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giovedì 15 agosto 2019

Samir Amin, “Sulla transizione”




Il libricino della Jaca Book edito a luglio 1973 raccoglie interventi che l’economista egiziano ha scritto tra il 1969 ed il 1972 (quello principale). Si tratta della prefazione alla pubblicazione di un libro di Boubacar Barry “Le royaunme di Waalo: le Sénegal avant la conquete”, ma allarga notevolmente il discorso finendo per realizzare un ampio affresco dell’Africa nella sua evoluzione storica. Il tema è dichiarato nel titolo del saggio: “sottosviluppo e dipendenza nell’Africa nera”.
Per iniziare Amin tratteggia una mappa delle grandi regioni che condividono somiglianze significative entro l’Africa nera (ovvero sub-sahariana):
-          L’Africa dell’est ovvero “dell’economia di scambio” (Aof, Togo, Ghana, Nigeria, Sierra Leone, Zambia, Liberia, Guinea, insieme a Camerun, Chad e Sudan), che, a sua volta, si divide in tre sottoinsiemi: la “ricca” regione costiera, la “povera” sottoregione interna (che è una riserva di manodopera a basso costo ed un primo mercato per le industrie sulla costa), il Sudan che è un caso a parte;
-          Il Congo, che rappresenta “l’Africa delle compagnie concessionarie”, ovvero dei latifondi a capitale estero dediti alla produzione per l’esportazione;
-          L’Africa orientale ed australe (Kenya, Uganda, Tanzania, Ruanda, Bostwana, …), ovvero “l’Africa delle riserve”;
-          E quindi l’Etiopia, la Somalia, il Madagascar che sono delle combinazioni dei modelli sopra indicati.

Per tratteggiare questa classificazione viene introdotta una distinzione tra “Modo di produzione”, concetto astratto e non storico, che comprende: 1- il comunismo primitivo, 2- il modo tributario; 3- quello schiavistico, 4- il modo di produzione mercantile semplice, 5- il capitalismo. E “Formazione sociale”, che, invece, è una struttura concreta, organizzata, con un “modo di produzione” dominante e un’articolazione intorno ad esso di altri subordinati. Ma, anche per questo, le formazioni sociali non possono essere comprese nel loro isolamento, a connetterle è il commercio di lunga distanza[1].
Questo meccanismo, della messa in contatto e sfruttamento di quelle che la moderna economia chiama eufemisticamente “asimmetrie informative” (questa pratica di disinnescare la materialità dei rapporti attraverso termini tecnici algidi è uno dei meccanismi di controllo principe della disciplina economica, anzi, di tutte le discipline), è il nodo centrale del dispositivo analitico aminiano: “per la società che ne beneficia, questo trasferimento può essere essenziale e costituire il fondamento principale della ricchezza e della potenza delle sue classi dirigenti. La civilizzazione può dipendere allora completamente da questo commercio, e la modificazione dei circuiti di scambio può far piombare una regione nella decadenza o al contrario creare le condizioni dello sviluppo, senza che a livello delle forze produttive si sia avuta regressione o progresso notevoli” (p.18).



L’analisi di Amin muove da una semplice concettualizzazione dei due modelli teorici dello sviluppo economico “autocentrato” (proprio delle economie centrali e ‘sviluppate’) e il modello “periferico”.
Lo schema, fortemente idealtipico[2], muove dalla definizione di quattro settori economici:
-          1) il settore dedito alle esportazioni
-          2) il settore orientato al consumo di “massa”
-          3) il settore orientato al consumo di “lusso”
-          4) il settore della produzione dei beni strumentali

