Il
libricino della Jaca Book edito a luglio
1973 raccoglie interventi che l’economista egiziano ha scritto tra il 1969 ed
il 1972 (quello principale). Si tratta della prefazione alla pubblicazione di
un libro di Boubacar Barry “Le royaunme di
Waalo: le Sénegal avant la conquete”, ma allarga notevolmente il
discorso finendo per realizzare un ampio affresco dell’Africa nella sua
evoluzione storica. Il tema è dichiarato nel titolo del saggio: “sottosviluppo
e dipendenza nell’Africa nera”.
Per
iniziare Amin tratteggia una mappa delle grandi regioni che condividono
somiglianze significative entro l’Africa nera (ovvero sub-sahariana):
-
L’Africa dell’est ovvero “dell’economia
di scambio” (Aof, Togo, Ghana, Nigeria, Sierra Leone, Zambia, Liberia,
Guinea, insieme a Camerun, Chad e Sudan), che, a sua volta, si divide in tre
sottoinsiemi: la “ricca” regione costiera, la “povera” sottoregione interna
(che è una riserva di manodopera a basso costo ed un primo mercato per le
industrie sulla costa), il Sudan che è un caso a parte;
-
Il Congo, che rappresenta “l’Africa
delle compagnie concessionarie”, ovvero dei latifondi a capitale estero
dediti alla produzione per l’esportazione;
-
L’Africa orientale ed australe (Kenya,
Uganda, Tanzania, Ruanda, Bostwana, …), ovvero “l’Africa delle riserve”;
-
E quindi l’Etiopia, la Somalia, il
Madagascar che sono delle combinazioni dei modelli sopra indicati.
Per
tratteggiare questa classificazione viene introdotta una distinzione tra “Modo
di produzione”, concetto astratto e non storico, che comprende: 1- il
comunismo primitivo, 2- il modo tributario; 3- quello schiavistico, 4- il modo
di produzione mercantile semplice, 5- il capitalismo. E “Formazione sociale”,
che, invece, è una struttura concreta, organizzata, con un “modo di produzione”
dominante e un’articolazione intorno ad esso di altri subordinati. Ma, anche
per questo, le formazioni sociali non possono essere comprese nel loro
isolamento, a connetterle è il commercio di lunga distanza[1].
Questo
meccanismo, della messa in contatto e sfruttamento di quelle che la moderna
economia chiama eufemisticamente “asimmetrie informative” (questa pratica di
disinnescare la materialità dei rapporti attraverso termini tecnici algidi è
uno dei meccanismi di controllo principe della disciplina economica, anzi, di
tutte le discipline), è il nodo centrale del dispositivo analitico aminiano: “per
la società che ne beneficia, questo trasferimento può essere essenziale e
costituire il fondamento principale della ricchezza e della potenza delle sue
classi dirigenti. La civilizzazione può dipendere allora completamente da
questo commercio, e la modificazione dei circuiti di scambio può far piombare
una regione nella decadenza o al contrario creare le condizioni dello sviluppo,
senza che a livello delle forze produttive si sia avuta regressione o progresso
notevoli” (p.18).
L’analisi
di Amin muove da una semplice concettualizzazione dei due modelli teorici dello
sviluppo economico “autocentrato” (proprio delle economie centrali e ‘sviluppate’)
e il modello “periferico”.
Lo
schema, fortemente idealtipico[2], muove dalla definizione
di quattro settori economici:
-
1) il settore dedito alle esportazioni
-
2) il settore orientato al consumo di “massa”
-
3) il settore orientato al consumo di “lusso”
-
4) il settore della produzione dei beni
strumentali
Nei
sistemi “autocentrati”, l’articolazione economica dominante connette il settore
2 (produzione di massa) al settore 4 (produzione beni strumentali), i due
settori di esportazione (1) e di lusso (3) sono marginali.
