Paul
Alexander Baran è stato uno dei più rilevanti economisti marxisti del
novecento, nato in Ucraina nel 1909, da genitore socialista e menscevico, e
morto in California nel 1964, negli ultimi tredici anni della sua vita fu l’unico
docente ordinario marxista dell’accademia americana. Nel suo primo libro di
grandissima rilevanza, de “Il
surplus economico e la teoria marxista dello sviluppo”, viene formulata
da “teoria della dipendenza” che identifica nell’arretratezza del terzo
mondo il sostegno decisivo ai processi di accumulazione nei paesi industrializzati,
superando la loro tendenza intrinseca alla stagnazione. Del resto questa tesi si
connette sia con la ricostruzione della teoria marxista proposta da Paul Sweezy
un decennio prima, sia con la sistemazione della teoria del capitalismo
monopolistico. La permanente tendenza alla stagnazione è combattuta appunto con
l’estrazione di risorse dai paesi tenuti in stato semi-coloniale: tesi che sarà
sistemata nel suo libro del 1966 (postumo) con lo stesso Sweezy “Il capitale
monopolistico”.
La
sua formazione avviene in Europa, a Berlino, Francoforte sul Meno dove incontra
Rudolf Hilferding e Parigi; quindi nel 1939 si trasferisce negli Stati Uniti e
continua gli studi ad Harvard dove acquisisce il master in economia. Fa anche
un’esperienza come ricercatore alla Federal Reserch bank di New York. Dal 1949
collabora alla rivista Montly Review, dalla quale sono tratti i presenti
saggi, che coprono praticamente l’intero arco della sua produzione. Durante questi
studi Baran si reca a Cuba, nel 1960, a Mosca, in Iran ed in Jugoslavia.
La
raccolta dei saggi pubblicati nel 1976 nella
collana viola dell’Einaudi, e tratti da Montly Review durante un giro
decisivo degli anni cinquanta e sessanta, comprende il saggio “Sulla natura del
marxismo”, del 1958, poco dopo la pubblicazione del suo primo capolavoro, e l’anno
dopo quello “Riflessioni sul sottoconsumo”. Ma prima del capolavoro del 1957 si
trovano “Meglio meno ma meglio”, del 1950, sull’avvio della guerra fredda ed il
suo significato, e “Progresso economico e surplus economico”, del 1953, come “Riflessioni
sulla programmazione e lo sviluppo economico in India”, del 1956. Commentando la
ricezione del libro c’è quindi “Osservazioni su The political economy of growth”
del 1962.
Quindi
“La scienza economica nei due mondi”, insieme a Paul Sweezy, e la serie di
saggi sulla pianificazione, nel mondo capitalista, nei paesi arretrati e nei
paesi socialisti che si collocano nel contesto della transizione tra il saggio
del 1957 e quello, postumo, del 1966. Subito prima di questo ci sono nel 1964 le
“Tesi sulla pubblicità”, e poi “La programmazione economico e sociale”, nel
quale discute le tesi di Bettleheim e Myrdal.
Dato
che procederemo, dopo aver letto il libro del 1957, e il testo su “Il
Capitale” di Marx di Paul Sweezy “La
teoria dello sviluppo capitalistico” del 1942, a concludere questo primo
inquadramento delle teorie del gruppo del Montly Review alla lettura
anche di “Il capitale monopolistico”, scritto da Paul Sweezy e Paul Baran
e pubblicato dopo la morte di quest’ultimo nel 1966, può essere opportuno
seguire almeno alcuni saggi di questa raccolta. Si tratta di saggi rilevanti
per l’incubazione della “Teoria
della dipendenza” e la messa a punto delle posizioni teoriche dell’autore.
“Meglio
meno ma meglio”,
Il
primo saggio della raccolta in ordine di tempo è scritto nel 1950, quando Paul
Baran aveva quarantuno anni e sarebbe diventato l’anno successivo professore
ordinario alla Stanford University. In questo saggio si pone di fronte all’avvio
dell’espansione della spesa (dell’ordine di una ventina di miliardi di dollari)
causata dalla guerra fredda, che sta partendo quasi improvvisamente e con
grande slancio. Baran si chiede perché. Il capitalismo americano attraversa una
fase di stabilità, anzi eccezionale, ma l’economia è incline alla depressione
come non mai; “il grande capitale ed i suoi strateghi” hanno avuto la capacità
di impadronirsi degli strumenti elaborati da Keynes e dell’esperienza bellica. Ora
“essi sanno benissimo che l’occupazione si può ‘fare’, che se ne può
determinare il livello in anticipo con discreta precisione; e che la capacità
di mantenere questo livello ‘non troppo al di sotto’ della piena occupazione –
dove è l’ampiezza del margine di tolleranza politica di cui abbiamo parlato a
determinare tale valore – è la sola via compatibile con la sicurezza politica e
i buoni profitti” (p.207). Ma il problema è raggiungere questo “livello
confortevole di sottoccupazione” senza ledere i diritti acquisiti delle
classi dominanti.
Qui
è il problema, perché “tutti gli sbocchi che si potrebbero definire razionali
nel senso che contribuiscono ad aumentare il benessere dell’umanità” sono
incompatibili con questo irrinunciabile obiettivo. Il pagamento di sussidi
tende ad aumentare i salari, gli investimenti produttivi distruggono “le
roccaforti di interessi monopolistici edificati con somma cura”. Dovendo spendere
cifre consistenti questi sono ostacoli insormontabili.