Nei sistemi “autocentrati”, l’articolazione economica dominante connette il settore 2 (produzione di massa) al settore 4 (produzione beni strumentali), i due settori di esportazione (1) e di lusso (3) sono marginali.
Questo è il sistema capitalistico “puro” nel quale esiste una relazione necessaria tra il saggio del plusvalore e lo sviluppo delle forze produttive, e per esse tra la struttura della distribuzione sociale del reddito nazionale e la domanda. In questo modello è la relazione indicata che determina l’oscillazione della crisi. Infatti, “un aumento del plusvalore sopra il livello necessario determina una crisi per insufficienza della domanda”, mentre “la sua diminuzione rallenta la crescita economica”. Quel che la dinamica scheletricamente descritta provoca è quindi un “meccanismo di aggiustamento”, per ammorbidire il quale si può intervenire con la pianificazione. Ma questa è ostacolata dai rapporti con l’estero (che, quindi, devono restare entro certi termini, pena aumentare enormemente la fragilità del sistema ed in prospettiva rischiare di uscire dal novero dei paesi “centrali”).
Segue un passaggio che, scritto nel 1972, è profetico:

“Così cresce la contraddizione tra il carattere mondiale della produzione – che si manifesta nel peso crescente assunto dalle multinazionali – e il carattere sempre nazionale delle istituzioni tanto del capitale quanto del lavoro. Dunque l’ideologia socialdemocratica [costante bersaglio polemico di Amin], che sottende questo tipo di contratto sociale, trova il suo limite alle frontiere dello stato nazionale” (p.45).

Invece il “sistema periferico” ha la seguente articolazione fondamentale: all’origine si trova la creazione di un settore di esportazione “la cui ragione ultima che lo rende possibile va ricercata nella direzione di una risposta alla questione relativa alle condizioni che rendono ‘conveniente’ la sua costituzione. Infatti il capitale centrale nazionale non è in alcun modo obbligato ad emigrare in seguito ad una insufficienza degli sbocchi possibili al centro, ma emigrerà se vi può ottenere una migliore remunerazione”, proprio per combattere la caduta tendenziale del saggio di profitto.
È in questo punto che va inserita la teoria dello scambio ineguale, in quanto si tratta di una cosa molto semplice: i prodotti sono interessanti solo se la remunerazione del lavoro – a parità di produttività – è inferiore a quella del centro. È evidente che in questo modo la distanza per definizione non sarà mai colmata, in quanto la periferia serve il centro.

Facendo riferimento al caso africano ne segue che:

“dal momento in cui la società – divenuta in questo senso dipendente – viene sottomessa a questa nuova funzione, perde il suo carattere ‘tradizionale’, poiché la reale funzione delle società tradizionali (vale a dire precapitaliste) non è evidentemente altra che quella di fornire al capitalismo mano d’opera a basso costo!”

La conseguenza del modello “periferico”, oltre alla dipendenza dal prezzo fatto dal centro (che altrimenti i capitali “fuggono”, siano essi esterni o interni), è che il mercato interno è fragile e limitato. I due effetti si rafforzano reciprocamente e creano una “contraddizione tra la capacità di consumo e la capacità di produzione che viene superato [solo] a livello del sistema mondiale complessivo (centro e periferie) mediante l’estensione del mercato al centro; la periferia – meritando pienamente il suo nome – non riveste che una funzione marginale, subalterna e limitata” (p.49).

È vero che ad un certo punto di estensione del settore di esportazione si crea comunque un mercato interno, ma non è il mercato 2 (beni di massa), bensì è necessariamente il mercato 3 (quello dei beni di lusso, per lo più importati), in quanto il settore di esportazione esiste proprio perché e nella misura in cui remunera molto poco il lavoro e conserva alti margini di profitto (estrae molto plusvalore); questi sono in parte trattenuti dalle élite (“compradore”) che sono coinvolte nel circuito di produzione, controllo e commercializzazione e quindi si avvia un mercato del lusso. Si tratta, in termini marxisti, di gruppo sociali “parassitari” che assumono solo il ruolo di cinghia di trasmissione.

In qualche modo è come se l’industrializzazione inizi “dalla fine”, cosa che comporta una distorsione fondamentale nel processo di allocazione delle risorse.



