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lunedì 2 settembre 2019

Paul Baran, “Saggi marxisti”





Paul Alexander Baran è stato uno dei più rilevanti economisti marxisti del novecento, nato in Ucraina nel 1909, da genitore socialista e menscevico, e morto in California nel 1964, negli ultimi tredici anni della sua vita fu l’unico docente ordinario marxista dell’accademia americana. Nel suo primo libro di grandissima rilevanza, de “Il surplus economico e la teoria marxista dello sviluppo”, viene formulata da “teoria della dipendenza” che identifica nell’arretratezza del terzo mondo il sostegno decisivo ai processi di accumulazione nei paesi industrializzati, superando la loro tendenza intrinseca alla stagnazione. Del resto questa tesi si connette sia con la ricostruzione della teoria marxista proposta da Paul Sweezy un decennio prima, sia con la sistemazione della teoria del capitalismo monopolistico. La permanente tendenza alla stagnazione è combattuta appunto con l’estrazione di risorse dai paesi tenuti in stato semi-coloniale: tesi che sarà sistemata nel suo libro del 1966 (postumo) con lo stesso Sweezy “Il capitale monopolistico”.

La sua formazione avviene in Europa, a Berlino, Francoforte sul Meno dove incontra Rudolf Hilferding e Parigi; quindi nel 1939 si trasferisce negli Stati Uniti e continua gli studi ad Harvard dove acquisisce il master in economia. Fa anche un’esperienza come ricercatore alla Federal Reserch bank di New York. Dal 1949 collabora alla rivista Montly Review, dalla quale sono tratti i presenti saggi, che coprono praticamente l’intero arco della sua produzione. Durante questi studi Baran si reca a Cuba, nel 1960, a Mosca, in Iran ed in Jugoslavia.

La raccolta dei saggi pubblicati nel 1976 nella collana viola dell’Einaudi, e tratti da Montly Review durante un giro decisivo degli anni cinquanta e sessanta, comprende il saggio “Sulla natura del marxismo”, del 1958, poco dopo la pubblicazione del suo primo capolavoro, e l’anno dopo quello “Riflessioni sul sottoconsumo”. Ma prima del capolavoro del 1957 si trovano “Meglio meno ma meglio”, del 1950, sull’avvio della guerra fredda ed il suo significato, e “Progresso economico e surplus economico”, del 1953, come “Riflessioni sulla programmazione e lo sviluppo economico in India”, del 1956. Commentando la ricezione del libro c’è quindi “Osservazioni su The political economy of growth” del 1962.
Quindi “La scienza economica nei due mondi”, insieme a Paul Sweezy, e la serie di saggi sulla pianificazione, nel mondo capitalista, nei paesi arretrati e nei paesi socialisti che si collocano nel contesto della transizione tra il saggio del 1957 e quello, postumo, del 1966. Subito prima di questo ci sono nel 1964 le “Tesi sulla pubblicità”, e poi “La programmazione economico e sociale”, nel quale discute le tesi di Bettleheim e Myrdal.



Dato che procederemo, dopo aver letto il libro del 1957, e il testo su “Il Capitale” di Marx di Paul Sweezy “La teoria dello sviluppo capitalistico” del 1942, a concludere questo primo inquadramento delle teorie del gruppo del Montly Review alla lettura anche di “Il capitale monopolistico”, scritto da Paul Sweezy e Paul Baran e pubblicato dopo la morte di quest’ultimo nel 1966, può essere opportuno seguire almeno alcuni saggi di questa raccolta. Si tratta di saggi rilevanti per l’incubazione della “Teoria della dipendenza” e la messa a punto delle posizioni teoriche dell’autore.

“Meglio meno ma meglio”,
Il primo saggio della raccolta in ordine di tempo è scritto nel 1950, quando Paul Baran aveva quarantuno anni e sarebbe diventato l’anno successivo professore ordinario alla Stanford University. In questo saggio si pone di fronte all’avvio dell’espansione della spesa (dell’ordine di una ventina di miliardi di dollari) causata dalla guerra fredda, che sta partendo quasi improvvisamente e con grande slancio. Baran si chiede perché. Il capitalismo americano attraversa una fase di stabilità, anzi eccezionale, ma l’economia è incline alla depressione come non mai; “il grande capitale ed i suoi strateghi” hanno avuto la capacità di impadronirsi degli strumenti elaborati da Keynes e dell’esperienza bellica. Ora “essi sanno benissimo che l’occupazione si può ‘fare’, che se ne può determinare il livello in anticipo con discreta precisione; e che la capacità di mantenere questo livello ‘non troppo al di sotto’ della piena occupazione – dove è l’ampiezza del margine di tolleranza politica di cui abbiamo parlato a determinare tale valore – è la sola via compatibile con la sicurezza politica e i buoni profitti” (p.207). Ma il problema è raggiungere questo “livello confortevole di sottoccupazione” senza ledere i diritti acquisiti delle classi dominanti.
Qui è il problema, perché “tutti gli sbocchi che si potrebbero definire razionali nel senso che contribuiscono ad aumentare il benessere dell’umanità” sono incompatibili con questo irrinunciabile obiettivo. Il pagamento di sussidi tende ad aumentare i salari, gli investimenti produttivi distruggono “le roccaforti di interessi monopolistici edificati con somma cura”. Dovendo spendere cifre consistenti questi sono ostacoli insormontabili.
È qui che interviene la guerra fredda.
Se si spende infatti in armamenti e interventi all’estero nessun interesse industriale viene scalfito, non si creano mezzi di produzione in concorrenza con quelli privati, anzi si ampliano le commesse pubbliche, e del miglior tipo, ricche ed urgenti. La guerra fredda non è affatto irrazionale dall’unico punto di vista che conta: quello delle classi dominanti.
Inoltre la guerra fredda crea consenso, attenua le opposizioni parlamentari alla spesa, fornisce il contesto migliore per distruggere, accusandolo di essere una quinta colonna e di disfattismo, il movimento sindacale e dei lavoratori. Ha prodotto un tale spostamento da portare in primo piano, ed apertamente, soggetti apertamente fascisti, come il senatore McCarthy, che sarebbero stato “confinati nel sottobosco della politica americana fino a pochi anni prima”. E , infine, “essa fornisce la strategia generale per l’espansione e la protezione degli investimenti americani all’estero, investimenti che stanno estremamente a cuore ai maggiori esponenti del grande capitale americano”. La guerra fredda, insomma, “fornisce la formula politica necessaria per uno sforzo concertato in vista della preservazione del capitalismo all’estero e per il suo rafforzamento e, se necessario, la sua fascistizzazione negli Stati Uniti stessi”.

