Il
libro di Paul Sweezy è una esposizione elementare della teoria marxiana edita
per la prima volta nel 1942 e che qui si legge nella edizione introdotta da
Claudio Napoleoni per la Boringheri (la prima edizione era di Einaudi) che
omette solo la parte sull’imperialismo. Del resto, come bene dice Napoleoni,
sul tema del capitalismo monopolistico e dell’imperialismo l’autore, con Paul
Baran, tornerà durante tutti gli anni cinquanta e sessanta.
Il
testo curato da Napoleoni include anche numerosi contributi successivi alla “teoria
del valore” ed in particolare ad uno dei punti sui quali Sweezy si sofferma
di più: il problema della trasformazione in prezzi del valore-lavoro
incorporato nelle merci (ma da “realizzare” nella circolazione). In merito sono
presenti i contributi di Dobb, Winterniz, Seton e Meek. L’economista italiano nel
suo commento valorizza lo schema proposto da Sraffa, per il quale è necessario,
al fine di impostare la trasformazione, conoscere anche il modo in cui ogni
merce include i diversi input di lavoro (esempio per l’intervento delle
macchine, o dell’istruzione dei lavoratori) e la loro relativa distribuzione
nel tempo al quale sono stati rilasciati, uno per uno. Resta il fatto che
mentre all’origine di ogni produzione c’è sempre il lavoro (tutto dipende dal
lavoro dell’uomo sulla natura), per il marxismo questo si annulla, viene
sussunto, in un altro da sé, costituendo il ‘capitale’ che è ciò in cui si
trasferisce la forza produttiva. Ne deriva che ciò che è in realtà produttivo
non è il lavoro, ma il capitale.
Il
secondo tema messo in evidenza da Napoleoni nel testo è il trattamento delle
crisi produttive, sul quale sono descritte (e rigettate) le critiche di
Bohm-Bowerk e Pareto, ma anche di Lange e Samuelson. Sweezy farebbe, in tal
caso, una distinzione troppo netta tra tre generi di crisi presenti nel testo
marxiano: “crisi da caduta del saggio di profitto”, crisi da “sproporzioni” e
crisi da “sottoconsumo”. Si tratterebbe non tanto di cause distinte, quanto di
concause di una unica crisi, che mettono in evidenza una circostanza
importante: il capitalismo non potrebbe funzionare se fosse composto solo dalle
due classi dei “capitalisti” e dei “proletari”. Proprio in base all’analisi di
Marx resterebbe sempre in stato di stagnazione intervallata da piccoli cicli (è
l’opinione di tendenza di Sweezy, e sarà quella anche di Baran), e deve sempre
dipendere da apporti esterni (che saranno cercati in particolare nella
proiezione imperialista, riprendendo una lettura leniniana).
Napoleoni
la vede in modo leggermente diverso: “allo stato attuale delle cose, la
ricostituzione dei capitali impiegati nella produzione dipende soprattutto
dalla capacità di consumo delle classi non produttive” (da “Il Capitale”,
Vol III, Tomo 2). Ovvero il cosiddetto “consumo improduttivo” (quello delle
classi intermedie e quello indotto dalla spesa pubblica compensativa), a causa
delle tendenze a sproporzione e sottoconsumo insite nella dinamica
capitalistica, è parte integrante del processo di realizzazione.
Processo senza il quale il plusvalore incorporato nelle merci non riesce a
ricostituirsi come capitale, distruggendo la possibilità di trarne un profitto
e quindi inceppando il processo di investimento.
La
trattazione di Paul Sweezy muove da una robusta critica alla relazione tra
individuo e società postulata dalla tradizione liberale, per essa dalla
proposta di Robbins, che non vede il sistema economico come relazioni tra
individui (ovvero relazioni sociali), ma “in termini di relazioni tra individui
e cose”.
Questo
è il punto di attacco centrale di Marx e la ragione per la quale, dato il suo
metodo, sceglie di non partire dall’esteriorità dello scambio (e quindi dal
problema del prezzo, messo in evidenza quasi negli stessi anni dalla “scuola
marginalista”), ma dal problema della formazione del valore.
Il
metodo di Marx è un movimento che va dall’astratto al concreto per via di
progressive reintroduzioni di elementi prima trascurati. L’obiettivo del nostro
è, infatti, di mettere in evidenza, secondo il motto che “il vero è il tutto”,
l’interna legge di movimento della società moderna, non di descriverne la
superficie, o l’apparenza.
