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domenica 8 settembre 2019

Appunti sull’economia politica delle emigrazioni: il caso dei paesi semi-centrali.



La questione delle immigrazioni e delle emigrazioni, a seconda del punto di vista che si assume, è stata trattata in questo blog in numerose occasioni[1], per lo più, ma con qualche eccezione[2], guardando il tema dell’immigrazione nel nostro paese dai paesi periferici[3] e meno dell’emigrazione da questo. Però non ci sono dubbi che nessuna lettura può dare il quadro della situazione se non si individua la dinamica in corso in un paese sempre più semi-centrale, come il nostro, identificandola quale ‘crocevia migratorio’.
Per riuscirvi, oltre a considerare numeri e flussi, è necessario sia individuare i fenomeni che si verificano nelle aree di diradamento, in quelle di densificazione e in quelle di sostituzione, sia il sottostante meccanismo economico-sociale.



Partiamo da quest’ultimo: da una ricostruzione[4] ampia e ricca di informazioni della questione, proposta da Rodolfo Ricci su “Sinistrainrete”, può essere individuato il nesso, solido e necessario, tra la specializzazione funzionale che si verifica in diverse aree economiche e l’attrazione di ‘risorse’ umane selettivamente necessarie al governo del relativo mercato del lavoro. La divisione internazionale del lavoro, determina un fenomeno di “causazione circolare cumulativa”, per il quale, come si trovò a dire Kaldor[5] già nel 1971, “la dispersione dei tassi di aumento dei salari tra le diverse aree tende sempre ad essere considerevolmente più piccola di quella relativa alle variazioni della produttività”. Per fare qualche esempio si può far mente locale alle gerarchie di aree di concentrazione degli hub finanziari dominanti (come la City di Londra, Zurigo), con la loro corona di università di élite, società di alta consulenza, poli del lusso e relativi servizi, aziende ad alta capitalizzazione e soprattutto alta concentrazione di capitale produttivo; aree complementari (come la piazza di Ginevra, Francoforte); o di aree di alta concentrazione industriale (la Rhur ed il Benelux, l’area di Parigi, la Lorena, i Paesi Baschi, la Slesia, la Pianura Padana) e distretti industriali secondari e settoriali. Si attiva complessivamente un processo cumulativo per il quale, se le variazioni automaticamente compensative della moneta (o politiche intenzionali redistributive e di infrastrutturazione compensativa) non si attivano, ancora Kaldor, “le aree che crescono di più tendono ad acquisite un vantaggio competitivo cumulativo rispetto a quelle che crescono a tassi inferiori”. Si può dire in altre parole che i tassi di aumento dei salari si distribuiscono secondo una dispersione molto meno forte di quella della produttività. Quindi che in conseguenza la variazione dei salari monetari non riesce a compensare automaticamente la differenza che si crea nei tassi di incremento della produttività. Per questo motivo “il tasso di sviluppo economico delle diverse aree del mondo non tende ad uno stato di equilibrio uniforme ma, al contrario, tende a cristallizzarsi in un numero limitato di aree ad elevata crescita il cui successo ha l’effetto di inibire lo sviluppo di altre aree”. Sul piano tecnico i “salari efficienti” (ovvero il rapporto tra i salari e la produttività) resteranno allora sempre indietro nelle aree meno dense, e progressivamente. Con ciò aumenta il vantaggio competitivo delle aree forti, con buona pace per ogni teoria dell’equilibrio generale. Non stupisce, in queste condizioni, che l’atteso incremento di produttività individuale, che in grande misura dipende dall’ambiente di inserimento, e il relativo aumento delle opportunità salariali spingano individualmente, in assenza di forze intenzionalmente controdirette, le risorse umane che si considerano eccedenti nei paesi deboli a trasferirsi in quelli forti.
Questa dinamica, però, va nella stessa identica direzione del rafforzamento progressivo delle aree ‘centrali’ a danno di quelle immediatamente più periferiche in una sorta di ‘scala della dipendenza’. La concentrazione dei capitali, in cerca di remunerazioni più elevate ed efficienti, si traduce in tassi più favorevoli e migliore facilità agli investimenti, ‘effetti rete’[6], e processi di ‘causazione circolare cumulativa’; quindi si rende necessaria e si genera un’attrazione crescente della forza-lavoro mediamente più qualificata delle aree ‘semi-periferiche’ per raffreddare la tendenza dei salari a seguire l’aumento della produttività lasciando costante, se non declinante, il tasso di sfruttamento[7]. Con un tasso di sfruttamento costante, in presenza di una tendenziale crescita della composizione organica del capitale[8], si ha infine, e necessariamente, un calo del saggio di profitto, che, se prolungato può mettere a rischio la riproduzione del sistema, inducendo ad un arresto degli investimenti. E’ per questo che l’attrazione della forza lavoro da inserire al livello più basso della scala del valore, spingendo fuori o disciplinando quelli che vi erano in precedenza (una parte verso l’alto, una parte verso l’emigrazione a loro volta), determina la conservazione della condizione dell’accumulazione.
Nel contesto di politiche mercantiliste, “impoverisci il vicino”, che sono tipiche di questa fase ad egemonia nordica in Europa, questo processo tende a scalare con andamento dal “centro” alle “periferie”, progressivamente specializzandosi in senso inverso. In altre parole, man mano che ci si allontana dal centro ad alta capitalizzazione, interconnessione e specializzazione funzionale (nel contesto di una divisione del lavoro internazionale), sono attratte risorse umane meno specializzate ed espulse quelle via via più specializzate.