“Progresso economico e surplus economico”,
Nel 1953, viene pubblicato un articolo che si è giovato della lettura critica di Joan Robinson (ringraziata in una nota); all’avvio viene celebrato “il balzo grandioso dell’economia socialista”, al quale si associa l’orientamento allo sviluppo economico dei paesi coloniali e “nelle zone dipendenti” dei paesi a capitalismo avanzato e, infine, la “pericolosa instabilità” di questi ultimi. La comprensione di questi fenomeni richiede di mettere al centro della disciplina economica lo studio della nozione di “sviluppo”, per il quale non è utile, tuttavia, l’analisi dell’equilibrio statico, o dei modelli teorici “a concorrenza perfetta” nei quali indulge la stessa. Ma cosa dà avvio allo sviluppo? L’incremento continuo nel tempo di beni e servizi prodotti da una società[1] si può dare solo se si mette a frutto l’utilizzazione economica di conoscenze tecniche e crescono gli investimenti netti. Ma questi ultimi sono possibili solo se “la produzione totale della società supera la quantità di beni utilizzata per i consumi correnti e per rimediare al deterioramento delle attrezzature produttive impiegate nel corso del tempo”. Ovvero, e questa è la proposizione centrale nell’impostazione di Baran: “il volume e il carattere degli investimenti netti che si effettuano in una società in un determinato periodo dipendono, perciò, dall’entità e dal modo di utilizzazione del surplus economico prodotto correntemente”. Ma qui viene introdotta la distinzione “in termini di statica comparativa”, tra:
1-     Il surplus economico effettivo, cioè “la differenza tra la produzione effettiva corrente della società e i consumi effettivi correnti”, che si identifica con il risparmio corrente;
2-     Il surplus economico potenziale, ovvero “la differenza tra la produzione che potrebbe essere realizzata in un dato ambiente naturale e tecnologico mediante l’impiego effettivo delle risorse produttive, e quelli che si possono considerare i consumi essenziali”. Per rendere effettivo questo surplus esistente solo in potenza è necessaria una riorganizzazione della produzione e della distribuzione del prodotto sociale e della struttura della società. Ci sono tre forme di surplus potenziale: quella che è presente nei consumi superflui (da eliminare), come quelli di lusso dei redditi elevati; la produzione che si perde a causa di lavoratori improduttivi[2]; la produzione che si perde per le irrazionalità e gli sprechi. Si deve notare che questo implica che la perdita di surplus economico potenziale può aversi anche in condizioni di piena occupazione. Questa nozione, per sua natura, “trascende i limiti della struttura sociale esistente”, riferendosi ad una società organizzata in modo più razionale che, evidentemente, non c’è ancora.

Il punto, e ciò che rende invisibile questo approccio (dipendente da un approccio classico all’economia che rigetta la svolta marginalista) è che per praticarlo bisogna porsi intellettualmente “al di fuori” dell’ordinamento sociale vigente, non lasciarsi “impacchettare dai suoi valori”, dalle sue “superstizioni” e dalle sue “verità assiomatiche” avendo quindi una visione critica delle contraddizioni e delle potenzialità nascoste.

A questo punto subentra la nozione di “surplus economico pianificato”, ovvero quello che sarebbe prodotto fuori del meccanismo di massimizzazione dei profitti, ma da un programma sociale e in base a ciò che la società decide consapevolmente di produrre, consumare e risparmiare in un dato momento.