Il
valore ed il plusvalore
Si
parte dunque dalla nozione di “merce”, ovvero di qualunque bene
destinato allo scambio anziché all’uso diretto, ed alla stessa relazione “capitale-lavoro”,
come relazione di scambio, nel quale tutti gli elementi sono incorporati nella
nozione di merce. Sulla base di questa mossa, che vede appunto la “forza-lavoro”
come merce essenziale del lavoratore, tutto il primo volume de “Il capitale”
si muove ad un elevato grado di astrazione, ovvero avendo di mira un numero
ristretto di aspetti della realtà. Ciò significa, per Sweezy, che ha un
carattere provvisorio e deve essere completato dalla trattazione, purtroppo
incompleta per la morte dell’autore, dei volumi previsti. Nel secondo e terzo
volume si sarebbe trattato di reintrodurre elementi di concretezza, e di
risolvere meglio alcuni piccoli rompicapo creati dalla posizione teorica.
Sempre
muovendo dalle premesse sarebbe stata rovesciata da Marx anche la direzione
proposta da Adam Smith nel famosissimo avvio del suo capolavoro, non è la
divisione del lavoro a connettersi alla “naturale” propensione dell’uomo a
scambiare, ma è lo scambio a precedere e rendere necessaria la divisione del
lavoro. Ne consegue che “la produzione di merci non è la forma universale e
inevitabile della vita economica”. La “inclinazione” a “permutare, barattare, e
scambiare”, che Smith vedeva insieme alla divisione del lavoro come pilastri
della società civile, ancorata nella stessa antropologia di base dell’uomo (per
cui essere uomo era essere moderno e capitalista, con una relazione implicita
ma fortissima con l’eurocentrismo[1]) implica infatti che “la
produzione di merci, radicata nella natura umana, è la forma universale e
inevitabile della vita economica; la scienza economica è la scienza della
produzione di merci. Sotto questo aspetto, i problemi dell’economia assumono un
carattere esclusivamente quantitativo, essi cominciano con il valore di
scambio, il rapporto quantitativo fondamentale fra merci, determinato
attraverso il rapporto di scambio” (p.28).
Per
Franz Petry:
“Questa divisione del lavoro è una
condizione necessaria per la produzione di merci, ma non può sostenersi
l’inverso, cioè che la produzione di merci sia condizione necessaria per la
divisione del lavoro. Nella comunità indiana primitiva c’è una divisione
sociale del lavoro senza produzione di merci. Per prendere un esempio più
prossimo, in ogni stabilimento industriale il lavoro è diviso secondo un
determinato sistema, ma questa divisione non dipende dal fatto che i singoli
addetti si scambino reciprocamente i loro prodotti individuali. Possono
divenire merci in relazione tra loro solo i prodotti che derivano da differenti
tipi di lavoro, ciascun tipo essendo eseguito indipendentemente e per contro di
individui privati”[2].
Chiaramente
la divisione del lavoro è fondamentale anche per Marx, ma non è
necessariamente connessa allo scambio, e la forma della produzione di merci
non è quindi la forma universale e necessaria della vita economica. Questa è piuttosto
una forma, storicamente determinata, che non è in una qualche relazione
di necessità con la natura umana. È per questo che è illegittima la fissazione
unica della scienza economica, pretesa dalla scuola marginalista, sui rapporti
meramente quantitativi, ignorando i rapporti sociali sottostanti. Dietro lo
scambio delle merci c’è uno specifico rapporto, storicamente determinato, tra i
produttori, e ne consegue che entrambi vanno ricompresi in un unico sistema
concettuale.
Ora,
se ogni merce ha sempre un duplice aspetto, essere un “valore d’uso” ed
anche avere un “valore di scambio”, ovvero si costituisce in un certo
rapporto tra il consumatore e l’oggetto consumato, e in un certo rapporto tra i
produttori, ovvero tra gli esseri umani, ne consegue che il primo “sta al di
fuori dell’indagine dell’economia politica” (M., C., Vol I), in quanto “scienza
sociale delle relazioni tra esseri umani”.
Viene
escluso in quanto, in altre parole, non incorpora direttamente un rapporto
sociale. Siamo, insomma, alla posizione esattamente opposta a quella della
economia moderna, per la quale (Robbins) “consideriamo il sistema economico
come una serie di relazioni interdipendenti, ma concettualmente distinte, tra
uomini e beni economici”[3]. Secondo la posizione
liberale il valore d’uso, o, con il linguaggio liberale “l’utilità” è centrale.
