Quel
che sta accadendo nella trattativa per formare un nuovo governo italiano, tra
il Movimento Cinque Stelle ed il Partito Democratico è su un
primo piano banale: le due forze politiche hanno i numeri per formare una
maggioranza parlamentare e, come prevedono le procedure costituzionali, stanno
cercando di verificare se ci sono le condizioni per farlo.
Trattano,
dunque. Sui nomi dei ministri e sottosegretari, come ovvio, e sul programma. Data
la situazione e la fretta che copre l’intera vicenda stanno mettendo carri davanti
a buoi e discutono tutto insieme di nomi e programmi, anzi, fissano le caselle
mentre cercano di mettere a fuoco il programma.
La
situazione negoziale appare, del resto, altamente complessa,
prendiamo qualche appunto sui contesti di questa dall’esterno verso l’interno:
a- Il
quadro geopolitico, siamo al decimo anno di una
ristrutturazione della governance mondiale, avviata con il segnale di rottura
del 2008, nella quale ha ripreso centralità la mano pubblica (per lo più
attraverso la surroga opaca delle Banche Centrali) e si sono definiti almeno tre
piani di scontro globale, quello tra gli Usa in cerca di un nuovo modello che
sostituisca l’obsoleto modello impostato a suo tempo dai conservatori (Nixon e Reagan)
e portato avanti con entusiasmo dai democratici di “terza via” (da Clinton a
Obama) e i suoi tre sfidanti, la Cina, l’Europa a guida tedesca e la Russia. La
congiuntura si prevede tempestosa e forse prelude ad un nuovo punto di svolta,
si sentono scricchiolii di nuova rottura finanziaria, lo scontro commerciale
porta in fine i limiti di funzionamento del modello tedesco, la brexit sembra
preludere ad un riposizionamento storico oltre la Manica del non-continentale
anglosassone, la necessità impone al semi-egemone americano di non avere tutti
nemici e quindi sembra avvicinarlo alla Francia, nuovo potenziale centro d’ordine
europeo;
b- Il
contesto italiano, si è avuto in modo inaspettato per i
tempi, ma atteso, il crollo del governo “gialloverde” per richiamo della Lega alla
sua tradizionale vocazione nordica e produttista[1], il possibile compromesso
con le forze della periferia, più rappresentate elettoralmente dal Movimento
Cinque Stelle, dopo essere stato eroso, con lo spostamento di parte della “base
di massa”[2],
è stato scartato. Ma lo scontro tra “alto” e “basso” non viene per questo meno,
e neppure la sua interpretazione storica come dialettica “Nord”/”Sud” e, ancora
più lontana, “costa”/”interno” (o “metropoli”/”satellite”). La spinta alla
modernizzazione liberale, alla competizione miope (che dimentica l’importanza
della dimensione e quella del mercato interno, come fattori di robustezza,
imitando fuori tempo il fragile modello germanico proprio mentre tramonta), che
buona parte delle élite e della “base sociale”[3] della Lega auspica per
tenersi sulla linea di sopravvivenza al fine di sopravvivere nello scontro
geopolitico mentre le catene del valore nordiche spremono i rami periferici,
modificando a proprio vantaggio le ragioni di scambio, sfilaccia e indebolisce
il paese proprio quando servirebbe compattezza e senso del comune (ne è ottimo esempio
il casus belli della “autonomia differenziata”). Una parte al momento nei fatti
dominante della Lega, insomma, resta iscritta al “partito del vincolo esterno”[4], il cui primo firmatario
resta il Pd;
c- Il
contesto dei “palazzi”, il potere italiano, da sempre diviso
tra un forte centro tecnocratico (rappresentato da Banca d’Italia, parte dei
Ministeri tecnici e la magistratura della Presidenza della Repubblica) e deboli
centri politici, è stato investito dal terremoto del 4 marzo che ha accentuato
enormemente la distanza. Il governo uscente aveva due teste politiche ed una
testa “istituzionale” che si è presentata subito come la più forte. Questa dinamica
si riproduce, rafforzandosi, lo vedremo tra poco;
d- Il
contesto del Partito Democratico, uno dei due poli della
trattativa (in realtà sono almeno tre) è spaccato violentemente in diversi
frammenti e viene preso mentre ha i piedi e buona parte delle gambe nel
limaccioso guado che sta attraversando. La frattura tra una formazione elettiva
a guida renziana e un partito, con i suoi organi, a guida del nuovo segretario
non si era ricomposta e la vicenda minuta della crisi ne mostra tutta la forza.