Questo
è il sistema capitalistico “puro” nel quale esiste una relazione necessaria tra
il saggio del plusvalore e lo sviluppo delle forze produttive, e per esse tra la
struttura della distribuzione sociale del reddito nazionale e la domanda. In questo
modello è la relazione indicata che determina l’oscillazione della crisi. Infatti,
“un aumento del plusvalore sopra il livello necessario determina una crisi per
insufficienza della domanda”, mentre “la sua diminuzione rallenta la crescita
economica”. Quel che la dinamica scheletricamente descritta provoca è quindi un
“meccanismo di aggiustamento”, per ammorbidire il quale si può intervenire con
la pianificazione. Ma questa è ostacolata dai rapporti con l’estero (che,
quindi, devono restare entro certi termini, pena aumentare enormemente la
fragilità del sistema ed in prospettiva rischiare di uscire dal novero dei
paesi “centrali”).
Segue
un passaggio che, scritto nel 1972, è profetico:
“Così cresce la contraddizione tra il
carattere mondiale della produzione – che si manifesta nel peso crescente
assunto dalle multinazionali – e il carattere sempre nazionale delle
istituzioni tanto del capitale quanto del lavoro. Dunque l’ideologia
socialdemocratica [costante bersaglio polemico di Amin], che sottende questo
tipo di contratto sociale, trova il suo limite alle frontiere dello stato
nazionale” (p.45).
Invece
il “sistema periferico” ha la seguente articolazione fondamentale: all’origine
si trova la creazione di un settore di esportazione “la cui ragione
ultima che lo rende possibile va ricercata nella direzione di una risposta alla
questione relativa alle condizioni che rendono ‘conveniente’ la sua
costituzione. Infatti il capitale centrale nazionale non è in alcun modo
obbligato ad emigrare in seguito ad una insufficienza degli sbocchi possibili
al centro, ma emigrerà se vi può ottenere una migliore remunerazione”, proprio
per combattere la caduta tendenziale del saggio di profitto.
È
in questo punto che va inserita la teoria dello scambio ineguale, in
quanto si tratta di una cosa molto semplice: i prodotti sono interessanti solo
se la remunerazione del lavoro – a parità di produttività – è inferiore a quella
del centro. È evidente che in questo modo la distanza per definizione non sarà
mai colmata, in quanto la periferia serve il centro.
Facendo
riferimento al caso africano ne segue che:
“dal
momento in cui la società – divenuta in questo senso dipendente – viene sottomessa
a questa nuova funzione, perde il suo carattere ‘tradizionale’, poiché la reale
funzione delle società tradizionali (vale a dire precapitaliste) non è
evidentemente altra che quella di fornire al capitalismo mano d’opera a basso
costo!”
La
conseguenza del modello “periferico”, oltre alla dipendenza dal prezzo fatto dal
centro (che altrimenti i capitali “fuggono”, siano essi esterni o interni), è
che il mercato interno è fragile e limitato. I due effetti si rafforzano
reciprocamente e creano una “contraddizione tra la capacità di consumo e la
capacità di produzione che viene superato [solo] a livello del sistema mondiale
complessivo (centro e periferie) mediante l’estensione del mercato al centro;
la periferia – meritando pienamente il suo nome – non riveste che una funzione
marginale, subalterna e limitata” (p.49).
È
vero che ad un certo punto di estensione del settore di esportazione si crea
comunque un mercato interno, ma non è il mercato 2 (beni di massa), bensì è
necessariamente il mercato 3 (quello dei beni di lusso, per lo più
importati), in quanto il settore di esportazione esiste proprio perché e nella
misura in cui remunera molto poco il lavoro e conserva alti margini di profitto
(estrae molto plusvalore); questi sono in parte trattenuti dalle élite (“compradore”)
che sono coinvolte nel circuito di produzione, controllo e commercializzazione
e quindi si avvia un mercato del lusso. Si tratta, in termini marxisti, di
gruppo sociali “parassitari” che assumono solo il ruolo di cinghia di
trasmissione.
In
qualche modo è come se l’industrializzazione inizi “dalla fine”, cosa che
comporta una distorsione fondamentale nel processo di allocazione delle
risorse.
