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sabato 31 agosto 2019

Rousseau, democrazie e decisioni





Quel che sta accadendo nella trattativa per formare un nuovo governo italiano, tra il Movimento Cinque Stelle ed il Partito Democratico è su un primo piano banale: le due forze politiche hanno i numeri per formare una maggioranza parlamentare e, come prevedono le procedure costituzionali, stanno cercando di verificare se ci sono le condizioni per farlo.
Trattano, dunque. Sui nomi dei ministri e sottosegretari, come ovvio, e sul programma. Data la situazione e la fretta che copre l’intera vicenda stanno mettendo carri davanti a buoi e discutono tutto insieme di nomi e programmi, anzi, fissano le caselle mentre cercano di mettere a fuoco il programma.

La situazione negoziale appare, del resto, altamente complessa, prendiamo qualche appunto sui contesti di questa dall’esterno verso l’interno:
a-     Il quadro geopolitico, siamo al decimo anno di una ristrutturazione della governance mondiale, avviata con il segnale di rottura del 2008, nella quale ha ripreso centralità la mano pubblica (per lo più attraverso la surroga opaca delle Banche Centrali) e si sono definiti almeno tre piani di scontro globale, quello tra gli Usa in cerca di un nuovo modello che sostituisca l’obsoleto modello impostato a suo tempo dai conservatori (Nixon e Reagan) e portato avanti con entusiasmo dai democratici di “terza via” (da Clinton a Obama) e i suoi tre sfidanti, la Cina, l’Europa a guida tedesca e la Russia. La congiuntura si prevede tempestosa e forse prelude ad un nuovo punto di svolta, si sentono scricchiolii di nuova rottura finanziaria, lo scontro commerciale porta in fine i limiti di funzionamento del modello tedesco, la brexit sembra preludere ad un riposizionamento storico oltre la Manica del non-continentale anglosassone, la necessità impone al semi-egemone americano di non avere tutti nemici e quindi sembra avvicinarlo alla Francia, nuovo potenziale centro d’ordine europeo;
b-     Il contesto italiano, si è avuto in modo inaspettato per i tempi, ma atteso, il crollo del governo “gialloverde” per richiamo della Lega alla sua tradizionale vocazione nordica e produttista[1], il possibile compromesso con le forze della periferia, più rappresentate elettoralmente dal Movimento Cinque Stelle, dopo essere stato eroso, con lo spostamento di parte della “base di massa[2], è stato scartato. Ma lo scontro tra “alto” e “basso” non viene per questo meno, e neppure la sua interpretazione storica come dialettica “Nord”/”Sud” e, ancora più lontana, “costa”/”interno” (o “metropoli”/”satellite”). La spinta alla modernizzazione liberale, alla competizione miope (che dimentica l’importanza della dimensione e quella del mercato interno, come fattori di robustezza, imitando fuori tempo il fragile modello germanico proprio mentre tramonta), che buona parte delle élite e della “base sociale[3] della Lega auspica per tenersi sulla linea di sopravvivenza al fine di sopravvivere nello scontro geopolitico mentre le catene del valore nordiche spremono i rami periferici, modificando a proprio vantaggio le ragioni di scambio, sfilaccia e indebolisce il paese proprio quando servirebbe compattezza e senso del comune (ne è ottimo esempio il casus belli della “autonomia differenziata”). Una parte al momento nei fatti dominante della Lega, insomma, resta iscritta al “partito del vincolo esterno”[4], il cui primo firmatario resta il Pd;
c-     Il contesto dei “palazzi”, il potere italiano, da sempre diviso tra un forte centro tecnocratico (rappresentato da Banca d’Italia, parte dei Ministeri tecnici e la magistratura della Presidenza della Repubblica) e deboli centri politici, è stato investito dal terremoto del 4 marzo che ha accentuato enormemente la distanza. Il governo uscente aveva due teste politiche ed una testa “istituzionale” che si è presentata subito come la più forte. Questa dinamica si riproduce, rafforzandosi, lo vedremo tra poco;
d-     Il contesto del Partito Democratico, uno dei due poli della trattativa (in realtà sono almeno tre) è spaccato violentemente in diversi frammenti e viene preso mentre ha i piedi e buona parte delle gambe nel limaccioso guado che sta attraversando. La frattura tra una formazione elettiva a guida renziana e un partito, con i suoi organi, a guida del nuovo segretario non si era ricomposta e la vicenda minuta della crisi ne mostra tutta la forza. Ci sono almeno due Partiti dentro il PD, e si odiano reciprocamente;
e-     Il contesto del Movimento Cinque Stelle, se dentro il PD ci sono due partiti dentro il M5S ce ne sono legioni, la formazione liquida del quasi-partito “primopopulista” e gli strati mal assemblati della sua costruzione ormai quasi quindicennale stanno andando in rotta di collisione sotto la spinta delle urgenze della situazione. Anche le procedure interne sono sottoposte a tensioni crescenti. La direzione tecnica della “Casaleggio associati”, quella morale del fondatore Peppe Grillo, la debolissima direzione politica del “Capo politico” Luigi Di Maio, la base parlamentare attraversata da tre/quattro correnti (come, del resto, normale), la base organizzativa (Consiglieri, amministratori locali), la base di consultazione (i 20.000 iscritti a “Rousseau”), la “base sociale” diffusa e in rivolta sui social, non avendo altro luogo nel quale esprimersi, la “base di massa” degli elettori, erosa ma ancora molto significativa che guarda un poco attonita.

