Pagine

sabato 31 agosto 2019

Paul Sweezy, “La teoria dello sviluppo capitalistico”





Il libro di Paul Sweezy è una esposizione elementare della teoria marxiana edita per la prima volta nel 1942 e che qui si legge nella edizione introdotta da Claudio Napoleoni per la Boringheri (la prima edizione era di Einaudi) che omette solo la parte sull’imperialismo. Del resto, come bene dice Napoleoni, sul tema del capitalismo monopolistico e dell’imperialismo l’autore, con Paul Baran, tornerà durante tutti gli anni cinquanta e sessanta.
Il testo curato da Napoleoni include anche numerosi contributi successivi alla “teoria del valore” ed in particolare ad uno dei punti sui quali Sweezy si sofferma di più: il problema della trasformazione in prezzi del valore-lavoro incorporato nelle merci (ma da “realizzare” nella circolazione). In merito sono presenti i contributi di Dobb, Winterniz, Seton e Meek. L’economista italiano nel suo commento valorizza lo schema proposto da Sraffa, per il quale è necessario, al fine di impostare la trasformazione, conoscere anche il modo in cui ogni merce include i diversi input di lavoro (esempio per l’intervento delle macchine, o dell’istruzione dei lavoratori) e la loro relativa distribuzione nel tempo al quale sono stati rilasciati, uno per uno. Resta il fatto che mentre all’origine di ogni produzione c’è sempre il lavoro (tutto dipende dal lavoro dell’uomo sulla natura), per il marxismo questo si annulla, viene sussunto, in un altro da sé, costituendo il ‘capitale’ che è ciò in cui si trasferisce la forza produttiva. Ne deriva che ciò che è in realtà produttivo non è il lavoro, ma il capitale.
Il secondo tema messo in evidenza da Napoleoni nel testo è il trattamento delle crisi produttive, sul quale sono descritte (e rigettate) le critiche di Bohm-Bowerk e Pareto, ma anche di Lange e Samuelson. Sweezy farebbe, in tal caso, una distinzione troppo netta tra tre generi di crisi presenti nel testo marxiano: “crisi da caduta del saggio di profitto”, crisi da “sproporzioni” e crisi da “sottoconsumo”. Si tratterebbe non tanto di cause distinte, quanto di concause di una unica crisi, che mettono in evidenza una circostanza importante: il capitalismo non potrebbe funzionare se fosse composto solo dalle due classi dei “capitalisti” e dei “proletari”. Proprio in base all’analisi di Marx resterebbe sempre in stato di stagnazione intervallata da piccoli cicli (è l’opinione di tendenza di Sweezy, e sarà quella anche di Baran), e deve sempre dipendere da apporti esterni (che saranno cercati in particolare nella proiezione imperialista, riprendendo una lettura leniniana).
Napoleoni la vede in modo leggermente diverso: “allo stato attuale delle cose, la ricostituzione dei capitali impiegati nella produzione dipende soprattutto dalla capacità di consumo delle classi non produttive” (da “Il Capitale”, Vol III, Tomo 2). Ovvero il cosiddetto “consumo improduttivo” (quello delle classi intermedie e quello indotto dalla spesa pubblica compensativa), a causa delle tendenze a sproporzione e sottoconsumo insite nella dinamica capitalistica, è parte integrante del processo di realizzazione. Processo senza il quale il plusvalore incorporato nelle merci non riesce a ricostituirsi come capitale, distruggendo la possibilità di trarne un profitto e quindi inceppando il processo di investimento.



La trattazione di Paul Sweezy muove da una robusta critica alla relazione tra individuo e società postulata dalla tradizione liberale, per essa dalla proposta di Robbins, che non vede il sistema economico come relazioni tra individui (ovvero relazioni sociali), ma “in termini di relazioni tra individui e cose”.
Questo è il punto di attacco centrale di Marx e la ragione per la quale, dato il suo metodo, sceglie di non partire dall’esteriorità dello scambio (e quindi dal problema del prezzo, messo in evidenza quasi negli stessi anni dalla “scuola marginalista”), ma dal problema della formazione del valore.
Il metodo di Marx è un movimento che va dall’astratto al concreto per via di progressive reintroduzioni di elementi prima trascurati. L’obiettivo del nostro è, infatti, di mettere in evidenza, secondo il motto che “il vero è il tutto”, l’interna legge di movimento della società moderna, non di descriverne la superficie, o l’apparenza.