Ciò
stabilito, la narrazione dello sviluppo storico africano parte dalla descrizione
delle “formazioni” africane ante il mercantilismo europeo. Queste erano autonome
e dotate di una sufficiente capacità di organizzazione e differenziazione, il
centro della relazione che istituivano con la parte a nord del mondo passava
per il commercio trans-sahariano nel quale da parte africana erano scambiati oro
e prodotti come l’avorio e dall’altra i prodotti ‘europei’. Si trattava di uno
scambio ‘tra pari’ che ad un certo punto è mutato di segno e diventato
subalterno per effetto dell’insorgenza del capitalismo mercantile europeo. In particolare
ha prodotto effetti vasti e distruttivi lo spostamento, avvenuto nel XVI
secolo, del centro mercantile dal mediterraneo all’Atlantico. Contemporaneamente
questo evento epocale ha prodotto il declino delle città italiane, degli
intermediari arabi e dei terminali africani. Con il crollo del commercio
trans-sahariano, che andava avanti da secoli, e il rafforzamento del
capitalismo mercantile (1600-1800), si costituiscono allora i due poli del modo
di produzione capitalistico: la proletarizzazione e la ricchezza monetaria. Il sistema
degli scambi di lunga percorrenza (i più redditizi) si riarticola nel triangolo
tra il “centro” europeo, la “periferia” americana (che gradualmente evolverà in
“semi-periferia” e poi “centro”) e la “periferia della periferia” africana;
quest’ultima viene costretta nel ruolo di fornitore della manodopera servile,
dal momento che i suoi prodotti metalliferi sono travolti dalla maggiore convenienza
di quelli ricavati dal continente americano.
Da
questo momento, e non prima, l’Africa si struttura secondo esigenze che gli
sono esterne. Questo è il punto distintivo della
critica allo sviluppo “ineguale” e “subalterno”, che Amin propone.
Il
modo dominante diventa il commercio di monopolio di lunga percorrenza.
In conseguenza, “il commercio atlantico, che prende il posto del commercio
trans-sahariano, non libera le forze produttive, ma si risolve al contrario
con un regresso di queste ed una disgregazione della società e dello
stato Woolo-Woolo. Naturalmente la cosa non è stata senza resistenze, pertanto i
francesi hanno dovuto usare la forza per spostare i precedenti rapporti
trans-sahariani e per sottomettere questa regione dell’Africa ed indirizzare le
sue relazioni con l’esterno in conformità alle esigenze dell’insediamento di
Saint-Louis” (p.23). In questo conflitto l’Islam assume un ruolo dirigente
nella resistenza e cambiano tutti i precedenti rapporti di potere, avviandosi
una disgregazione, un isolamento ed una confusione dalla quale il continente
non si riprenderà.
Anche
alcuni movimenti autoctoni, come il “mercantilismo orientale” di Mohamed
Alì vengono alla fine travolti ed incorporati. In quel caso l’Egitto tenta di
avviare una sorta di processo di accumulazione primitiva, a spese delle aree
interne, a sostegno della sua crescente industrializzazione. Ma viene
ostacolato dalla rivolta mohadista e poi definitivamente sconfitto dagli
inglesi, che garantiscono l’integrazione (subalterna) con il sistema
capitalistico compiuto del XIX secolo.
Man
mano che il capitale si sposta dal commercio, e quindi dalla rendita di
intermediazione, all’industria la tratta degli schiavi, non più necessaria,
scompare. Accade qui una cosa epocale:
“il
centro di gravità del capitale si sposta dal settore mercantile verso la nuova
industria. L’antica periferia, l’America dei piantatori – e la sua periferia, l’Africa
del commercio negriero – dovevano cedere il posto ad una periferia nuova,
avente le funzioni di fornire prodotti che permettono di ridurre il valore del
capitale costante e di quello mobile impiegato al centro: materie prime e
prodotti agricoli”.
Naturalmente
perché lo scambio sia vantaggioso deve avvenire secondo le regole dello scambio
ineguale.
Però,
fino a che il capitalismo industriale resta nella fase concorrenziale il
capitale privato disponibile per queste trasformazioni, pur necessarie, è
scarso. Dunque i sistemi periferici, se vogliono essere inseriti nei flussi, si
devono adattare con i propri mezzi.