Come scrive Rodolfo Ricci:

“Sembra trattarsi della riprogettazione della divisione internazionale del lavoro tra i paesi avanzati, in particolare tra economie a maggiore o minor grado di finanziarizzazione e di sviluppo teconologico e industriale: la ‘qualità’ media dei flussi migratori (livelli di scolarizzazione, competenze, congenialità culturali) deve essere tendenzialmente compatibile con la posizione riservata ai singoli paesi nella nuova divisione internazionale del lavoro. Una dinamica che non riguarda solo la relazione tra paesi, ma anche la relazione tra aree di singoli paesi, ad esempio nord-sud Italia o Ovest-Est della Germania.
Ne viene fuori un conglomerato esplosivo per i paesi (e i territori) periferici, i quali sono alle prese allo stesso tempo con arrivi di massa dai continenti della povertà e con esodi di massa di popolazione giovanile ad alta qualificazione, mentre per i paesi centrali, si riproduce l’antica e provvida divisione funzionale del mercato del lavoro con diritti ed opportunità segmentati a seconda della differente origine e qualità della merce lavoro, limitata soltanto dalla possibilità congiunturale di valorizzazione che si dà in un determinato paese o in un’area, in un determinato tempo”.

Naturalmente questo processo, in quando diretto dal mercato, è altamente precarizzante e soggetto a periodiche inversioni:

“Se i tempi sono infausti, si procede a misure di riduzione dei diritti di welfare per i nuovi arrivati o addirittura di espulsione mettendo anche in discussione i sacri trattati. Il Belgio ha provveduto negli ultimi anni a intimare l’obbligo di lasciare il paese a migliaia di cittadini comunitari perché “di eccessivo peso” per il proprio sistema di welfare. Circa un migliaio gli italiani. Analogamente hanno fatto per anni, ben prima della Brexit, diversi Laender tedeschi”.

In queste condizioni strutturali, in un paese “semi-centrale”, a media specializzazione, con poche e limitate aree di vera eccellenza e molte aree ad economia interconnessa ma subalterna, e nel quale sono presenti anche vaste aree a bassa specializzazione funzionale, elevata povertà e disagio, si attiva quel che Enrico Pugliese chiama “crocevia migratorio”: grandi flussi in arrivo da sud e dall’est del Mediterraneo e contemporaneamente grandi (superiori) flussi in uscita verso il centro-nord continentale. Un simile paese serve, in termini sistemici, anche a ‘filtrare’ la competenza e quindi l’utilità dell’immigrazione, in modo che si crei una sorta di macchina ben oliata:

“una sorta di cerchi concentrici per le masse umane in movimento che, a seconda del loro valore in termini di competenze e niveu formativi, devono essere contenute nelle periferie o possono essere ammesse e integrate nei centri di progettazione e di direzione finanziaria e capitalistica, in misura delle necessità dei reciproci sistemi produttivi e in misura delle necessità di un mercato del lavoro sempre più precarizzato e di un welfare in fase di ulteriore contrazione.”

È chiaro però che, in assenza di massive politiche di regolazione, sia in ingresso sia in uscita, anche se con strumenti differenziati[9], nelle aree di provenienza si possono attivare fenomeni di diradamento dalle devastanti potenziali conseguenze: sfilacciamento del tessuto economico con perdita delle risorse più attive e dinamiche, e spesso di quelle più formate, squilibrio finanziario e sovraccarico sul sistema di formazione il quale è un costo sociale al quale non corrisponde più un beneficio nel corso del prosieguo del percorso di vita, difficoltà, nelle aree di maggiore incidenza, a sostenere i costi fissi sociali[10].