Quel
che informa l’interpretazione di Sweezy è questa consapevolezza: che il punto
di vista di Marx è diametralmente opposto a quello dell’economia “borghese”. Questi
si rifiuta di svolgere una teoria soggettiva del valore, che parta dallo
scambio e quindi dal prezzo, perché sono i rapporti sociali a determinare come
merce qualcosa. Il “valore di scambio”, che all’apparenza è un rapporto
quantitativo tra cose, è solo la forma esterna di un rapporto sociale tra i
proprietari delle merci, ovvero tra i produttori. E’, in altre parole,
espressione del fatto che i produttori individuali, ognuno chiuso nella sua
relazione privata, lavorano in realtà gli uni per gli altri. Il loro lavoro ha
un carattere sociale, che è determinato proprio dall’atto dello scambio.
È
da questa analisi delle caratteristiche sociali della produzione di merci che
Marx arriva ad identificare il lavoro come sostanza del valore. In
questo modo si riesce a non considerare l’economia dal punto di vista del
consumo (conducendo alla teoria marginalista), ma della produzione.
Lavoro
e valore
Chiaramente
il lavoro che qui si mette al centro non è quello fenomenico, ma è il “lavoro
astratto”. Ovvero quello nel quale sono ignorate tutte le caratteristiche
speciali che lo differenziano nella pratica. Dice Sweezy, “il lavoro in
generale”[4]. In questo senso la merce,
in quanto tale (ovvero anche essa in generale), ha a che fare con tutte altre,
è sempre plurale, ed assorbe una parte della “forza-lavoro” complessiva a
disposizione della società.
Quindi
è quando la produzione delle merci viene compresa come “la forma fantastica di
un rapporto tra cose”, reificando (ovvero rendendo materiali) i rapporti
sociali, che si dà il “feticismo”. Al contrario questa è fondata in una
relazione basilare tra uomini, ovvero nei rapporti sociali di produzione per lo
scambio.
Marx,
dunque, ipotizza che ci sia, in linea generale o d’insieme, una corrispondenza
necessaria tra i rapporti di scambio e i tempi di lavoro socialmente
disponibili. E che a merci di eguale “valore” debbano corrispondere tempi di
“lavoro medio sociale” analoghi. Ciò anche considerando le disomogeneità della
produttività dei singoli lavoratori (se dipendente da lavoro incorporato, ad
es. da addestramento o da doti naturali diverse) e la concorrenza. Seguendo la
trattazione proposta dall’autore si scopre che in realtà la domanda non è
affatto ignorata, ma non è stata sviluppata una teoria della scelta dei
consumatori (come il marginalismo). Oltre alle ragioni prima esposte il fatto è
che per Marx la scelta del consumatore dipende essenzialmente dalla sua posizione
nella società (e nei rapporti di produzione di questa) e quindi dal suo
reddito.
“Tra parentesi osserviamo che la
‘domanda sociale’, in altri termini ciò che regola il principio della domanda,
è essenzialmente condizionato dai reciproci rapporti delle diverse classi
economiche e dalle rispettive posizioni economiche; vale a dire, in primo
luogo, dal rapporto tra plusvalore totale e salari, e, in secondo luogo, dalla
distribuzione del plusvalore tra i suoi vari componenti (profitto, interesse, rendita
fondiaria, imposte, etc.), il che mostra ancora una volta che assolutamente
nulla può essere spiegato dal rapporto dell’offerta e della domanda, a meno che
non sia stata preventivamente appurata la base su cui poggia quel rapporto”[5].
Plusvalore
e capitalismo
In
altre parole la domanda è dominata dalla distribuzione del reddito. Per
comprendere come funziona la società bisogna per questo sempre partire dai
rapporti di produzione, solo così si riesce a mettere ordine nel caos apparente
della società capitalista.
Società
che non va confusa con quella mercantile che l’ha preceduta e neppure con la
mera produzione di merci. Si dà capitalismo non quando si producono merci, ma
quando la proprietà dei mezzi di produzione e il lavoro sono separati. E quindi
quando mezzi di produzione e forza-lavoro diventano entrambi merci, per cui
tutto assume il carattere di rapporto di scambio.
In
altre parole, l’elemento specifico del capitalismo è la compravendita della
forza-lavoro.
