La
questione delle immigrazioni e delle emigrazioni, a seconda del punto di vista
che si assume, è stata trattata in questo blog in numerose occasioni[1], per lo più, ma con qualche
eccezione[2], guardando il tema dell’immigrazione
nel nostro paese dai paesi periferici[3] e meno dell’emigrazione
da questo. Però non ci sono dubbi che nessuna lettura può dare il quadro della
situazione se non si individua la dinamica in corso in un paese sempre più semi-centrale,
come il nostro, identificandola quale ‘crocevia migratorio’.
Per
riuscirvi, oltre a considerare numeri e flussi, è necessario sia individuare i
fenomeni che si verificano nelle aree di diradamento, in quelle di
densificazione e in quelle di sostituzione, sia il sottostante
meccanismo economico-sociale.
Partiamo
da quest’ultimo: da una ricostruzione[4] ampia e ricca di
informazioni della questione, proposta da Rodolfo Ricci su “Sinistrainrete”,
può essere individuato il nesso, solido e necessario, tra la specializzazione
funzionale che si verifica in diverse aree economiche e l’attrazione di ‘risorse’
umane selettivamente necessarie al governo del relativo mercato del lavoro. La
divisione internazionale del lavoro, determina un fenomeno di “causazione
circolare cumulativa”, per il quale, come si trovò a dire Kaldor[5] già nel 1971, “la
dispersione dei tassi di aumento dei salari tra le diverse aree tende sempre ad
essere considerevolmente più piccola di quella relativa alle variazioni della
produttività”. Per fare qualche esempio si può far mente locale alle gerarchie
di aree di concentrazione degli hub finanziari dominanti (come la City di
Londra, Zurigo), con la loro corona di università di élite, società di alta
consulenza, poli del lusso e relativi servizi, aziende ad alta capitalizzazione
e soprattutto alta concentrazione di capitale produttivo; aree complementari
(come la piazza di Ginevra, Francoforte); o di aree di alta concentrazione
industriale (la Rhur ed il Benelux, l’area di Parigi, la Lorena, i Paesi
Baschi, la Slesia, la Pianura Padana) e distretti industriali secondari e
settoriali. Si attiva complessivamente un processo cumulativo per il quale, se
le variazioni automaticamente compensative della moneta (o politiche
intenzionali redistributive e di infrastrutturazione compensativa) non si
attivano, ancora Kaldor, “le aree che crescono di più tendono ad acquisite un
vantaggio competitivo cumulativo rispetto a quelle che crescono a tassi inferiori”.
Si può dire in altre parole che i tassi di aumento dei salari si distribuiscono
secondo una dispersione molto meno forte di quella della produttività. Quindi che
in conseguenza la variazione dei salari monetari non riesce a compensare
automaticamente la differenza che si crea nei tassi di incremento della
produttività. Per questo motivo “il tasso di sviluppo economico delle diverse
aree del mondo non tende ad uno stato di equilibrio uniforme ma, al contrario,
tende a cristallizzarsi in un numero limitato di aree ad elevata crescita il
cui successo ha l’effetto di inibire lo sviluppo di altre aree”. Sul piano
tecnico i “salari efficienti” (ovvero il rapporto tra i salari e la
produttività) resteranno allora sempre indietro nelle aree meno dense, e
progressivamente. Con ciò aumenta il vantaggio competitivo delle aree forti,
con buona pace per ogni teoria dell’equilibrio generale. Non stupisce, in
queste condizioni, che l’atteso incremento di produttività individuale, che in
grande misura dipende dall’ambiente di inserimento, e il relativo aumento delle
opportunità salariali spingano individualmente, in assenza di forze intenzionalmente
controdirette, le risorse umane che si considerano eccedenti nei paesi deboli a
trasferirsi in quelli forti.
Questa
dinamica, però, va nella stessa identica direzione del rafforzamento progressivo
delle aree ‘centrali’ a danno di quelle immediatamente più periferiche in una
sorta di ‘scala della dipendenza’. La concentrazione dei capitali, in
cerca di remunerazioni più elevate ed efficienti, si traduce in tassi più
favorevoli e migliore facilità agli investimenti, ‘effetti rete’[6], e processi di ‘causazione
circolare cumulativa’; quindi si rende necessaria e si genera un’attrazione
crescente della forza-lavoro mediamente più qualificata delle aree ‘semi-periferiche’
per raffreddare la tendenza dei salari a seguire l’aumento della produttività
lasciando costante, se non declinante, il tasso di sfruttamento[7]. Con un tasso di sfruttamento
costante, in presenza di una tendenziale crescita della composizione organica
del capitale[8],
si ha infine, e necessariamente, un calo del saggio di profitto, che, se
prolungato può mettere a rischio la riproduzione del sistema, inducendo ad un
arresto degli investimenti. E’ per questo che l’attrazione della forza lavoro
da inserire al livello più basso della scala del valore, spingendo fuori o
disciplinando quelli che vi erano in precedenza (una parte verso l’alto, una
parte verso l’emigrazione a loro volta), determina la conservazione della
condizione dell’accumulazione.