Ma di che numeri stiamo parlando?
Dal 2013 al 2017 sono emigrati dal nostro paese qualcosa come 250/300.000 persone all’anno, per lo più giovani ed a media o alta qualificazione, quelli che servono al mercato del lavoro del nord per tenere sotto controllo la loro dinamica salariale (a fronte, dai paesi di ricezione, c’è una emigrazione complementare più contenuta, di età più avanzata e competenza/esperienza più elevata che emigra verso paesi a più alti salari o aree più dense come gli Usa) che vanno in paesi “centrali”, come la Germania e la Gran Bretagna, “semi-centrali”, ma più connessi, come l’Olanda, la Svizzera, il Belgio e paesi lontani come l’Australia. Complessivamente sarebbero, allo stato, residenti all’estero qualcosa come 6-7 milioni di connazionali.
Una cifra simile, ma con flussi ora molto inferiori (nell’ordine delle decine di migliaia di unità), si registra contemporaneamente in arrivo dai paesi “periferici” del nord Africa, del vicino Medio Oriente, e dall’Est. Lo stock in questo caso è di entità simile, intorno ai 5-6 milioni di unità. Complessivamente siamo, come livello dimensionale del “crocevia migratorio”, nell’ordine del 20% della popolazione italiana.

Che soluzione?
Rodolfo Ricci ha una proposta interessante ed innovativa, percorriamola:

“Questa situazione da cui difficilmente anche i paesi che si ritengono più forti resteranno alla lunga immuni, può essere interrotta solo con un cambiamento radicale dei paradigmi e delle ragioni di scambio; solo con grandi progetti di cooperazione finalizzata allo sviluppo e al recupero dei differenziali di produttività; soltanto con uno stop ai processi di accaparramento delle terre e delle risorse naturali e di centralizzazione finanziaria e capitalistica incontrollata. In ultima istanza con il contenimento e la riconfigurazione dei processi di globalizzazione che non può più essere gestita in termini neoliberistici”.

I “termini neoliberistici” vorrebbero che l’insieme delle libere circolazioni, commercio, capitali e servizi, persone, mettano in competizione ed a confronto sistemi sociali e assetti di potere consolidati quanto arcaici, favorendo la mobilità sociale, rendendo più efficiente il complessivo sistema, aumentando la produttività complessiva in quanto spostano risorse sottoutilizzate in sistemi in grado di esaltarne l’efficacia e, nel medio termine, modernizzano sia le aree di partenza sia quelle di arrivo. È, ad esempio, la tesi di Daron Acemoglu, per il quale[11] lo sviluppo è essenzialmente innovazione e rovesciamento degli assetti consolidati di potere. Sulla base di una tesi neo-schumpeteriana, gli autori sostengono che “una crescita economica duratura richiede innovazione, e l’innovazione non può essere disgiunta dalla distruzione creatrice, che sostituisce il vecchio con il nuovo in ambito politico” (A.p.441). Nell’ambito di una teoria contemporaneamente hayekiana, antiautoritaria, ideologica, insieme strabica ed iperambiziosa[12], gli autori arrivano a sostenere che la colpa di tutto sia sempre dei poveri. Ad esempio l’Egitto, ad onta della conquista di Gordon e delle sue cannoniere, “è povero perché è stato governato da una ristretta élite, che ha modellato la società sui propri interessi a danno della vita della maggioranza delle persone”, mentre, naturalmente, gli Stati Uniti sono un paese libero governato da tutti i cittadini[13]. Simili simpatiche teorie sono piene di passione ma davvero povere di sostanza. Già più interessante, se pur mercatista, la ricostruzione di William Easterly[14], che se non altro ha il merito di descrivere a lungo il colonialismo ed il razzismo dell’occidente. Certo, poi, spende tutti i suoi migliori sforzi per negare che i monopoli e le multinazionali abbiano un effetto estrattivo[15]
Una posizione intermedia è quella di Branko Milanovic che in uno dei suoi ultimi libri[16] identifica come dilemma posto dal sistema economico e sociale contemporaneo (ed esemplificato nell’interazione reciproca tra Tecnologia, Apertura e Politiche) la crescente stagnazione del ceto medio inferiore dei paesi ricchi a vantaggio dei quattro quinti del primo ventile di reddito e di un quinto dei ventili corrispondenti al ceto medio emergente (classi di reddito tra 5 e 10.000 dollari annui nei paesi in via di convergenza). Milanovic giudica però complessivamente l’apertura come espressione di un ‘sentiero di progresso’ sulla base di una letteratura datata al 2006 e di marca liberale (Pritchett, Hanson) e dell’argomento utilitarista che il saldo complessivo del valore creato (economico) è maggiore quando un lavoratore si sposta in un paese con una composizione organica del capitale migliore anziché attraverso l’incremento interno di redditi dei lavoratori nativi. Nel suo argomento, ripreso da Pritchett, è espressamente posta in competizione l’alternativa tra l’aumento dei “salari degli individui in patria” e quella che si può verificare con lo spostamento dei lavoratori esterni. In termini di modello stilizzato l’immigrazione è quindi prodotta dall’ineguaglianza tra nazioni, ovvero dall’entità del “premio di cittadinanza” che il differenziale di composizione organica del capitale e delle istituzioni crea nei paesi ricchi.
Questa letteratura dichiara, in sostanza, che il sacrificio delle classi medie inferiori occidentali è più che compensato, in una contabilità edonica implicita, dal vantaggio delle classi medie emergenti che migrerebbero a servizio delle classi alte occidentali. Minimizzando la redistribuzione, in altre parole, si avrebbe il maggiore saldo di felicità (calcolato nella metrica del denaro erogato). Il fatto che a vincere certamente siano le classi superiori occidentali, che vedono aumentare l’offerta di lavoro a loro disposizione e scendere il suo costo, è un dettaglio abbastanza trascurato. Per Milanovic, che è cosciente dei problemi posti, bisogna, per cogenti ragioni sistemiche, allargare ulteriormente l’immigrazione; ma questo, poiché ha dei costi sociali e politici, rende comunque necessaria “la soppressione di alcuni diritti civili” degli immigrati (p.144) ed un sistema di quote. E questo è necessario proprio per rendere accettabile il sacrificio per le classi medie inferiori con le quali gli immigrati entrano, anche a suo parere, in oggettiva competizione.