Il valore ed il plusvalore
Si parte dunque dalla nozione di “merce”, ovvero di qualunque bene destinato allo scambio anziché all’uso diretto, ed alla stessa relazione “capitale-lavoro”, come relazione di scambio, nel quale tutti gli elementi sono incorporati nella nozione di merce. Sulla base di questa mossa, che vede appunto la “forza-lavoro” come merce essenziale del lavoratore, tutto il primo volume de “Il capitale” si muove ad un elevato grado di astrazione, ovvero avendo di mira un numero ristretto di aspetti della realtà. Ciò significa, per Sweezy, che ha un carattere provvisorio e deve essere completato dalla trattazione, purtroppo incompleta per la morte dell’autore, dei volumi previsti. Nel secondo e terzo volume si sarebbe trattato di reintrodurre elementi di concretezza, e di risolvere meglio alcuni piccoli rompicapo creati dalla posizione teorica.

Sempre muovendo dalle premesse sarebbe stata rovesciata da Marx anche la direzione proposta da Adam Smith nel famosissimo avvio del suo capolavoro, non è la divisione del lavoro a connettersi alla “naturale” propensione dell’uomo a scambiare, ma è lo scambio a precedere e rendere necessaria la divisione del lavoro. Ne consegue che “la produzione di merci non è la forma universale e inevitabile della vita economica”. La “inclinazione” a “permutare, barattare, e scambiare”, che Smith vedeva insieme alla divisione del lavoro come pilastri della società civile, ancorata nella stessa antropologia di base dell’uomo (per cui essere uomo era essere moderno e capitalista, con una relazione implicita ma fortissima con l’eurocentrismo[1]) implica infatti che “la produzione di merci, radicata nella natura umana, è la forma universale e inevitabile della vita economica; la scienza economica è la scienza della produzione di merci. Sotto questo aspetto, i problemi dell’economia assumono un carattere esclusivamente quantitativo, essi cominciano con il valore di scambio, il rapporto quantitativo fondamentale fra merci, determinato attraverso il rapporto di scambio” (p.28).
Per Franz Petry:

Questa divisione del lavoro è una condizione necessaria per la produzione di merci, ma non può sostenersi l’inverso, cioè che la produzione di merci sia condizione necessaria per la divisione del lavoro. Nella comunità indiana primitiva c’è una divisione sociale del lavoro senza produzione di merci. Per prendere un esempio più prossimo, in ogni stabilimento industriale il lavoro è diviso secondo un determinato sistema, ma questa divisione non dipende dal fatto che i singoli addetti si scambino reciprocamente i loro prodotti individuali. Possono divenire merci in relazione tra loro solo i prodotti che derivano da differenti tipi di lavoro, ciascun tipo essendo eseguito indipendentemente e per contro di individui privati[2].

Chiaramente la divisione del lavoro è fondamentale anche per Marx, ma non è necessariamente connessa allo scambio, e la forma della produzione di merci non è quindi la forma universale e necessaria della vita economica. Questa è piuttosto una forma, storicamente determinata, che non è in una qualche relazione di necessità con la natura umana. È per questo che è illegittima la fissazione unica della scienza economica, pretesa dalla scuola marginalista, sui rapporti meramente quantitativi, ignorando i rapporti sociali sottostanti. Dietro lo scambio delle merci c’è uno specifico rapporto, storicamente determinato, tra i produttori, e ne consegue che entrambi vanno ricompresi in un unico sistema concettuale.

Ora, se ogni merce ha sempre un duplice aspetto, essere un “valore d’uso” ed anche avere un “valore di scambio”, ovvero si costituisce in un certo rapporto tra il consumatore e l’oggetto consumato, e in un certo rapporto tra i produttori, ovvero tra gli esseri umani, ne consegue che il primo “sta al di fuori dell’indagine dell’economia politica” (M., C., Vol I), in quanto “scienza sociale delle relazioni tra esseri umani”.
Viene escluso in quanto, in altre parole, non incorpora direttamente un rapporto sociale. Siamo, insomma, alla posizione esattamente opposta a quella della economia moderna, per la quale (Robbins) “consideriamo il sistema economico come una serie di relazioni interdipendenti, ma concettualmente distinte, tra uomini e beni economici”[3]. Secondo la posizione liberale il valore d’uso, o, con il linguaggio liberale “l’utilità” è centrale.