Ciò stabilito, la narrazione dello sviluppo storico africano parte dalla descrizione delle “formazioni” africane ante il mercantilismo europeo. Queste erano autonome e dotate di una sufficiente capacità di organizzazione e differenziazione, il centro della relazione che istituivano con la parte a nord del mondo passava per il commercio trans-sahariano nel quale da parte africana erano scambiati oro e prodotti come l’avorio e dall’altra i prodotti ‘europei’. Si trattava di uno scambio ‘tra pari’ che ad un certo punto è mutato di segno e diventato subalterno per effetto dell’insorgenza del capitalismo mercantile europeo. In particolare ha prodotto effetti vasti e distruttivi lo spostamento, avvenuto nel XVI secolo, del centro mercantile dal mediterraneo all’Atlantico. Contemporaneamente questo evento epocale ha prodotto il declino delle città italiane, degli intermediari arabi e dei terminali africani. Con il crollo del commercio trans-sahariano, che andava avanti da secoli, e il rafforzamento del capitalismo mercantile (1600-1800), si costituiscono allora i due poli del modo di produzione capitalistico: la proletarizzazione e la ricchezza monetaria. Il sistema degli scambi di lunga percorrenza (i più redditizi) si riarticola nel triangolo tra il “centro” europeo, la “periferia” americana (che gradualmente evolverà in “semi-periferia” e poi “centro”) e la “periferia della periferia” africana; quest’ultima viene costretta nel ruolo di fornitore della manodopera servile, dal momento che i suoi prodotti metalliferi sono travolti dalla maggiore convenienza di quelli ricavati dal continente americano.

Da questo momento, e non prima, l’Africa si struttura secondo esigenze che gli sono esterne. Questo è il punto distintivo della critica allo sviluppo “ineguale” e “subalterno”, che Amin propone.

Il modo dominante diventa il commercio di monopolio di lunga percorrenza. In conseguenza, “il commercio atlantico, che prende il posto del commercio trans-sahariano, non libera le forze produttive, ma si risolve al contrario con un regresso di queste ed una disgregazione della società e dello stato Woolo-Woolo. Naturalmente la cosa non è stata senza resistenze, pertanto i francesi hanno dovuto usare la forza per spostare i precedenti rapporti trans-sahariani e per sottomettere questa regione dell’Africa ed indirizzare le sue relazioni con l’esterno in conformità alle esigenze dell’insediamento di Saint-Louis” (p.23). In questo conflitto l’Islam assume un ruolo dirigente nella resistenza e cambiano tutti i precedenti rapporti di potere, avviandosi una disgregazione, un isolamento ed una confusione dalla quale il continente non si riprenderà.

Anche alcuni movimenti autoctoni, come il “mercantilismo orientale” di Mohamed Alì vengono alla fine travolti ed incorporati. In quel caso l’Egitto tenta di avviare una sorta di processo di accumulazione primitiva, a spese delle aree interne, a sostegno della sua crescente industrializzazione. Ma viene ostacolato dalla rivolta mohadista e poi definitivamente sconfitto dagli inglesi, che garantiscono l’integrazione (subalterna) con il sistema capitalistico compiuto del XIX secolo.

Man mano che il capitale si sposta dal commercio, e quindi dalla rendita di intermediazione, all’industria la tratta degli schiavi, non più necessaria, scompare. Accade qui una cosa epocale:

“il centro di gravità del capitale si sposta dal settore mercantile verso la nuova industria. L’antica periferia, l’America dei piantatori – e la sua periferia, l’Africa del commercio negriero – dovevano cedere il posto ad una periferia nuova, avente le funzioni di fornire prodotti che permettono di ridurre il valore del capitale costante e di quello mobile impiegato al centro: materie prime e prodotti agricoli”.

Naturalmente perché lo scambio sia vantaggioso deve avvenire secondo le regole dello scambio ineguale.


Però, fino a che il capitalismo industriale resta nella fase concorrenziale il capitale privato disponibile per queste trasformazioni, pur necessarie, è scarso. Dunque i sistemi periferici, se vogliono essere inseriti nei flussi, si devono adattare con i propri mezzi.