È
qui che interviene la guerra fredda.
Se
si spende infatti in armamenti e interventi all’estero nessun interesse
industriale viene scalfito, non si creano mezzi di produzione in concorrenza
con quelli privati, anzi si ampliano le commesse pubbliche, e del miglior tipo,
ricche ed urgenti. La guerra fredda non è affatto irrazionale dall’unico punto
di vista che conta: quello delle classi dominanti.
Inoltre
la guerra fredda crea consenso, attenua le opposizioni parlamentari alla spesa,
fornisce il contesto migliore per distruggere, accusandolo di essere una quinta
colonna e di disfattismo, il movimento sindacale e dei lavoratori. Ha prodotto un
tale spostamento da portare in primo piano, ed apertamente, soggetti
apertamente fascisti, come il senatore McCarthy, che sarebbero stato “confinati
nel sottobosco della politica americana fino a pochi anni prima”. E , infine, “essa
fornisce la strategia generale per l’espansione e la protezione degli
investimenti americani all’estero, investimenti che stanno estremamente a cuore
ai maggiori esponenti del grande capitale americano”. La guerra fredda,
insomma, “fornisce la formula politica necessaria per uno sforzo concertato in
vista della preservazione del capitalismo all’estero e per il suo rafforzamento
e, se necessario, la sua fascistizzazione negli Stati Uniti stessi”.
“Progresso
economico e surplus economico”,
Nel
1953, viene pubblicato un articolo che si è giovato della lettura critica di
Joan Robinson (ringraziata in una nota); all’avvio viene celebrato “il balzo
grandioso dell’economia socialista”, al quale si associa l’orientamento allo
sviluppo economico dei paesi coloniali e “nelle zone dipendenti” dei paesi a
capitalismo avanzato e, infine, la “pericolosa instabilità” di questi ultimi. La
comprensione di questi fenomeni richiede di mettere al centro della disciplina
economica lo studio della nozione di “sviluppo”, per il quale non è
utile, tuttavia, l’analisi dell’equilibrio statico, o dei modelli teorici “a
concorrenza perfetta” nei quali indulge la stessa. Ma cosa dà avvio allo
sviluppo? L’incremento continuo nel tempo di beni e servizi prodotti da una
società[1] si può dare solo se si
mette a frutto l’utilizzazione economica di conoscenze tecniche e crescono gli
investimenti netti. Ma questi ultimi sono possibili solo se “la produzione
totale della società supera la quantità di beni utilizzata per i consumi
correnti e per rimediare al deterioramento delle attrezzature produttive
impiegate nel corso del tempo”. Ovvero, e questa è la proposizione centrale
nell’impostazione di Baran: “il volume e il carattere degli investimenti netti
che si effettuano in una società in un determinato periodo dipendono, perciò,
dall’entità e dal modo di utilizzazione del surplus economico
prodotto correntemente”. Ma qui viene introdotta la distinzione “in termini di
statica comparativa”, tra:
1- Il
surplus economico effettivo, cioè “la differenza tra la produzione
effettiva corrente della società e i consumi effettivi correnti”, che si
identifica con il risparmio corrente;
2- Il
surplus economico potenziale, ovvero “la differenza tra la produzione
che potrebbe essere realizzata in un dato ambiente naturale e
tecnologico mediante l’impiego effettivo delle risorse produttive, e
quelli che si possono considerare i consumi essenziali”. Per rendere
effettivo questo surplus esistente solo in potenza è necessaria una
riorganizzazione della produzione e della distribuzione del prodotto sociale e
della struttura della società. Ci sono tre forme di surplus potenziale:
quella che è presente nei consumi superflui (da eliminare), come quelli
di lusso dei redditi elevati; la produzione che si perde a causa di lavoratori
improduttivi[2];
la produzione che si perde per le irrazionalità e gli sprechi. Si deve
notare che questo implica che la perdita di surplus economico potenziale può
aversi anche in condizioni di piena occupazione. Questa nozione, per sua
natura, “trascende i limiti della struttura sociale esistente”, riferendosi ad
una società organizzata in modo più razionale che, evidentemente, non c’è
ancora.
Il
punto, e ciò che rende invisibile questo approccio (dipendente da un approccio
classico all’economia che rigetta la svolta marginalista) è che per praticarlo bisogna
porsi intellettualmente “al di fuori” dell’ordinamento sociale vigente, non
lasciarsi “impacchettare dai suoi valori”, dalle sue “superstizioni” e dalle
sue “verità assiomatiche” avendo quindi una visione critica delle
contraddizioni e delle potenzialità nascoste.
A
questo punto subentra la nozione di “surplus economico pianificato”,
ovvero quello che sarebbe prodotto fuori del meccanismo di
massimizzazione dei profitti, ma da un programma sociale e in base a ciò che la
società decide consapevolmente di produrre, consumare e risparmiare in
un dato momento.
Nel
saggio viene rapidamente ripercorsa la storia dello sviluppo economico, in
epoca feudale e nella transizione al capitalismo ed al suo “spirito” (cit.
