Libro del 2019 di Mario Tronti, che certo non ha bisogno di
alcuna presentazione. Uscito poco prima delle elezioni europee il testo, che ha
la forma di una intervista, muove da una domanda decisiva: “quali sono le
cause che hanno portato la sinistra in tutte le sue articolazioni partitiche, da
quelle cosiddette moderate a quelle cosiddette radicali, al suo attuale punto
di crisi, fino a perdere il suo popolo e quindi a perdere identità,
riconoscibilità e forza”? Da intellettuale della vecchia scuola l’autore parte
dalla situazione internazionale, vi iscrive quella dell’Italia e poi scende sul
terreno del Partito, delle agende, delle scelte. C’è una dimensione propagandistica,
di servizio al suo Partito, nel testo, e c’è una dimensione diagnostica, meno
contingente. Entrambe sono interessanti, la prima per ascoltare quel che nel
ceto politico e sociale nel quale l’autore si è abituato a vivere è considerato
un buon argomento, determinante e decisivo. La seconda per confrontarsi con una
più ampia visione del mondo di un grande intellettuale della sinistra, storico
ed inaggirabile.
Capiterà di essere più facilmente in accordo con la
seconda dimensione, francamente la prima è sorprendente, persino a questo
livello allignano imbarazzanti miraggi, nella cui vaporosa sostanza, tuttavia
si intravede chiaramente il profilo del solito, metallico, desiderio di potenza
europeo-occidentale.
Tutto il discorso del nostro muove da una densa rete
di concetti, che proveremo a scoprire un poco alla volta, e dal presupposto,
dichiarato in apertura che tutto promana dal movimento (anzi, con vezzo gramsciano
dalla ‘guerra di movimento’) nel mondo ‘grande e terribile’. Distinguendo tra
ciò che trasforma (che si oppone al dominante mondo di vita), ciò che innova
e ciò che conserva, dal movimento del mondo viene l’innovazione. E viene
quindi, Tronti ne è certo al punto da non spendere una nota, una battuta, il
macro-spostamento dell’asse globale dall’Atlantico al Pacifico. Viene, in
altre parole, il “ritorno” alla centralità asiatica[1].
Ma la tentazione di leggere tutto secondo una interna
coerenza, e di scivolare nella filosofia della storia è profondamente
incardinata nell’ex marxista che quindi si dice “proprio convinto” di una “regolarità
di movimento” della storia umana che si nutre di nuovo e ritorno del passato
(riecheggiando le sue nuove letture del pensiero “grande conservatore”, Nietszche
in particolare). E da questa convinzione deriva l’asse centrale del suo
ragionamento e determinante per le sue conclusioni ed esclusioni: “se è vero
che lo Stato-nazione si va riproducendo in modo allargato come
Stato-continente, in Asia, nelle Americhe e c’è da sperare – presto per favore
perché si sta facendo tardi – in Europa” (p.14). Se ciò è vero, ciò che si
vede sono gli “ultimi bagliori del tramonto dell’occidente”.
Un libro di un grande autore quasi novantenne non può
che nutrirsi di questo senso tra il nostalgico e l’irrimediabile, e riverberare
i topos letterari della sua giovinezza (anche dei nemici), come non può che
connettersi ad un’epica del suo percorso. Per cui subito dovrà dire che quella
dell’occidente che “tramonta” è stata una “lunga, straordinaria, entusiasmante,
contrastata vicenda umana”, e “per tutta la sua storia” condotta ad “alti
livelli”. Una vicenda che ora perde vitalità, “deperisce”, “degrada”, si
consuma giorno dopo giorno…
C’è un nesso, biograficamente comprensibile, tra la
nostalgia per una storia di potenza (che avrei qualche ritrosia a chiamare “entusiasmante”,
almeno in tutta la sua storia[2]),
la diagnosi del tramonto e l’abbarbicarsi, come farà, al progetto di
ripristinare la logica imperiale. Prima che sia tardi.
Chiariremo dopo cosa del ragionamento, del “se”,
di Tronti proprio non ci convince, prima conviene dispiegare la sua struttura: l’attacco
al progressismo (all’idea infantile che sia sempre meglio il nuovo), la
critica, opportuna, al “culturalmente corretto” e quindi al “politicamente
corretto” (che fungono da disarmo delle idee antagoniste e messa in sicurezza
dell’ordine costituito), la connessione tra ‘globalizzazione’, per lui
inevitabile nella logica del capitalismo[3], e
la fine del primato occidentale sul mondo. Perché, e su questo non ha
torto, “sulla globalizzazione economico-finanziaria si gioca il destino degli
Stati-nazione”, ma, dato che la considera consustanziale alla logica capitalistica
(mentre è solo uno dei possibili assetti di questa) e quindi
irremovibile, alla fine resta solo di adattarsi.
Ben nascosto in questo teorema si trova l’intera
traccia della resa della sinistra al capitalismo, dalla quale vuole
sfuggire a parole, o filosoficamente, ma nella quale Tronti resta imbrigliato. Gli
Stati-nazione, nel meccanismo della globalizzazione, possono dunque solo “superare
se stessi”, allargandosi in Stati-continente (pazienza se nessuno lo sta
davvero facendo). E di qui ritornano inevitabilmente, quasi inavvertite, le
ideologie cosmopolite; si deve necessariamente evocare l’utopia del governo
mondiale che, certo, “non è praticabile” ma “serve a porre il problema di una
progettazione dell’avvenire”; si deve, ancora ovviamente, citare Kant.
Salendo ad un’astrazione disincarnata così incongrua
con gli altri riferimenti la sua diagnosi è semplice (troppo semplice e troppo
astratta): “o si dà una forma politica al mondo o ci terremo questo mondo
senza forma”[4]. E quindi “a guardia della
globalizzazione economica ci dovrebbe essere una globalizzazione politica”.
Sono potenti queste astrazioni. Sembrano irresistibili
nella loro logica liscia.