Ma torniamo a Ricci, che ha un’altra ipotesi rispetto alla passività vero il fenomeno:

“Non vi sono alternative se non quelle verso una risocializzazione e ridistribuzione delle risorse all’interno dei singoli paesi che consenta di ampliare i rispettivi mercati interni e di ridurre il ritmo di espropriazione di risorse naturali ed umane; mentre, nei rapporti tra singoli paesi, è indispensabile un ritorno a ragioni di scambio sostenibili ed equilibrate in modo che si riducano i differenziali di produttività (o di declino) e si blocchi la desertificazione economica e sociale a cui si va altrimenti incontro”.

Sulla base di una comprensione del contesto specifico del paese la cosa è più specifica:

“In un auspicabile processo di questo tipo, che solo una politica forte può determinare, sono proprio i paesi periferici del sud Europa che paradossalmente possono fare la differenza: semplicemente perché saranno questi paesi a dover assumere delle decisioni prima di altri se non vogliono rischiare di restare stritolati dal crocevia migratorio.
Se la risorsa umana qualificata costituisce sempre più il fattore centrale dello sviluppo, i paesi in eccesso di forza lavoro qualificata – rispetto alla loro attuale capacità di valorizzazione interna, come ad esempio quelli del sud Europa-, dovrebbero assumere politiche che ne impediscano il deflusso verso i paesi più forti, ma piuttosto, eventualmente, orientare almeno una parte di tali flussi verso le aree più deboli che sono a corto di specifiche competenze per il loro sviluppo, cosa che può consentire, allo stesso tempo, un parziale riequilibrio e conseguentemente una riduzione della crescita di correnti immigratorie incontrollabili verso i propri confini. Si tratta cioè di governare i flussi di emigrazione qualificata nostrana e di orientarli, almeno in parte, verso politiche di cooperazione internazionale. Chi sta al centro del Mediterraneo ha, da questo punto di vista, un grande compito”.

Ciò significa uscire del tutto dalla logica deregolativa neoliberale e dall’opzione per quella che Milanovic chiama “il sentiero di sviluppo” (ovvero l’apertura). E che altri, più correttamente, chiamarono “lo sviluppo del sottosviluppo[17].