Quel che informa l’interpretazione di Sweezy è questa consapevolezza: che il punto di vista di Marx è diametralmente opposto a quello dell’economia “borghese”. Questi si rifiuta di svolgere una teoria soggettiva del valore, che parta dallo scambio e quindi dal prezzo, perché sono i rapporti sociali a determinare come merce qualcosa. Il “valore di scambio”, che all’apparenza è un rapporto quantitativo tra cose, è solo la forma esterna di un rapporto sociale tra i proprietari delle merci, ovvero tra i produttori. E’, in altre parole, espressione del fatto che i produttori individuali, ognuno chiuso nella sua relazione privata, lavorano in realtà gli uni per gli altri. Il loro lavoro ha un carattere sociale, che è determinato proprio dall’atto dello scambio.
È da questa analisi delle caratteristiche sociali della produzione di merci che Marx arriva ad identificare il lavoro come sostanza del valore. In questo modo si riesce a non considerare l’economia dal punto di vista del consumo (conducendo alla teoria marginalista), ma della produzione.

Lavoro e valore
Chiaramente il lavoro che qui si mette al centro non è quello fenomenico, ma è il “lavoro astratto”. Ovvero quello nel quale sono ignorate tutte le caratteristiche speciali che lo differenziano nella pratica. Dice Sweezy, “il lavoro in generale”[4]. In questo senso la merce, in quanto tale (ovvero anche essa in generale), ha a che fare con tutte altre, è sempre plurale, ed assorbe una parte della “forza-lavoro” complessiva a disposizione della società.
Quindi è quando la produzione delle merci viene compresa come “la forma fantastica di un rapporto tra cose”, reificando (ovvero rendendo materiali) i rapporti sociali, che si dà il “feticismo”. Al contrario questa è fondata in una relazione basilare tra uomini, ovvero nei rapporti sociali di produzione per lo scambio.

Marx, dunque, ipotizza che ci sia, in linea generale o d’insieme, una corrispondenza necessaria tra i rapporti di scambio e i tempi di lavoro socialmente disponibili. E che a merci di eguale “valore” debbano corrispondere tempi di “lavoro medio sociale” analoghi. Ciò anche considerando le disomogeneità della produttività dei singoli lavoratori (se dipendente da lavoro incorporato, ad es. da addestramento o da doti naturali diverse) e la concorrenza. Seguendo la trattazione proposta dall’autore si scopre che in realtà la domanda non è affatto ignorata, ma non è stata sviluppata una teoria della scelta dei consumatori (come il marginalismo). Oltre alle ragioni prima esposte il fatto è che per Marx la scelta del consumatore dipende essenzialmente dalla sua posizione nella società (e nei rapporti di produzione di questa) e quindi dal suo reddito.

Tra parentesi osserviamo che la ‘domanda sociale’, in altri termini ciò che regola il principio della domanda, è essenzialmente condizionato dai reciproci rapporti delle diverse classi economiche e dalle rispettive posizioni economiche; vale a dire, in primo luogo, dal rapporto tra plusvalore totale e salari, e, in secondo luogo, dalla distribuzione del plusvalore tra i suoi vari componenti (profitto, interesse, rendita fondiaria, imposte, etc.), il che mostra ancora una volta che assolutamente nulla può essere spiegato dal rapporto dell’offerta e della domanda, a meno che non sia stata preventivamente appurata la base su cui poggia quel rapporto[5].

Plusvalore e capitalismo
In altre parole la domanda è dominata dalla distribuzione del reddito. Per comprendere come funziona la società bisogna per questo sempre partire dai rapporti di produzione, solo così si riesce a mettere ordine nel caos apparente della società capitalista.

Società che non va confusa con quella mercantile che l’ha preceduta e neppure con la mera produzione di merci. Si dà capitalismo non quando si producono merci, ma quando la proprietà dei mezzi di produzione e il lavoro sono separati. E quindi quando mezzi di produzione e forza-lavoro diventano entrambi merci, per cui tutto assume il carattere di rapporto di scambio.
In altre parole, l’elemento specifico del capitalismo è la compravendita della forza-lavoro.