Nel
contesto di politiche mercantiliste, “impoverisci il vicino”, che sono tipiche
di questa fase ad egemonia nordica in Europa, questo processo tende a scalare
con andamento dal “centro” alle “periferie”, progressivamente specializzandosi
in senso inverso. In altre parole, man mano che ci si allontana dal centro ad
alta capitalizzazione, interconnessione e specializzazione funzionale (nel
contesto di una divisione del lavoro internazionale), sono attratte risorse
umane meno specializzate ed espulse quelle via via più specializzate.
Come
scrive Rodolfo Ricci:
“Sembra trattarsi della
riprogettazione della divisione internazionale del lavoro tra i paesi avanzati,
in particolare tra economie a maggiore o minor grado di finanziarizzazione e di
sviluppo teconologico e industriale: la ‘qualità’ media dei flussi migratori
(livelli di scolarizzazione, competenze, congenialità culturali) deve essere
tendenzialmente compatibile con la posizione riservata ai singoli paesi nella
nuova divisione internazionale del lavoro. Una dinamica che non riguarda solo
la relazione tra paesi, ma anche la relazione tra aree di singoli paesi, ad
esempio nord-sud Italia o Ovest-Est della Germania.
Ne viene fuori un
conglomerato esplosivo per i paesi (e i territori) periferici, i quali sono
alle prese allo stesso tempo con arrivi di massa dai continenti della povertà e
con esodi di massa di popolazione giovanile ad alta qualificazione, mentre per
i paesi centrali, si riproduce l’antica e provvida divisione funzionale del
mercato del lavoro con diritti ed opportunità segmentati a seconda della differente
origine e qualità della merce lavoro, limitata soltanto dalla possibilità
congiunturale di valorizzazione che si dà in un determinato paese o in un’area,
in un determinato tempo”.
Naturalmente
questo processo, in quando diretto dal mercato, è altamente precarizzante e
soggetto a periodiche inversioni:
“Se i tempi sono
infausti, si procede a misure di riduzione dei diritti di welfare per i nuovi
arrivati o addirittura di espulsione mettendo anche in discussione i sacri
trattati. Il Belgio ha provveduto negli ultimi anni a intimare l’obbligo di
lasciare il paese a migliaia di cittadini comunitari perché “di eccessivo peso”
per il proprio sistema di welfare. Circa un migliaio gli italiani. Analogamente
hanno fatto per anni, ben prima della Brexit, diversi Laender tedeschi”.
In
queste condizioni strutturali, in un paese “semi-centrale”, a media
specializzazione, con poche e limitate aree di vera eccellenza e molte aree ad
economia interconnessa ma subalterna, e nel quale sono presenti anche vaste
aree a bassa specializzazione funzionale, elevata povertà e disagio, si attiva
quel che Enrico Pugliese chiama “crocevia migratorio”: grandi flussi in
arrivo da sud e dall’est del Mediterraneo e contemporaneamente grandi (superiori)
flussi in uscita verso il centro-nord continentale. Un simile paese serve, in
termini sistemici, anche a ‘filtrare’ la competenza e quindi l’utilità dell’immigrazione,
in modo che si crei una sorta di macchina ben oliata:
“una sorta di cerchi
concentrici per le masse umane in movimento che, a seconda del loro valore in
termini di competenze e niveu formativi, devono essere contenute nelle
periferie o possono essere ammesse e integrate nei centri di progettazione e di
direzione finanziaria e capitalistica, in misura delle necessità dei reciproci
sistemi produttivi e in misura delle necessità di un mercato del lavoro sempre
più precarizzato e di un welfare in fase di ulteriore contrazione.”
È
chiaro però che, in assenza di massive politiche di regolazione, sia in
ingresso sia in uscita, anche se con strumenti differenziati[9], nelle aree di provenienza
si possono attivare fenomeni di diradamento dalle devastanti potenziali
conseguenze: sfilacciamento del tessuto economico con perdita delle risorse più
attive e dinamiche, e spesso di quelle più formate, squilibrio finanziario e
sovraccarico sul sistema di formazione il quale è un costo sociale al quale non
corrisponde più un beneficio nel corso del prosieguo del percorso di vita,
difficoltà, nelle aree di maggiore incidenza, a sostenere i costi fissi sociali[10].