Ma emergono vestite da un guscio di concetti affatto
innocenti: intanto “legge di movimento”, che allude ad una trasposizione
naturalistica (che l’avvertitissimo autore indebolisce citando Husserl e Lukacs,
ma che fa cadere strategicamente ben prima), e poi la descrizione/critica dell’assetto
sociale corrente come necessità di allentare le briglie ai cavalli
pazzi, per determinare processi che “qui ed ora” sono spontanei, imprevisti e a
volte imprevedibili. L’anarchismo di questa società è, per questa visione che
Tronti descrive, la “sua reale forza vitale” che, essa, “muove il suo
sviluppo. Ma è anche, grande forma della prosa di un pensatore complesso, “la
possibile malattia mortale che provoca le sue crisi”.
Dunque “le leggi di movimento di questo assetto
sociale per sua definizione ideologica dicono che bisogna allentare le briglie
al cavallo pazzo dell’economia e di sua sorella la finanza”, processi
imprevedibili perché la società ha in corpo per natura (storica) il segno dei
comportamenti anarchici. Quando hai detto che la natura è questo ti resta solo di
sovrapporgli una volontà, una “forma” (politica). E quindi di qui nasce l’esigenza
di dare una forma politica al mondo, per non avere un mondo senza forma,
e quindi, l’esigenza di opporre impero ad impero, di salire la scala ed
imporsi. Imporre ‘una’ forma per tutto.
Chi non fosse d’accordo? Si deve, come sempre d’altronde,
piegare alla Ragione. Alla ripresa, in forme nuove della “lunga, straordinaria,
entusiasmante” vicenda del dominio di questa sul mondo. Della “forma” sul “caos”.
Dell’occidente, ancora e sempre.
O, in una variante che proporrà, dell’Eurasia, della “terra”
contro il “mare”.
Perché se è vero che “lo Stato-nazione si va
riproducendo in modo allargato come Stato-continente, in Asia, nelle americhe”, allora
non resterebbe che opporsi al “tramonto” e al dominio della natura (della
globalizzazione come natura), aderendovi ed adattandosi (ad entrambe), ed
usandone la forza. Compiendo questa sorta di esercizio marziale, che è
connaturato a quello che alla fine si dirà “filosofo della forza”.
Ma se tutto sta in piedi (ovvero tutte le successive,
densissime, centoventi pagine), su questo presupposto descrittivo, allora su
questo cade. Perché solo un cieco (reso tale dall’ideologia) può prendere
questa non-notizia per un fatto: i confini nelle americhe sono dati dal 1700, e
non si spostano, unica variazione, assai sanguinosa alla metà del secolo XIX[5],
la Cina è istituita da tremila anni, e l’India dai tempi del dominio inglese
(con qualche variazione in diminuzione), gli altri paesi asiatici non pensano
proprio di unificarsi politicamente. Cosa descriva, esattamente, questa affermazione
non è dato capirlo.
In America del Nord ci sono tre federazioni ben
diverse e stabili (con Trattati tra di loro, ma continuamente ridefiniti), nel
centro e nel sud tanti stati grandi e piccoli, federali e non. In Asia chi sta
vedendo un processo di fusione di Cina, India, Corea, Indonesia, Vietnam,
Giappone, Russia, Iran, Turmenistan, Mongolia e via dicendo (cinquanta stati)?
La cosa si può descrivere in altro modo: senza alcuna tendenza
naturale, e neppure storica a creare Stati-Continente o uno Stato-mondo. E’ una
congiuntura di potenza. Sotto il benevolo controllo americano, ed all'ombra
delle numerosissime basi militari, è stato raccontato con precisa intenzione che
la storia complessa del novecento fosse davvero finita e restasse solo la
promessa di arricchirsi da raccogliere però individuo per individuo, l’uno
contro l’altro. Una società dei consumi, felice di competere nella quale il
migliore potrà sempre trovare la propria strada. Una società che si incardina
su un potentissimo e pervasivo dispositivo nascosto che fa leva su bisogni e
desideri dei singoli, chiedendogli di pensarsi come potenza in atto non come
produttori, e quindi collettivamente, ma come consumatori e capaci di piacere e
desiderio individuale. Questa promessa di vita e di energia individuale ha
prodotto un immaginario irresistibile che però ha un rovescio: il dominio e lo
sfruttamento di coloro la quale potenza resta in attesa, spesso per sempre, e
che devono essere sfruttati perché quella di pochi passi ‘in atto’.
Dimenticando la linea di ombra citata[6], la società generata dalla competizione
senza freni, fatta sistema, della mondializzazione neoliberale ha finito quindi
per costruire una narrazione avvincente, accompagnata dallo spettacolo
multiforme della tecnica, che prevale sulle trascendenze alternative e
concorrenti: sulla teologia politico-economica del marxismo, nelle sue diverse
forme, e sulla teologia politico-sociale del cristianesimo.
Al passaggio di millennio, però, viene compiuto quel
che la storia si incaricherà di indicare come un errore incomprensibile, una
hyubris guidata dall'orientamento a corto termine che la finanza ed il sistema
delle imprese giganti che ha preso il centro della scena (ed in particolare
delle commissioni negoziali) ha connaturato: nell'Uruguay Round viene
ammessa la Cina, con un trattamento di favore, e sono abbattute quasi tutte le
barriere. Da allora tutte le produzioni a basso, e via via maggiore, valore
aggiunto si spostano in oriente, i prezzi delle merci precipitano ma insieme e
per lo stesso meccanismo, come due lati di una medaglia, lo fa anche il potere
di acquisto delle classi basse e via via superiori. La soluzione della crisi di
accumulazione che si era vista sorgere già alla fine degli anni sessanta, ed
era esplosa nei primi anni settanta[7],
sembra definitivamente a portata di mano, si cambia cavallo: centinaia di
milioni di nuovi lavoratori da sfruttare, quando le ‘tigri asiatiche’ erano
ormai troppo ricche, in modo da continuare a produrre a basso costo, vendendo
ad alto prezzo nelle ancora ricche società occidentali, da parte di
multinazionali occidentali, ed usando i surplus finanziari crescenti grazie
alla sempre maggiore elusione fiscale.
