Il
libro
del 1966, “Il capitale monopolistico” è il punto culminante della
riflessione teorica di Paul Baran, che sfortunatamente muore improvvisamente a
soli 55 anni nel 1964, e di Paul Sweezy, che gli sopravviverà quasi quaranta
anni, continuandone il lavoro e portandolo avanti. Sweezy è stato fino al 2004,
l’anno della morte, un grande punto di riferimento degli studi marxisti,
soprattutto attraverso il suo lavoro con Leo Huberman nella rivista “Montly
Review”. Si trovò ad esempio a dire, in una intervista a Chistopher Phelps in
occasione dei suoi novanta anni, e quindi a metà 2000:
“Stiamo registrando
un nuovo esercizio di tendenza del capitale a trasferirsi non tanto verso la
produzione di beni e servizi utili, quanto verso la manipolazione del denaro,
della speculazione, naturalmente per produrre altro denaro senza
l'intermediazione del processo di produzione. Il che conduce direttamente ad
una crescita incredibile del debito, allo sviluppo sfrenato dei mercati
finanziari e delle bolle speculative. Stupefacenti i limiti raggiunti dal
fenomeno, che appare destinato a provocare una sua propria forma di crollo, ma
che sarà di tipo completamente nuovo rispetto alle crisi del passato”.
E,
ancora, e prima, nel 1989, anno cruciale, disse direttamente ad un perplesso
Achille Occhetto:
“L'eurocomunismo è
l'abbandono totale di tutte le intuizioni più importanti, di tutti i principi dell'analisi marxista del
capitalismo. Ecco perché il Pc italiano sta andando in pezzi. Non so neppure
se all'interno di questo partito c'è una corrente che aderisca ancora
all'analisi marxista, al di là di pochi individui che conosco bene. Il
compromesso storico avrebbe dovuto essere la grande innovazione italiana.
Compromesso con che cosa? Con la Democrazia Cristiana, con il capitalismo, e
poi vanno ancora più avanti, vogliono avere il compromesso con gli Stati Uniti,
con la nazione guida dell'imperialismo. Di questo si tratta, di un compromesso
storico con l'imperialismo”.
La
lettura del marxismo che i due studiosi americani, sulla linea aperta dalla
riflessione più avanzata della generazione precedente, compiono è
contemporaneamente rispettosa della tradizione metodologica marxiana e
innovativa. Sweezy, in particolare, è autore nel 1942 di una delle migliori
sintesi introduttive del maestro, nel suo “La
teoria dello sviluppo capitalistico”. Del marxismo (ma si sa, Marx si
disse non marxista) riconoscevano valore e limiti, in particolare svolgendo la
sua critica intorno alla ‘teoria del valore’ marxiana[1]. Tra questi ultimi bisogna
segnalare la difficoltà a comprendere le caratteristiche della società
“opulenta” e una sorta di residuo del tempo nel quale la teoria era stata
pensata. Ovvero il semplice fatto che “l’analisi marxista del capitalismo, in fondo,
riposa ancora sul presupposto di una economia concorrenziale”. Riguardo il
primo limite, la questione è che i marxisti ortodossi spesso non sono in grado
di dare un senso all’enorme capacità di generare sprechi pubblici e privati del
capitalismo monopolista, di individuarne, cioè, la funzione e di comprenderne
le conseguenze. Se c’è una missione che questo libro si pone è quella di
indagare questa funzione e individuarne le conseguenze.
Riguardo
alla dipendenza dall’economia concorrenziale è pur vero che Lenin dichiarò di
essere, il capitalismo, ormai in una “fase monopolistica”, ma secondo gli
autori non ne indagò completamente le conseguenze economiche e non sviluppò quindi
i cenni pur presenti ne “Il capitale”. In esso, infatti, il fenomeno dei
monopoli era presente, ma veniva considerato una sorta di residuo del passato e
non una tendenza del futuro. Il primo organico tentativo di fare i conti con
quella che ormai è chiaramente una tendenza e non un residuo si ha con Rudolf
Hilferding (incontrato peraltro da un giovane Baran in Germania).
Una
teoria che nasce tra il 1980 ed il 1880, del resto non può che avere dei limiti
dovuti al tempo nel quale è pensata. È normale ma bisogna andare oltre, e
l’intero lavoro dei due studiosi che firmano il libro è diretto in tal senso.