Nel saggio viene rapidamente ripercorsa la storia dello sviluppo economico, in epoca feudale e nella transizione al capitalismo ed al suo “spirito” (cit. Sombart[3] e Weber[4]). A questo punto, dopo la descrizione idealizzata della società capitalista concorrenziale subentra la realtà dell’economia dominata dalle “imprese di grandi dimensioni e dei monopoli”, che ha creato un problema di sbocchi per gli investimenti. In regime di capitalismo monopolistico, normalmente, gli investimenti potenzialmente utili “non riescono ad utilizzare il surplus economico che viene prodotto correntemente” (p.268). Ciò non dipende da fattori esclusivamente economici, ma anche dal contesto sociale e politico nel quale si effettuano gli investimenti, e dalla “demoralizzazione della classe capitalistica”, per effetto della pressione sociale ad appropriarsi del surplus del quale pensano di avere diritto. Nel ciclo di investimento (che va dal pieno impiego alla crescita dei costi per salari ed altro e quindi alla riduzione dei profitti, alla riduzione quindi degli investimenti, il calo di questi e la nuova fase ascendente) si resta sempre ad un livello troppo basso rispetto al surplus potenzialmente utilizzabile, e quindi con un “esercito di riserva” prudenziale troppo alto, la società che reputasse ciò potrebbe: aumentare i consumi di massa (come percentuale della produzione totale), aumentando i salari reali, ma si incontra la fiera resistenza dei singoli capitalisti (questi sono danneggiati individualmente e sostenuti collettivamente dalla conseguente espansione della domanda e quindi delle opportunità di investimento); inviare all’estero una parte del surplus economico effettivo, ma ciò è ostacolato dalla ritrosia del singolo capitalista ad impegnarsi in imprese rischiose in paesi diversi se il governo non lo garantisce e sostiene, per questo motivo le aziende che vogliono investire all’estero esercitano sempre una fortissima pressione sul governo per indurlo a creare all’estero, con mezzi diplomatici o militari, “condizioni sociali e politiche favorevoli agli investimenti dei propri capitalisti e ad usare il suo potere per escludere gli altri paesi imperialistici dai mercati esteri e dagli sbocchi per l’investimento su cui i propri capitalisti hanno messo gli occhi”; il terzo modo è un aumento dei consumi superflui, l’espansione del lavoro improduttivo e il moltiplicarsi dello spreco e dell’irrazionalità di produzione e distribuzione; quindi le spese governative, in particolare rese necessarie dallo sviluppo dell’imperialismo ed altre spese, purché non vadano a ostacolare le occasioni di profitto di qualche grande attore economico.

“Riflessioni sulla programmazione e lo sviluppo economico in India”,
Nel 1956 questa struttura viene messa alla prova in uno studio sulla programmazione indiana alla quale si finisce per consigliare di utilizzare il surplus economico potenziale, riducendo il consumo eccessivo dei gruppi superiori, mettendo in attività e riconvertendo i lavoratori improduttivi, facendo molta attenzione ai danni dei rapporti commerciali esteri e alla figa dei capitali.

“Sulla natura del marxismo”,
Nel 1958, viene nuovamente espresso il giudizio che la depressione cronica dovrebbe essere lo stato permanente di un regime capitalistico, in particolare nella fase monopolistica, questa era anche la conclusione cui era giusto Paul Sweezy nel 1942. Ma ciò accade solo a volte; il motivo è che “come la maggior parte delle malattie degli organismi viventi suscitano l’intervento di forze riparatrici, così le tendenze economiche sono generalmente controbilanciate, almeno in una certa misura, da sviluppi antitetici”. Tra questi gli impieghi “improduttivi”, gli sprechi, le campagne pubblicitarie, ma anche l’azione dello Stato. Si tratta di “cure” che per lo più sono nel novero dei palliativi ed alcune altamente irrazionali, “la sola soluzione razionale è la pianificazione sociale della produzione e della distribuzione di beni e servizi”, una pianificazione, sia chiaro, impossibile senza la proprietà sociale dei mezzi di produzione e una trasformazione socialista della società. Ma una simile trasformazione, scrive, può avvenire solo se la comprensione dell’irrazionalità dell’ordine sociale diventa effettivamente intollerabile e non per pochi ma per la vita delle masse. Sorge allora la domanda: è possibile che l’irrazionalità, anche quella più forte, non dia luogo a sofferenze insostenibili?, o che la classe dominante riesca a distruggerne la consapevolezza, impedendo che si diffonda nel popolo? Di modo che questo non ne comprenda le cause? Per Baran Marx ed Engels “nonostante qualche osservazione occasionale in senso opposto, tendevano nell’insieme ad escludere entrambe queste possibilità”.

Inoltre ritenevano che:

“la peculiarità storica del sistema capitalistico consistesse proprio nel fatto che il progresso tecnologico e la richiesta di manodopera istruita e disciplinata da parte dei capitalisti avrebbero creato automaticamente le condizioni della nascita e dello sviluppo di un movimento operaio basato sul fatto che gli operai stessi avrebbero compreso le cause della loro miseria e la necessità di instaurare un ordine sociale più ragionevole.
La storia non si è svolta secondo queste previsioni, che riflettevano l’ardente fede progressista del grande secolo dell’illuminismo e del razionalismo” (p.27).