Si apre, però, ed inevitabilmente un vuoto nel centro
dell'occidente, al quale i paesi tradizionalmente volti all'esportazione
(Germania e Giappone in primis) rispondono allargando ancora i loro squilibri
commerciali che comunque erano usciti dall’equilibrio precedente già dalla
caduta di Brandt[8]. In un lungo concatenamento di effetti e
cause intrecciati come una catena di acciaio il vuoto si propaga, e rende
necessario un sempre più affannoso inseguimento con nuove espansioni di valore
fittizio fatte gocciolare a compensare l'incapacità di troppi di ottenere ciò
che il sogno del consumo (che legittima l'esistente) promette[9]. Si arriva quindi alla parossistica
coltivazione di ‘bolle’ l'ultima delle quali è quella immobiliare, e si arriva,
con l'inesorabile meccanismo descritto da Minsky al crac del 2007[10].
Da allora seguono dieci anni di ristrutturazione e di
tentativi continui di far continuare il business che si è rotto, scaricandone i
costi su chiunque altro. Ma insieme, da allora, si comincia a vedere le forze
relative della Cina e la ripresa della Russia promettere ormai che non potrà
più riprendere il vecchio gioco di dominio solitario e quindi la
globalizzazione ‘felice’ degli anni novanta[11].
Dire che tutto questo sia il movimento inarrestabile
della Storia, o la legge di movimento della forma ormai vincente del
capitalismo, che, come lo Spirito hegeliano, non ha nessun ‘fuori’, è
contemporaneamente un adattamento alla sconfitta ed una sua potente causa. È il
residuo marxista pervertito di un filosofo che ha fuso intorno al fallimento un
grumo di pensiero eterogeneo.
La cosa suona del tutto diversa: dal punto di
osservazione delle società occidentali, intorno a questi fenomeni che tendiamo
a riassumere nel termine ‘globalizzazione’ ha in sostanza preso forma un
nuovo compromesso sociale a rapporti di forza invertiti, rispetto a quello
del “welfare state” novecentesco. Nel contesto di un’impostazione economica
essenzialmente deflattiva, si è creata la condizione (di potere normativa e
tecnologica) per un enorme allargamento della base produttiva, con il
coinvolgimento di centinaia di milioni di nuovi lavoratori, che ha prodotto
effetti molteplici sia sulla distribuzione sociale sia sui costi dei beni
industriali e quindi sul consumo. A partire dagli anni settanta, e via via più
velocemente, sono infatti calati i prezzi relativi dei beni industriali di
massa e questo, malgrado l’erosione del reddito della parte attiva della popolazione,
ha creato a lungo sia una sensazione crescente di ricchezza diffusa sia il
fenomeno sociale e culturale del “consumismo”. Dunque le condizioni per la
creazione di un consenso su nuove basi: sul consumo anziché sul lavoro.
Ma questo continuo accelerare dell’instabilità,
disperatamente tamponata, nello sforzo di sacrificare altri e conservare la
propria potenza, con ricette opposte nei principali centri del capitale
occidentale[12] si è presento sulla scena approfondendo
ininterrottamente per dieci anni il vuoto nel quale l’occidente tra
precipitando. Insieme alla spirale di perdita di capacità di acquisto,
sovrapproduzione, tensione deflattiva, erosione dei margini di profittabilità,
ricerca di soluzioni a breve termine comprimendo i costi, caduta della
produttività, rinvio degli investimenti, e via dicendo, inizia però alla fine a
venire meno il consenso sul quale il neoliberismo aveva vinto la sua battaglia
contro le promesse di salvezza alternative: la crescita della felicità
attraverso il consumo.
La globalizzazione è stata, insomma, un continuo
inseguire la crisi per stare un passo avanti, ma ormai questa ci ha raggiunti.
Si vede la differenza tra queste descrizioni dei
fenomeni. C’è, del resto, un altro luogo nel quale la subalternità alla narrazione
dominante si manifesta, ed è poco più avanti: “la spinta oggettiva e pur
positiva della globalizzazione si è a un certo punto incontrata, si è
scontrata, con quella insorgenza imprevista, e però col senno di poi
prevedibile, della lunga, lenta e profonda crisi, finanziaria prima, economica
poi”. Una frase sbagliata dalla prima all’ultima parola[13], che,
però, spiega l’adesione ai sogni imperiali da una parte e al Pd dall’altra dell’autore
(la spinta non è “oggettiva” se non nel senso debole di vincente di fatto[14],
non è “pur positiva” come si vede dagli effetti se si assume il punto di vista generale,
non si è “ad un certo punto incontrata”, ma era diretta per sua necessità
interna alla crisi e questa era “imprevista” solo da chi non la voleva prevedere).
Se, però si accettano le due frasi tutto ne deriva
necessariamente. Come disse Gunder Frank in una Conferenza a Torino nel 1974,
quando Tronti aveva quarantatre anni ed era già il famosissimo autore di “Operai
e capitale” (1966), una delle opere più importanti della tradizione
marxista non solo italiana, ma da tempo era sulla traiettoria di rientro nella
grande casa del Pci, impegnata nel ‘compromesso storico’, la crisi di valorizzazione
troverà uno sbocco intorno a tre modifiche essenziali della divisione del
lavoro internazionale (con ripercussioni interne): saranno individuate nuove
tecnologie che saranno appannaggio dei centri ‘metropolitani’ ed essenziali per
attrarre i profitti in essi (nelle mani opportune); i beni ad alta intensità di
forza lavoro saranno prodotti sempre più nei paesi periferici (o in quelli ‘subimperiali’
intermedi) a bassi salari, e questo anche per l’essenziale ragione politica di
contrastare la lotta di classe che indeboliva i profitti; saranno sempre più
richieste, dal capitale, alleanze alle forze socialiste, come dice “sul modello
del compromesso storico del Pci”.
Se non si decostruisce questo snodo dal quale necessariamente
tutto è derivato l’analisi resta senza sbocchi, come infatti è.
Per Tronti anche se è vero che le popolazioni
nazionali hanno subito la globalizzazione (di qui la crisi politica che ormai
nessuno può più nascondere), quel che è successo è “la fine del capitalismo a
centralità dell’industria”. Ancora un’affermazione che cade inavvertita e che,
anche questa, è sia vera sia falsa. Quel che è finito è quella forma del
capitalismo nel quale era centrale la produzione industriale di massa in
occidente, mentre si è trasferita nei paesi nei quali il lavoro è più debole
e controllabile. Quel che non è finito è il capitalismo che dall’industria
estrae valore e poi lo moltiplica, appropriandosene. Solo che per farlo
sfuggendo al controllo del lavoro, delle sue organizzazioni, degli Stati
nazionali che possono da queste essere influenzate, e in tal modo proteggendo i
margini di profittabilità (crescenti in modo scandaloso) ora ha bisogno di una rete
estesa, ma dominata. Certo, è vero che l’ipotesi che questo fosse “un mondo
nuovo, carico di inedite opportunità per tutto, tecnologicamente affascinante,
socialmente liberatorio, politicamente liberato della sua contraddizione
fondamentale, quella tra operai e capitale” era una “fake-news”. Si tratta del “frizzantino”
che tutti i progressisti si sono bevuti.