Non
appena il capitalismo industriale entrò però nella fase monopolistica, verso la
fine del secolo, l’integrazione al sistema capitalistico, finalmente in grado
di proiettare surplus in modo massivo e concentrato, si compì e si avviò, ad
una scala capace di fare la differenza, anche la colonizzazione del mondo. Lo scopo
dominante divenne ottenere a buon mercato i prodotti da esportare e per questo la
soluzione fu organizzare direttamente in loco la produzione (inizialmente di prodotti
di base e materie prime). Di questo processo in Africa sono presenti le
varianti inglesi, francesi e belga (la meno capitalizzata), che hanno in comune
la necessaria produzione del proletariato e quindi, a tale scopo, la violenta
deformazione delle formazioni sociali locali e la generalizzazione dell’Africa
delle riserve. Una Africa specializzata nel fornire, come scrive Amin, “proletariato
migrante” (ovviamente intrafricano, come peraltro è al 90% ancora oggi[3]).
L’Africa
dell’Ovest venne quindi ristrutturata per fornire i prodotti agricoli di
esportazione che servivano ai mercati “sviluppati” e si creò una nuova e più
ampia “economia di scambio” che aveva le seguenti caratteristiche:
1- basata
sul monopolio delle case commerciali di import-export;
2- imposta
una tassazione in oro che obbligava i contadini a produrre per vendere, per
procurarselo, e ad abbandonare l’agricoltura di sussistenza o ‘comunitaria’;
3- basata
sul
4- basata
sul sostegno politico a classi locali autorizzate ad appropriarsi di fatto di
una parte delle terre comuni;
5- ed
eventualmente, quando tutto fallisse, sulla forza.
Ciò
che accade, nel complesso di queste tensioni trasformative, è che “la società
tradizionale, in queste condizioni, è deformata a tal punto da non essere più
riconoscibile; e perde la sua autonomia, avendo la sua funzione principale
nella riproduzione per il mercato internazionale in condizioni che, poiché l’impoveriscono,
le negano ogni prospettiva di modernizzazione radicale. Questa società ‘tradizionale’
non è dunque in transizione (verso la ‘modernità’); è compiuta come
società indipendente periferica, e in questo senso bloccata” (p.34).
È
quindi l’economia di scambio che si insedia in questa fase in Africa (con la
divisione del lavoro territoriale, che suscita diverse “formazioni sociali”, e
l’incastro di più “modi di produzione” primari e subalterni), a definire i
rapporti di subordinazione/dominazione complessivi tra queste società “pseudotradizionali”,
integrate al sistema mondiale, e la società capitalistica centrale che le
determina e le domina. E nella quale la relativa ricchezza della costa (ad
esempio della Nigeria) ha come necessario corollario l’impoverimento dell’entroterra
e l’avvio di imponenti migrazioni che “impoveriscono le zone di partenza”.
Sul
piano della produzione da esportazione si insediarono due modelli principali:
la koulakisation, con la costituzione di una classe di piantatori indigeni, e
il latifondo, in particolare in Sudan e in Nigeria del nord ad opera delle confraternite
mussulmane.
Il
punto centrale è che questo processo, tipico del modello economico e sociale
della periferia imposto dal centro coloniale, nelle sue stesse modalità di funzionamento
determina e presuppone l’emarginazione delle masse, in quanto questa è la
condizione che rende possibile l’integrazione delle minoranze “compradore” nel
sistema mondiale. L’egemonia di queste minoranze fonda il poco sviluppo sull’unico
mercato interno florido, quello del “lusso”, in un sistema che si basa fondamentalmente
sul solo settore di esportazioni. Ciò rende centrale una semplice domanda:
“sviluppo
per chi?”
Questo
genere di sviluppo, per specifiche ragioni interne, alimenta infatti il
sottosviluppo per la grande maggioranza della popolazione, la quale va
mantenuta in condizioni di deprivazione, insieme al mercato interno, proprio al
fine di creare le condizioni per l’arricchimento delle élite connesse con il
riciclo dei capitali, le forme di rendita e la fiorente economia di
esportazione. Le condizioni del successo del modello sono precisamente la
debolezza del mercato interno e la povertà “relativa” (alle condizioni competitive
mondiali) del mercato del lavoro e dei bacini di riserva.
Ma
questo sviluppo non ha senso perché è intrinsecamente votato all’apartheid,
alla disattivazione democratica ed è una strada senza sbocco. Un costante
inseguimento diretto dall’esterno.
Come
si qualifica allora la “transizione”, titolo del libro?