La società mercantile vede la sua espressione nella formula M-D-M (produco una merce per averne un’altra, usando il denaro come mediazione), mentre il capitalismo nasce quando questa forma sociale è sostituita da quella D-M-D’ (parto dal denaro e ne ottengo di più, passando per le merci come medium).
Ne consegue che:

“i valori di uso non debbono essere mai considerati come lo scopo reale del capitalista, e nemmeno il profitto inerente ogni singola operazione. Ciò che il capitalista ha di mira è solo il processo senza requie e senza fine della creazione di profitto”[6].

Ora, detto molto in sintesi, se la forza-lavoro è una merce il suo valore è dato semplicemente dal tempo di lavoro necessario alla sua riproduzione (in senso allargato, ovvero, nelle condizioni del tempo di Marx il tempo di lavoro necessario all’acquisizione di tutte le merci e servizi indispensabili al mantenimento del lavoratore e della sua famiglia). Tutto il resto è plusvalore.
Esso quindi non deriva dalla circolazione delle merci e non deriva dalla presenza delle materie prime (che sono meramente trasferite entro la merce, portando con sé il loro valore, a sua volta dipendente dalla quantità di lavoro incorporata), e di macchine (che rilasciano gradualmente il lavoro incorporato necessario alla loro produzione e mantenimento). Per questo l’unica fonte di valore è la forza-lavoro.

Distinguendo le componenti del valore (p.73):
1.     Il valore delle materie prime e delle macchine è il capitale costante ( c);
2.     Il valore della riproduzione della forza-lavoro è il capitale variabile ( v);
3.     Il resto è plusvalore (s)

Quindi il valore totale è dato dalla formula:
vt = c + v + s

Da questa formula, condotta al massimo grado di astrazione, deriva una definizione della forma capitalistica del saggio di sfruttamento come plusvalore su capitale variabile, ovvero
s/v = s’
e la definizione di “composizione organica del capitale”, ovvero:
q = c/(c+v)
In altri termini: “la composizione organica del capitale è una determinazione della misura in cui materiale, strumenti e macchine entrano in combinazione col lavoro umano nel processo produttivo”.

Da queste posizione si arriva alla definizione di ciò che conta dal punto di vista del capitalismo, il “saggio di profitto”, il quale solo può determinare accumulazione del capitale (la cui crescita illimitata è la sola funzione riconosciuta nel sistema):
p = s/ (c+v)
ovvero
p = s’ (1-q)
il “saggio di profitto” è funzione del plusvalore diviso la somma del capitale costante e variabile, cioè del “saggio del plusvalore” per l’inverso del “capitale costante”.

Quest’ultima posizione è di notevole importanza nella teoria: dato che il “saggio di profitto” in una società tende ad uniformarsi (se così non fosse i capitali si sposterebbero) entro una forchetta ragionevole[7], ne consegue che per avere una posizione di equilibrio per la quale le merci saranno effettivamente prodotte e quindi scambiate, dovremo avere anche saggi di “plusvalore” (ovvero sfruttamento del lavoro) e “composizione organica” (ovvero meccanizzazione) simili.
Ma la “composizione organica” è certamente molto diversa nei diversi settori (ad esempio, nella produzione di acciaio è molto alta ed in quella dei tessuti, all’epoca di Marx, era molto più bassa), e quindi “la legge del valore non domina direttamente”. Solo nel terzo libro del capitale viene concesso che la “composizione organica” non è eguale tra i diversi settori, ma anche per il carattere incompleto del testo, sostiene Sweezy, la soluzione non è perfettamente soddisfacente.

Il processo di accumulazione
Ora, se questa è una descrizione altamente semplificata del processo astratto di creazione del valore, come procede però l’accumulazione. In questo secondo passaggio, dall’astratto al concreto e dal profondo verso la superficie, Marx parte dalla schematizzazione, sulle orme del fisiocratico Francois Quesnay, del meccanismo di “riproduzione semplice”. Ovvero di un sistema ideale di circolazione del valore che porta al termine a riavere esattamente quel che si è speso.
L’economia è divisa in due settori: la produzione dei mezzi di produzione, e la produzione dei beni di consumo. Questi ultimi in consumo di base e di lusso.
I : c1 + v1 + s1 = w1
II: c2 + v2 + s2 = w2
Che porta a:
c2 = v1 + s1
La condizione basilare della riproduzione semplice: il valore del capitale costante consumati nel settore dei beni di consumo deve essere uguale al valore delle merci consumate dai lavoratori e dai capitalisti entrambi impegnati a produrre i mezzi di produzione. Quando questa condizione è realizzata il livello produttivo resta sempre eguale, anno dopo anno.