Ancora Ricci:

“Se la variabile emigratoria (in questo caso quella sud europea) è un fattore strategico, si debbono costruire strumenti adeguati affinché essa non sia gestita dall’esterno, cioè dal libero mercato e dai suoi paesi guida, ma diventi costitutiva di un approccio geopolitico finalizzato alla cooperazione e alla democrazia economica e, nei contesti dovuti, all’intervento umanitario, cosa, quest’ultima, sperimentata con successo in paesi africani e latino-americani, da un piccolo paese come Cuba, povero di risorse naturali, ma non di capitale umano, che ha in più occasioni utilizzato in questa chiave il proprio personale medico e sanitario “in relativo esubero”.

Dunque:
“Il libero diritto di emigrazione individuale dovrebbe essere rimodulato alla luce della necessità dei territori erogatori di riconquistare un proprio diritto di conservazione, riproduzione e utilizzo interno delle proprie risorse umane (e dei propri ecosistemi). L’individuale diritto umano di emigrare va coniugato col diritto umano a non dover emigrare per forza. E se si deve lasciare la gente emigrare, vale la pena farlo non per arricchire ulteriormente chi è già ricco, ma piuttosto per aiutare a svilupparsi chi è più povero. Alla globalizzazione neoliberista che sollecita grandi movimenti migratori di massa lungo una linea che tende verso i centri del finanz-capitalismo globale, si dovrebbe rispondere con un approccio di globalizzazione delle risorse umane finalizzato al riequilibrio economico, sociale e ambientale, un approccio ad una generalizzata cooperazione internazionale che necessita tuttavia di una guida, di un attore, di una forte soggettività politica e istituzionale”.

Si tratta di una tesi di grande interesse, che presupporrebbe un processo di completo smontaggio e rimontaggio delle catene di relazione economiche e delle relative “ragioni di scambio”, e l’intenzionale uscita dalla logica del “sentiero dello sviluppo” (o, meglio, dello “sviluppo del sottosviluppo” per tutti i ‘periferici’ e dello “sviluppo” -del surplus[18]- solo dei ‘centrali’).

Si tratta di un tema strategico. Nelle attuali condizioni italiane[19], rappresenta anzi uno dei nodi attraverso i quali si può staccare la classe lavoratrice dalla cooptazione del “Partito del vincolo esterno[20], o almeno dalla sua neutralità rispetto allo scontro principale in corso. Può, soprattutto il secondo (la sicurezza), essere anzi una leva per invertire la polarità delle alleanze sociali, facendo comprendere agli incerti strati della piccola borghesia che il loro migliore interesse è nel garantire, attraverso investimenti pubblici e la liquidazione del ‘vincolo esterno’ e quindi della ‘austerità’, un ambiente sociale coeso ed equilibrato attraverso una versione diversa della securizzazione (per via militare) proposta dalla destra: una securizzazione ottenuta attraverso la pacificazione sociale.

Un corollario tecnicamente necessario di questa posizione è che un'integrazione dell'immigrazione “non diretta dal mercato”, e quindi non preordinata per propria dinamica molecolare (ovvero decentrata e ‘spontanea’, conforme ad una legge di movimento propria) a ricostituire sempre un ‘esercito di riserva’ che tenga sotto pressione il lavoro e si accumuli necessariamente nei punti più deboli territorialmente (che spesso sono prossimi ai luoghi densi, in senso relativo, ma ne sono le periferie), passa per una regolazione dei flussi.
Ma bisogna essere attenti: una regolazione che non deve avere come obiettivo la salvaguardia dei profitti (e quindi l'aumento del saggio di sfruttamento per via di contenimento dei salari), ma la coesione sociale, ovvero, nei termini posti prima, la “pacificazione sociale”. Questa “pacificazione” è un obiettivo di medio termine, diciamo di una società “decente”, e deve servire ad accumulare le forze per una transizione al socialismo, ovvero alla disattivazione, più larga possibile, dello ‘spirito del capitalismo’[21]. Ma questo è un grande tema, non si può affrontare qui.

Del resto credo che avesse in ultima analisi ragione la scuola di Paul Baran e Paul Sweezy, e le sue diramazioni: la guida del progresso può essere presa solo dalle nazioni i cui l’irrazionalità dell’ordine sociale ha dato origine a potenti movimenti antagonistici. E questo non avviene, non è mai avvenuto, nelle società ‘avanzate’, bensì solo nelle ‘periferie’, dai popoli dei paesi coloniali, dipendenti e sottosviluppati. Quei paesi dove le contraddizioni sono più acute e ai quali viene sottratto il surplus potenziale senza alcuna forma di reinvestimento (quel reinvestimento che, evitando le crisi da realizzo, alimenta ceti “improduttivi” e un cuscinetto di “sprechi” dal potente effetto anestetizzante).