Ci sono almeno due Partiti dentro il PD, e si odiano reciprocamente;
e- Il
contesto del Movimento Cinque Stelle, se dentro il PD ci sono
due partiti dentro il M5S ce ne sono legioni, la formazione liquida del quasi-partito
“primopopulista” e gli strati mal assemblati della sua costruzione ormai quasi
quindicennale stanno andando in rotta di collisione sotto la spinta delle
urgenze della situazione. Anche le procedure interne sono sottoposte a tensioni
crescenti. La direzione tecnica della “Casaleggio
associati”, quella morale del fondatore Peppe Grillo, la debolissima
direzione politica del “Capo politico” Luigi Di Maio, la base parlamentare
attraversata da tre/quattro correnti (come, del resto, normale), la base
organizzativa (Consiglieri, amministratori locali), la base di consultazione (i 20.000 iscritti a “Rousseau”), la “base
sociale” diffusa e in rivolta sui social, non avendo altro luogo nel quale
esprimersi, la “base di massa” degli elettori, erosa ma ancora molto significativa
che guarda un poco attonita.
Nella
rapida crisi si è avuto un momento di sconcerto, che ha avuto il suo vertice
nell’aggressivo discorso del Presidente del Consiglio prima delle dimissioni,
poi l’avvio di una trattativa del tutto logica, e su probabile spinta anche
esterna (i contesti “esterno” e “dei palazzi”), con l’unico altro possibile
interlocutore parlamentare, il Partito Democratico. Ma la trattativa con il Partito
che, più di ogni altro nella recente storia del paese (contesto “contesto
Italia”) è legato a tutto ciò che il Movimento ha sempre contestato non è facile
da digerite, anche in stato di necessità.
La
struttura della situazione dice che se si fa un governo
politico tra M5S e Pd, entrambi rischiano di pagarlo nel medio periodo con una
notevole perdita di consenso di massa, e probabilmente anche con qualche
defezione interna (ha cominciato Calenda nel Pd). Ma se non si fa le Camere
sono sciolte e succedono due cose, una più rilevante una meno: dalla posizione
retorica assunta (“era in corso un complotto internazionale, non ci fanno fare
le cose necessarie, abbiamo dovuto chiedere al paese di esprimersi, i palazzi e
i partiti hanno cercato di impedirlo, ora dite voi chi volete alla guida del
paese”) la Lega potrebbe vincere, con o senza il contributo di Forza Italia (e
fa un’enorme differenza). La seconda è che l’Italia si trova senza un governo
forte in un semestre nel quale la crisi internazionale descritta al punto “a”
entra in una fase definitoria (tra “brexit” ad ottobre, avvio della
Commissione, questione dei dazi e focolai di crisi internazionali, incluso nel Mediterraneo).
Ieri
Luigi Di Maio, pressato da ogni lato, ha alzato la posta con il Partito
Democratico precisando i dieci
punti del programma di minima e portandoli a venti.
Ma soprattutto lo ha fatto con un tono ultimativo espressamente calibrato.
La
ragione immediata di questa mossa negoziale, in sé non particolarmente anomala
(ogni trattativa vive di rallentamenti ed accelerazioni, per saggiare la
determinazione della controparte, in particolare in prossimità dei traguardi),
è la doppia procedura decisionale che il Movimento ha in piedi:
1- Da
una parte si procede per via di decisionalità rappresentativa, trattando tra
addetti ai lavori legittimati dall’elezione a Parlamentari o dalla posizione
nell’organigramma del Movimento;
2- Dall’altra
pende la concreta minaccia di una consultazione sulla Piattaforma Rousseau che
potrebbe porre un veto non aggirabile senza enormi costi politici all’intera
linea di trattativa per il governo.
C’è
stato un assordante coro di critiche per questa sporcatura del principio di
guida elitaria della decisionalità democratica[5], tra addetti ai lavori e
competenti informati, con elementi di “democrazia diretta” e quindi di
plebeismo.
Prendiamone
una, l’articolo
di Luciano Canfora su Left: attacca la ristrettezza della base di consultazione
della Piattaforma (appunto circa 20.000 aderenti della prima fase, quando ad un
certo punto, improvvisamente si disse, poco dopo aver chiesto i documenti per
accedere alle consultazioni del Blog delle Stelle, che la lista era chiusa) che
la rendono poco credibile come strumento di “democrazia diretta”. La valutazione
sul punto è che dovrebbero aderire in 60 milioni. Poi divaga.