Per inciso ciò significa che in un sistema economico come quello contemporaneo, sistematicamente eccedente di consumi e scarseggiante di investimenti (ovvero, dove c2 < v1 + s1) il livello produttivo deve essere declinante. Come in effetti è.

Questo sistema statico è alterato se il capitalista riesce ad espandere il suo capitale, convertendo una quota del plusvalore in capitale addizionale, in modo da riuscire ad appropriarsi di un plusvalore maggiore al successivo anello di produzione (chiaramente se riesce a “realizzare”, come vedremo), e a sua volta al terzo passo per convertirne un’altra quota in ulteriore capitale addizionale … è il “processo di accumulazione del capitale”.
Ma in questo atteggiamento non c’è nulla di naturale, si tratta di un effetto del sistema, come scrive Sweezy: “il desiderio del capitalista di espandere il valore soggetto al suo controllo (di accumulare capitale) trae origine dalla posizione speciale che esso occupa in una forma particolare di organizzazione della produzione sociale … il capitalista è capitalista, ed è una figura importante nella società, soltanto in quanto è il proprietario e il rappresentante del capitale. Senza questo sarebbe nulla. Ma il capitalista ha soltanto una qualità, quella di possedere una grandezza; ne consegue che un capitalista si può distinguere da un altro soltanto per la grandezza del capitale che rappresenta” (p.93). La cosiddetta “teoria dell’attesa”, proposta per la prima volta da Nassau nel 1830 e poi ripresa e portata avanti da Marshall, equivoca completamente questo semplice fatto.

Questo anello di rafforzamento però implica anche che l’accumulazione presume un aumento della forza-lavoro, e qui c’è un gravissimo problema interno: quando la domanda di una data merce aumenta, aumenta anche il suo prezzo. Ciò implica una deviazione del prezzo dal valore che inceppa l’intero meccanismo.
E la soluzione non fa parte del sistema della produzione, in quanto la forza-lavoro è una merce, ma molto particolare. Fuori del caso delle navi negriere non c’è una industria che la può produrre, anche se il suo prezzo sale. Dunque manca un meccanismo equilibrante al crescere dell’accumulazione e c’è il rischio che il salario aumenti fino ad annullare il profitto.

Ne consegue ancora una cosa molto semplice: “la relativa eccedenza della popolazione è il cardine intorno a cui agisce la legge della domanda e dell’offerta” (p.102).
Per creare questa eccedenza relativa della popolazione, che Marx chiama “esercito industriale di riserva”, interviene l’aumento della macchinizzazione (o altri metodi secondari, come il saldo  immigratorio positivo). In qualche modo il sistema genera una soluzione, per non far calare il saggio di profitto viene introdotto macchinario aggiuntivo (non appena il costo del lavoro, salendo, lo rende necessario e conveniente) e questo espelle abbastanza lavoratori da spingere al ribasso dei relativi salari.
È in questo punto che, attraverso la leva della disoccupazione tecnologica, interviene il meccanismo delle crisi. Questa è la specifica ragione per la quale il capitalismo senza crisi è inconcepibile.  Senza di esse si adagerebbe su un livello statico di stagnazione (ma questo lo vediamo dopo).

Marx, insomma, rifiuta la soluzione malthusiana della “legge della popolazione”, contraddetta dai fatti nel corso dell’ottocento, e articola in sua vece la tesi “dell’esercito industriale di riserva” per spiegare i mutamenti dei metodi produttivi come stretta necessità del sistema capitalistico.

La caduta tendenziale del saggio di profitto
Se l’accumulazione dipende (come il profitto) dalla progressiva meccanizzazione del processo produttivo, però, questo implica che la produttività del lavoro cresce continuamente nel capitalismo. Con essa cresce quella che Marx chiama la “composizione organica del capitale”.
Tornando alla formula
P = s’ (1 - q)
Con un saggio del plusvalore costante si determina la conseguenza che il saggio di profitto finisce per variare in ragione inversa della composizione organica del capitale, e quindi “se q aumenta, allora p deve diminuire”.
Questa è la tendenza alla caduta del saggio di profitto.