Ma
di che numeri stiamo parlando?
Dal
2013 al 2017 sono emigrati dal nostro paese qualcosa come 250/300.000 persone
all’anno, per lo più giovani ed a media o alta qualificazione, quelli che
servono al mercato del lavoro del nord per tenere sotto controllo la loro
dinamica salariale (a fronte, dai paesi di ricezione, c’è una emigrazione
complementare più contenuta, di età più avanzata e competenza/esperienza più
elevata che emigra verso paesi a più alti salari o aree più dense come gli Usa)
che vanno in paesi “centrali”, come la Germania e la Gran Bretagna, “semi-centrali”,
ma più connessi, come l’Olanda, la Svizzera, il Belgio e paesi lontani come l’Australia.
Complessivamente sarebbero, allo stato, residenti all’estero qualcosa come 6-7
milioni di connazionali.
Una
cifra simile, ma con flussi ora molto inferiori (nell’ordine delle decine di
migliaia di unità), si registra contemporaneamente in arrivo dai paesi “periferici”
del nord Africa, del vicino Medio Oriente, e dall’Est. Lo stock in questo caso
è di entità simile, intorno ai 5-6 milioni di unità. Complessivamente siamo,
come livello dimensionale del “crocevia migratorio”, nell’ordine del 20% della
popolazione italiana.
Che
soluzione?
Rodolfo
Ricci ha una proposta interessante ed innovativa, percorriamola:
“Questa situazione da
cui difficilmente anche i paesi che si ritengono più forti resteranno alla
lunga immuni, può essere interrotta solo con un cambiamento radicale dei
paradigmi e delle ragioni di scambio; solo con grandi progetti di cooperazione
finalizzata allo sviluppo e al recupero dei differenziali di produttività;
soltanto con uno stop ai processi di accaparramento delle terre e delle risorse
naturali e di centralizzazione finanziaria e capitalistica incontrollata. In
ultima istanza con il contenimento e la riconfigurazione dei processi di
globalizzazione che non può più essere gestita in termini neoliberistici”.
I
“termini neoliberistici” vorrebbero che l’insieme delle libere
circolazioni, commercio, capitali e servizi, persone, mettano in competizione
ed a confronto sistemi sociali e assetti di potere consolidati quanto arcaici,
favorendo la mobilità sociale, rendendo più efficiente il complessivo sistema,
aumentando la produttività complessiva in quanto spostano risorse
sottoutilizzate in sistemi in grado di esaltarne l’efficacia e, nel medio
termine, modernizzano sia le aree di partenza sia quelle di arrivo. È, ad
esempio, la tesi di Daron Acemoglu, per il quale[11] lo sviluppo è
essenzialmente innovazione e rovesciamento degli assetti consolidati di potere.
Sulla base di una tesi neo-schumpeteriana, gli autori sostengono che “una
crescita economica duratura richiede innovazione, e l’innovazione non può
essere disgiunta dalla distruzione creatrice, che sostituisce il vecchio con il
nuovo in ambito politico” (A.p.441). Nell’ambito di una teoria contemporaneamente
hayekiana, antiautoritaria, ideologica, insieme strabica ed iperambiziosa[12], gli autori arrivano a
sostenere che la colpa di tutto sia sempre dei poveri. Ad esempio l’Egitto, ad
onta della conquista di Gordon e delle sue cannoniere, “è povero perché è stato
governato da una ristretta élite, che ha modellato la società sui propri
interessi a danno della vita della maggioranza delle persone”, mentre,
naturalmente, gli Stati Uniti sono un paese libero governato da tutti i
cittadini[13].
Simili simpatiche teorie sono piene di passione ma davvero povere di sostanza. Già
più interessante, se pur mercatista, la ricostruzione di William Easterly[14], che se non altro ha il
merito di descrivere a lungo il colonialismo ed il razzismo dell’occidente. Certo,
poi, spende tutti i suoi migliori sforzi per negare che i monopoli e le multinazionali
abbiano un effetto estrattivo[15]
Una
posizione intermedia è quella di Branko Milanovic che in uno dei suoi ultimi
libri[16]
identifica come dilemma posto dal sistema economico e sociale contemporaneo (ed
esemplificato nell’interazione reciproca tra Tecnologia, Apertura e
Politiche) la crescente stagnazione del ceto medio inferiore dei paesi
ricchi a vantaggio dei quattro quinti del primo ventile di reddito e di un
quinto dei ventili corrispondenti al ceto medio emergente (classi di reddito
tra 5 e 10.000 dollari annui nei paesi in via di convergenza). Milanovic
giudica però complessivamente l’apertura come espressione di un ‘sentiero di
progresso’ sulla base di una letteratura datata al 2006 e di marca liberale
(Pritchett, Hanson) e dell’argomento utilitarista che il saldo complessivo
del valore creato (economico) è maggiore quando un lavoratore si sposta in un
paese con una composizione organica del capitale migliore anziché attraverso l’incremento
interno di redditi dei lavoratori nativi. Nel suo argomento, ripreso da Pritchett,
è espressamente posta in competizione l’alternativa tra l’aumento dei
“salari degli individui in patria” e quella che si può verificare con lo
spostamento dei lavoratori esterni. In termini di modello stilizzato l’immigrazione
è quindi prodotta dall’ineguaglianza tra nazioni, ovvero dall’entità del “premio
di cittadinanza” che il differenziale di composizione organica del capitale e
delle istituzioni crea nei paesi ricchi.