Invece il tenore di vita della popolazione lavoratrice è cresciuto in modo considerevole, e, se pur del tutto inadeguato, appare un netto miglioramento a chi non comprende le potenzialità che non sono sfruttate ma vede solo il relativo progresso concreto intorno a sé. Riguardando dietro sé ognuno infatti ricorda la povertà maggiore della propria infanzia, o dei propri nonni, e pensa di essere in un mondo che avanza. Inoltre, chi subisce gli effetti delle perturbazioni cicliche, ad esempio, viene a trovarsi arruolato nell’esercito di riserva, sente ciò come una avversità personale invece che come l’effetto del destino di una classe sfruttata in un ordine sociale ingiusto.
Infine la mentalità dominante, che è quella propria della borghesia, vede nel capitalismo l’ordine naturale ed ovvio delle cose. È vero che la penetrazione, capillare, della morale, dei valori sociali e politici della classe dominante in tutti gli strati della società era stata prevista da Marx, ma è andata molto oltre il previsto:

“l’ideologia borghese, infatti, è stata in grado non solo di assolvere le funzioni che erano state scoperte e analizzate da Marx e Engels, ma anche di affrontare nuovi e più ambiziosi compiti. Essa non agisce più soltanto da freno alle aspirazioni degli uomini a una società migliore, non è più soltanto il reticolato di filo spinato che impedisce agli uomini di soddisfare i loro bisogni e le loro possibilità fondamentali, ma ha ormai raggiunto quello che si potrebbe chiamare il suo obiettivo ultimo: ha soffocato e mutilato quella stessa spinta e aspirazione, ha inserito un cuneo poderoso fra i bisogni umani e i desideri umani. Questo ‘progresso’ ha dato luogo a una profonda trasformazione qualitativa del pensiero borghese. Finché la borghesia era una classe progressiva, la sua ideologia rispecchiava fedelmente i suoi interessi di classe, che, almeno in parte, erano anche gli interessi della società nel suo complesso. Quella ideologia presentava quindi le caratteristiche della mezza verità. Partecipava della verità senza poterla esprimere interamente, abbracciava un aspetto del processo storico (l’ascesa della borghesia), senza tenere conto dell’altro (i limiti storici e il carattere transitorio dell’ordinamento capitalistico). Ma a mano a mano che la borghesia si trasformava nella classe dominante sotto il capitalismo monopolistico, e che i suoi interessi hanno cessato di avere nulla in comune con quelli del popolo, in patria e all’estero, l’ideologia borghese si è ‘innalzata’ dal grado di mezza verità a quello di una menzogna totale. Ora essa esprime unicamente gli interessi dell’oligarchia reazionaria e dei suoi dipendenti, e non esprime in modo adeguato neppure quegli interessi. Nemmeno i diretti beneficiari di questo ordinamento sociale si sentono tranquilli, soddisfatti e a loro agio sotto il suo regno. Ciò si può verificare con tutta la concretezza necessaria nello sfacelo della famiglia e della scuola borghese, nel tracollo delle stesse norme morali borghesi e nella vacuità universalmente riconosciuta di principi come la libera concorrenza, il libero scambio e l’uguaglianza di possibilità” (p.30).

Ora l’ineguaglianza, lo sfruttamento e l’ingiustizia sono sentiti come aspetti dell’ordine naturale delle cose, e quindi non si pensa neppure di lottare contro di essi, ma di sottrarsi individualmente ai loro effetti. Nelle società a capitalismo avanzato:

“i desideri stessi degli uomini sono determinati da impulsi aggressivi, sono diretti al conseguimento di privilegi individuali e allo sfruttamento degli altri, al consumo frivolo ed al divertimento vuoto. Avendo introiettato i tabù e gli imperativi della morale borghese, le persone immerse nella civiltà del capitalismo monopolistico non desiderano ciò di cui hanno bisogno e non hanno bisogno di ciò che desiderano”.

Il concetto classico della funzione dell’ideologia, formulato da Marx e Engels, non riesce a stare dietro questa profondità di coinvolgimento perché essi avevano sottovalutato “la misura in cui i desideri dell’uomo possono essere influenzati e modellati dall’ordinamento sociale in cui è inserito”, e perché ritenevano che il capitalismo non avrebbe avuto a disposizione il tempo, le numerose generazioni, necessarie per giungere a questa profondità di coinvolgimento.

La società è dunque profondamente malata, e non può che sfociare in una catastrofe per la separazione tra i bisogni dell’uomo e i suoi desideri. Una società organizzata in modo così irrazionale, “che si rivela incapace di generare dentro di sé forze che tendano ad abolirla e sostituirla con un sistema di rapporti sociali più razionali e più umani, e che portino effettivamente a questo risultato, dà luogo necessariamente al ristagno economico, alla decadenza culturale e a un senso generale di sconforto e disperazione”.