La crescita illimitata del capitale ha, in altre parole, degli ostacoli interni.

Si tratta di una tendenza, sia chiaro. E ci sono possibili cause antagoniste:
1-     Deprezzamento degli elementi del capitale costante;
2-     Aumento dell’intensità dello sfruttamento (in modo da far cadere la condizione che il saggio del plusvalore resti costante);
3-     Depressione dei salari al di sotto del loro valore (una circostanza che Marx, al contrario di Malthus, reputava impossibile);
4-     L’eccedenza relativa della popolazione, infatti “l’esistenza di lavoratori disoccupati è una condizione favorevole alla fondazione di nuove industrie con una composizione organica del capitale bassa e quindi un profitto alto” (p.116).                                                                   
5-     Il commercio estero.

Qui c’è qualche problema di tenuta e coerenza del ragionamento (che, va ricordato, attiene ad una opera incompleta): infatti, da una parte Marx postula che i salari non crescono mai proporzionalmente alla produttività del lavoro e che la composizione organica del capitale cresce tendenzialmente sempre con un saggio di plusvalore costante. Ma l’aumento della composizione organica presume la crescita della produttività del lavoro, e quindi se resta costante il saggio del plusvalore significa necessariamente che i salari devono crescere insieme alla produttività (ovvero cresce il capitale variabile). Però abbiamo visto che la crescita della produttività aumenta l’esercito industriale di riserva e questo deprime i salari (si ha: aumento composizione organica > incremento produttività > aumento esercito di riserva > calo dei salari).

La trasformazione dei valori in prezzi
A questo punto Paul Sweezy introduce il problema che rende particolarmente lontana la teoria marxiana da quelle liberali: la difficoltà di utilizzare la teoria del valore in relazione alla variazione dei prezzi osservabile nella pratica. Per l’economista americano, però, la soluzione tentata da Marx non soddisfa la logica e si risolve in una violazione dell’equilibrio della riproduzione semplice (p.134). Del resto la ragione per tenere il calcolo del valore è piuttosto forte, il calcolo del prezzo, restando alla superficie, nasconde le sottostanti relazioni tra le persone e le classi e quindi è un esercizio di feticismo della merce.
Malgrado questa forte ragione politica (bisogna rammentare che il titolo del capolavoro di Marx è “critica dell’economia politica”) sembrerebbe a malincuore quindi di doverla abbandonare (come, ad esempio, fece Sraffa), ma c’è un’alternativa proposta nel cosiddetto “metodo Bortkiewicz” per derivare un calcolo del prezzo dal calcolo del valore. E’ la frontiera sulla quale si assesta Paul Sweezy in quegli anni.
Del resto già la teoria di Ricardo, nel quale il saggio di profitto è composto dal sovrappiù diviso i consumi necessari alla riproduzione dei fattori, entrava in difficoltà nel circolo vizioso dei prezzi (che dipendono dal saggio di profitto) e per questo tentava la strada poi seguita da Marx di riportarsi al “lavoro contenuto” e la cui conseguenza è di mettere in luce il carattere sottrattivo del profitto.
Il tentativo di Sraffa, di misurare tutto in merci, anziché in lavoro, e con un sistema di equazioni simultanee che, dato il saggio del salario riesce a determinare i prezzi di tutti i beni e quindi il saggio di profitto che ne deriva. Ma il “saggio del salario” non è determinabile in base alle necessità medie della riproduzione, o ad altro riferimento quantitativo, bensì come effetto di un rapporto di forza tra le parti. Sarebbe “il salario come variabile indipendente”, in effetti.