Sombart[3] e Weber[4]). A questo punto, dopo la
descrizione idealizzata della società capitalista concorrenziale subentra la
realtà dell’economia dominata dalle “imprese di grandi dimensioni e dei
monopoli”, che ha creato un problema di sbocchi per gli investimenti. In regime
di capitalismo monopolistico, normalmente, gli investimenti potenzialmente
utili “non riescono ad utilizzare il surplus economico che viene prodotto
correntemente” (p.268). Ciò non dipende da fattori esclusivamente economici, ma
anche dal contesto sociale e politico nel quale si effettuano gli investimenti,
e dalla “demoralizzazione della classe capitalistica”, per effetto della
pressione sociale ad appropriarsi del surplus del quale pensano di avere
diritto. Nel ciclo di investimento (che va dal pieno impiego alla crescita dei
costi per salari ed altro e quindi alla riduzione dei profitti, alla riduzione
quindi degli investimenti, il calo di questi e la nuova fase ascendente) si
resta sempre ad un livello troppo basso rispetto al surplus potenzialmente
utilizzabile, e quindi con un “esercito di riserva” prudenziale troppo alto, la
società che reputasse ciò potrebbe: aumentare i consumi di massa (come
percentuale della produzione totale), aumentando i salari reali, ma si incontra
la fiera resistenza dei singoli capitalisti (questi sono danneggiati
individualmente e sostenuti collettivamente dalla conseguente espansione della
domanda e quindi delle opportunità di investimento); inviare all’estero una
parte del surplus economico effettivo, ma ciò è ostacolato dalla ritrosia
del singolo capitalista ad impegnarsi in imprese rischiose in paesi diversi se
il governo non lo garantisce e sostiene, per questo motivo le aziende che
vogliono investire all’estero esercitano sempre una fortissima pressione sul
governo per indurlo a creare all’estero, con mezzi diplomatici o militari, “condizioni
sociali e politiche favorevoli agli investimenti dei propri capitalisti e ad
usare il suo potere per escludere gli altri paesi imperialistici dai mercati
esteri e dagli sbocchi per l’investimento su cui i propri capitalisti hanno
messo gli occhi”; il terzo modo è un aumento dei consumi superflui, l’espansione
del lavoro improduttivo e il moltiplicarsi dello spreco e dell’irrazionalità di
produzione e distribuzione; quindi le spese governative, in particolare
rese necessarie dallo sviluppo dell’imperialismo ed altre spese, purché non
vadano a ostacolare le occasioni di profitto di qualche grande attore economico.
“Riflessioni
sulla programmazione e lo sviluppo economico in India”,
Nel
1956 questa struttura viene messa alla prova in uno studio sulla programmazione
indiana alla quale si finisce per consigliare di utilizzare il surplus
economico potenziale, riducendo il consumo eccessivo dei gruppi superiori,
mettendo in attività e riconvertendo i lavoratori improduttivi, facendo molta
attenzione ai danni dei rapporti commerciali esteri e alla figa dei capitali.
“Sulla
natura del marxismo”,
Nel
1958, viene nuovamente espresso il giudizio che la depressione cronica dovrebbe
essere lo stato permanente di un regime capitalistico, in particolare nella
fase monopolistica, questa era anche la conclusione cui era giusto Paul Sweezy
nel 1942. Ma ciò accade solo a volte; il motivo è che “come la maggior
parte delle malattie degli organismi viventi suscitano l’intervento di forze
riparatrici, così le tendenze economiche sono generalmente controbilanciate,
almeno in una certa misura, da sviluppi antitetici”. Tra questi gli impieghi “improduttivi”,
gli sprechi, le campagne pubblicitarie, ma anche l’azione dello Stato. Si tratta
di “cure” che per lo più sono nel novero dei palliativi ed alcune altamente
irrazionali, “la sola soluzione razionale è la pianificazione sociale della produzione
e della distribuzione di beni e servizi”, una pianificazione, sia chiaro,
impossibile senza la proprietà sociale dei mezzi di produzione e una
trasformazione socialista della società. Ma una simile trasformazione, scrive,
può avvenire solo se la comprensione dell’irrazionalità dell’ordine sociale
diventa effettivamente intollerabile e non per pochi ma per la vita delle
masse. Sorge allora la domanda: è possibile che l’irrazionalità, anche quella più
forte, non dia luogo a sofferenze insostenibili?, o che la classe dominante riesca
a distruggerne la consapevolezza, impedendo che si diffonda nel popolo? Di modo
che questo non ne comprenda le cause? Per Baran Marx ed Engels “nonostante qualche
osservazione occasionale in senso opposto, tendevano nell’insieme ad escludere
entrambe queste possibilità”.
Inoltre
ritenevano che:
“la peculiarità storica
del sistema capitalistico consistesse proprio nel fatto che il progresso
tecnologico e la richiesta di manodopera istruita e disciplinata da parte dei
capitalisti avrebbero creato automaticamente le condizioni della nascita e
dello sviluppo di un movimento operaio basato sul fatto che gli operai stessi
avrebbero compreso le cause della loro miseria e la necessità di instaurare un
ordine sociale più ragionevole.
La storia non si è
svolta secondo queste previsioni, che riflettevano l’ardente fede progressista
del grande secolo dell’illuminismo e del razionalismo” (p.27).
Invece
il tenore di vita della popolazione lavoratrice è cresciuto in modo
considerevole, e, se pur del tutto inadeguato, appare un netto miglioramento a
chi non comprende le potenzialità che non sono sfruttate ma vede solo il
relativo progresso concreto intorno a sé. Riguardando dietro sé ognuno infatti ricorda
la povertà maggiore della propria infanzia, o dei propri nonni, e pensa di
essere in un mondo che avanza. Inoltre, chi subisce gli effetti delle
perturbazioni cicliche, ad esempio, viene a trovarsi arruolato nell’esercito di
riserva, sente ciò come una avversità personale invece che come l’effetto del
destino di una classe sfruttata in un ordine sociale ingiusto.