Nella rapida crisi si è avuto un momento di sconcerto, che ha avuto il suo vertice nell’aggressivo discorso del Presidente del Consiglio prima delle dimissioni, poi l’avvio di una trattativa del tutto logica, e su probabile spinta anche esterna (i contesti “esterno” e “dei palazzi”), con l’unico altro possibile interlocutore parlamentare, il Partito Democratico. Ma la trattativa con il Partito che, più di ogni altro nella recente storia del paese (contesto “contesto Italia”) è legato a tutto ciò che il Movimento ha sempre contestato non è facile da digerite, anche in stato di necessità.


La struttura della situazione dice che se si fa un governo politico tra M5S e Pd, entrambi rischiano di pagarlo nel medio periodo con una notevole perdita di consenso di massa, e probabilmente anche con qualche defezione interna (ha cominciato Calenda nel Pd). Ma se non si fa le Camere sono sciolte e succedono due cose, una più rilevante una meno: dalla posizione retorica assunta (“era in corso un complotto internazionale, non ci fanno fare le cose necessarie, abbiamo dovuto chiedere al paese di esprimersi, i palazzi e i partiti hanno cercato di impedirlo, ora dite voi chi volete alla guida del paese”) la Lega potrebbe vincere, con o senza il contributo di Forza Italia (e fa un’enorme differenza). La seconda è che l’Italia si trova senza un governo forte in un semestre nel quale la crisi internazionale descritta al punto “a” entra in una fase definitoria (tra “brexit” ad ottobre, avvio della Commissione, questione dei dazi e focolai di crisi internazionali, incluso nel Mediterraneo).




Ieri Luigi Di Maio, pressato da ogni lato, ha alzato la posta con il Partito Democratico precisando i dieci punti del programma di minima e portandoli a venti. Ma soprattutto lo ha fatto con un tono ultimativo espressamente calibrato.

La ragione immediata di questa mossa negoziale, in sé non particolarmente anomala (ogni trattativa vive di rallentamenti ed accelerazioni, per saggiare la determinazione della controparte, in particolare in prossimità dei traguardi), è la doppia procedura decisionale che il Movimento ha in piedi:
1-     Da una parte si procede per via di decisionalità rappresentativa, trattando tra addetti ai lavori legittimati dall’elezione a Parlamentari o dalla posizione nell’organigramma del Movimento;
2-     Dall’altra pende la concreta minaccia di una consultazione sulla Piattaforma Rousseau che potrebbe porre un veto non aggirabile senza enormi costi politici all’intera linea di trattativa per il governo.

C’è stato un assordante coro di critiche per questa sporcatura del principio di guida elitaria della decisionalità democratica[5], tra addetti ai lavori e competenti informati, con elementi di “democrazia diretta” e quindi di plebeismo.
Prendiamone una, l’articolo di Luciano Canfora su Left: attacca la ristrettezza della base di consultazione della Piattaforma (appunto circa 20.000 aderenti della prima fase, quando ad un certo punto, improvvisamente si disse, poco dopo aver chiesto i documenti per accedere alle consultazioni del Blog delle Stelle, che la lista era chiusa) che la rendono poco credibile come strumento di “democrazia diretta”. La valutazione sul punto è che dovrebbero aderire in 60 milioni. Poi divaga.