La “fake news” ha nascosto a lungo il fatto che il
mostro predatore del capitalismo finanziarizzato ha reso attuale la profezia di
Marx che invece il movimento dei lavoratori, con una ironia della storia, aveva
allontanato e falsificato: la proletarizzazione tendenziale del ceto medio.
E quindi nel farlo ha indotto quella che Tronti chiama una “plebeizzazione dell’opinione
pubblica” la quale esprime con i propri mezzi il disagio radicale dal quale
nasce Trump ed il populismo di destra.
Insomma, il motore mobile di tutto è la
deindustrializzazione. Che fa cessare la classe operaia e con essa la
possibilità di fare società. Perché per il vecchio Tronti oggi subiamo lo
slittamento “da popolo a massa”, proprio in quanto è venuta meno la “connessione
sociale che nasceva dal riconoscimento di una forma di vita comune, cementato
da un proprio punto di vista di parte, a sua volta alimentato dalla collettiva
organizzazione delle lotte contro i rispettivi padroni. Quella era società non
solo per loro ma anche per gli altri, cioè per tutti”. Insomma, “era la lotta
di classe che teneva insieme ‘l’insocievole socievolezza’, per dirla con Kant
del mondo borghese” (p.21).
Ma sempre si torna al punto del vecchio marxiano,
questa fine è “accertata”, ovviamente. Ma è anche “oggettivamente inevitabile”.
Certo, la sinistra, ha in questo passaggio perso la
memoria ed ha perso se stessa.
Ha fallito nel tentativo di ricostituire,
organizzandolo, un “esercito” del nuovo lavoro. Ma la traccia del fallimento
che lamenta il nostro, io credo, è proprio nelle pieghe dell’accettazione come “oggettivamente
inevitabile” del risultato finale, la fine del lavoro produttivo come centrale
e la presa di centralità dell’appropriazione da parte degli intermediari, dei
ceti e degli strati che maneggiano la simbolizzazione del valore. Questa fine
porta con sé necessariamente l’espansione prima e il declino poi, man
mano che l’interconnessione dominata dal capitale e dai suoi agenti (ed
orientata dallo sviluppo tecnologico che, a sua volta, non è terzo e neutrale
ma diretto ed intenzionale[15])
delle classi medie, e lo svuotamento della distribuzione della ricchezza nella
centralità del lavoro. Porta con sé, perché è un adattamento a questa tensione,
il rovesciamento dell’effetto distributivo che le lotte del novecento avevano
prodotto. In altre parole, insieme alla distruzione della società che Tronti
lamenta viene, perché per essa deve passare, l’accumulazione e l’ineguaglianza.
Se di memoria occorre parlare, ed è opportuno, bisognerebbe
quindi scegliere bene. “La memoria delle lotte, delle organizzazioni, dei
tentativi, anche falliti, delle speranze, anche deluse, gli assalti al cielo
respinti all’inferno”, è preziosa e nessuno la può togliere, è vero, ma per
ritenerlo bisogna anche smontare l’idea che la storia doveva andare così.
Una idea che anche il vecchio Marx ritenne a lungo, ma poi abbandonò, da ultimo[16]. Bisogna
imparare dal passato, perché è reale, non è utopia. La memoria “ha una carica
antagonista, una potenza dirompente, maggiore di qualsiasi utopia” (p.25).
La memoria che andrebbe ritenuta è:
-
quella della “teoria
della dipendenza”[17],
generoso tentativo di guardare alle interconnessioni ed alla loro logica per
quel che sono, veicoli di potere, ed occasione di oppressione almeno tanto
quanto possono essere speranza di reciproco sostegno.
-
Quella delle lotte
nelle fabbriche[18], ponendo le giuste
questioni del controllo, della protezione, della vita stessa.
-
La memoria dello scontro,
che ancora si riverbera, tra la tradizione messianica ed il progressismo del
marxismo occidentale (che si accontenta di rivestire di abiti lucenti quel che
Losurdo chiamava il ‘futuro in atto’, cioè la capacità del capitalismo di
dissolvere i rapporti sociali tradizionali in rapporti ‘razionalizzati’, ovvero
rapporti sociali tra cose[19],
o salta direttamente nel ‘futuro remoto’ ed utopico, immaginando società-non
società pienamente orizzontali e senza forma statuale) ed il marxismo orientale
(che vive ne ‘futuro prossimo’).
-
Ancora, la memoria
dei tentativi generosi di riappropriarsi della logica del valore, torcendola
verso la sua intrinseca definizione sociale, come, ad esempio, immaginò Lefebvre
con la città[20].
Per compiere questo lavoro si rileggano i testi nei
quali questa grande cultura si è arresa[21],
anche quelli dello stesso Tronti, che della resa fa parte integrante.
Il libro non intende affatto combattere il ‘sovranismo’,
ma assumerlo. Non vuole dissolvere la “nazione”, ma potenziarla. Certo vede
un rischio nelle nazioni che ci sono, e vede un rischio nel sovranismo che c’è.
Ma Tronti è un vecchio comunista (assai pervertito) e si colloca ancora nella
parte “eurocomunista” della barricata[22] e
quindi ritiene che hegelianamente il potere debba costituirsi in un punto, che
lo Stato sia questo punto, e che senza ciò non ci sia. Una simile concezione,
insieme alla svalutazione delle forme democratiche “non rappresentative”
(tacciate, così, semplicemente di “reazionarismo”), conduce a pensare che solo
uno Stato europeo possa incarnare l’ideale. In modo assolutamente
controfattuale, anzi, gli ‘piace pensare’ che questo sia lo scopo del progetto
europeo, girato in dominio dell’economico solo per difetto di pensiero (quando
è invece per concretezza di forze e di obiettivi, che non sono mai stati e non
sono tuttora, ed affatto, statuali).