La
società mercantile vede la sua espressione nella formula M-D-M (produco una
merce per averne un’altra, usando il denaro come mediazione), mentre il
capitalismo nasce quando questa forma sociale è sostituita da quella D-M-D’
(parto dal denaro e ne ottengo di più, passando per le merci come medium).
Ne
consegue che:
“i valori di uso non
debbono essere mai considerati come lo scopo reale del capitalista, e nemmeno
il profitto inerente ogni singola operazione. Ciò che il capitalista ha di mira
è solo il processo senza requie e senza fine della creazione di profitto”[6].
Ora,
detto molto in sintesi, se la forza-lavoro è una merce il suo valore è dato
semplicemente dal tempo di lavoro necessario alla sua riproduzione (in senso
allargato, ovvero, nelle condizioni del tempo di Marx il tempo di lavoro
necessario all’acquisizione di tutte le merci e servizi indispensabili al
mantenimento del lavoratore e della sua famiglia). Tutto il resto è
plusvalore.
Esso
quindi non deriva dalla circolazione delle merci e non deriva dalla presenza
delle materie prime (che sono meramente trasferite entro la merce, portando con
sé il loro valore, a sua volta dipendente dalla quantità di lavoro incorporata),
e di macchine (che rilasciano gradualmente il lavoro incorporato necessario
alla loro produzione e mantenimento). Per questo l’unica fonte di valore è
la forza-lavoro.
Distinguendo
le componenti del valore (p.73):
1. Il
valore delle materie prime e delle macchine è il capitale costante ( c);
2. Il
valore della riproduzione della forza-lavoro è il capitale variabile (
v);
3. Il
resto è plusvalore (s)
Quindi
il valore totale è dato dalla formula:
vt = c + v + s
Da
questa formula, condotta al massimo grado di astrazione, deriva una definizione
della forma capitalistica del saggio di sfruttamento come plusvalore su
capitale variabile, ovvero
s/v
= s’
e
la definizione di “composizione organica del capitale”, ovvero:
q
= c/(c+v)
In
altri termini: “la composizione organica del capitale è una determinazione
della misura in cui materiale, strumenti e macchine entrano in combinazione col
lavoro umano nel processo produttivo”.
Da
queste posizione si arriva alla definizione di ciò che conta dal punto di vista
del capitalismo, il “saggio di profitto”, il quale solo può determinare
accumulazione del capitale (la cui crescita illimitata è la sola funzione
riconosciuta nel sistema):
p = s/ (c+v)
ovvero
p = s’ (1-q)
il
“saggio di profitto” è funzione del plusvalore diviso la somma del capitale
costante e variabile, cioè del “saggio del plusvalore” per l’inverso del
“capitale costante”.
Quest’ultima
posizione è di notevole importanza nella teoria: dato che il “saggio di
profitto” in una società tende ad uniformarsi (se così non fosse i capitali si
sposterebbero) entro una forchetta ragionevole[7], ne consegue che per avere
una posizione di equilibrio per la quale le merci saranno effettivamente
prodotte e quindi scambiate, dovremo avere anche saggi di “plusvalore” (ovvero
sfruttamento del lavoro) e “composizione organica” (ovvero meccanizzazione)
simili.
Ma
la “composizione organica” è certamente molto diversa nei diversi settori (ad
esempio, nella produzione di acciaio è molto alta ed in quella dei tessuti,
all’epoca di Marx, era molto più bassa), e quindi “la legge del valore non
domina direttamente”. Solo nel terzo libro del capitale viene concesso che la
“composizione organica” non è eguale tra i diversi settori, ma anche per il
carattere incompleto del testo, sostiene Sweezy, la soluzione non è
perfettamente soddisfacente.
Il
processo di accumulazione
Ora,
se questa è una descrizione altamente semplificata del processo astratto di
creazione del valore, come procede però l’accumulazione. In questo secondo
passaggio, dall’astratto al concreto e dal profondo verso la superficie, Marx
parte dalla schematizzazione, sulle orme del fisiocratico Francois Quesnay, del
meccanismo di “riproduzione semplice”. Ovvero di un sistema ideale di
circolazione del valore che porta al termine a riavere esattamente quel che si
è speso.
L’economia
è divisa in due settori: la produzione dei mezzi di produzione, e la produzione
dei beni di consumo. Questi ultimi in consumo di base e di lusso.