Infine
la mentalità dominante, che è quella propria della borghesia, vede nel capitalismo
l’ordine naturale ed ovvio delle cose. È vero che la penetrazione, capillare,
della morale, dei valori sociali e politici della classe dominante in tutti gli
strati della società era stata prevista da Marx, ma è andata molto oltre il
previsto:
“l’ideologia borghese,
infatti, è stata in grado non solo di assolvere le funzioni che erano state
scoperte e analizzate da Marx e Engels, ma anche di affrontare nuovi e più
ambiziosi compiti. Essa non agisce più soltanto da freno alle aspirazioni degli
uomini a una società migliore, non è più soltanto il reticolato di filo spinato
che impedisce agli uomini di soddisfare i loro bisogni e le loro possibilità
fondamentali, ma ha ormai raggiunto quello che si potrebbe chiamare il suo
obiettivo ultimo: ha soffocato e mutilato quella stessa spinta e aspirazione,
ha inserito un cuneo poderoso fra i bisogni umani e i desideri
umani. Questo ‘progresso’ ha dato luogo a una profonda trasformazione
qualitativa del pensiero borghese. Finché la borghesia era una classe
progressiva, la sua ideologia rispecchiava fedelmente i suoi interessi di
classe, che, almeno in parte, erano anche gli interessi della società nel suo
complesso. Quella ideologia presentava quindi le caratteristiche della mezza
verità. Partecipava della verità senza poterla esprimere interamente,
abbracciava un aspetto del processo storico (l’ascesa della borghesia), senza
tenere conto dell’altro (i limiti storici e il carattere transitorio dell’ordinamento
capitalistico). Ma a mano a mano che la borghesia si trasformava nella classe
dominante sotto il capitalismo monopolistico, e che i suoi interessi hanno
cessato di avere nulla in comune con quelli del popolo, in patria e all’estero,
l’ideologia borghese si è ‘innalzata’ dal grado di mezza verità a quello di una
menzogna totale. Ora essa esprime unicamente gli interessi dell’oligarchia
reazionaria e dei suoi dipendenti, e non esprime in modo adeguato neppure
quegli interessi. Nemmeno i diretti beneficiari di questo ordinamento sociale
si sentono tranquilli, soddisfatti e a loro agio sotto il suo regno. Ciò si può
verificare con tutta la concretezza necessaria nello sfacelo della famiglia e
della scuola borghese, nel tracollo delle stesse norme morali borghesi e nella
vacuità universalmente riconosciuta di principi come la libera concorrenza, il
libero scambio e l’uguaglianza di possibilità” (p.30).
Ora
l’ineguaglianza, lo sfruttamento e l’ingiustizia sono sentiti come aspetti dell’ordine
naturale delle cose, e quindi non si pensa neppure di lottare contro di essi,
ma di sottrarsi individualmente ai loro effetti. Nelle società a
capitalismo avanzato:
“i desideri
stessi degli uomini sono determinati da impulsi aggressivi, sono diretti al
conseguimento di privilegi individuali e allo sfruttamento degli altri, al
consumo frivolo ed al divertimento vuoto. Avendo introiettato i tabù e
gli imperativi della morale borghese, le persone immerse nella civiltà del
capitalismo monopolistico non desiderano ciò di cui hanno bisogno e non hanno bisogno
di ciò che desiderano”.
Il
concetto classico della funzione dell’ideologia, formulato da Marx e Engels,
non riesce a stare dietro questa profondità di coinvolgimento perché essi
avevano sottovalutato “la misura in cui i desideri dell’uomo possono
essere influenzati e modellati dall’ordinamento sociale in cui è inserito”, e perché
ritenevano che il capitalismo non avrebbe avuto a disposizione il tempo,
le numerose generazioni, necessarie per giungere a questa profondità di
coinvolgimento.
La
società è dunque profondamente malata, e non può che sfociare in una catastrofe
per la separazione tra i bisogni dell’uomo e i suoi desideri. Una società
organizzata in modo così irrazionale, “che si rivela incapace di generare
dentro di sé forze che tendano ad abolirla e sostituirla con un sistema di
rapporti sociali più razionali e più umani, e che portino effettivamente a questo
risultato, dà luogo necessariamente al ristagno economico, alla decadenza
culturale e a un senso generale di sconforto e disperazione”.
La
continuazione è fondamentale:
“ma sarebbe una
manifestazione di miopia provinciale giudicare le prospettive del socialismo nel
mondo solo sulla base delle condizioni dominanti nei paesi a capitalismo monopolistico.