Come
il graduale passaggio da un modello basato sulle esportazioni ed i consumi di
lusso (1/3/eventualmente 4) ad un modello basato sul consumo di massa e la
produzione di beni strumentali (ovvero la indipendenza tecnologica), un modello
2/4. Ciò significa però puntare sulla diversificazione industriale contro la
monoproduzione da esportazioni e la proprietà pubblica contro la privata. Passare
da un modello di sviluppo sottosviluppato e dipendente ad un modello di
sviluppo reale, autonomo ed autocentrato.
Ma
proprio qui si applica “la legge dello sviluppo ineguale”, la quale dice
che “i sistemi vengono distrutti o superati dapprima non nel loro nodo
centrale, ma a partire dalle loro periferie che costituiscono gli anelli deboli
della catena, quelli in cui le contraddizioni si evidenziano nella loro massima
intensità” (p.53). Ovvero che i paesi periferici non potranno mai raggiungere
quelli centrali, dovranno sorpassarli giocando un’altra partita. Rivedendo,
cioè, il modello capitalistico del centro e la sua modalità di allocazione
delle risorse, ma per farlo intanto sono “costretti a rigettare le regole del
rendimento”. Per superare il centro dominante, che è intrecciato alla periferia
dominata per vie interne (a questa), è necessario infatti fare leva sul
capitale pubblico (“paziente”), capace di porsi obiettivi diversi e più ampi
rispetto al mero rendimento, basandosi sul quale viene sempre riprodotta la
condizione di dominazione e la sua indefettibile logica (incluso l’apartheid e
la disattivazione democratica).
Con
le parole di Amin:
“in
realtà, le scelte fondate sulla base del rendimento nella struttura dei prezzi relativi
che impone l’integrazione nel sistema mondiale, mantengono e riproducono il
modello di distribuzione ineguale crescente dei redditi (cioè l’emarginazione),
dunque, a loro volta, rinchiudono nel modello periferico di allocazione delle
risorse. L’operazione di ‘raddrizzamento’ del processo di allocazione delle
risorse deve dunque essere considerato esterno alle regole di mercato, come una
applicazione diretta dell’espressione dei bisogni (bisogni nutritivi, alloggi,
educazione, cultura)” (p.56).
Ciò
significa impegnarsi:
-
Nell’implementazione della democrazia
reale,
-
Nella revisione della direzione nella
quale si muove l’innovazione tecnologica,
-
Nell’estensione della proprietà pubblica,
-
E nell’obiettivo della maturazione e dello
sviluppo della coscienza socialista che non deve essere sacrificato a quello
del rapido progresso economico.
[1] - Nel quale sono messi in contatto
società che reciprocamente ignorano i costi di produzione, e nel quale, quindi,
l’intermediario può estrarre ricchezza in modo sovradeterminato e “guadagna un
decisivo monopolio”. Per l’importanza del commercio di lunga distanza si veda,
ad esempio, Fernando Braudel, “La
dinamica del capitalismo”
[2] - Il che non è necessariamente un
difetto, i modelli non possono essere complessi come la realtà e hanno sempre
una dimensione performativa, servono ad uno scopo. Per un tentativo, non completamente
riuscito, di definirne la funzione nella scienza economica si veda Dani Rodrik,
“Ragioni
e torti dell’economia”
[3] - La maggior parte della
emigrazione dalle zone povere, quelle che Amin chiama “le riserve” e che a suo
parere sono tenute intenzionalmente in queste condizioni per fungere da
costante bacino di manodopera servile da richiamare quando necessario al fine
di tenere costantemente bassa, o comunque più bassa della concorrenza, la
forza-lavoro necessaria per tenere in piedi l’economia da esportazione
coloniale, si muove a corto raggio, dalle zone interne a quelle produttive. Sono
passati quaranta anni e le condizioni neo-coloniali sono cambiate in molti
sensi, ad esempio alcune industrie di trasformazione sono state insediate, a
fianco delle tradizionali imprese alimentari e delle materie prime, ma ancora
oggi da alcune aree depresse, spesso le stesse, come il Niger del nord, si
muovo flussi interafricani e una piccola parte esfiltra verso l’occidente. Si
veda, ad esempio, “Note
circa l’economia politica dell’emigrazione”, Felwine Sarr, Achille
Mbembe, “(Post)colonialismi
e altracrescita”, Fanny Pigeaud, Ndongo Saba Sylla, “L’arma
segreta della Francia in Africa”.
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