Le crisi e le depressioni
Dopo questa deviazione si arriva a quello che è uno dei cuori della teoria marxiana, pur senza una vera e propria trattazione sistematica: la natura delle crisi capitalistiche.
La tendenza alla crisi nasce da uno squilibrio di fondo tra l’atteggiamento delle due classi fondamentali del modello marxiano: i lavoratori ed i capitalisti. I primi sono mossi dal desiderio della propria sussistenza e riproduzione, e quindi si muovono nel mondo del M-D-M, mercantile. I capitalisti, invece, sono mossi dalla logica dell’accumulazione, nel mondo del D-M-D’, e dipendono per la propria esistenza dal completamento del circolo della valorizzazione. Ne consegue che se D’ diventa inferiore a D (ovvero il delta di D diventa negativo) i capitalisti sono costretti a ritirare il capitale, la circolazione si ritrae e si sviluppa una crisi. Questa fa comparire una superproduzione.
Ciò accade anche con delta di D positivo, ma inferiore ad un livello medio atteso, in quanto i capitalisti in questo caso attenderanno che risalga e rinvieranno ogni investimento. Ne consegue una cosa molto semplice: “la forma specifica della crisi capitalistica è una interruzione del processo di circolazione prodotta da un declino del saggio di profitto sotto il livello normale” (p.170).
Ma ci sono almeno due tipi di crisi:
1-     La crisi da caduta tendenziale del saggio di profitto,
2-     Le crisi da realizzo.
Le prime passano per la sovrapproduzione e per la speculazione, fino a che l’incremento dell’esercito di riserva la riporta entro i termini “accettabili”. Sotto questo profilo quella di Marx, più che essere una teoria della crisi è una teoria del ciclo capitalistico. Ovvero della forma specifica dello sviluppo di cui la crisi è una fase.

Le seconde si hanno quando il motivo immediatamente scatenante delle crisi è l’incapacità dei capitalisti di vendere le merci e ridurre le relative scorte, ovvero di realizzare il pieno valore delle merci. Si ha in questo caso una “crisi da realizzo”. A sua volta può dipendere dalla “sproporzione” tra i vari settori (ad esempio tra settore dei mezzi di produzione e del consumo delle merci), o dal “sottoconsumo” delle masse.

La prima, secondo la proposta del riformista Tugan-Boronowsky, dipende dal carattere non pianificato del capitalismo concorrenziale. Le crisi non sarebbero allora un “memento mori” del capitalismo, ma semplicemente delle perturbazioni tecniche in via di principio risolvibili.
La tesi di Tugan diede avvio ad una seria discussione nella socialdemocrazia dell’avvio del secolo, alla quale parteciparono Conrad Schmidt, Kautsky, Boudin, Hilferding e Rosa Luxemburg. La contraddizione nasce da due tendenze opposte: quella alla restrizione del consumo -ovvero dell’impegno di capitale variabile- e nello stesso tempo quella dei capitalisti a tentare un’espansione illimitata della produzione. Si tratta di una contraddizione fondamentale che ha come conseguenza il fatto che il ristagno è da considerarsi la condizione normale del capitalismo.
La più compiuta teoria del sottoconsumo fu messa a punto da Grossmann, secondo il quale nel capitalismo è all’opera una tendenza ad espandere la capacità di produzione dei beni (sotto la spinta individuale a diventare ricchi) più rapidamente della espansione della relativa domanda. Le conseguenze sono “sottoconsumo” e “sovrapproduzione” (due facce della stessa dinamica).

Sul tema entra anche Lenin, nei suoi testi polemici contro i narodniki (populisti), i quali sostenevano che il capitalismo non si potesse mai espandere sul mercato interno, ma solo accaparrandosi mercati esterni sempre più ampi. Ma la conseguenza per la Russia era che, essendo i mercati coloniali già occupati, il capitalismo non aveva futuro.
Lenin combatte questa idea, di fare affidamento solo sui contadini e le loro antiche istituzioni comunitarie (mir), accusandola di dogmatismo e di fuga nel sogno:

“non vi è nulla di più stupido che dedurre dalle contraddizioni del capitalismo il suo carattere non-progressivo, ecc. ciò equivale a sfuggire una realtà non piacevole, ma indubbia, per andare al mondo nebuloso delle fantasie romantiche”, il capitalismo è pieno di contraddizioni, come ogni forma storica, ma “esse non escludono la sua progressività in confronto a sistemi primitivi di economia sociale” (cit, p.218).