I
: c1 + v1 + s1 = w1
II:
c2 + v2 + s2 = w2
Che
porta a:
c2
= v1 + s1
La
condizione basilare della riproduzione semplice: il valore del capitale
costante consumati nel settore dei beni di consumo deve essere uguale al valore
delle merci consumate dai lavoratori e dai capitalisti entrambi impegnati a
produrre i mezzi di produzione. Quando questa condizione è realizzata il livello
produttivo resta sempre eguale, anno dopo anno.
Per
inciso ciò significa che in un sistema economico come quello contemporaneo,
sistematicamente eccedente di consumi e scarseggiante di investimenti (ovvero,
dove c2 < v1 + s1) il livello produttivo deve essere declinante. Come in
effetti è.
Questo
sistema statico è alterato se il capitalista riesce ad espandere il suo
capitale, convertendo una quota del plusvalore in capitale addizionale, in modo
da riuscire ad appropriarsi di un plusvalore maggiore al successivo anello di
produzione (chiaramente se riesce a “realizzare”, come vedremo), e a sua volta
al terzo passo per convertirne un’altra quota in ulteriore capitale addizionale
… è il “processo di accumulazione del capitale”.
Ma
in questo atteggiamento non c’è nulla di naturale, si tratta di un effetto del
sistema, come scrive Sweezy: “il desiderio del capitalista di espandere il
valore soggetto al suo controllo (di accumulare capitale) trae origine dalla
posizione speciale che esso occupa in una forma particolare di organizzazione
della produzione sociale … il capitalista è capitalista, ed è una figura
importante nella società, soltanto in quanto è il proprietario e il
rappresentante del capitale. Senza questo sarebbe nulla. Ma il capitalista ha
soltanto una qualità, quella di possedere una grandezza; ne consegue che un
capitalista si può distinguere da un altro soltanto per la grandezza del
capitale che rappresenta” (p.93). La cosiddetta “teoria dell’attesa”,
proposta per la prima volta da Nassau nel 1830 e poi ripresa e portata avanti
da Marshall, equivoca completamente questo semplice fatto.
Questo
anello di rafforzamento però implica anche che l’accumulazione presume un
aumento della forza-lavoro, e qui c’è un gravissimo problema interno: quando
la domanda di una data merce aumenta, aumenta anche il suo prezzo. Ciò
implica una deviazione del prezzo dal valore che inceppa l’intero meccanismo.
E
la soluzione non fa parte del sistema della produzione, in quanto la
forza-lavoro è una merce, ma molto particolare. Fuori del caso delle navi
negriere non c’è una industria che la può produrre, anche se il suo prezzo
sale. Dunque manca un meccanismo equilibrante al crescere dell’accumulazione e
c’è il rischio che il salario aumenti fino ad annullare il profitto.
Ne
consegue ancora una cosa molto semplice: “la relativa eccedenza della
popolazione è il cardine intorno a cui agisce la legge della domanda e
dell’offerta” (p.102).
Per
creare questa eccedenza relativa della popolazione, che Marx chiama “esercito
industriale di riserva”, interviene l’aumento della macchinizzazione (o
altri metodi secondari, come il saldo
immigratorio positivo). In qualche modo il sistema genera una soluzione,
per non far calare il saggio di profitto viene introdotto macchinario
aggiuntivo (non appena il costo del lavoro, salendo, lo rende necessario e
conveniente) e questo espelle abbastanza lavoratori da spingere al ribasso dei
relativi salari.
È
in questo punto che, attraverso la leva della disoccupazione tecnologica,
interviene il meccanismo delle crisi. Questa è la specifica ragione per la
quale il capitalismo senza crisi è inconcepibile. Senza di esse si adagerebbe su un livello
statico di stagnazione (ma questo lo vediamo dopo).
Marx,
insomma, rifiuta la soluzione malthusiana della “legge della popolazione”,
contraddetta dai fatti nel corso dell’ottocento, e articola in sua vece la tesi
“dell’esercito industriale di riserva” per spiegare i mutamenti dei metodi
produttivi come stretta necessità del sistema capitalistico.
La
caduta tendenziale del saggio di profitto
Se
l’accumulazione dipende (come il profitto) dalla progressiva meccanizzazione
del processo produttivo, però, questo implica che la produttività del lavoro
cresce continuamente nel capitalismo. Con essa cresce quella che Marx chiama la
“composizione organica del capitale”.