Tronti è, insomma, prigioniero dei suoi sogni. E vede il progetto europeo per quel che non è, e non
può né vuole essere: un progetto incompleto verso un superstato imperialmente
dominante. Il progetto europeo è piuttosto una strana, ma concreta, struttura multiobiettivo
egemonizzata dalle forze concrete del grande capitale, prima industriale e poi
finanziario, europeo e statunitense. Viene montato, un pezzo alla volta, a furia
di compromessi faticosi, per garantire il dominio di questo sulle forze
che gli resistono, quelle popolari in primis. Esso è colonizzato dalle
volontà di potenza imperiali e fatto strumento del dominio dei paesi più
forti, ovvero delle coalizioni sociali dirette al controllo esterno e
connesse con il capitale capace di proiezione e la sua logica (proteggere i
propri investimenti, garantire i crediti, occupare i mercati, acquisire il
controllo dei concorrenti). Coalizioni sociali che sono trasversalmente connesse
internazionalmente, si pensano con esercizio di falsa coscienza come ‘cosmopolite’,
e dominano attraverso una rete di agenti che per questo si costituiscono
ovunque in ‘borghesia’ (‘compradora’). Il progetto europeo realmente esistente,
che è quanto più lontano si possa immaginare dai sogni della sinistra, alla quale
Mario Tronti dimostra di appartenere in pieno, non vuole e non può diventare
uno Stato, perché se lo facesse dovrebbe assumersi la responsabilità e
pagare il prezzo dei costi di protezione. Esso è perfetto in sé e concluso,
può al massimo estendere ancora il controllo senza responsabilità. Ovvero, in
termini gramsciani il dominio senza direzione.
Il comando politico dei processi, di cui parla Tronti,
attrarrà dunque pure l’odio dei popoli, ma non per “spezzare il particolarismi
e le singolarità”, come avrebbe fatto Richelieu secondo Hegel, bensì proprio per
affermarlo. Qui c’è il centro dell’equivoco nel quale cade il nostro, la
trappola nella quale decenni fa cadde la sinistra, catturata dal suo
illuminismo nel sogno di un processo di asservimento fantasmaticamente visto come
liberazione. Una cosa dall’insondabile profondità onirica (probabilmente
effetto del trauma della sconfitta e del vuoto conseguente).
Resta il fatto che sulla base di questa decisione, di
opporre “ai sovranisti nazionali anti europei un sovranismo europeo” il cerchio
si chiude. Il senatore Tronti può, a questo punto, rubricare tutto ciò che si
oppone a questa prospettiva, ogni segmentazione (persino dove sarebbe l’esempio
di Stato-continente per antonomasia) come arretramento, come indietreggiamento.
Come nazionalismo, isolazionismo, razzismo. Come cose “sporche”.
Su questa base, anzi, viene ripreso tutto l’armamentario
dell’imperialismo più vieto. Si può arrivare all’inaudito di scrivere cose
come: “l’elezione di Trump è stata un passaggio traumatico per la ragione
del mondo che viene dall’occidente”. Tanto si perdona ai vecchi, ma la
ragione del mondo che viene dall’occidente gronda sangue e urla delle vittime,
se l’occidente ha come unico destino di pensarsi come Ragione dell’intero mondo
e per questo deve unificarsi, allo scopo di imporla, tenendo aperte le linee,
travolgendo le resistenze, costringendo chi ne ha un’altra, meno ragionevole, evidentemente,
allora è bene tramonti.
Io ho ben altra idea dell’occidente, e di ben altre
ragioni è ricco il mondo per me.
Sarà magari perché sono “sovranista” (anche se non so
cosa questa parola significhi), senza per questo essere meno “internazionalista”
(non si può, ed affatto, essere internazionalista, mi spiace per Tronti, se si
persegue un progetto imperiale di potenza, si può esserlo solo se si
riconosce la pluralità delle ragioni e delle forme di vita e gli si attribuisce
pari rispetto e diritto alla autodeterminazione, se per questa
autodeterminazione si è disponibili a combattere, e se si è disponibili a
fermarsi).
Certo, la mia Heimat culturale non è nella mitteleuropa
(p.46) e non sono, proprio per nulla, “un teorico della forza” (p.118), mio
padre non aveva il ritratto di Stalin e mia madre non aveva quello del Sacro Cuore
di Gesù, non ho neppure novanta anni. Probabilmente per questo vedo ‘ragioni’
dove lui vede ‘La Ragione’, vedo ‘stati sovrani e nazioni’, dove lui vede ‘un
solo potere’ fatto per dominare, vedo molte cose “sporche”, ma le vedo altrove
(non del tutto, naturalmente, lo vedo anche nel nazionalismo, ma esso non
promana necessariamente dalla nazione sovrana e democratica).
Tronti vede la necessità “oggettiva” di superare la
struttura storica statuale e vede Stati-continente (non so un che pianeta)
entrare in campo. E quindi vede che l’Europa deve salire a questa “altezza di
presenza nel mondo”. Per farlo dovrebbe aprirsi ad oriente, alla Russia ed alla
Cina, contro gli Usa, beninteso (un discorso manifestamente folle, ma del resto
commentato con l’esergo di La Rouchefoucauld: “Chi vive senza follia non è così
saggio come crede”, p.50).
Quando gli storici delle idee, tra un secolo, rileggeranno
questa letteratura si interrogheranno sullo scontato che emerge, potente, da
questi letterali “non veri”. Cioè questo sapere tacito che fa scambiare
l'estensione di una rete di accordi commerciali (il Nafta, l'Ansean, ...) per
forme statuali, o per il loro fantasma. E le translitterazioni che portano,
sullo sfondo di un destino morale autoattribuito, a postulare processi, fondandoli
su una evidenza essa stessa fantasmatica.
C’è poi l’interessante capitolo che legge la
situazione italiana, contrastando la demonizzazione della prima Repubblica e
segnalando nel caso italiano la fuga del popolo della sinistra, la distruzione
della classe operaia, l’errore della “questione morale” (p.57), il ’68 che fu
un moto positivo di liberazione inficiato da un’eccessiva declinazione libertaria,
incapace di distinguere tra potere e autorità. E quindi l’inoculazione dell’antipolitica.