La continuazione è fondamentale:

“ma sarebbe una manifestazione di miopia provinciale giudicare le prospettive del socialismo nel mondo solo sulla base delle condizioni dominanti nei paesi a capitalismo monopolistico. In tutto il corso della storia del mondo la guida del progresso è stata presa dalle nazioni in cui l’irrazionalità dell’ordine sociale ha dato origine a potenti movimenti antagonistici. Il genio di Lenin è stato quello di comprendere che nell’epoca del capitalismo monopolistico e dell’imperialismo questa funzione di guida sarebbe stata assunta dai popoli dei paesi coloniali, dipendenti e sottosviluppati. Sostenendo il peso della irrazionalità del sistema capitalistico e non essendo stati esposti nella stessa misura dei paesi capitalistici avanzati all’influenza debilitante e demoralizzante della ‘civiltà capitalistica’ e dell’ideologia borghese, alcune di queste nazioni si sono già rivoltate e altre si stanno rivoltando contro l’irrazionalità dell’ordine capitalistico, e ora marciano alla testa dell’ordine progressivo della storia. In un periodo di tempo relativamente breve saranno questi paesi a dare il tono allo sviluppo ulteriore del mondo, mentre i paesi del capitale monopolistico dapprima rimarranno indietro e poi finalmente saranno travolti dalla forza dell’esempio e da un lento ma irresistibile processo di osmosi”.


“Riflessioni sul sottoconsumo”.
Nel 1959, dopo la pubblicazione di “The politica economy of growth”, Baran torna sul tema molto rilevante della definizione di “sottoconsumo”, cercando di precisare rispetto a cosa sia giudicato insufficiente.
Ci sono tre accezioni possibili:
1-     Un consumo può essere insufficiente ai fini del mantenimento della popolazione.
2-     Oppure perché induce una ripartizione del prodotto totale, tra consumi ed investimenti, inadeguato all’accumulazione capitalistica e quindi alla riproduzione del sistema,
3-     O si tratta di “una concezione in cui una quota della produzione assorbita dal consumo è tale da dare origine a un volume di investimenti che supera quello che sarebbe consentito dal livello esistente della produzione (e del reddito), col risultato che la domanda effettiva aggregata è insufficiente a mantenere il pieno impiego delle risorse”.

Si parte dalla terza definizione, più completa, perché il problema è sempre quello di scomporre il consumo in parti “utili” e in parti “superflue”. In altre parole, “il sottoconsumo non è necessariamente la descrizione di risultati ottenuti, ma si riferisce invece a un’importante tendenza che opera nel processo capitalistico e che contribuisce a determinare il suo esito in ogni momento dato” (p. 189). Una tendenza che, si noti, non è necessariamente quella dominante, e non sempre.
Ciò significa anche che il sottoconsumo può essere in parte invisibile, come la parte sommersa di un iceberg, e non entrare completamente nel novero dei “fatti immediatamente osservabili”.
Osservando comunque i “fatti”, si registra che in America dal 1909 al 1956 la produttività è cresciuta del 277%, mentre i salari del 230%, il capitale fisso per lavoratore è passato da 1860$ nel 1929 a 6.260 $ nel 1944, le imprese industriali sono passate ad adoperare 10 cv a lavoratore, contro gli 1,25 del 1879. C’è stato, insomma, un processo impetuoso di meccanizzazione, stimolato da una massiccia accumulazione di capitale e dallo sfruttamento delle economie di scala. Questo, insieme all’aumento del surplus economico prodotto, ha condotto alla nascita di imprese di grandi dimensioni e di gruppi giganteschi che ora sono nella posizione di realizzare grandissimi profitti.
Si ha un duplice effetto: “il surplus economico generato dall’economia tende a diventare una frazione crescente del prodotto complessivo e questo surplus tende ad essere continuamente redistribuito a favore di un numero costantemente decrescente di imprese gigantesche”. Ciò dovrebbe portare al progressivo soffocamento del sistema capitalistico sotto la valanga di surplus in crescente difficoltà di “realizzo”, “perché né il consumo dei capitalisti, né l’investimento nelle imprese capitalistiche sarebbero in grado, ciascuno per sé o in congiunzione tra loro, di assorbire la marea montante”. Il consumo dei capitalisti è infatti limitato perché in contrasto con la fondamentale tendenza all’accumulazione. D’altra parte anche l’investimento, in quanto circoscritto alle esigenze di massimizzazione del profitto tende a rimanere basso.

Ne consegue che:

“in queste circostanze la depressione dovrebbe essere lo stato permanente del capitalismo e una crescente disorganizzazione il suo accompagnamento costante”

Ma, come per tutte le malattie, ci sono anche sviluppi contrastanti. Tra questi le campagne pubblicitarie, la crescita lussureggiante dei settori improduttivi, lo Stato e in particolare le spese militari.

Si tratta, insomma, di un’analisi difficile, che fa uso di dati da costruire e non evidenti, ma importante perché inquadrata nella prospettiva dello sviluppo economico e sociale a lunga scadenza.

“Osservazioni su The political economy of growth
Nel 1962 rispondendo ad alcuni critici, Baran precisa che la ricerca del surplus potenziale, e la distinzione analitica tra attività “produttive” e non, e di consumi che sono “sprechi”, non mette in questione la sovranità del consumatore. La questione è “completamente diversa, e cioè se si debba tollerare un ordine economico e sociale in cui l’individuo, fin dalla culla, è plasmato, modellato e ‘adattatato’, fino a diventare una facile preda dell’impresa capitalistica avida di profitti e un oggetto docile e passivo dello sfruttamento e dell’abbrutimento capitalistico” (p.305).
Il surplus, rispondendo a Kaldor, non è neppure la rappresentazione dei “profitti statisticamente osservabili”, perché se lo fosse non ci sarebbe affatto bisogno del nome. Il nocciolo della questione “è che i profitti non sono identici al surplus economico, ma costituiscono solo la parte invisibile dell’iceberg, mentre tutto il resto della montagna rimane inaccessibile all’occhio nudo”.
 Per lo più il surplus è nascosto nelle statistiche ufficiali sotto le diverse voci di costi, che spesso sono utili per il profitto (un esempio che fa spesso sono le alette che negli anni cinquanta si mettevano nelle automobili, che servivano per il gusto educato del pubblico e quindi massimizzare le vendite, ma erano del tutto inutili). È per questo che la valorizzazione del “surplus potenziale” è possibile solo in una società razionalizzata, ovvero socialista. Una società nella quale le persone non siano motivate dal profitto. Anche il progresso tecnologico e le innovazioni dipendono dall’investimento, più che il contrario, ma certamente alcuni investimenti (ad esempio militari) ne sono potenti agenti.