Tornando
alla formula
P
= s’ (1 - q)
Con
un saggio del plusvalore costante si determina la conseguenza che il saggio di
profitto finisce per variare in ragione inversa della composizione organica del
capitale, e quindi “se q aumenta, allora p deve diminuire”.
Questa
è la tendenza alla caduta del saggio di profitto.
La
crescita illimitata del capitale ha, in altre parole, degli ostacoli interni.
Si
tratta di una tendenza, sia chiaro. E ci sono possibili cause antagoniste:
1- Deprezzamento
degli elementi del capitale costante;
2- Aumento
dell’intensità dello sfruttamento (in modo da far cadere la condizione che il
saggio del plusvalore resti costante);
3- Depressione
dei salari al di sotto del loro valore (una circostanza che Marx, al contrario
di Malthus, reputava impossibile);
4- L’eccedenza
relativa della popolazione, infatti “l’esistenza di lavoratori disoccupati è
una condizione favorevole alla fondazione di nuove industrie con una
composizione organica del capitale bassa e quindi un profitto alto” (p.116).
5- Il
commercio estero.
Qui
c’è qualche problema di tenuta e coerenza del ragionamento (che, va ricordato,
attiene ad una opera incompleta): infatti, da una parte Marx postula che i
salari non crescono mai proporzionalmente alla produttività del lavoro e che la
composizione organica del capitale cresce tendenzialmente sempre con un saggio
di plusvalore costante. Ma l’aumento della composizione organica presume la
crescita della produttività del lavoro, e quindi se resta costante il saggio
del plusvalore significa necessariamente che i salari devono crescere insieme
alla produttività (ovvero cresce il capitale variabile). Però abbiamo visto che
la crescita della produttività aumenta l’esercito industriale di riserva e
questo deprime i salari (si ha: aumento composizione organica >
incremento produttività > aumento esercito di riserva > calo dei salari).
La
trasformazione dei valori in prezzi
A
questo punto Paul Sweezy introduce il problema che rende particolarmente
lontana la teoria marxiana da quelle liberali: la difficoltà di utilizzare la
teoria del valore in relazione alla variazione dei prezzi osservabile nella
pratica. Per l’economista americano, però, la soluzione tentata da Marx non
soddisfa la logica e si risolve in una violazione dell’equilibrio della riproduzione
semplice (p.134). Del resto la ragione per tenere il calcolo del valore è
piuttosto forte, il calcolo del prezzo, restando alla superficie, nasconde le
sottostanti relazioni tra le persone e le classi e quindi è un esercizio di
feticismo della merce.
Malgrado
questa forte ragione politica (bisogna rammentare che il titolo del capolavoro
di Marx è “critica dell’economia politica”) sembrerebbe a malincuore
quindi di doverla abbandonare (come, ad esempio, fece Sraffa), ma c’è
un’alternativa proposta nel cosiddetto “metodo Bortkiewicz” per derivare un
calcolo del prezzo dal calcolo del valore. E’ la frontiera sulla quale si
assesta Paul Sweezy in quegli anni.
Del
resto già la teoria di Ricardo, nel quale il saggio di profitto è composto dal sovrappiù
diviso i consumi necessari alla riproduzione dei fattori, entrava in difficoltà
nel circolo vizioso dei prezzi (che dipendono dal saggio di profitto) e per
questo tentava la strada poi seguita da Marx di riportarsi al “lavoro contenuto”
e la cui conseguenza è di mettere in luce il carattere sottrattivo del
profitto.
Il
tentativo di Sraffa, di misurare tutto in merci, anziché in lavoro, e con un
sistema di equazioni simultanee che, dato il saggio del salario riesce a
determinare i prezzi di tutti i beni e quindi il saggio di profitto che ne
deriva. Ma il “saggio del salario” non è determinabile in base alle necessità
medie della riproduzione, o ad altro riferimento quantitativo, bensì come
effetto di un rapporto di forza tra le parti. Sarebbe “il salario come
variabile indipendente”, in effetti.
Le
crisi e le depressioni
Dopo
questa deviazione si arriva a quello che è uno dei cuori della teoria marxiana,
pur senza una vera e propria trattazione sistematica: la natura delle crisi
capitalistiche.
La
tendenza alla crisi nasce da uno squilibrio di fondo tra l’atteggiamento delle
due classi fondamentali del modello marxiano: i lavoratori ed i capitalisti.