Ma
c’è un equivoco, la procedura incentrata sulla Piattaforma Rousseau, almeno per
ora, non è affatto un sostituto delle elezioni e della nomina di rappresentanti
professionalizzati alla formazione costituzionale di leggi e organi. È una
procedura interna di ancoraggio delle élite, sempre a rischio di involuzione,
politiche del Movimento Cinque Stelle con una base ristretta e controllata di
militanti storici. Molto si potrebbe dire del modo diagonale con il quale sono
stati selezionati (anche se chi scrive è stato ad un clic dall’esserci, perché
mi incuriosiva ed avevo caricato la Carta d’Identità, ma poi non ho mandato il
modulo), ed andrà probabilmente detto, ma non è molto diverso dalle Primarie
del Partito Democratico. Sono elementi di “dirittezza”[6] che vengono inseriti entro
la decisionalità democratica, necessariamente elitista[7], dei Partiti, fanno parte
della loro proceduralità interna, legano solo i vertici con il legame debole
della coerenza, e rappresentano un interessante contrappeso alla
autoreferenzialità dei Partiti che si fanno Stato[8] contemporanei. Si potrebbe
dire che in questo modo la democrazia rappresentativa è sottoposta alla forza
dell’assedio[9]
di sfere pubbliche semi-organizzate alle quali è costretta a rispondere.
E
si tratta anche di un fattore di forza negoziale da non sottovalutare,
perché l’avere un interlocutore semiesterno, dal quale avere il necessario
consenso e ratifica, è un utilissimo fattore di rafforzamento e riduce il rischio
di essere catturati dai vincoli della situazione, magari abilmente presentati
da un negoziatore esperto e cinico.
Si
tratta, insomma, di un ibrido interessante.
[1] - Su questo tema si veda il mio primo
giudizio, a giugno 2018, in “Fase
politica”, poi la valutazione della Lega il 20 giugno, prima della
subitanea rottura “Giochi
di specchi ed equivoci”.
[2] - Si intende per “base di massa” l’area di più
largo consenso di massa, che si manifesta in occasione del voto o dei momenti
di mobilitazione allargata.
[3] - Si intende per “base sociale” i ceti, o frazione di
questi, che forniscono il consenso di base, l’identificazione a due vie, il
supporto economico e la base di reclutamento principale, di un movimento
politico. Un esempio di analisi che fa uso di questa concettualizzazione in
riferimento a politiche della destra italiana sono in questo post.
[4] - Chiamo qui “partito del vincolo esterno”, l’insieme proteiforme e capace di trovare rappresentanza
politica plurima, spesso sotto forme nascoste di quelle classi benestanti e
mediamente colte che percepiscono la globalizzazione come destino e progresso
per la semplice ragione (non necessariamente coscientizzata) che ne traggono
cospicui benefici. In particolare, dalla ‘moneta forte’ l’occasione di
acquistare a basso prezzo beni distintivi ed identitari che, nella loro
provinciale esterofilia (ma indispensabile per marcare la differenza dal volgo
stanziale) gli sono indispensabili; nella ‘stabilità monetaria’ garantita dalle politiche di austerità, alle quali sono
affezionate come il cucciolo alla cagna, la salvaguardia dei loro capitali
liquidi (anche se a discapito di quelli immobili), nella “mobilità delle persone” in uscita la
possibilità di sfuggire alle conseguenze nazionali dei due fattori di cui
prima, mandando i figli a studiare in università ben finanziate e loro stessi,
se del caso, a curarsi in posti ancora idonei, e nella “mobilità del lavoro” in entrata quella
di garantirsi costante abbondanza di servitori e quindi il disciplinamento di
quelli autoctoni. Ma anche, in aggiunta, le organizzazioni ed i corpi intermedi
rappresentativi di quei ceti intermedi che possono essere mobilitati in difesa
dei “risparmi” (l’evidente e costante bersaglio della retorica presidenziale).
Ovvero del costo del mutuo (in Italia abbiamo il massimo grado di
capitalizzazione privata ma anche e soprattutto di case di proprietà), della
rata dell’auto, del piccolo debito industriale, … Il “Partito del vincolo
esterno” è, insomma, egemonizzato dalla testa, da chi ha concrete relazioni con
il grande capitale internazionale (finanziario e industriale), ma si estende,
ancorandosi a piccoli privilegi da difendere, agli incerti strati della piccola
borghesia italiana, banderuola al vento. Questo “Partito” è assolutamente e per
sua natura diagonale e trasversale. Seguendo la lezione di Mao, occorre con
un’analisi concreta della situazione concreta (Lenin), individuare quale sua
parte è ‘nemico principale’, da isolare, quale parte si
può guadagnareperché le forze progressiste
siano sviluppate.
[5] - Si veda il classico, Bernard
Manin, “Principi
del governo rappresentativo”
[6] - Si veda, Nadia Urbinati, “Democrazia
in diretta”, e Pierre Rosanvallon, “La
legittimità democratica”
[7] - Si veda, “Riletture
sulla crisi politica”
[8] - Si veda, Ignazi, “Forza
senza legittimità”
[9] - Si veda, Jurgen Habermas “Sovranità
popolare come procedura”
Nessun commento:
Posta un commento