In tutto il corso della storia del mondo la guida del progresso è stata
presa dalle nazioni in cui l’irrazionalità dell’ordine sociale ha dato origine
a potenti movimenti antagonistici. Il genio di Lenin è stato quello di
comprendere che nell’epoca del capitalismo monopolistico e dell’imperialismo
questa funzione di guida sarebbe stata assunta dai popoli dei paesi coloniali,
dipendenti e sottosviluppati. Sostenendo il peso della irrazionalità del
sistema capitalistico e non essendo stati esposti nella stessa misura dei paesi
capitalistici avanzati all’influenza debilitante e demoralizzante della ‘civiltà
capitalistica’ e dell’ideologia borghese, alcune di queste nazioni si sono già
rivoltate e altre si stanno rivoltando contro l’irrazionalità dell’ordine
capitalistico, e ora marciano alla testa dell’ordine progressivo della storia. In
un periodo di tempo relativamente breve saranno questi paesi a dare il tono
allo sviluppo ulteriore del mondo, mentre i paesi del capitale monopolistico
dapprima rimarranno indietro e poi finalmente saranno travolti dalla forza dell’esempio
e da un lento ma irresistibile processo di osmosi”.
“Riflessioni
sul sottoconsumo”.
Nel
1959, dopo la pubblicazione di “The politica economy of growth”, Baran torna
sul tema molto rilevante della definizione di “sottoconsumo”, cercando di precisare
rispetto a cosa sia giudicato insufficiente.
Ci
sono tre accezioni possibili:
1- Un
consumo può essere insufficiente ai fini del mantenimento della popolazione.
2- Oppure
perché induce una ripartizione del prodotto totale, tra consumi ed investimenti,
inadeguato all’accumulazione capitalistica e quindi alla riproduzione del
sistema,
3- O
si tratta di “una concezione in cui una quota della produzione assorbita dal
consumo è tale da dare origine a un volume di investimenti che supera quello
che sarebbe consentito dal livello esistente della produzione (e del reddito),
col risultato che la domanda effettiva aggregata è insufficiente a mantenere il
pieno impiego delle risorse”.
Si
parte dalla terza definizione, più completa, perché il problema è sempre
quello di scomporre il consumo in parti “utili” e in parti “superflue”. In altre
parole, “il sottoconsumo non è necessariamente la descrizione di risultati
ottenuti, ma si riferisce invece a un’importante tendenza che opera nel
processo capitalistico e che contribuisce a determinare il suo esito in ogni
momento dato” (p. 189). Una tendenza che, si noti, non è necessariamente
quella dominante, e non sempre.
Ciò
significa anche che il sottoconsumo può essere in parte invisibile, come la
parte sommersa di un iceberg, e non entrare completamente nel novero dei “fatti
immediatamente osservabili”.
Osservando
comunque i “fatti”, si registra che in America dal 1909 al 1956 la produttività
è cresciuta del 277%, mentre i salari del 230%, il capitale fisso per lavoratore
è passato da 1860$ nel 1929 a 6.260 $ nel 1944, le imprese industriali sono
passate ad adoperare 10 cv a lavoratore, contro gli 1,25 del 1879. C’è stato,
insomma, un processo impetuoso di meccanizzazione, stimolato da una massiccia
accumulazione di capitale e dallo sfruttamento delle economie di scala. Questo,
insieme all’aumento del surplus economico prodotto, ha condotto alla nascita di
imprese di grandi dimensioni e di gruppi giganteschi che ora sono nella
posizione di realizzare grandissimi profitti.
Si
ha un duplice effetto: “il surplus economico generato dall’economia tende a
diventare una frazione crescente del prodotto complessivo e questo surplus
tende ad essere continuamente redistribuito a favore di un numero costantemente
decrescente di imprese gigantesche”. Ciò dovrebbe portare al progressivo soffocamento
del sistema capitalistico sotto la valanga di surplus in crescente difficoltà
di “realizzo”, “perché né il consumo dei capitalisti, né l’investimento
nelle imprese capitalistiche sarebbero in grado, ciascuno per sé o in
congiunzione tra loro, di assorbire la marea montante”. Il consumo dei
capitalisti è infatti limitato perché in contrasto con la fondamentale tendenza
all’accumulazione. D’altra parte anche l’investimento, in quanto circoscritto alle
esigenze di massimizzazione del profitto tende a rimanere basso.
Ne
consegue che:
“in queste circostanze
la depressione dovrebbe essere lo stato permanente del capitalismo e una
crescente disorganizzazione il suo accompagnamento costante”
Ma,
come per tutte le malattie, ci sono anche sviluppi contrastanti. Tra questi le
campagne pubblicitarie, la crescita lussureggiante dei settori improduttivi, lo
Stato e in particolare le spese militari.
Si
tratta, insomma, di un’analisi difficile, che fa uso di dati da costruire e non
evidenti, ma importante perché inquadrata nella prospettiva dello sviluppo
economico e sociale a lunga scadenza.
“Osservazioni
su The political economy of growth”
Nel
1962 rispondendo ad alcuni critici, Baran precisa che la ricerca del surplus
potenziale, e la distinzione analitica tra attività “produttive” e non, e di
consumi che sono “sprechi”, non mette in questione la sovranità del consumatore.
La questione è “completamente diversa, e cioè se si debba tollerare un ordine
economico e sociale in cui l’individuo, fin dalla culla, è plasmato, modellato
e ‘adattatato’, fino a diventare una facile preda dell’impresa capitalistica
avida di profitti e un oggetto docile e passivo dello sfruttamento e dell’abbrutimento
capitalistico” (p.305).
Il
surplus, rispondendo a Kaldor, non è neppure la rappresentazione dei “profitti statisticamente
osservabili”, perché se lo fosse non ci sarebbe affatto bisogno del nome. Il nocciolo
della questione “è che i profitti non sono identici al surplus economico,
ma costituiscono solo la parte invisibile dell’iceberg, mentre tutto il resto
della montagna rimane inaccessibile all’occhio nudo”.