I primi sono mossi dal desiderio della propria sussistenza e riproduzione, e
quindi si muovono nel mondo del M-D-M, mercantile. I capitalisti, invece, sono
mossi dalla logica dell’accumulazione, nel mondo del D-M-D’, e dipendono per la
propria esistenza dal completamento del circolo della valorizzazione. Ne
consegue che se D’ diventa inferiore a D (ovvero il delta di D diventa
negativo) i capitalisti sono costretti a ritirare il capitale, la circolazione
si ritrae e si sviluppa una crisi. Questa fa comparire una superproduzione.
Ciò
accade anche con delta di D positivo, ma inferiore ad un livello medio atteso,
in quanto i capitalisti in questo caso attenderanno che risalga e rinvieranno
ogni investimento. Ne consegue una cosa molto semplice: “la forma specifica
della crisi capitalistica è una interruzione del processo di circolazione
prodotta da un declino del saggio di profitto sotto il livello normale”
(p.170).
Ma
ci sono almeno due tipi di crisi:
1- La
crisi da caduta tendenziale del saggio di profitto,
2- Le
crisi da realizzo.
Le
prime passano per la sovrapproduzione e per la speculazione, fino a che
l’incremento dell’esercito di riserva la riporta entro i termini “accettabili”.
Sotto questo profilo quella di Marx, più che essere una teoria della crisi è
una teoria del ciclo capitalistico. Ovvero della forma specifica dello sviluppo
di cui la crisi è una fase.
Le
seconde si hanno quando il motivo immediatamente scatenante delle crisi è
l’incapacità dei capitalisti di vendere le merci e ridurre le relative scorte,
ovvero di realizzare il pieno valore delle merci. Si ha in questo caso una “crisi
da realizzo”. A sua volta può dipendere dalla “sproporzione” tra i vari
settori (ad esempio tra settore dei mezzi di produzione e del consumo delle
merci), o dal “sottoconsumo” delle masse.
La
prima, secondo la proposta del riformista Tugan-Boronowsky, dipende dal
carattere non pianificato del capitalismo concorrenziale. Le crisi non
sarebbero allora un “memento mori” del capitalismo, ma semplicemente delle
perturbazioni tecniche in via di principio risolvibili.
La
tesi di Tugan diede avvio ad una seria discussione nella socialdemocrazia
dell’avvio del secolo, alla quale parteciparono Conrad Schmidt, Kautsky,
Boudin, Hilferding e Rosa Luxemburg. La contraddizione nasce da due tendenze
opposte: quella alla restrizione del consumo -ovvero dell’impegno di capitale
variabile- e nello stesso tempo quella dei capitalisti a tentare un’espansione
illimitata della produzione. Si tratta di una contraddizione fondamentale
che ha come conseguenza il fatto che il ristagno è da considerarsi la
condizione normale del capitalismo.
La
più compiuta teoria del sottoconsumo fu messa a punto da Grossmann, secondo il
quale nel capitalismo è all’opera una tendenza ad espandere la capacità di
produzione dei beni (sotto la spinta individuale a diventare ricchi) più
rapidamente della espansione della relativa domanda. Le conseguenze sono “sottoconsumo”
e “sovrapproduzione” (due facce della stessa dinamica).
Sul
tema entra anche Lenin, nei suoi testi polemici contro i narodniki (populisti),
i quali sostenevano che il capitalismo non si potesse mai espandere sul mercato
interno, ma solo accaparrandosi mercati esterni sempre più ampi. Ma la
conseguenza per la Russia era che, essendo i mercati coloniali già occupati, il
capitalismo non aveva futuro.
Lenin
combatte questa idea, di fare affidamento solo sui contadini e le loro antiche
istituzioni comunitarie (mir), accusandola di dogmatismo e di fuga nel sogno:
“non vi è nulla di più
stupido che dedurre dalle contraddizioni del capitalismo il suo carattere
non-progressivo, ecc. ciò equivale a sfuggire una realtà non piacevole, ma
indubbia, per andare al mondo nebuloso delle fantasie romantiche”, il
capitalismo è pieno di contraddizioni, come ogni forma storica, ma “esse non
escludono la sua progressività in confronto a sistemi primitivi di economia
sociale” (cit, p.218).