Ma c’è un equivoco, la procedura incentrata sulla Piattaforma Rousseau, almeno per ora, non è affatto un sostituto delle elezioni e della nomina di rappresentanti professionalizzati alla formazione costituzionale di leggi e organi. È una procedura interna di ancoraggio delle élite, sempre a rischio di involuzione, politiche del Movimento Cinque Stelle con una base ristretta e controllata di militanti storici. Molto si potrebbe dire del modo diagonale con il quale sono stati selezionati (anche se chi scrive è stato ad un clic dall’esserci, perché mi incuriosiva ed avevo caricato la Carta d’Identità, ma poi non ho mandato il modulo), ed andrà probabilmente detto, ma non è molto diverso dalle Primarie del Partito Democratico. Sono elementi di “dirittezza”[6] che vengono inseriti entro la decisionalità democratica, necessariamente elitista[7], dei Partiti, fanno parte della loro proceduralità interna, legano solo i vertici con il legame debole della coerenza, e rappresentano un interessante contrappeso alla autoreferenzialità dei Partiti che si fanno Stato[8] contemporanei. Si potrebbe dire che in questo modo la democrazia rappresentativa è sottoposta alla forza dell’assedio[9] di sfere pubbliche semi-organizzate alle quali è costretta a rispondere.

E si tratta anche di un fattore di forza negoziale da non sottovalutare, perché l’avere un interlocutore semiesterno, dal quale avere il necessario consenso e ratifica, è un utilissimo fattore di rafforzamento e riduce il rischio di essere catturati dai vincoli della situazione, magari abilmente presentati da un negoziatore esperto e cinico.


Si tratta, insomma, di un ibrido interessante.




[1] - Su questo tema si veda il mio primo giudizio, a giugno 2018, in “Fase politica”, poi la valutazione della Lega il 20 giugno, prima della subitanea rottura “Giochi di specchi ed equivoci”.
[2] - Si intende per “base di massa” l’area di più largo consenso di massa, che si manifesta in occasione del voto o dei momenti di mobilitazione allargata.
[3] - Si intende per “base sociale” i ceti, o frazione di questi, che forniscono il consenso di base, l’identificazione a due vie, il supporto economico e la base di reclutamento principale, di un movimento politico. Un esempio di analisi che fa uso di questa concettualizzazione in riferimento a politiche della destra italiana sono in questo post.
[4] - Chiamo qui “partito del vincolo esterno”, l’insieme proteiforme e capace di trovare rappresentanza politica plurima, spesso sotto forme nascoste di quelle classi benestanti e mediamente colte che percepiscono la globalizzazione come destino e progresso per la semplice ragione (non necessariamente coscientizzata) che ne traggono cospicui benefici. In particolare, dalla ‘moneta forte’ l’occasione di acquistare a basso prezzo beni distintivi ed identitari che, nella loro provinciale esterofilia (ma indispensabile per marcare la differenza dal volgo stanziale) gli sono indispensabili; nella ‘stabilità monetaria’ garantita dalle politiche di austerità, alle quali sono affezionate come il cucciolo alla cagna, la salvaguardia dei loro capitali liquidi (anche se a discapito di quelli immobili), nella “mobilità delle persone” in uscita la possibilità di sfuggire alle conseguenze nazionali dei due fattori di cui prima, mandando i figli a studiare in università ben finanziate e loro stessi, se del caso, a curarsi in posti ancora idonei, e nella “mobilità del lavoro” in entrata quella di garantirsi costante abbondanza di servitori e quindi il disciplinamento di quelli autoctoni. Ma anche, in aggiunta, le organizzazioni ed i corpi intermedi rappresentativi di quei ceti intermedi che possono essere mobilitati in difesa dei “risparmi” (l’evidente e costante bersaglio della retorica presidenziale). Ovvero del costo del mutuo (in Italia abbiamo il massimo grado di capitalizzazione privata ma anche e soprattutto di case di proprietà), della rata dell’auto, del piccolo debito industriale, … Il “Partito del vincolo esterno” è, insomma, egemonizzato dalla testa, da chi ha concrete relazioni con il grande capitale internazionale (finanziario e industriale), ma si estende, ancorandosi a piccoli privilegi da difendere, agli incerti strati della piccola borghesia italiana, banderuola al vento. Questo “Partito” è assolutamente e per sua natura diagonale e trasversale. Seguendo la lezione di Mao, occorre con un’analisi concreta della situazione concreta (Lenin), individuare quale sua parte è ‘nemico principale’, da isolare, quale parte si può guadagnareperché le forze progressiste siano sviluppate.
[5] - Si veda il classico, Bernard Manin, “Principi del governo rappresentativo
[6] - Si veda, Nadia Urbinati, “Democrazia in diretta”, e Pierre Rosanvallon, “La legittimità democratica
[8] - Si veda, Ignazi, “Forza senza legittimità
[9] - Si veda, Jurgen Habermas “Sovranità popolare come procedura

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