Nell’ultima parte del saggio ripercorre le tesi sui paesi sottosviluppati e la “legge dello sviluppo ineguale” (p.317), formulata da Lenin, che, però non va presa come formula generale applicabile ad ogni caso possibile. Quel che Baran intendeva fare non era imporre un suo “consensus”, ma mostrare una meccanica che deve trovare applicazione specifica.

“La programmazione economico e sociale”,
In questo saggio Baran discute le tesi di Bettleheim e Myrdal e le ragioni dello stato di crisi incipiente (ma qui siamo nei primi anni sessanta) delle soluzioni keynesiane. Il problema principale è rispetto a cosa giudicare l’efficienza complessiva del sistema economico: se dal grado in cui sono utilizzare le risorse produttive disponibili, e in particolare dalla pienezza dell’occupazione, o se dall’inflazione, la stabilità dei prezzi o altri criteri orientati al capitale ed all’accumulazione. La scelta è chiara, gli sforzi dei governi mirano in generale al mantenere condizioni di funzionamento abituale del sistema, per le quali la piena occupazione è deleteria; per cui si tratta in primo luogo di mantenere anche un “esercito di riserva” permanente e “piuttosto ampio” (in particolare nelle condizioni dell’economia americana, dominata da aziende monopoliste). È questo ambiente che fa andare in difficoltà le ricette keynesiane, più adatte ad una economia di tipo concorrenziale (p.243). In una economia capitalista, infatti, una diminuzione della domanda non fa calare i relativi prezzi, ma riduce la produzione, aggravandola, mentre l’opposto si scarica subito sui prezzi, invece che sulla produzione.
In questo ambiente, peraltro, il rischio dell’inflazione cronica crea problemi tali alle imprese da diventare “interesse comune e solidale di tutta la classe capitalista nel suo complesso” contrastarla. Questa paura “eclissa la preoccupazione per il pieno impiego come dogma fondamentale della politica economica”. Chiaramente le pressioni inflazionistiche si potrebbero ben neutralizzare tramite controlli di carattere fisico, “ma questo tipo di controlli è sempre stato aborrito come la peste dai capitalisti, grandi e piccoli”. Ne segue che l’agenda cambia.

“La scienza economica nei due mondi”,
Insieme a Paul Sweezy, Baran scrive un articolo che la prima volta è pubblicato in un volume in onore di Oskar Lange nel quale torna sulla questione delle “teorie del crollo”, che animarono nella socialdemocrazia europea il dibattito tra revisionisti e ortodossi. Ma si confronta anche, e questo potrebbe essere di particolare interesse, con la coeva attenzione per “l’economia matematica” di derivazione marginalista. Attenzione che si estende in quegli anni anche ai paesi socialisti (quando si dice una egemonia culturale).
Facendo riferimento ad un saggio di Lang[5] si confrontano teorie che partono da prospettive opposte e servono a scopi diversi. La teoria economica della scuola austriaca, marshalliana e di Losanna (poi aggiornata dai boys di Chicago) è essenzialmente una teoria statica dell’equilibrio economico che analizza un sistema di dati, di provenienza psicologica, tecnologica ed istituzionale, e il meccanismo di adattamento di prezzi e quantità prodotte a questi. Tutte le strutture (scale di preferenza, funzioni di produzione, forme e ripartizione della proprietà e sua giustificazione) nell’assiomatica della scuola sono considerate fuori del campo. Non si nega la loro importanza, ma si affida alle cure di altre discipline e della politica (salvo dimenticarsene quando si pretende che i propri modelli e le proprie prescrizioni valgano erga omnes perché “scientifiche”). L’economia marxiana, al contrario, cerca una teoria dello sviluppo economico, e non dell’equilibrio ad un tempo dato.
Coerentemente con questo assunto Baran ricorda che “l’economia politica è essenzialmente una scienza storica, e non può essere la stessa per tutti i paesi e per tutte le epoche” (Engels, cit., p.69). Anche le teorie marxiste del crollo, ad esempio quelle di Rosa Luxemburg e Henryk Grossman, hanno errato nel non considerare la “fine del capitalismo” come “un lungo processo che investe un ordinamento socioeconomico su scala mondiale”, ma lo hanno pensato come “un evento catastrofico isolato, come una specie di terremoto”. Anche le teorie socialdemocratiche, o revisioniste, hanno avuto lo stesso difetto, si sono concentrate sui rispettivi paesi senza considerare abbastanza “il fatto che il capitalismo è un sistema globale”. Solo il Leninismo ha evitato, per Baran, sia l’uno sia l’altro errore.
Tornando alla questione delle tecniche la “microeconomia” (della quale, peraltro, Baran fa uso, almeno nel senso che cerca di giustificare i suoi teoremi anche con argomenti microeconomici), “mirano ad esplorare le condizioni che possono migliorare il rendimento dell’impresa capitalistica. Perciò i suoi contenuti specifici sono determinati dai bisogni dell’impresa capitalistica e dai criteri di efficienza e di rendimento in base ai quali essa opera”. Criteri che dipendono dalla natura dell’impresa, ovvero dalle società per azioni giganti che dominano la scena economica. La spinta al calcolo viene da qui.