Per lo più il surplus è nascosto nelle
statistiche ufficiali sotto le diverse voci di costi, che spesso sono utili
per il profitto (un esempio che fa spesso sono le alette che negli anni
cinquanta si mettevano nelle automobili, che servivano per il gusto educato del
pubblico e quindi massimizzare le vendite, ma erano del tutto inutili). È per
questo che la valorizzazione del “surplus potenziale” è possibile solo in una
società razionalizzata, ovvero socialista. Una società nella quale le
persone non siano motivate dal profitto. Anche il progresso tecnologico e
le innovazioni dipendono dall’investimento, più che il contrario, ma certamente
alcuni investimenti (ad esempio militari) ne sono potenti agenti.
Nell’ultima
parte del saggio ripercorre le tesi sui paesi sottosviluppati e la “legge
dello sviluppo ineguale” (p.317), formulata da Lenin, che, però non va presa
come formula generale applicabile ad ogni caso possibile. Quel che Baran
intendeva fare non era imporre un suo “consensus”, ma mostrare una meccanica
che deve trovare applicazione specifica.
“La
programmazione economico e sociale”,
In
questo saggio Baran discute le tesi di Bettleheim e Myrdal e le ragioni dello
stato di crisi incipiente (ma qui siamo nei primi anni sessanta) delle
soluzioni keynesiane. Il problema principale è rispetto a cosa giudicare
l’efficienza complessiva del sistema economico: se dal grado in cui sono
utilizzare le risorse produttive disponibili, e in particolare dalla pienezza
dell’occupazione, o se dall’inflazione, la stabilità dei prezzi o altri criteri
orientati al capitale ed all’accumulazione. La scelta è chiara, gli sforzi dei
governi mirano in generale al mantenere condizioni di funzionamento abituale
del sistema, per le quali la piena occupazione è deleteria; per cui si tratta
in primo luogo di mantenere anche un “esercito di riserva” permanente e “piuttosto
ampio” (in particolare nelle condizioni dell’economia americana, dominata da
aziende monopoliste). È questo ambiente che fa andare in difficoltà le ricette
keynesiane, più adatte ad una economia di tipo concorrenziale (p.243). In una economia
capitalista, infatti, una diminuzione della domanda non fa calare i relativi
prezzi, ma riduce la produzione, aggravandola, mentre l’opposto si scarica
subito sui prezzi, invece che sulla produzione.
In
questo ambiente, peraltro, il rischio dell’inflazione cronica crea problemi
tali alle imprese da diventare “interesse comune e solidale di tutta la classe
capitalista nel suo complesso” contrastarla. Questa paura “eclissa la
preoccupazione per il pieno impiego come dogma fondamentale della politica
economica”. Chiaramente le pressioni inflazionistiche si potrebbero ben
neutralizzare tramite controlli di carattere fisico, “ma questo tipo di
controlli è sempre stato aborrito come la peste dai capitalisti, grandi e
piccoli”. Ne segue che l’agenda cambia.
“La
scienza economica nei due mondi”,
Insieme
a Paul Sweezy, Baran scrive un articolo che la prima volta è pubblicato in un
volume in onore di Oskar Lange nel quale torna sulla questione delle “teorie
del crollo”, che animarono nella socialdemocrazia europea il dibattito tra
revisionisti e ortodossi. Ma si confronta anche, e questo potrebbe essere di
particolare interesse, con la coeva attenzione per “l’economia matematica” di
derivazione marginalista. Attenzione che si estende in quegli anni anche ai
paesi socialisti (quando si dice una egemonia culturale).
Facendo
riferimento ad un saggio di Lang[5] si confrontano teorie che partono
da prospettive opposte e servono a scopi diversi. La teoria economica della
scuola austriaca, marshalliana e di Losanna (poi aggiornata dai boys di
Chicago) è essenzialmente una teoria statica dell’equilibrio economico che
analizza un sistema di dati, di provenienza psicologica, tecnologica ed
istituzionale, e il meccanismo di adattamento di prezzi e quantità prodotte a
questi. Tutte le strutture (scale di preferenza, funzioni di produzione, forme
e ripartizione della proprietà e sua giustificazione) nell’assiomatica della
scuola sono considerate fuori del campo. Non si nega la loro importanza, ma si
affida alle cure di altre discipline e della politica (salvo dimenticarsene quando
si pretende che i propri modelli e le proprie prescrizioni valgano erga omnes
perché “scientifiche”). L’economia marxiana, al contrario, cerca una teoria
dello sviluppo economico, e non dell’equilibrio ad un tempo dato.
Coerentemente
con questo assunto Baran ricorda che “l’economia politica è essenzialmente una
scienza storica, e non può essere la stessa per tutti i paesi e per tutte le
epoche” (Engels, cit., p.69). Anche le teorie marxiste del crollo, ad esempio quelle
di Rosa Luxemburg e Henryk Grossman, hanno errato nel non considerare la “fine
del capitalismo” come “un lungo processo che investe un ordinamento
socioeconomico su scala mondiale”, ma lo hanno pensato come “un evento catastrofico
isolato, come una specie di terremoto”. Anche le teorie socialdemocratiche, o
revisioniste, hanno avuto lo stesso difetto, si sono concentrate sui rispettivi
paesi senza considerare abbastanza “il fatto che il capitalismo è un sistema
globale”. Solo il Leninismo ha evitato, per Baran, sia l’uno sia l’altro
errore.