Questa
letteratura dichiara, in sostanza, che il sacrificio delle classi medie
inferiori occidentali è più che compensato, in una contabilità edonica
implicita, dal vantaggio delle classi medie emergenti che migrerebbero a
servizio delle classi alte occidentali. Minimizzando la redistribuzione, in
altre parole, si avrebbe il maggiore saldo di felicità (calcolato nella metrica
del denaro erogato). Il fatto che a vincere certamente siano le classi
superiori occidentali, che vedono aumentare l’offerta di lavoro a loro disposizione
e scendere il suo costo, è un dettaglio abbastanza trascurato. Per Milanovic,
che è cosciente dei problemi posti, bisogna, per cogenti ragioni sistemiche, allargare
ulteriormente l’immigrazione; ma questo, poiché ha dei costi sociali e
politici, rende comunque necessaria “la soppressione di alcuni diritti civili” degli
immigrati (p.144) ed un sistema di quote. E questo è necessario proprio per
rendere accettabile il sacrificio per le classi medie inferiori con le quali
gli immigrati entrano, anche a suo parere, in oggettiva competizione.
Ma
torniamo a Ricci, che ha un’altra ipotesi rispetto alla passività vero il
fenomeno:
“Non vi sono
alternative se non quelle verso una risocializzazione e ridistribuzione
delle risorse all’interno dei singoli paesi che consenta di ampliare i
rispettivi mercati interni e di ridurre il ritmo di espropriazione di risorse
naturali ed umane; mentre, nei rapporti tra singoli paesi, è indispensabile un ritorno
a ragioni di scambio sostenibili ed equilibrate in modo che si riducano i
differenziali di produttività (o di declino) e si blocchi la desertificazione
economica e sociale a cui si va altrimenti incontro”.
Sulla
base di una comprensione del contesto specifico del paese la cosa è più
specifica:
“In un auspicabile
processo di questo tipo, che solo una politica forte può determinare, sono
proprio i paesi periferici del sud Europa che paradossalmente possono fare
la differenza: semplicemente perché saranno questi paesi a dover assumere
delle decisioni prima di altri se non vogliono rischiare di restare stritolati
dal crocevia migratorio.
Se la risorsa umana
qualificata costituisce sempre più il fattore centrale dello sviluppo, i paesi
in eccesso di forza lavoro qualificata – rispetto alla loro attuale capacità di
valorizzazione interna, come ad esempio quelli del sud Europa-, dovrebbero
assumere politiche che ne impediscano il deflusso verso i paesi più forti, ma
piuttosto, eventualmente, orientare almeno una parte di tali flussi verso le
aree più deboli che sono a corto di specifiche competenze per il loro sviluppo,
cosa che può consentire, allo stesso tempo, un parziale riequilibrio e
conseguentemente una riduzione della crescita di correnti immigratorie
incontrollabili verso i propri confini. Si tratta cioè di governare i flussi di
emigrazione qualificata nostrana e di orientarli, almeno in parte, verso
politiche di cooperazione internazionale. Chi sta al centro del
Mediterraneo ha, da questo punto di vista, un grande compito”.
Ciò
significa uscire del tutto dalla logica deregolativa neoliberale e dall’opzione
per quella che Milanovic chiama “il sentiero di sviluppo” (ovvero l’apertura). E
che altri, più correttamente, chiamarono “lo sviluppo del sottosviluppo”[17].
Ancora
Ricci:
“Se la variabile
emigratoria (in questo caso quella sud europea) è un fattore strategico, si
debbono costruire strumenti adeguati affinché essa non sia gestita
dall’esterno, cioè dal libero mercato e dai suoi paesi guida, ma diventi
costitutiva di un approccio geopolitico finalizzato alla cooperazione e alla
democrazia economica e, nei contesti dovuti, all’intervento umanitario, cosa,
quest’ultima, sperimentata con successo in paesi africani e latino-americani,
da un piccolo paese come Cuba, povero di risorse naturali, ma non di capitale
umano, che ha in più occasioni utilizzato in questa chiave il proprio personale
medico e sanitario “in relativo esubero”.