La controversia sul crollo
Siamo alla fine: resta la questione se le crisi siano il “memento mori” del capitalismo, o se siano solo degli squilibri superabili. Alla morte di Engels la controversia prende quota intorno alle provocazioni di Bernstein, che proponeva di abbandonare la “teoria del crollo” (per la verità mai formulata in quanto tale da Marx) in favore di un pacifico trapasso. Kautsky obietta negando la stessa esistenza di una “teoria del crollo” nel corpus marxiano, ma individuando una necessità di flessibilità nella scelta di mezzi e azioni. Nel 1902 aggiungerà che il capitalismo ha in effetti una intrinseca tendenza alla depressione cronica e, in sua conseguenza, all’inasprimento dei conflitti internazionali.
Rosa Luxemburg, oltre ad intervenire nel dibattito con Bernstein[8], porta avanti questa idea, cercando di dimostrare che l’accumulazione capitalistica è impossibile in un sistema capitalistico chiuso sulla base di una dimostrazione per la quale i lavoratori esauriscono la propria capacità spendendo il solo capitale variabile messo a disposizione nel ciclo e quindi i capitalisti, per impossibilità di realizzo, non possono più realizzare un profitto. Tutto si muove perciò in una specie di “carosello”. L’unica possibilità di espansione del profitto e quindi del sistema si ha alla fine nella cattura di mercati esteri non capitalisti.
La ricezione nella socialdemocrazia tedesca fu furiosa ed anche in quella russa fu aspramente criticata (ad esempio da Bucharin).

Questa è, però, alla fine la posizione cui Paul Sweezy aderisce: il sistema capitalistico non crollerà necessariamente (in effetti i “crollisti” comunque postulavano che le disfunzioni ad un certo punto sarebbero diventate talmente acute da porre fine al capitalismo per transizione al socialismo), ma tende alla depressione cronica per la crescita dei mezzi di produzione eccedente la capacità di assorbimento delle merci.

Tende.

Perché ci sono all’opera potenti forze di contrasto, tra queste due lavorano a ridurre i mezzi di produzione:
a-     Le nuove industrie “distruttive”,
b-     Gli investimenti erronei, con conseguente distruzione di capitale;

e tre forze sono rivolte ad aumentare i consumi:
a-     L’aumento della popolazione, autoctona e non,
b-     Il consumo improduttivo, in particolare della nuova classe media,
c-     Le spese dello Stato.

Il seguito del suo lavoro, nel corso degli anni cinquanta e sessanta sarà rivolto ad indagare queste forze e, in particolare, ad adattare la teoria alla “fase monopolista” matura.





[1] - Per una violenta requisitoria si veda l’opinione del militante di origine trotskista Hosea Jaffe, “Era necessario il capitalismo?”
[2] - Franz Petry, “Il contenuto sociale della teoria del valore di Marx”, l’autore è morto a ventisei anni nella prima guerra mondiale, e questo è il suo unico libro.
[4] - Altre nozioni di “lavoro astratto”…
[5] - Karl Marx, “Il Capitale”, Vol III, p.214
[6] - Karl Marx, “Il capitale”, vol I
[7] - O, in altri, termini che nessuno investirebbe ad un saggio di profitto, poniamo del 5%, se in un altro settore privo di significative barriere all’ingresso (e questo è uno dei fattori chiave) si potrebbe avere un rendimento, poniamo, del 10%.
[8] - Per come la mette Luxemburg, “o la trasformazione socialista continua ad essere una conseguenza delle contraddizioni obiettive del sistema capitalistico, allora insieme a questo sistema si sviluppano anche le sue contraddizioni, e un crollo, in questa o in quella forma, a un certo momento, ne è il risultato; ma allora anche i ‘mezzi di adattamento’ [Bernstein] sono inefficaci e la teoria del crollo è giusta. Oppure i ‘mezzi di adattamento’ sono in realtà tali da impedire un crollo del sistema capitalistico, rendono quindi il capitalismo in grado di esistere, sopprimono le sue contraddizioni; ma allora il socialismo cessa di essere una necessità storica, e sarà tutto quel che si vuole tranne che un risultato dello sviluppo materiale della società. Questo dilemma conduce ad una altro dilemma: o Bernstein ha ragione per quanto riguarda il corso dello sviluppo capitalistico, e allora la trasformazione socialista della società si muta in un’utopia, oppure il socialismo non è un’utopia e allora la teoria dei ‘mezzi di adattamento’ non deve essere valida. That is the question, questo è il problema”, Rosa Luxemburg, “Newe Zeit”, 1896.

Nessun commento:

Posta un commento