Lo stiamo iniziando a vedere man mano che da paese “semi-centrale”, relativamente soddisfatto e pacificato, retrocediamo, un pezzo alla volta, a paese “semi-periferico” con ampie “periferie” interne.

In questo contesto le parti ‘metropolitane’ sono condannate a restare indietro e le ‘periferie’ a farsi avanguardia[22]

Come concludono la loro opera maggiore[23]:

è qui che diventa ancora possibile mobilitare le forze necessarie per fuoriuscire da un sistema che vive sull’irrazionale moltiplicazione degli sprechi, corrompendo e svuotando il senso della vita. E’ qui che si può lottare. Questa lotta, cioè, non dovrà avvenire, dove l’attendeva Marx, nel luogo di massimo sviluppo delle forze produttive, ma nei luoghi in cui lo sviluppo (mondiale) determina il sottosviluppo (locale).
I luoghi in cui si può dare, come concludono, “la suprema forma di resistenza”, ovvero “la guerra rivoluzionaria per uscire dal sistema capitalistico mondiale e avviare la ricostruzione economica e sociale su basi socialiste”. Su “basi socialiste”, ovvero non orientate alla massima competizione per il profitto, per un mondo che, gradualmente liberandosi, non sia più diretto alla barbarie e finalmente in pace.

Quindi lotta da condurre in ogni luogo, ma diretta a sviluppare una nuova relazione fondamentale tra i popoli e le nazioni; una relazione fondata sul mutuo appoggio e sostegno, e non sulla licenza, sotto protezione militare, di sfruttare senza alcuna remora ogni posizione dominante per estrarre valore.

La relazione di cui parla Rodolfo Ricci. Una lotta “che non può concludersi fino a quando non ha abbracciato il mondo intero” (B&S, p.306), ma che andrà avviata, resistendo, nelle periferie.

Forse lo possiamo capire ora,
che ne facciamo parte,
anche noi.