Dunque:
“Il libero diritto di
emigrazione individuale dovrebbe essere rimodulato alla luce della
necessità dei territori erogatori di riconquistare un proprio diritto di
conservazione, riproduzione e utilizzo interno delle proprie risorse umane (e
dei propri ecosistemi). L’individuale diritto umano di emigrare va coniugato
col diritto umano a non dover emigrare per forza. E se si deve lasciare la gente
emigrare, vale la pena farlo non per arricchire ulteriormente chi è già ricco,
ma piuttosto per aiutare a svilupparsi chi è più povero. Alla globalizzazione
neoliberista che sollecita grandi movimenti migratori di massa lungo una linea
che tende verso i centri del finanz-capitalismo globale, si dovrebbe rispondere
con un approccio di globalizzazione delle risorse umane finalizzato al
riequilibrio economico, sociale e ambientale, un approccio ad una generalizzata
cooperazione internazionale che necessita tuttavia di una guida, di un attore,
di una forte soggettività politica e istituzionale”.
Si
tratta di una tesi di grande interesse, che presupporrebbe un processo di completo
smontaggio e rimontaggio delle catene di relazione economiche e delle relative “ragioni
di scambio”, e l’intenzionale uscita dalla logica del “sentiero dello sviluppo”
(o, meglio, dello “sviluppo del sottosviluppo” per tutti i ‘periferici’
e dello “sviluppo” -del surplus[18]- solo dei ‘centrali’).
Si
tratta di un tema strategico. Nelle attuali condizioni
italiane[19],
rappresenta anzi uno dei nodi attraverso i quali si può staccare la classe
lavoratrice dalla cooptazione del “Partito del vincolo esterno”[20], o almeno dalla sua
neutralità rispetto allo scontro principale in corso. Può, soprattutto il
secondo (la sicurezza), essere anzi una leva per invertire la polarità
delle alleanze sociali, facendo comprendere agli incerti strati della piccola
borghesia che il loro migliore interesse è nel garantire, attraverso
investimenti pubblici e la liquidazione del ‘vincolo esterno’ e quindi
della ‘austerità’, un ambiente sociale coeso ed equilibrato attraverso
una versione diversa della securizzazione (per via militare) proposta dalla
destra: una securizzazione ottenuta attraverso la pacificazione sociale.
Un
corollario tecnicamente necessario di questa posizione è che un'integrazione
dell'immigrazione “non diretta dal mercato”, e quindi non preordinata per
propria dinamica molecolare (ovvero decentrata e ‘spontanea’, conforme ad una
legge di movimento propria) a ricostituire sempre un ‘esercito di riserva’ che
tenga sotto pressione il lavoro e si accumuli necessariamente nei punti più
deboli territorialmente (che spesso sono prossimi ai luoghi densi, in senso
relativo, ma ne sono le periferie), passa per una regolazione dei flussi.
Ma
bisogna essere attenti: una regolazione che non deve avere come obiettivo la
salvaguardia dei profitti (e quindi l'aumento del saggio di sfruttamento per
via di contenimento dei salari), ma la coesione sociale, ovvero, nei termini
posti prima, la “pacificazione sociale”. Questa “pacificazione” è un
obiettivo di medio termine, diciamo di una società “decente”, e deve servire ad
accumulare le forze per una transizione al socialismo, ovvero alla
disattivazione, più larga possibile, dello ‘spirito del capitalismo’[21]. Ma questo è un grande
tema, non si può affrontare qui.
Del
resto credo che avesse in ultima analisi ragione la scuola di Paul Baran e Paul
Sweezy, e le sue diramazioni: la guida del progresso può essere presa solo
dalle nazioni i cui l’irrazionalità dell’ordine sociale ha dato origine a
potenti movimenti antagonistici. E questo non avviene, non è mai avvenuto,
nelle società ‘avanzate’, bensì solo nelle ‘periferie’, dai popoli dei paesi
coloniali, dipendenti e sottosviluppati. Quei paesi dove le contraddizioni sono
più acute e ai quali viene sottratto il surplus potenziale senza alcuna forma
di reinvestimento (quel reinvestimento che, evitando le crisi da realizzo,
alimenta ceti “improduttivi” e un cuscinetto di “sprechi” dal potente effetto
anestetizzante).
