questo modo nel gergo economista, si veda
“Keynes
e l’instabilità del capitalismo”, 1975.
[16] - Franco Cassano, “L’umiltà
del male”, 2011. Nella Leggenda del Grande Inquisitore nel
Fratelli Karamazov. Ivan racconta al fratello Alioscia una storia: di fronte
alla violenza esercitata dalla Inquisizione nella Siviglia del XVI secolo,
Cristo torna sulla terra e viene riconosciuto dalla folla che si accalca
intorno a lui. Quindi non si nega e compie diversi miracoli; a quel punto passa
l’Inquisitore che lo riconosce e ordina di arrestarlo. La folla non lo difende
e Cristo viene tradotto nella galera dell’Inquisizione. L’anziano prelato lo
accompagna e gli rivolge un lungo monologo nel quale annuncia che l’indomani lo
brucerà sul rogo. Rimprovera a Cristo di aver insegnato la libertà, un compito
del tutto superiore alle forze degli uomini. Una concezione aristocratica,
raggiungibile solo da pochissimi eletti e non dalla grande massa dei deboli. La
concezione aristocratica ed altera della libertà è –per l’Inquisitore- priva di
amore, priva di senso di realtà verso gli uomini per come sono di fatto; è
invece piena di orgoglio. Se non è adeguato a questi standard, l’uomo comune
ricava infatti da questo ideale solo “incertezza, angoscia e smarrimento”.
L’uomo vuole sicurezza e certezze, vuole mistero ed autorità.
Per
l’inquisitore gli uomini non potranno mai essere liberi, “sono deboli, pieni di
vizi, inconsistenti e sediziosi”. Gli uomini sono “degli schiavi”.
Nella
visione cinica, ma realista, dell’inquisitore gli uomini, la loro grande
maggioranza, hanno cioè solo bisogno di protezione e sottomissione; questa
consapevolezza isola i migliori, la loro presunzione ed il loro narcisismo. Il
motivo di tale inefficacia è proprio il giudizio morale altero con il quale
condanno i più.
[17] - nell’articolo del 1° marzo 1975 <Non aver paura di
avere un cuore>, Pasolini replica a Calvino nell'ambito dell'aspra
polemica sull'aborto sostenendo che mentre da giovani, opponendosi alla “merda
che i clerico-fascisti avevano consacrato”, era “giusto essere laici,
illuministi, progressisti a qualunque patto”, ora l'obbligo di “rimettere sempre
in discussione” anche la propria funzione ed i propri presupposti (obbligo di
un intellettuale) implica comprendere che “il nuovo potere consumistico e
permissivo si è valso proprio delle nostre conquiste mentali di laici, di
illuministi, di razionalisti, per costruire la propria impalcatura di falso
laicismo, di falso illuminismo, di falsa razionalità [che dunque va
rimessa in questione per rispondere al dovere dell'essere realmente
intellettuali]. Si è valso delle nostre sconsacrazioni per liberarsi di un
passato che, con tutte le sue atroci e idiote consacrazioni, non gli serviva
più. In compenso però tale nuovo potere ha portato al limite massimo la sua
unica possibile sacralità: la sacralità del consumo come rito, e, naturalmente,
della merce come feticcio. Nulla più osta a tutto questo”. Come prosegue
(dopo aver indicato la televisione come focus del potere di attrazione
irresistibile, perché meramente esposto e non declinato della “nuova qualità di
vita che il potere promette”, e dunque de “la sacralità, non nominata, della
merce e del suo consumo”) “in questo contesto, i nostri vecchi argomenti di
laici, illuministi, razionalisti, non sono solo spuntati ed inutili, ma, anzi,
fanno il gioco del potere”. Per questo “Al contrario di Calvino, io
dunque penso che - senza venire meno alla nostra tradizione mentale umanistica
e razionalistica - non bisogna aver più paura - come giustamente un tempo - di
non screditare abbastanza il sacro o di avere un cuore”.
[18]. Il crollo del presente fa “della vita un mucchio di
insignificanti ed ironiche rovine” (LL, p.86), anche i vecchi
<doveri> della “lotta per il progresso, il miglioramento, la
liberalizzazione, la tolleranza” vengono falsificati dall’interno. Divengono
funzionali al nuovo potere che si manifesta attraverso l’espansione dei consumi
e delle libertà ad essi connesse.
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