[6] - Si veda, per un esempio applicato all’ambiente californiano della potenza degli effetti a rete il libro di Enrico Moretti, “La nuova geografia del lavoro
[7] - Rapporto tra costi variabili (tra i quali il salario) e il plusvalore ricavato dal rapporto di lavoro.
[8] - In forma semplice si intende per “Composizione organica del capitale” il rapporto tra capitale costante (c) e capitale variabile. Il capitale costante viene generalmente inteso come il valore del capitale che è incorporato nel valore dei prodotti finiti utilizzati nel processo produttivo; per capitale variabile s'intende, invece, il valore del capitale utilizzato per la remunerazione della forza-lavoro. Tale rapporto misura quindi il valore dei macchinari utilizzati rispetto al numero di operai che sono occupati nel processo produttivo, ad un dato tasso di salario.
[9] - Dal punto di vista del singolo Stato, mentre è compatibile con il quadro regolatorio internazionale e con le convezioni in essere sottoporre i flussi in ingresso a criteri selettivi non discriminatori (fatto salvo, è chiaro, l’eventuale diritto soggettivo all’asilo per ragioni umanitarie), dallo stesso punto non è possibile impedire le uscite. Dunque è possibile solo disincentivarle tramite politiche indirette. Ma dal punto di vista sovranazionale potrebbe essere inserita una “regola di compensazione”, per la quale, ad esempio, una parte significativa dei contributi dei lavoratori residenti all’estero potrebbe essere stornata a ristoro delle spese di istruzione erogate. In questo modo, senza pesare sul lavoratore, per un congruo periodo, il vantaggio per il paese di ricezione (ed il danno per quello di partenza) potrebbe essere sterilizzato.
[10] - Ad esempio una ricerca di Nardone sulla provincia di Benevento ha registrato l’immane esodo del 30-35% della popolazione, per lo più giovanile, nei comuni intermedi. In queste condizioni non si possono sostenere i costi fissi per ma manutenzione dei servizi urbani e territoriali, che cominciano ad incidere in modo esasperato sulla popolazione rimanente, rischiando di provocarne a sua volta l’esodo difensivo. Il territorio perde la sua armatura urbana e con essa la manutenzione diffusa, la capacità di sostenere attività economiche, reti commerciali, diversificazione.
[11] - Daron Acemoglu, James Robison, “Perché le nazioni falliscono
[12] - L’esilità dei quadri storici, la scheletrica bibliografia di riferimento (spesso di scarsa qualità), l’assenza di altre visioni o interpretazioni, cioè dei molti contro argomenti che possono facilmente essere evocati su ogni punto, e la pretesa (una delle parole più usate nel testo) che questo ricostruire parziale “dimostri” qualcosa. Possa passare per equivalente ad un esperimento empirico che racchiude in 450 pagine una teoria generale della storia umana dal neolitico. Tutto l’impianto del testo è, insomma, economicista, strabico e iperambizioso. Arriva a spendere una paio di pagine (anzi una frase) per confutare le tesi articolate e ben supportate di uno specialista come Jared Diamond (p.62) con un argomento, peraltro, del tutto fuori centro. Le storie raccontate sono sugli Stati Uniti nel loro sviluppo storico (pp. 19-28/362/332/424), l’Europa (p.109), la rivoluzione francese (p. 296), la “gloriosa rivoluzione” inglese (p.115/204-22), l’Africa (p 248-63/266), l’Unione Sovietica (p. 141), la Turchia (p.196/229), la Cina (p. 244/430/449), la Spagna (p. 233), l’Argentina (p.394), l’impero romano (p.171), Venezia (p. 168), il Giappone (p. 307), l’Australia (p.295).
[13] - Si veda, ad esempio, il libro di Alan Taylor “Rivoluzioni americane”, per una visione leggermente diversa, o quello di Manin “Principi del governo rappresentativo
[14] - William Easterly, “La tirannia degli esperti
[15] - Difende una globalizzazione totalmente dominata da poche imprese, in cui la concentrazione di potere è arrivata al punto che il maggiore acquirente di una potenza come la Cina (un acquirente che se fosse uno stato sarebbe nel G7), è Wall Mart in questo modo: “il monopolio di solito si corregge da solo. Monopolio significa profitti elevati, e i profitti elevati inviano in tutto il mondo un segnale che dice che si possono fare soldi facili entrando in quel mercato e vendendo il prodotto a un prezzo più basso di quello del monopolista” (E,p. 349). Del resto le “potenti corporation sono tali solo in via temporanea, perché sono in balia delle forze di mercato, che espongono al rischio di perdere quote di mercato o addirittura di finire in bancarotta” (E, p.370). Si tratta del classico argomento messo a punto a Chicago. Il mercato è tale anche quando è monopolista, quel che non si ha nello spazio si ha nel tempo. È uno strano argomento, perché si può applicare anche al più feroce dittatore: non è importante che Hitler sia stato un dittatore sull’intera Germania (e per un breve periodo l’Europa), alla fine è caduto. Dunque non era una dittatura. O no? Joan Robinson non era d’accordo, la grande economista di Cambridge, allieva di Keynes e maestra di Amartya Sen e Stiglitz, morta nel 1983, aveva messo a punto il concetto di “monopsonio”, quando un solo acquirente (o dominante) si confronta con una vastità sconnessa di venditori. In questo caso i rapporti di forza sono tali che il venditore deve sottostare alle condizioni dettate dall’acquirente: è ciò che fa Wall Mart, nessuno può sottrargli il controllo dei mercati perché vende ai prezzi più bassi e irraggiungibili per ogni concorrente, e lo fa perché schiaccia i fornitori, cioè coloro verso i quali è veramente monopolista. Il modello è semplice e geniale, un monopolio dai due lati tenuto fermo dal controllo sull’acquisto e non sulla vendita. Questo monopolio non si può correggere da solo (e non è l’unico) perché solo l’eliminazione della solitudine dei venditori può riuscirci. Cioè le regole dello Stato.