Lo
stiamo iniziando a vedere man mano che da paese “semi-centrale”, relativamente soddisfatto
e pacificato, retrocediamo, un pezzo alla volta, a paese “semi-periferico” con
ampie “periferie” interne.
In
questo contesto le parti ‘metropolitane’ sono condannate a restare indietro e
le ‘periferie’ a farsi avanguardia[22].
Come
concludono la loro opera maggiore[23]:
è
qui che diventa ancora possibile mobilitare le forze necessarie per fuoriuscire
da un sistema che vive sull’irrazionale moltiplicazione degli sprechi,
corrompendo e svuotando il senso della vita. E’ qui che si può lottare. Questa
lotta, cioè, non dovrà avvenire, dove l’attendeva Marx, nel luogo di massimo
sviluppo delle forze produttive, ma nei luoghi in cui lo sviluppo
(mondiale) determina il sottosviluppo (locale).
I
luoghi in cui si può dare, come concludono, “la suprema forma di resistenza”,
ovvero “la guerra rivoluzionaria per uscire dal sistema capitalistico mondiale
e avviare la ricostruzione economica e sociale su basi socialiste”. Su “basi
socialiste”, ovvero non orientate alla massima competizione per il profitto,
per un mondo che, gradualmente liberandosi, non sia più diretto alla barbarie e
finalmente in pace.
Quindi
lotta da condurre in ogni luogo, ma diretta a sviluppare una nuova relazione
fondamentale tra i popoli e le nazioni; una relazione fondata sul mutuo
appoggio e sostegno, e non sulla licenza, sotto protezione militare, di
sfruttare senza alcuna remora ogni posizione dominante per estrarre valore.
La
relazione di cui parla Rodolfo Ricci. Una lotta “che non può concludersi fino a
quando non ha abbracciato il mondo intero” (B&S, p.306), ma che andrà
avviata, resistendo, nelle periferie.
Forse
lo possiamo capire ora,
che
ne facciamo parte,
anche
noi.
[3] - Si veda per una conclusione
provvisoria: ”, “Immigrazione
e questione sociale”, “Uscendo
dall’ipocrisia dei rispettivi muri, che cosa significa accogliere”
[4] - Rodolfo Ricci, “Immigrazione,
emigrazione, cooperazione”
[5] - Si veda “Le
analisi di Kaldor sulla moneta unica”
[6] - Si veda, per un esempio
applicato all’ambiente californiano della potenza degli effetti a rete il libro
di Enrico Moretti, “La
nuova geografia del lavoro”
[7] - Rapporto tra costi variabili
(tra i quali il salario) e il plusvalore ricavato dal rapporto di lavoro.
[8] - In forma semplice si intende per
“Composizione organica del capitale” il rapporto tra capitale costante (c) e capitale
variabile. Il capitale costante viene generalmente inteso come il valore del capitale
che è incorporato nel valore dei prodotti finiti utilizzati nel processo
produttivo; per capitale variabile s'intende, invece, il valore del capitale utilizzato
per la remunerazione della forza-lavoro. Tale rapporto misura quindi il
valore dei macchinari utilizzati rispetto al numero di operai che sono occupati
nel processo produttivo, ad un dato tasso di salario.
[9] - Dal punto di vista del singolo Stato,
mentre è compatibile con il quadro regolatorio internazionale e con le
convezioni in essere sottoporre i flussi in ingresso a criteri selettivi non
discriminatori (fatto salvo, è chiaro, l’eventuale diritto soggettivo all’asilo
per ragioni umanitarie), dallo stesso punto non è possibile impedire le uscite.
Dunque è possibile solo disincentivarle tramite politiche indirette. Ma dal
punto di vista sovranazionale potrebbe essere inserita una “regola di
compensazione”, per la quale, ad esempio, una parte significativa dei
contributi dei lavoratori residenti all’estero potrebbe essere stornata a
ristoro delle spese di istruzione erogate. In questo modo, senza pesare sul
lavoratore, per un congruo periodo, il vantaggio per il paese di ricezione (ed
il danno per quello di partenza) potrebbe essere sterilizzato.
[10] - Ad esempio una ricerca di Nardone
sulla provincia di Benevento ha registrato l’immane esodo del 30-35% della
popolazione, per lo più giovanile, nei comuni intermedi. In queste condizioni
non si possono sostenere i costi fissi per ma manutenzione dei servizi urbani e
territoriali, che cominciano ad incidere in modo esasperato sulla popolazione
rimanente, rischiando di provocarne a sua volta l’esodo difensivo. Il
territorio perde la sua armatura urbana e con essa la manutenzione diffusa, la capacità
di sostenere attività economiche, reti commerciali, diversificazione.