Ma Baran ricorda:

“postulando l’esistenza di controlli adeguati (diretti o indiretti) sul comportamento di certe variabili chiave quando in realtà questi controlli non esistono affatto, supponendo l’assenza del monopolio quando in realtà esso è onnipresente e ha effetti di grande portata, ipotizzando il pieno impiego sul lungo periodo quando in realtà è piuttosto l’eccezione che la regola, in tutti questi modi i modelli attualmente in voga non astraggono da aspetti secondari del processo che cercano di spiegare, ma dalle sue caratteristiche più fondamentali. Sostituiscono all’economia capitalistica un sistema razionale immaginario che col capitalismo ha in comune solo il nome.
La funzione apologetica delle teorizzazioni di questo tipo non è affatto attenuata dalla precisione apparente che esse raggiungono mediante l’impiego della matematica. Anzi, è piuttosto vero il contrario. Sia il linguaggio matematico che il ragionamento matematico possono essere particolarmente infidi, perché essi permettono di tratte conclusioni logicamente impeccabili da premesse inadeguate e creano l’apparenza di un sistema coordinato e coerente dove un sistema di questo genere non esiste affatto. … nel caso della macroeconomia, il modello matematico complicato serve a nascondere l’irrazionalità della organizzazione economica che esso pretende di illuminare” (p.84-5).

Ormai, racconta, anche l’ala più radicale dell’economia, rappresentata da John Kenneth Galbraight[6] è l’esaltazione più entusiastica di una società dominata dalle grandi imprese.

C’è un motivo specifico:

“il pensiero economico borghese di oggi, antistorico sino in fondo, irride a ogni sforzo di investigare la natura dei cambiamenti che si verificano o di determinare la direzione in cui hanno luogo. Il grande interrogativo, quo vadis?, intorno a cui si sono affaticati non solo Adam Smith, David Ricardo e John Stuart Mill, ma anche, ai nostri giorni, Joseph Schumpeter, è letteralmente scomparso dall’agenda degli economisti borghesi, lasciando il posto d’onore a una variante di ciò che ha preso il nome di ‘ricerca operativa’ (operations research), e cioè la ricerca dei mezzi adatti a conseguire certi scopi prestabiliti indipendentemente dalla natura o dal significato storico di quegli scopi. Così, nell’epoca del capitalismo monopolistico, il pensiero economico diventa uno strumento scientificamente perfezionato per la manipolazione della società e dei suoi membri ad opera degli interessi dominanti. In tal modo la ragione è posta a servizio dell’irrazionalità […] se, prima dell’avvento del capitalismo, la scienza doveva atteggiarsi a magia per ottenere il pubblico riconoscimento, oggi la magia può essere accettata solo se si presenta nelle vesti della scienza” (p.90).


In conclusione, i saggi di Baran pubblicati su Montly Review coprono un arco di circa quindici anni e toccano molti temi rilevanti per il dibattito sull’economia a lui contemporanea, includono la prima reazione di uno studioso molto importante e sfortunatamente cessato prematuramente nel pieno del suo rigoglio intellettuale quando ascendeva l’egemonia neoliberale. Per dire il suo coetaneo Paul Sweezy gli sopravvisse per quasi quaranta anni.
Il gruppo di saggi della metà degli anni cinquanta ripercorrono i temi definitori della sua proposta teorica, una compatta teoria che si pone il problema di spiegare per quale motivo il capitalismo conservi la lealtà della popolazione nell’occidente sviluppato e, contemporaneamente, sia fortemente osteggiato nelle periferie mondiali, oltre che in quelle urbane e razziali. La spiegazione parte dal contrasto del sottoconsumo senza ostacolare gli interessi del capitale, e dalla torsione ideologica e culturale prodotta come effetto secondario da questo sforzo, sia dalla guerra fredda (e dall’espansione del “welfare militare”), sia dalle forme di ‘spreco’ e moltiplicazione dei ‘lavori improduttivi’, ma capaci di assorbire il surplus e allontanare il rischio di ‘crisi da realizzo’ (e quindi da sovrapproduzione). C’è quindi da chiedersi a che serve lo sviluppo economico, e che relazione ci sia, strutturalmente, tra l’entità e il modo di utilizzazione del surplus economico prodotto correntemente e il carattere degli investimenti netti. La deformazione e l’irrazionalità della società capitalista, con le sue continue operazioni di distrazione, nasce da qui. E da qui il suo costrutto teorico (ripreso dai classici) di “surplus economico potenziale”, descritto in “Progresso economico e surplus economico”, del 1953.
Da questa la nozione, organicamente necessaria, di “surplus economico pianificato” e la necessità interna di transizione al socialismo per dare una soluzione al groviglio di problemi creati dalla massimizzazione dei profitti (e non dei valori d’uso).