La
controversia sul crollo
Siamo
alla fine: resta la questione se le crisi siano il “memento mori” del
capitalismo, o se siano solo degli squilibri superabili. Alla morte di Engels
la controversia prende quota intorno alle provocazioni di Bernstein, che
proponeva di abbandonare la “teoria del crollo” (per la verità mai formulata in
quanto tale da Marx) in favore di un pacifico trapasso. Kautsky obietta negando
la stessa esistenza di una “teoria del crollo” nel corpus marxiano, ma
individuando una necessità di flessibilità nella scelta di mezzi e azioni. Nel
1902 aggiungerà che il capitalismo ha in effetti una intrinseca tendenza alla
depressione cronica e, in sua conseguenza, all’inasprimento dei conflitti
internazionali.
Rosa
Luxemburg, oltre ad intervenire nel dibattito con Bernstein[8], porta avanti questa idea,
cercando di dimostrare che l’accumulazione capitalistica è impossibile in un
sistema capitalistico chiuso sulla base di una dimostrazione per la quale i
lavoratori esauriscono la propria capacità spendendo il solo capitale variabile
messo a disposizione nel ciclo e quindi i capitalisti, per impossibilità di
realizzo, non possono più realizzare un profitto. Tutto si muove perciò in una
specie di “carosello”. L’unica possibilità di espansione del profitto e quindi
del sistema si ha alla fine nella cattura di mercati esteri non capitalisti.
La
ricezione nella socialdemocrazia tedesca fu furiosa ed anche in quella russa fu
aspramente criticata (ad esempio da Bucharin).
Questa
è, però, alla fine la posizione cui Paul Sweezy aderisce: il sistema
capitalistico non crollerà necessariamente (in effetti i “crollisti” comunque
postulavano che le disfunzioni ad un certo punto sarebbero diventate talmente
acute da porre fine al capitalismo per transizione al socialismo), ma tende
alla depressione cronica per la crescita dei mezzi di produzione eccedente la
capacità di assorbimento delle merci.
Tende.
Perché
ci sono all’opera potenti forze di contrasto, tra queste due lavorano a ridurre i mezzi di
produzione:
a- Le
nuove industrie “distruttive”,
b- Gli
investimenti erronei, con conseguente distruzione di capitale;
e tre forze sono rivolte ad aumentare i consumi:
a- L’aumento
della popolazione, autoctona e non,
b- Il
consumo improduttivo, in particolare della nuova classe media,
c- Le
spese dello Stato.
Il
seguito del suo lavoro, nel corso degli anni cinquanta e sessanta sarà rivolto
ad indagare queste forze e, in particolare, ad adattare la teoria alla “fase
monopolista” matura.
[1] - Per una violenta requisitoria si
veda l’opinione del militante di origine trotskista Hosea Jaffe, “Era
necessario il capitalismo?”
[2] - Franz Petry, “Il contenuto sociale della teoria del valore
di Marx”, l’autore è morto a ventisei anni nella prima guerra mondiale,
e questo è il suo unico libro.
[4] - Altre nozioni di “lavoro
astratto”…
[5] - Karl Marx, “Il Capitale”,
Vol III, p.214
[6] - Karl Marx, “Il capitale”, vol I
[7] - O, in altri, termini che nessuno
investirebbe ad un saggio di profitto, poniamo del 5%, se in un altro settore
privo di significative barriere all’ingresso (e questo è uno dei fattori
chiave) si potrebbe avere un rendimento, poniamo, del 10%.
[8] - Per come la mette Luxemburg, “o
la trasformazione socialista continua ad essere una conseguenza delle
contraddizioni obiettive del sistema capitalistico, allora insieme a questo
sistema si sviluppano anche le sue contraddizioni, e un crollo, in questa o in
quella forma, a un certo momento, ne è il risultato; ma allora anche i ‘mezzi
di adattamento’ [Bernstein] sono inefficaci e la teoria del crollo è giusta.
Oppure i ‘mezzi di adattamento’ sono in realtà tali da impedire un crollo del
sistema capitalistico, rendono quindi il capitalismo in grado di esistere,
sopprimono le sue contraddizioni; ma allora il socialismo cessa di essere una
necessità storica, e sarà tutto quel che si vuole tranne che un risultato dello
sviluppo materiale della società. Questo dilemma conduce ad una altro dilemma:
o Bernstein ha ragione per quanto riguarda il corso dello sviluppo
capitalistico, e allora la trasformazione socialista della società si muta in
un’utopia, oppure il socialismo non è un’utopia e allora la teoria dei ‘mezzi
di adattamento’ non deve essere valida. That is the question, questo è il
problema”, Rosa Luxemburg, “Newe Zeit”, 1896.
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