Cenni biografici allo sforzo personale per liberarsi
(ma credo non abbastanza) dell’oggettivismo della tradizione marxista e la
critica del ceto politico post-comunista almeno a partire dalla morte di
Berlinguer (anche se tutto si può retrodatare, personalmente risalirei almeno
al compromesso storico). Sta di fatto che ormai riconosce essere giunti ad “una
sinistra di benestanti e una destra di nullatenenti” (p.72), al centro che vota
sinistra e le periferie destra (p.76). Questa costatazione è un “dramma”, ma
non sufficiente a ridurre i miti di una vita (pur avendo allineato, in effetti,
tutte le ragioni per farlo, ma sconnesse). Anche se è meritoriamente
sufficiente a riconoscere che “sul banco degli imputati va messa la sinistra
dei diritti, o meglio, dei soli diritti”.
Di fatto l’autore mostra subito, in questa stessa
costatazione, il suo profondo elitismo nel momento in cui sa solo dire che “la
rilegittimazione della politica passa attraverso la restaurazione di un
rapporto di fiducia tra il basso e l’alto, tra popolo ed élite”. Io direi che la
politica, casomai, può rilegittimarsi quando sapesse essere basso, essere
popolo, e da questo fare l’alto, da questo le élite. Quando non dalle due gambe
del conflitto e della mediazione partisse, ma dal primo (certo al fine
arrivando anche alla seconda, ma partire dalla seconda conduce necessariamente
al “compromesso storico”, che poi è semplicemente alla dipendenza).
Ma il problema vero è, come scrive verso la fine, che c’è
ormai solo una minoranza, in Italia 25 milioni su 60, che opera davvero nel
mercato del lavoro. Questa “Prima società”, garantita e talvolta ad alto reddito,
interconnessa direttamente o indirettamente con i flussi vincenti, vede
giustapporsi una “Seconda società” del rischio, parzialmente sovrapposta,
formata dai lavoratori più esposti perché subiscono forme contrattuali senza
garanzie, o lavorano per aziende senza garanzia di sopravvivenza, esposte al mercato
interno e senza possibilità di accedere alle innovazioni ed alle condizioni per
affacciarsi sui mercati esteri, di stare in campo in essi godendo del dinamismo
della corsa nei prati del capitalismo di predazione. Con le due “società” si
addensa, in fondo una “Terza”, degli esclusi, degli invisibili, del nero, dei
giovani, dei Neet, quasi un terzo degli italiani.
Se questo è vero bisogna essere “sul posto”. Dove c'è
stato “un arretramento politico di popolo. Lucidamente, occorre arretrare
insieme ad esso, nella sensibilità ai bisogni e nella proposta dei rimedi.
[...] un passo indietro, due avanti. [...] salire con il pensiero e scendere
con l'azione [...] nello specifico: sapere dove sta il popolo, e andare lì a
riprenderlo da dove sta per farlo avanzare. Indicando quale è il nemico da
combattere.” (p.109) Bisogna praticare la capacità di “pensare estremo ed agire
accorto”.
Allora che fare?
All’avvio dell’ultimo paragrafo l’intervistatore
chiede come mai non sia stato ancora evocato il “pensiero e la pratica in sé
capaci di scardinare l’ordine costituito”, l’onnipresente, nei discorsi della
sinistra, pensiero femminista della differenza. A questa provocazione Tronti
risponde che nutre dubbi su questa capacità, ma che si tratta di un tema
essenziale. Quello “della differenza”, con il suo lessico specifico e le sue
regole è un pensiero “aggressivo” e radicale che parte negli anni settanta ed
ottanta (ovvero quando la sinistra socialista declina), ma ha una matrice nel ’68.
In questa accezione dichiara di essersene innamorato nella frequentazione della
“Libreria delle donne” di Milano e di “Diotima” di Verona, giovandosi del
confronto con Ida Dominijanni, con il superamento dell’emancipazionismo in
favore della differenza. Del “due” al posto dell’ “uno”. Si tratta di un
pensiero forte che dichiara il superamento della dialettica, restano “tesi” ed “antitesi”
(Carla Lonzi).
Dopo questo omaggio rituale ricorda però come il suo ‘pensiero
della forza’ ha finito per andare in linea di conflitto con la ricerca
femminista di “un nuovo modo di fare politica” come relazione, ed ha finito per
sembrare ai loro orecchi come “maschile”. Il maschile identificato come delirio
di onnipotenza (cosa che non è).
Qui il dialogo si è interrotto.
Poi c’è da valutare il movimento ambientalista, ma qui
non c’è innamoramento. Al Tronti, che confessa di essere un pensatore “intuitivo”
di avere un “modo di pensare intuitivo”, che si fonda sul cuore ed il corpo, oltre
la ragione, e che cerca di mettere in concetto intuizioni, resta una convinzione:
“che si è ambientalisti, tanto più radicalmente ambientalisti, da un certo
reddito in su”. Non è una intuizione infondata (anche perché è una osservazione),
come quella sullo Stato-continente, chi sta lottando non ha tempo per queste
cose. Dunque seguire queste istanze, necessarie, è compito della decisionalità
politica, del comando, non dei movimenti, che sono sempre volatili, non
garantiscono la continuità, la durata, non si radicali nella realtà di popolo. I
movimenti, dice, sono “come un lavoro precario che deve essere stabilizzato”, e
per farlo ci vuole la forma organizzata del Partito.
Questa, vista dal lato di un “teorico della forza”, è
una classica discussione del movimento operaio, quella tra spontaneismo e
organizzazione. Ma una polarità, quella tra il ‘vero popolo’ e le ‘vere
élite’, che si deve prendere ‘dall’alto’, cominciando dal rifare Stato e
Partito. Ovvero partendo dalla necessità di sconfiggere la pulsione del
rapporto diretto tra “massa” e “capo”, e dunque ricostruendo i corpi intermedi,
che promuovano soggettività capaci di azione. Solo in questo modo, alla fine,
sarà possibile rifare il popolo.