Non appena il capitalismo industriale entrò però nella fase monopolistica, verso la fine del secolo, l’integrazione al sistema capitalistico, finalmente in grado di proiettare surplus in modo massivo e concentrato, si compì e si avviò, ad una scala capace di fare la differenza, anche la colonizzazione del mondo. Lo scopo dominante divenne ottenere a buon mercato i prodotti da esportare e per questo la soluzione fu organizzare direttamente in loco la produzione (inizialmente di prodotti di base e materie prime). Di questo processo in Africa sono presenti le varianti inglesi, francesi e belga (la meno capitalizzata), che hanno in comune la necessaria produzione del proletariato e quindi, a tale scopo, la violenta deformazione delle formazioni sociali locali e la generalizzazione dell’Africa delle riserve. Una Africa specializzata nel fornire, come scrive Amin, “proletariato migrante” (ovviamente intrafricano, come peraltro è al 90% ancora oggi[3]).
L’Africa dell’Ovest venne quindi ristrutturata per fornire i prodotti agricoli di esportazione che servivano ai mercati “sviluppati” e si creò una nuova e più ampia “economia di scambio” che aveva le seguenti caratteristiche:
1-      basata sul monopolio delle case commerciali di import-export;
2-      imposta una tassazione in oro che obbligava i contadini a produrre per vendere, per procurarselo, e ad abbandonare l’agricoltura di sussistenza o ‘comunitaria’;
3-      basata sul
4-      basata sul sostegno politico a classi locali autorizzate ad appropriarsi di fatto di una parte delle terre comuni;
5-      ed eventualmente, quando tutto fallisse, sulla forza.

Ciò che accade, nel complesso di queste tensioni trasformative, è che “la società tradizionale, in queste condizioni, è deformata a tal punto da non essere più riconoscibile; e perde la sua autonomia, avendo la sua funzione principale nella riproduzione per il mercato internazionale in condizioni che, poiché l’impoveriscono, le negano ogni prospettiva di modernizzazione radicale. Questa società ‘tradizionale’ non è dunque in transizione (verso la ‘modernità’); è compiuta come società indipendente periferica, e in questo senso bloccata” (p.34).

È quindi l’economia di scambio che si insedia in questa fase in Africa (con la divisione del lavoro territoriale, che suscita diverse “formazioni sociali”, e l’incastro di più “modi di produzione” primari e subalterni), a definire i rapporti di subordinazione/dominazione complessivi tra queste società “pseudotradizionali”, integrate al sistema mondiale, e la società capitalistica centrale che le determina e le domina. E nella quale la relativa ricchezza della costa (ad esempio della Nigeria) ha come necessario corollario l’impoverimento dell’entroterra e l’avvio di imponenti migrazioni che “impoveriscono le zone di partenza”.
Sul piano della produzione da esportazione si insediarono due modelli principali: la koulakisation, con la costituzione di una classe di piantatori indigeni, e il latifondo, in particolare in Sudan e in Nigeria del nord ad opera delle confraternite mussulmane.


Il punto centrale è che questo processo, tipico del modello economico e sociale della periferia imposto dal centro coloniale, nelle sue stesse modalità di funzionamento determina e presuppone l’emarginazione delle masse, in quanto questa è la condizione che rende possibile l’integrazione delle minoranze “compradore” nel sistema mondiale. L’egemonia di queste minoranze fonda il poco sviluppo sull’unico mercato interno florido, quello del “lusso”, in un sistema che si basa fondamentalmente sul solo settore di esportazioni. Ciò rende centrale una semplice domanda:

“sviluppo per chi?”

Questo genere di sviluppo, per specifiche ragioni interne, alimenta infatti il sottosviluppo per la grande maggioranza della popolazione, la quale va mantenuta in condizioni di deprivazione, insieme al mercato interno, proprio al fine di creare le condizioni per l’arricchimento delle élite connesse con il riciclo dei capitali, le forme di rendita e la fiorente economia di esportazione. Le condizioni del successo del modello sono precisamente la debolezza del mercato interno e la povertà “relativa” (alle condizioni competitive mondiali) del mercato del lavoro e dei bacini di riserva.
Ma questo sviluppo non ha senso perché è intrinsecamente votato all’apartheid, alla disattivazione democratica ed è una strada senza sbocco. Un costante inseguimento diretto dall’esterno.

Come si qualifica allora la “transizione”, titolo del libro?