[16] - Branko Milanovic “Ingiustizia globale
[17] - La formula è di Andre Gunder Frank, sul quale abbiamo largamente letto, e per il quale rimando alla sintesi “Sviluppi della teoria della dipendenza
[18] - Per questa distinzione, che esula dagli scopi di questo intervento, si veda la pluriennale teorizzazione di Paul Baran, accompagnata da Paul Sweezy. In particolare, Paul Baran, “Il surplus economico”, 1957; Paul Baran, Paul Sweezy, “Il capitale monopolistico”, 1966.
[19] - Dopo l’esperienza del fallito governo “gialloverde” e l’avvio del governo “bianco-giallo”, che rischia di favorire un’ulteriore presa di consenso della destra in Italia, e dei toni xenofobi e securitari in senso repressivo promossi dalla Lega per ragioni su cui ci siano altrove espressi. Si veda, ad esempio, “Decreto immigrazione: contraddizioni tra base sociale base di massa”, ed il successivo “Giochi di specchi ed equivoci, il caso della lega”, con la sua appendice “Discussioni sull’Italia
[20] - Chiamo “partito del vincolo esterno”, l’insieme proteiforme e capace di trovare rappresentanza politica plurima, spesso sotto forme nascoste di quelle classi benestanti e mediamente colte che percepiscono la globalizzazione come destino e progresso per la semplice ragione (non necessariamente coscientizzata) che ne traggono cospicui benefici. In particolare, dalla ‘moneta forte’ l’occasione di acquistare a basso prezzo beni distintivi ed identitari che, nella loro provinciale esterofilia (ma indispensabile per marcare la differenza dal volgo stanziale) gli sono indispensabili; nella ‘stabilità monetaria’ garantita dalle politiche di austerità, alle quali sono affezionate come il cucciolo alla cagna, la salvaguardia dei loro capitali liquidi (anche se a discapito di quelli immobili), nella “mobilità delle persone” in uscita la possibilità di sfuggire alle conseguenze nazionali dei due fattori di cui prima, mandando i figli a studiare in università ben finanziate e loro stessi, se del caso, a curarsi in posti ancora idonei, e nella “mobilità del lavoro” in entrata quella di garantirsi costante abbondanza di servitori e quindi il disciplinamento di quelli autoctoni. Ma anche, in aggiunta, le organizzazioni ed i corpi intermedi rappresentativi di quei ceti intermedi che possono essere mobilitati in difesa dei “risparmi” (l’evidente e costante bersaglio della retorica presidenziale). Ovvero del costo del mutuo (in Italia abbiamo il massimo grado di capitalizzazione privata ma anche e soprattutto di case di proprietà), della rata dell’auto, del piccolo debito industriale, … Il “Partito del vincolo esterno” è, insomma, egemonizzato dalla testa, da chi ha concrete relazioni con il grande capitale internazionale (finanziario e industriale), ma si estende, ancorandosi a piccoli privilegi da difendere, agli incerti strati della piccola borghesia italiana, banderuola al vento. Questo “Partito” è assolutamente e per sua natura diagonale e trasversale. Seguendo la lezione di Mao, occorre con un’analisi concreta della situazione concreta (Lenin), individuare quale sua parte è ‘nemico principale’, da isolare, quale parte si può guadagnare perché le forze progressiste siano sviluppate.
[21] - Ovvero a quella propensione, connaturata al capitalismo, di orientare l’intera attività dell’umanità e dei suoi membri alla mera accumulazione di capitale per se stesso. Una propensione che orienta tutte le risorse ad usi distorti ed inefficienti (se rapportati al valore d’uso delle cose e all’aspirazione ad una vita piena, pacifica, realmente umana).
[22] - Si veda, Paul Baran, “Saggi marxisti”, Paul Baran, Paul Sweezy, “Il capitale monopolistico”: “La gerarchia delle nazioni che costituiscono il sistema capitalistico è caratterizzata da una complessa serie di rapporti di sfruttamento. I paesi che stanno al vertice sfruttano in varia misura tutti gli altri e allo stesso modo i paesi che stanno a un dato livello sfruttano quelli che stanno più in basso, fino a quando giungiamo all’ultimo paese che non ha nessuno da sfruttare. Nello stesso tempo, ogni paese che sta a un dato livello si sforza di essere l’unico sfruttatore del maggior numero possibile di paesi che stanno più in basso. Abbiamo quindi una rete di rapporti antagonistici che pongono gli sfruttatori contro gli sfruttati e contro gli altri sfruttatori. Trascurando le classificazioni giuridiche possiamo chiamare ‘metropoli’ i paesi che stanno al vertice o vicino al vertice e ‘colonie’ quelli che stanno alla base o vicino alla base. L’area di sfruttamento di una data metropoli, da cui i rivali sono più o meno efficacemente esclusi, ne costituisce ‘l’impero’. Alcuni paesi che si trovano nei gradini intermedi possono entrare a far parte di un dato impero, portando alle volte con sé un proprio impero (ad esempio, il Portogallo e l’impero portoghese come unità subordinate nell’ambito molto maggiore dell’impero britannico); altri paesi intermedi possono riuscire a mantenere una relativa indipendenza, come grosso modo fecero gli Stati uniti durante i primi centociquant’anni della loro vita nazionale indipendente” (p.152).
[23] - Paul Baran, Paul Sweezy, “Il capitale monopolistico

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