Tante cose andrebbero però superate, per riuscirci, ed
una è quella pulsione ignorante della sinistra a mettere in campo qualsiasi
contraddizione, purché non sia “di sistema”. Purché sia di fase e a condizione
che sia sullo stesso piano, “ora l’una ora l’altra, a seconda del momento”, una
sommata all’altra. La tentazione comoda di dimenticare che “invece c’è una
contraddizione centrale, di fondo, a cui tutte le altre devono in qualche modo
sempre riferirsi: ed è la centralità del conflitto di lavoro” (p.131). Lo
stesso “popolo” in effetti si costituisce se si connette al lavoro (siamo
abbastanza lontani da Laclau).
Poi il nostro “teorico della forza” chiude spiegando
che personalmente è sempre stato dentro il corpaccione grande del Partito
(Comunista prima, e poi Democratico della Sinistra, PD infine) perché è
vaccinato dalla “malattia minoritaria”. Se, infatti, l’importante è la forza, l’esercito
che puoi manovrare nella guerra, allora deve recedere la politica come
testimonianza, convinzione di essere nel giusto, che alla fine il bene prevarrà
sull’ingiusto male.
E’ questo, per Tronti, che ha portato la sinistra a
perdere se stessa: l’incapacità di sentirsi ancora parte di una collettività
nella quale si supera se stessi e nella quale ci si emancipa dal senso comune,
dalla tiranna del presente, si impara lo spirito critico ed il “civile
sovversivismo”. Una collettività che non si deve, a sua volta, separare, ma che
deve tornare capace, nella politica, di “reincarnarsi nel vivere quotidiano
delle persone semplici”.
Di fare finalmente i conti con la sua caduta, dalle
speranze evocate nella sua storia, e la superi.
Ma ci vorrebbe ben altro, e più coraggio.
[1] - Molti e non da ora, sono
convinti di questo movimento di ritorno, quasi un risarcimento per la violenza
che il colonialismo ha esercitato sull’area, dall’India destrutturata e
spolpata dall’Inghilterra, alla Cina, battuta e costretta a subire il drenaggio
delle sue ricchezze via commerci subalterni, all’Indocina, il Vietnam, e via
dicendo, occupate e ridotte a colonie. Anche la maggior parte degli autori
della “Scuola dei Sistemi mondo”, in particolare Arrighi e Frank, ne erano
convinti. Tuttavia la storia non ha un telos, e deve materialmente farsi,
questa questione, come tutte, è aperta. Per una posizione per diversi aspetti
opposta si veda, ad esempio, Joseph Nye, “Fine
del secolo americano?”, per un inquadramento provvisorio e sommario “La
grande partita”.
[2] - Si veda, ad esempio, il libro di
Todorov, “La conquista dell’America”, per individuare qualche prezzo (il
più grande genocidio della storia, senza alcun dubbio), o la giusta domanda che
si fa Hosea Jaffe in “Era
necessario il capitalismo?”.
[3] - Come vedremo anche nel seguito,
questa idea si scontra con qualche fatto. La globalizzazione non è un fenomeno
esclusivo del tardo ventesimo secolo, e non è neppure una irresistibile e
tendenza della storia, che apprende la strada dell’armonia universale, è molto
più un movimento ciclico determinato dal gioco del potere. Si tratta,
come è avvenuto a scale diverse con i grandi imperi del passato
proto-capitalista e in epoca moderna con la fase imperiale del dominio inglese
(dopo la sconfitta di Napoleone via via consolidatosi nella sostanza entro il
XIX secolo) dell’effetto e della forma che prende la capacità di un modo di
produzione egemone, sostenuto dalla forza anche militare e comunque economica,
di costringere ogni altro alla compatibilità subalterna a se stesso. Momenti di
predominio che, per loro natura, non possono durare in eterno; accade prima o
poi che le condizioni che lo rendono possibile tramontano, e i sistemi
alternativi, resi subalterni e costretti ad aprirsi, per questo, apprendono,
alzando il livello del confronto. Allora gli “imperi millenari” scoprono di non
esserlo, e le forme universali dell’umano riscoprono la pluralità.
[4] - Singolare questa definizione di “mondo
senza forma”, nel quale, con caratteristica distorsione ideologica dello
sguardo l’economico atteso sregolato è esteso a sostanza del mondo. Per cui le
plurali forme politiche esistenti e la forma che tante ne contiene del dominio
americano, sul quale poi pure si sofferma, retrocedono sullo sfondo. L’economico
diventa la non-forma unica alla quale bisogna contrapporre ‘una’ forma
politica. Una cosa che mai si è data nella storia. È chiarissimo che questa
scelta, apparentemente ovvia e che esprime un vero e proprio senso comune nelle
élite cosmopolite e in quelle politiche, in particolare di sinistra, implica
che l’insieme di fenomeni che chiamiamo “mondializzazione” (ovvero la dipendenza
e l’interconnessione relative di tanta parte del mondo, almeno delle sue aree
più sviluppate, per questo più sviluppate) sia effetto di una “legge di movimento”
naturale del capitalismo e quindi sia destinale per esso. Era l’opinione anche
di studiosi come Gunder Frank, ed anzi è la specifica opinione che ha lavorato
nel determinare la sua finale fuoriuscita dalla dimensione critica, preso atto
della sconfitta del movimento dei lavoratori nel suo complesso. Ma, guardando
da un altro lato lo stesso processo, si può dire anche l’inverso: l’interconnessione
senza forma (politica) è insostenibile per il capitalismo nella sua veste
di modo di organizzazione di una società, in quanto dissolve quest’ultima in un
fluido, iper-rapido, selvaggio, scontro costante nel quale non si possono
consolidare modi di essere cooperativi e mondi di vita senza i quali l’umano è
letteralmente impensabile (per questa linea di interpretazione si veda
ovviamente, Karl Polanyi, “La
grande trasformazione”, 1944). La vittoria finale dello spirito animale
del capitalismo, del demone che in esso si nasconde, implicherebbe quindi l’emergere
di un oltre-umano, che in parte si intravede, allo stato della tecnica non
stabilizzabile. La mondializzazione è dunque crisi, a ben vedere nasce
dalla crisi, come risposta d’ordine a questa da parte di un potere dominante
che ha perso i suoi freni per la sua debolezza (in questa congiuntura del
potere anglosassone americano, nella precedente ondata ottocentesca di quello
inglese) e per sua dinamica deve essere ricondotta non ad una “forma politica
mondiale”, che sarebbe un deserto, bensì ad un qualche equilibrio di principi
egemonici capaci di riconoscersi vicendevolmente. Detto diversamente il fenomeno
esteriore della mondializzazione è solo l’effetto di una molteplice crisi che
non riesce a trovare una soluzione. Questa crisi ha preso direttamente avvio
dall’esaurimento della soluzione che alle tensioni scatenate dal capitalismo
competitivo primo ottocentesco era stata trovata nel dopo guerra, e da allora
procede per continue trasformazioni che coinvolgono tutti gli assetti di
potenza modificandosi continuamente. È chiaro che, come avevamo provato a dire
in la “Grande
partita” la mondializzazione può essere vista anche come effetto e fenomeno
connesso con lo scontro geopolitico in corso per l’egemonia del mondo e la sua
crisi come transito tra logiche ‘capitaliste’, prevalse nella fase imperiale
del capitale statunitense, e logiche ‘territorialiste’ riemergenti per effetto
della sovrapproduzione di capitale stesso nell’eccessivo dominio della forma finanziaria,
secondo lo schema dell’ultimo Arrighi.