Come il graduale passaggio da un modello basato sulle esportazioni ed i consumi di lusso (1/3/eventualmente 4) ad un modello basato sul consumo di massa e la produzione di beni strumentali (ovvero la indipendenza tecnologica), un modello 2/4. Ciò significa però puntare sulla diversificazione industriale contro la monoproduzione da esportazioni e la proprietà pubblica contro la privata. Passare da un modello di sviluppo sottosviluppato e dipendente ad un modello di sviluppo reale, autonomo ed autocentrato.

Ma proprio qui si applica “la legge dello sviluppo ineguale”, la quale dice che “i sistemi vengono distrutti o superati dapprima non nel loro nodo centrale, ma a partire dalle loro periferie che costituiscono gli anelli deboli della catena, quelli in cui le contraddizioni si evidenziano nella loro massima intensità” (p.53). Ovvero che i paesi periferici non potranno mai raggiungere quelli centrali, dovranno sorpassarli giocando un’altra partita. Rivedendo, cioè, il modello capitalistico del centro e la sua modalità di allocazione delle risorse, ma per farlo intanto sono “costretti a rigettare le regole del rendimento”. Per superare il centro dominante, che è intrecciato alla periferia dominata per vie interne (a questa), è necessario infatti fare leva sul capitale pubblico (“paziente”), capace di porsi obiettivi diversi e più ampi rispetto al mero rendimento, basandosi sul quale viene sempre riprodotta la condizione di dominazione e la sua indefettibile logica (incluso l’apartheid e la disattivazione democratica).
Con le parole di Amin:

“in realtà, le scelte fondate sulla base del rendimento nella struttura dei prezzi relativi che impone l’integrazione nel sistema mondiale, mantengono e riproducono il modello di distribuzione ineguale crescente dei redditi (cioè l’emarginazione), dunque, a loro volta, rinchiudono nel modello periferico di allocazione delle risorse. L’operazione di ‘raddrizzamento’ del processo di allocazione delle risorse deve dunque essere considerato esterno alle regole di mercato, come una applicazione diretta dell’espressione dei bisogni (bisogni nutritivi, alloggi, educazione, cultura)” (p.56).

Ciò significa impegnarsi:

-          Nell’implementazione della democrazia reale,
-          Nella revisione della direzione nella quale si muove l’innovazione tecnologica,
-          Nell’estensione della proprietà pubblica,
-          E nell’obiettivo della maturazione e dello sviluppo della coscienza socialista che non deve essere sacrificato a quello del rapido progresso economico.




[1] - Nel quale sono messi in contatto società che reciprocamente ignorano i costi di produzione, e nel quale, quindi, l’intermediario può estrarre ricchezza in modo sovradeterminato e “guadagna un decisivo monopolio”. Per l’importanza del commercio di lunga distanza si veda, ad esempio, Fernando Braudel, “La dinamica del capitalismo
[2] - Il che non è necessariamente un difetto, i modelli non possono essere complessi come la realtà e hanno sempre una dimensione performativa, servono ad uno scopo. Per un tentativo, non completamente riuscito, di definirne la funzione nella scienza economica si veda Dani Rodrik, “Ragioni e torti dell’economia
[3] - La maggior parte della emigrazione dalle zone povere, quelle che Amin chiama “le riserve” e che a suo parere sono tenute intenzionalmente in queste condizioni per fungere da costante bacino di manodopera servile da richiamare quando necessario al fine di tenere costantemente bassa, o comunque più bassa della concorrenza, la forza-lavoro necessaria per tenere in piedi l’economia da esportazione coloniale, si muove a corto raggio, dalle zone interne a quelle produttive. Sono passati quaranta anni e le condizioni neo-coloniali sono cambiate in molti sensi, ad esempio alcune industrie di trasformazione sono state insediate, a fianco delle tradizionali imprese alimentari e delle materie prime, ma ancora oggi da alcune aree depresse, spesso le stesse, come il Niger del nord, si muovo flussi interafricani e una piccola parte esfiltra verso l’occidente. Si veda, ad esempio, “Note circa l’economia politica dell’emigrazione”, Felwine Sarr, Achille Mbembe, “(Post)colonialismi e altracrescita”, Fanny Pigeaud, Ndongo Saba Sylla, “L’arma segreta della Francia in Africa”.

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