[11] - Daron Acemoglu, James Robison, “Perché
le nazioni falliscono”
[12] - L’esilità dei quadri storici, la scheletrica
bibliografia di riferimento (spesso di scarsa qualità), l’assenza di altre
visioni o interpretazioni, cioè dei molti contro argomenti che possono
facilmente essere evocati su ogni punto, e la pretesa (una delle parole più
usate nel testo) che questo ricostruire parziale “dimostri” qualcosa. Possa
passare per equivalente ad un esperimento empirico che racchiude in 450 pagine
una teoria generale della storia umana dal neolitico. Tutto l’impianto del
testo è, insomma, economicista, strabico e iperambizioso. Arriva a
spendere una paio di pagine (anzi una frase) per confutare le tesi articolate e
ben supportate di uno specialista come Jared Diamond (p.62) con un argomento,
peraltro, del tutto fuori centro. Le storie raccontate sono sugli Stati Uniti
nel loro sviluppo storico (pp. 19-28/362/332/424), l’Europa (p.109), la
rivoluzione francese (p. 296), la “gloriosa rivoluzione” inglese
(p.115/204-22), l’Africa (p 248-63/266), l’Unione Sovietica (p. 141), la
Turchia (p.196/229), la Cina (p. 244/430/449), la Spagna (p. 233), l’Argentina
(p.394), l’impero romano (p.171), Venezia (p. 168), il Giappone (p. 307),
l’Australia (p.295).
[13] - Si veda, ad esempio, il libro di
Alan Taylor “Rivoluzioni
americane”, per una visione leggermente diversa, o quello di Manin “Principi
del governo rappresentativo”
[14] - William Easterly, “La
tirannia degli esperti”
[15] - Difende una globalizzazione
totalmente dominata da poche imprese, in cui la concentrazione di potere è
arrivata al punto che il maggiore acquirente di una potenza come la Cina (un
acquirente che se fosse uno stato sarebbe nel G7), è Wall Mart in questo modo: “il
monopolio di solito si corregge da solo. Monopolio significa profitti elevati,
e i profitti elevati inviano in tutto il mondo un segnale che dice che si
possono fare soldi facili entrando in quel mercato e vendendo il prodotto a un
prezzo più basso di quello del monopolista” (E,p. 349). Del resto le “potenti
corporation sono tali solo in via temporanea, perché sono in balia delle forze
di mercato, che espongono al rischio di perdere quote di mercato o addirittura
di finire in bancarotta” (E, p.370). Si tratta del classico argomento messo a
punto a Chicago. Il mercato è tale anche quando è monopolista, quel che non si
ha nello spazio si ha nel tempo. È uno strano argomento, perché si può
applicare anche al più feroce dittatore: non è importante che Hitler sia stato
un dittatore sull’intera Germania (e per un breve periodo l’Europa), alla fine
è caduto. Dunque non era una dittatura. O no? Joan Robinson non era
d’accordo, la grande economista di Cambridge, allieva di Keynes e maestra di
Amartya Sen e Stiglitz, morta nel 1983, aveva messo a punto il concetto di “monopsonio”,
quando un solo acquirente (o dominante) si confronta con una vastità sconnessa
di venditori. In questo caso i rapporti di forza sono tali che il venditore
deve sottostare alle condizioni dettate dall’acquirente: è ciò che fa Wall
Mart, nessuno può sottrargli il controllo dei mercati perché vende ai prezzi
più bassi e irraggiungibili per ogni concorrente, e lo fa perché schiaccia i
fornitori, cioè coloro verso i quali è veramente monopolista. Il modello è
semplice e geniale, un monopolio dai due lati tenuto fermo dal controllo
sull’acquisto e non sulla vendita. Questo monopolio non si può correggere da
solo (e non è l’unico) perché solo l’eliminazione della solitudine dei
venditori può riuscirci. Cioè le regole dello Stato.
[16] - Branko Milanovic “Ingiustizia
globale”
[17] - La formula è di Andre Gunder
Frank, sul quale abbiamo largamente letto, e per il quale rimando alla sintesi “Sviluppi
della teoria della dipendenza”
[18] - Per questa distinzione, che esula
dagli scopi di questo intervento, si veda la pluriennale teorizzazione di Paul
Baran, accompagnata da Paul Sweezy. In particolare, Paul Baran, “Il
surplus economico”, 1957; Paul Baran, Paul Sweezy, “Il
capitale monopolistico”, 1966.