[5] - Si veda “Costruire
una nazione federale”.
[6] - Nella distorsione prospettica
per la quale ognuno, equivocando la natura sociale di ogni possibile potere e
di ogni possibile piacere e consumo, si pensa vincitore, quando è tanto più
probabile non esserlo.
[7] - Si può vedere questa diagnosi
tempestiva ed illuminante di Gunder Frank e di Samir Amin, “Riflessioni
sulla crisi mondiale”, 1978.
[8] - Si veda D’Angellillo, “La
Germania e la crisi europea”
[9] - Quel che Wolfgang Streeck in “Tempo
guadagnato” chiama, con felice formula, ‘comprare tempo’.
[10] - Vedi Hyman Minsky, su “Keynes
e l’instabilità del capitalismo”, 1975. Sulla crisi del 2008 si
può vedere Raghuran Rajan, “Terremoti
finanziari”, da una prospettiva liberale, Joseph Stiglitz, “Il
prezzo della disuguaglianza” (o il successivo “Bancarotta”),
ma anche Paul Krugman “Il
ritorno dell’economia della depressione”, da una prospettiva
keynesiana, e autori come Lohoff, (ad esempio in “Crisi”,
o “Terremoto”)
da un punto di vista marxista.
[11] - Che, naturalmente, ‘felice’ è
stata solo per chi riusciva a posizionarsi nei pressi dei flussi di capitali
caldi che attraversavano il mondo e sembravano non avere limiti.
[12] - In Usa con un’espansione
monetaria imponente e tempestiva, accompagnata da estensioni di protezione e
garanzie esclusivamente estese alla parte finanziaria dell’economia (di cui è
riconosciuta la centralità sistemica e il potere reale), insieme ad una
costante intensificazione dello sfruttamento, in Europa con l’insorgere di una
economia duale, con un ‘core’ dedito all’esportazione ed all’accumulo di attivi
finanziari, riciclati nei mercati in espansione, ed una periferia costretta ad
una brutale austerità per dare priorità al servizio del debito nei confronti
del centro. Cfr. Streeck “l’ascesa
dello Stato di consolidamento europeo”.
[13] - Si veda, ad esempio, per una
visione meno entusiasta: “La
globalizzazione come crisi continua”
[14] - Parecchie pagine dopo compare la
citazione sulla quale fonda questa spinta oggettiva, ed è il libro di Charles
Maier “Leviatano 2.0”, 2018, nel quale l’autore liberale ricostruisce i
processi storici di state building in due grandi cicli storici (1750-1850 e 1850-1980),
con evidente focalizzazione sul solo occidente, dopo il quale nel punto di svolta
degli anni ottanta, ovvero dell’emergenza della svolta neoliberale e nella
progressiva debolezza terminare del mondo socialista, sarebbe emerso un “governo
senza un’essenza statale”, ovvero la “governance” dell’economico e della finanza
che rende “fluido il territorio”. Ciò avrebbe determinato l’emergenza tendenziale
di una “comunità transnazionale” (ovvero cosmopolita) che sfugge evidentemente
avere un ben marcato carattere di classe e di essere esattamente coincidente
con i processi di crescita delle ineguaglianze che pure Tronti stigmatizza. Ma
ne trae la seguente conseguenza: “quindi, c’è un processo oggettivo di
superamento della tradizionale struttura storica nazionalstatale” (p. 43). Una
tendenza “oggettivamente in atto”, dunque. Della quale sfugge completamente il
carattere che pure i migliori pensatori della sinistra seppero vedere per tempo
(ma che, sfortunatamente, abbiamo dimenticato, è questa la memoria da
recuperare). Ad esempio, Gunder Frank, “Riflessioni
sulla crisi in corso”.
[15] - Si veda “Annette
Brnhardt, Governare la tecnologia”
[16] - Si veda “Karl
Marx e la comune rurale”
[17] - Si veda “Sviluppi
della teoria della dipendenza”.
[18] - Si veda “Le
lotte operaie alla Fiat negli anni settanta”
[20] - Si veda, per un esempio, il
libro “Il
diritto alla città”.
[21] - Qualche esempio: “Guido
Carandini, Quella grande illusione”, 1985; il biennio “1976-78”;
la resa
di Mitterrand; la ricostruzione di Barba e Pivetti “La
scomparsa della sinistra in Europa”, il libro di Paggi e d’Angelillo “I
comunisti italiani e il riformismo”, del 1986; gli avvertimenti di Pasolini
nei suoi “Scritti
corsari”.
[22] - Gioverebbe qui rileggere il
giudizio a caldo, in linea con gli eventi, che Gunder Frank spese al termine
del suo libretto “Riflessioni
sulla nuova crisi mondiale”: ha comportato la cieca adesione alle esigenze
della ristrutturazione capitalistica e l’estensione, progressiva come
necessaria, della logica della “austerità” in una irresistibile e drammatica
competizione sempre più feroce alla scala mondiale. Una competizione che è
adattamento ad una crisi di accumulazione alla quale, per averla considerata
naturale e financo alla fine progressiva, la sinistra arrivò disarmata e
disarmando chi voleva combatterla.
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