Cercare di spiegare, in “Sulla struttura del marxismo” del 1958, perché le sofferenze che un sistema altamente inefficiente, ineguale ed ingiusto, come il capitalismo monopolista, induce non portano, come ipotizzato da Marx, alla formazione di una irresistibile reazione, porta Baran a mettere in evidenza come sia un effetto della crescita del tenore di vita e della cattura egemonica da parte delle classi dominanti. Alla fine ineguaglianza, sfruttamento e ingiustizia sono sentiti come aspetti dell’ordine naturale delle cose rispetto alle quali non si può (e non si deve, se sono naturali) lottare, ma bisogna sottrarsi individualmente. Cambia l’intera struttura dei desideri.
Da ciò deriva una fondamentale conclusione: la guida del progresso può essere presa solo dalle nazioni i cui l’irrazionalità dell’ordine sociale ha dato origine a potenti movimenti antagonistici. E questo non avviene nelle società ‘avanzate’, bensì solo dai popoli dei paesi coloniali, dipendenti e sottosviluppati. Quei paesi dove le contraddizioni sono più acute e ai quali viene sottratto il surplus potenziale senza alcuna forma di reinvestimento (quel reinvestimento che, evitando le crisi da realizzo, alimenta ceti “improduttivi” e un cuscinetto di “sprechi” dal potente effetto anestetizzante).

Le parti metropolitane sono condannate a restare indietro e le periferie a farsi avanguardia. Solo quando queste saranno travolte ci potrà essere l’osmosi finale. Questa era almeno la sua speranza.


[1] - In una importante e lunga nota Baran individua una fondamentale differenza tra la sua impostazione analitica e quella di Colin Clark, uno dei maggiori teorici dello sviluppo economico, in particolare del suo “Le condizioni del progresso economico”, 1940, già assistente di Beveridge e tra i padri dei metodi di contabilità nazionale e proprio quell’anno tornato a Oxford a dirigere l’Istituto Universitario di Ricerca in Economia Agraria. Qui passa dalla vicinanza alla sinistra keynesiana alla destra liberista e nel 1967 pubblica “Crescita della popolazione e uso del territorio”, nella quale critica l’impostazione neo-malthusiana della Fao. Il punto di attacco di Baran è la definizione, nel saggio del 1940, dello sviluppo economico come “un miglioramento del benessere economico. … abbondanza di tutti i beni e i servizi che vengono forniti abitualmente in cambio di denaro”. Essa viene criticata perché 1) molti elementi della produzione totale non hanno a che fare con il benessere (es. produzione di armi, le esportazioni nette, etc), 2) si può aumentare il benessere con forniture che non sono fornite in cambio di denaro (es. l’istruzione pubblica, la sanità, …), mentre altri sono forniti in cambio di denaro ma non hanno a che fare con il benessere (nel suo elenco gli istituti di bellezza, gli stupefacenti), 3) attaccando la seconda parte della definizione, quella che indica l’efficienza della produzione, si può ottenere un aumento della produzione in modo inefficiente e comunque ottenerla. Per queste ragioni “sarebbe preferibile considerare lo sviluppo economico come un incremento della produzione di beni e servizi a prescindere dal fatto che essi diano un contributo al benessere, alla riserva disponibile di beni strumentali o agli armamenti”. Tutte queste cose vanno considerate, ma in modo separato. Entrando nel campo specifico di Clark prosegue mettendo in questione la rilevanza di indicatori aggregati come il calcolo del PNL, infatti la comparazione può portare fuori strada, come quando si attribuisce allo sviluppo la crescita del settore dei servizi (che nelle statistiche delle economie marxiste sono esclusi dal calcolo, dato che sono considerati solo quelli direttamente connessi alla produzione o al trasporto dei beni.
[2] - La nozione, in stretta relazione con una critica sociale e politica all’assetto feudale, è presente anche in Adam Smith, che (cit Baran, p.281) scrive: “il lavoro di alcune delle categorie più rispettabili della società è, come quello dei domestici, affatto improduttivo di valore. Il sovrano, per esempio, con tutti i funzionari civili e militari che servono sotto di lui, con tutto l’esercito e la marina, sono lavoratori improduttivi. Essi sono i servi del pubblico e sono mantenuti da una parte del prodotto annuale dell’attività di altri… nella stessa categoria si devono annoverare gli ecclesiastici, gli avvocati, i medici, i letterati di ogni genere, gli attori, i buffoni, i suonatori, i cantanti, i ballerini, ecc.”
[3] - Werner Sombart, “Il capitalismo moderno”, 1902.
[5] - Oskar Lange, “Economia marxiana e teoria economica moderna”, in Sweezy e altri, “La Teoria dello Sviluppo capitalistico”, Boringhieri, p. 522.
[6] - Baran e Sweezy citano di Galbraight, “American capitalism”, 1952, e “La società opulenta”, 1958.

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