[19] - Dopo l’esperienza del fallito
governo “gialloverde” e l’avvio del governo “bianco-giallo”, che rischia di
favorire un’ulteriore presa di consenso della destra in Italia, e dei toni
xenofobi e securitari in senso repressivo promossi dalla Lega per ragioni su
cui ci siano altrove espressi. Si
veda, ad esempio, “Decreto
immigrazione: contraddizioni tra base sociale base di massa”, ed il
successivo “Giochi
di specchi ed equivoci, il caso della lega”, con la sua appendice “Discussioni
sull’Italia”
[20] - Chiamo “partito del vincolo
esterno”, l’insieme proteiforme e capace di trovare rappresentanza politica
plurima, spesso sotto forme nascoste di quelle classi benestanti e mediamente
colte che percepiscono la globalizzazione come destino e progresso per la semplice ragione (non
necessariamente coscientizzata) che ne traggono cospicui benefici. In
particolare, dalla ‘moneta forte’ l’occasione di acquistare a basso prezzo beni
distintivi ed identitari che, nella loro provinciale esterofilia (ma
indispensabile per marcare la differenza dal volgo stanziale) gli sono
indispensabili; nella ‘stabilità monetaria’ garantita dalle politiche di
austerità, alle quali sono affezionate come il cucciolo alla cagna, la
salvaguardia dei loro capitali liquidi (anche se a discapito di quelli
immobili), nella “mobilità delle persone” in uscita la possibilità di sfuggire
alle conseguenze nazionali dei due fattori di cui prima, mandando i figli a studiare
in università ben finanziate e loro stessi, se del caso, a curarsi in posti
ancora idonei, e nella “mobilità del lavoro” in entrata quella di garantirsi
costante abbondanza di servitori e quindi il disciplinamento di quelli
autoctoni. Ma anche, in aggiunta, le organizzazioni ed i corpi intermedi
rappresentativi di quei ceti intermedi che possono essere mobilitati in difesa
dei “risparmi” (l’evidente e costante bersaglio della retorica presidenziale).
Ovvero del costo del mutuo (in Italia abbiamo il massimo grado di
capitalizzazione privata ma anche e soprattutto di case di proprietà), della
rata dell’auto, del piccolo debito industriale, … Il “Partito del vincolo
esterno” è, insomma, egemonizzato dalla testa, da chi ha concrete relazioni con
il grande capitale internazionale (finanziario e industriale), ma si estende,
ancorandosi a piccoli privilegi da difendere, agli incerti strati della piccola
borghesia italiana, banderuola al vento. Questo “Partito” è assolutamente e per
sua natura diagonale e trasversale. Seguendo la lezione di Mao, occorre con
un’analisi concreta della situazione concreta (Lenin), individuare quale sua
parte è ‘nemico principale’, da isolare, quale parte si può guadagnare perché
le forze progressiste siano sviluppate.
[21]
- Ovvero a quella
propensione, connaturata al capitalismo, di orientare l’intera attività dell’umanità
e dei suoi membri alla mera accumulazione di capitale per se stesso. Una
propensione che orienta tutte le risorse ad usi distorti ed inefficienti (se
rapportati al valore d’uso delle cose e all’aspirazione ad una vita piena,
pacifica, realmente umana).
[22] - Si veda, Paul Baran, “Saggi
marxisti”, Paul Baran, Paul Sweezy, “Il
capitale monopolistico”: “La gerarchia delle nazioni che costituiscono
il sistema capitalistico è caratterizzata da una complessa serie di rapporti di
sfruttamento. I paesi che stanno al vertice sfruttano in varia misura tutti gli
altri e allo stesso modo i paesi che stanno a un dato livello sfruttano quelli
che stanno più in basso, fino a quando giungiamo all’ultimo paese che non ha
nessuno da sfruttare. Nello stesso tempo, ogni paese che sta a un dato livello
si sforza di essere l’unico sfruttatore del maggior numero possibile di paesi
che stanno più in basso. Abbiamo quindi una rete di rapporti antagonistici che
pongono gli sfruttatori contro gli sfruttati e contro gli altri sfruttatori.
Trascurando le classificazioni giuridiche possiamo chiamare ‘metropoli’ i paesi
che stanno al vertice o vicino al vertice e ‘colonie’ quelli che stanno alla
base o vicino alla base. L’area di sfruttamento di una data metropoli, da cui i
rivali sono più o meno efficacemente esclusi, ne costituisce ‘l’impero’. Alcuni
paesi che si trovano nei gradini intermedi possono entrare a far parte di un
dato impero, portando alle volte con sé un proprio impero (ad esempio, il
Portogallo e l’impero portoghese come unità subordinate nell’ambito molto
maggiore dell’impero britannico); altri paesi intermedi possono riuscire a
mantenere una relativa indipendenza, come grosso modo fecero gli Stati uniti
durante i primi centociquant’anni della loro vita nazionale indipendente”
(p.152).
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