Tornando
alla questione delle tecniche la “microeconomia” (della quale, peraltro, Baran
fa uso, almeno nel senso che cerca di giustificare i suoi teoremi anche con
argomenti microeconomici), “mirano ad esplorare le condizioni che possono
migliorare il rendimento dell’impresa capitalistica. Perciò i suoi contenuti
specifici sono determinati dai bisogni dell’impresa capitalistica e dai criteri
di efficienza e di rendimento in base ai quali essa opera”. Criteri che
dipendono dalla natura dell’impresa, ovvero dalle società per azioni giganti
che dominano la scena economica. La spinta al calcolo viene da qui.
Ma
Baran ricorda:
“postulando l’esistenza
di controlli adeguati (diretti o indiretti) sul comportamento di certe
variabili chiave quando in realtà questi controlli non esistono affatto,
supponendo l’assenza del monopolio quando in realtà esso è onnipresente e ha
effetti di grande portata, ipotizzando il pieno impiego sul lungo periodo
quando in realtà è piuttosto l’eccezione che la regola, in tutti questi modi i
modelli attualmente in voga non astraggono da aspetti secondari del processo
che cercano di spiegare, ma dalle sue caratteristiche più fondamentali. Sostituiscono
all’economia capitalistica un sistema razionale immaginario che col capitalismo
ha in comune solo il nome.
La funzione apologetica
delle teorizzazioni di questo tipo non è affatto attenuata dalla precisione apparente
che esse raggiungono mediante l’impiego della matematica. Anzi, è piuttosto
vero il contrario. Sia il linguaggio matematico che il ragionamento matematico
possono essere particolarmente infidi, perché essi permettono di tratte
conclusioni logicamente impeccabili da premesse inadeguate e creano l’apparenza
di un sistema coordinato e coerente dove un sistema di questo genere non esiste
affatto. … nel caso della macroeconomia, il modello matematico complicato serve
a nascondere l’irrazionalità della organizzazione economica che esso pretende
di illuminare” (p.84-5).
Ormai,
racconta, anche l’ala più radicale dell’economia, rappresentata da John Kenneth
Galbraight[6] è l’esaltazione più
entusiastica di una società dominata dalle grandi imprese.
C’è
un motivo specifico:
“il pensiero economico
borghese di oggi, antistorico sino in fondo, irride a ogni sforzo di investigare
la natura dei cambiamenti che si verificano o di determinare la direzione in
cui hanno luogo. Il grande interrogativo, quo vadis?, intorno a cui si sono
affaticati non solo Adam Smith, David Ricardo e John Stuart Mill, ma anche, ai
nostri giorni, Joseph Schumpeter, è letteralmente scomparso dall’agenda degli
economisti borghesi, lasciando il posto d’onore a una variante di ciò che ha
preso il nome di ‘ricerca operativa’ (operations research), e cioè la ricerca
dei mezzi adatti a conseguire certi scopi prestabiliti indipendentemente dalla
natura o dal significato storico di quegli scopi. Così, nell’epoca del
capitalismo monopolistico, il pensiero economico diventa uno strumento
scientificamente perfezionato per la manipolazione della società e dei suoi
membri ad opera degli interessi dominanti. In tal modo la ragione è posta a
servizio dell’irrazionalità […] se, prima dell’avvento del capitalismo, la
scienza doveva atteggiarsi a magia per ottenere il pubblico riconoscimento,
oggi la magia può essere accettata solo se si presenta nelle vesti della
scienza” (p.90).
In
conclusione, i saggi di Baran pubblicati su Montly
Review coprono un arco di circa quindici anni e toccano molti temi
rilevanti per il dibattito sull’economia a lui contemporanea, includono la
prima reazione di uno studioso molto importante e sfortunatamente cessato
prematuramente nel pieno del suo rigoglio intellettuale quando ascendeva l’egemonia
neoliberale. Per dire il suo coetaneo Paul Sweezy gli sopravvisse per quasi
quaranta anni.
Il
gruppo di saggi della metà degli anni cinquanta ripercorrono i temi definitori
della sua proposta teorica, una compatta teoria che si pone il problema di
spiegare per quale motivo il capitalismo conservi la lealtà della popolazione
nell’occidente sviluppato e, contemporaneamente, sia fortemente osteggiato
nelle periferie mondiali, oltre che in quelle urbane e razziali. La spiegazione
parte dal contrasto del sottoconsumo senza ostacolare gli interessi del capitale,
e dalla torsione ideologica e culturale prodotta come effetto secondario da
questo sforzo, sia dalla guerra fredda (e dall’espansione del “welfare militare”),
sia dalle forme di ‘spreco’ e moltiplicazione dei ‘lavori improduttivi’, ma
capaci di assorbire il surplus e allontanare il rischio di ‘crisi da realizzo’
(e quindi da sovrapproduzione). C’è quindi da chiedersi a che serve lo sviluppo
economico, e che relazione ci sia, strutturalmente, tra l’entità e il modo di
utilizzazione del surplus economico prodotto correntemente e il carattere degli
investimenti netti. La deformazione e l’irrazionalità della società
capitalista, con le sue continue operazioni di distrazione, nasce da qui. E da
qui il suo costrutto teorico (ripreso dai classici) di “surplus economico
potenziale”, descritto in “Progresso economico e surplus economico”, del 1953.
Da
questa la nozione, organicamente necessaria, di “surplus economico pianificato”
e la necessità interna di transizione al socialismo per dare una soluzione al
groviglio di problemi creati dalla massimizzazione dei profitti (e non dei
valori d’uso).
Cercare
di spiegare, in “Sulla struttura del marxismo” del 1958, perché le sofferenze che
un sistema altamente inefficiente, ineguale ed ingiusto, come il capitalismo monopolista,
induce non portano, come ipotizzato da Marx, alla formazione di una
irresistibile reazione, porta Baran a mettere in evidenza come sia un effetto
della crescita del tenore di vita e della cattura egemonica da parte delle
classi dominanti. Alla fine ineguaglianza, sfruttamento e ingiustizia sono
sentiti come aspetti dell’ordine naturale delle cose rispetto alle quali non si
può (e non si deve, se sono naturali) lottare, ma bisogna sottrarsi individualmente.
Cambia l’intera struttura dei desideri.
Da
ciò deriva una fondamentale conclusione: la guida del progresso può essere
presa solo dalle nazioni i cui l’irrazionalità dell’ordine sociale ha dato
origine a potenti movimenti antagonistici. E questo non avviene nelle società ‘avanzate’,
bensì solo dai popoli dei paesi coloniali, dipendenti e sottosviluppati. Quei paesi
dove le contraddizioni sono più acute e ai quali viene sottratto il surplus
potenziale senza alcuna forma di reinvestimento (quel reinvestimento che,
evitando le crisi da realizzo, alimenta ceti “improduttivi” e un cuscinetto di “sprechi”
dal potente effetto anestetizzante).
Le
parti metropolitane sono condannate a restare indietro e le periferie a farsi
avanguardia. Solo quando queste saranno travolte ci potrà essere l’osmosi
finale. Questa era almeno la sua speranza.
[1] - In una importante e lunga nota
Baran individua una fondamentale differenza tra la sua impostazione analitica e
quella di Colin Clark, uno dei maggiori teorici dello sviluppo economico, in particolare
del suo “Le condizioni del progresso economico”, 1940, già assistente di
Beveridge e tra i padri dei metodi di contabilità nazionale e proprio quell’anno
tornato a Oxford a dirigere l’Istituto Universitario di Ricerca in Economia
Agraria. Qui passa dalla vicinanza alla sinistra keynesiana alla destra
liberista e nel 1967 pubblica “Crescita della popolazione e uso del
territorio”, nella quale critica l’impostazione neo-malthusiana della Fao. Il
punto di attacco di Baran è la definizione, nel saggio del 1940, dello sviluppo
economico come “un miglioramento del benessere economico. … abbondanza di tutti
i beni e i servizi che vengono forniti abitualmente in cambio di denaro”. Essa viene
criticata perché 1) molti elementi della produzione totale non hanno a che fare
con il benessere (es. produzione di armi, le esportazioni nette, etc), 2) si
può aumentare il benessere con forniture che non sono fornite in cambio di denaro
(es. l’istruzione pubblica, la sanità, …), mentre altri sono forniti in cambio
di denaro ma non hanno a che fare con il benessere (nel suo elenco gli istituti
di bellezza, gli stupefacenti), 3) attaccando la seconda parte della definizione,
quella che indica l’efficienza della produzione, si può ottenere un aumento
della produzione in modo inefficiente e comunque ottenerla. Per queste ragioni “sarebbe
preferibile considerare lo sviluppo economico come un incremento della produzione
di beni e servizi a prescindere dal fatto che essi diano un contributo al benessere,
alla riserva disponibile di beni strumentali o agli armamenti”. Tutte queste
cose vanno considerate, ma in modo separato. Entrando nel campo specifico di
Clark prosegue mettendo in questione la rilevanza di indicatori aggregati come
il calcolo del PNL, infatti la comparazione può portare fuori strada, come
quando si attribuisce allo sviluppo la crescita del settore dei servizi (che
nelle statistiche delle economie marxiste sono esclusi dal calcolo, dato che
sono considerati solo quelli direttamente connessi alla produzione o al
trasporto dei beni.
[2] - La nozione, in stretta relazione
con una critica sociale e politica all’assetto feudale, è presente anche in
Adam Smith, che (cit Baran, p.281) scrive: “il lavoro di alcune delle categorie
più rispettabili della società è, come quello dei domestici, affatto
improduttivo di valore. Il sovrano, per esempio, con tutti i funzionari civili
e militari che servono sotto di lui, con tutto l’esercito e la marina, sono
lavoratori improduttivi. Essi sono i servi del pubblico e sono mantenuti da una
parte del prodotto annuale dell’attività di altri… nella stessa categoria si
devono annoverare gli ecclesiastici, gli avvocati, i medici, i letterati di
ogni genere, gli attori, i buffoni, i suonatori, i cantanti, i ballerini, ecc.”
[3] - Werner Sombart, “Il
capitalismo moderno”, 1902.
[4] - Max Weber. “L’etica
protestante e lo spirito del capitalismo”, 1904.
[5] - Oskar Lange, “Economia marxiana
e teoria economica moderna”, in Sweezy e altri, “La Teoria dello Sviluppo
capitalistico”, Boringhieri, p. 522.
[6] - Baran e Sweezy citano di
Galbraight, “American capitalism”,
1952, e “La società opulenta”,
1958.
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