Infatti
scrivono:
“oggi l’unità economica
tipica del mondo capitalistico non è la piccola impresa che produce una
frazione trascurabile di un prodotto omogeneo per un mercato anonimo, ma
un’impresa di grandi dimensioni che produce una parte importante del prodotto
di un’industria, o addirittura di parecchie industrie, ed è in grado di
controllarne i prezzi, il volume della produzione nonché i tipi ed il volume
degli investimenti” (p.7)
È
quindi dalla creazione ed assorbimento del surplus che il capitalismo
monopolistico riceve la sua fondamentale unità.
Al
contempo è accaduta una seconda cosa, effetto della società opulenta come della
polarizzazione che porta con sé: “la lotta di classe si è completamente
internazionalizzata”, e quindi “l’iniziativa rivoluzionaria contro il
capitalismo, che all’epoca di Marx apparteneva al proletariato dei paesi
avanzati, è passata alle masse diseredate dei paesi sottosviluppati che stanno
lottando per liberarsi dal dominio e dallo sfruttamento imperialistico”. Entro
i paesi sviluppati, invece, è il problema razziale (ancora un problema di
liberazione delle periferie dal centro dominante) che lega la lotta di classe
internazionale con l’equilibrio interno delle forze sociali negli Stati Uniti.
Questo
è lo schema generale.
Il
principale descrittore teorico è, invece, come abbiamo visto[2] la nozione di “surplus economico”,
che viene presentato in modo semplificato come “la differenza tra ciò che la
società produce e i costi necessari per produrla”; una quantità che assume
varie forme e travestimenti, e non è immediatamente ricavabile dalle normali
rilevazioni e statistiche, ma richiede un confronto con il modello di società
in atto ed in potenza. Gli autori si discostano in questo importante punto dal
lessico marxista, richiamandone uno antecedente, perché non fanno uso della
nozione di “plusvalore”, in quanto viene di solito automaticamente e
senza adeguata riflessione[3] identificata con la somma
di profitto, l’interesse e la rendita. Il fatto è che subentrano ormai fattori
che erano stati sottovalutati e nella fase del welfare state, della
terziarizzazione e della cetomedizzazione del capitalismo monopolistico non
sono più affatto marginali. Ciò che è accaduto è che, nelle condizioni presenti
al libro, ovvero nei primi anni sessanta negli Usa, il “surplus” è stimabile in
circa il 56% del Prodotto nazionale lordo, mentre al contempo quella parte del
surplus che corrisponde al “plusvalore” (ovvero il profitto + l’interesse + la
rendita derivante dalla proprietà) è diminuita, portandosi in una ventina di
anni dal 57 al 31 %. La compresenza di una riduzione tendenziale del saggio di
profitto (che accelererà ancora fino agli anni ottanta) e di una tendenza
irresistibile alla crescita di ceti “improduttivi”, di duplicazioni e “sprechi”,
di investimenti non finalizzati direttamente alla produzione, è il fenomeno sul
quale si concentra l’attenzione degli autori.
L’elemento
di maggiore novità in questo periodo (tra poco prima della grande depressione
degli anni trenta e gli anni sessanta), è, secondo la ricostruzione di Baran e
Sweezy, l’enorme affermazione delle “società per azioni giganti”, ovvero
monopolistiche. Le loro caratteristiche essenziali sono:
1- Il
controllo in mano alla direzione,
2- Che
si esprime come gruppo autoperpetuantesi e non controllato dagli azionisti,
3- Il
cui obiettivo è la piena indipendenza finanziaria della azienda stessa.
Si
indeboliscono in tal modo i rapporti esterni e le grandi aziende monopolistiche
“sono determinate non dai legami con dei centri di controllo esterno, ma da
calcoli razionali delle direzioni interne” (p.19). Facendo riferimento alla
discussione tra Simon e Earley, gli autori concludono che “l’economia delle
grandi società per azioni è dominata dalla logica del profitto più, e non meno,
di quanto lo sia mai stata l’economia dei piccoli imprenditori”. Le direzioni
societarie sono gestite infatti da funzionari il cui obiettivo è, in sostanza,
far salire l’azienda nelle gerarchie e fare carriera in esse. Due obiettivi
sinergici, di fatto indistinguibili.
In
un certo senso è una specie di gara, uno “sport”.
“Gli affari sono un
sistema ordinato che seleziona e premia secondo criteri ben precisi. Il
principio informatore è di salire più in alto possibile all’interno di una
società per azioni che sia il più in alto possibile nella gerarchia delle
società. Di qui l’esigenza di destinare i profitti una volta conseguiti ad
aumentare la forza finanziaria e ad accelerare lo sviluppo” (p.37).
Sono
queste cose che diventano i fini e i valori soggettivi del mondo
economico, perché sono le esigenze obiettive del sistema e si impongono
su tutti e da tutto. La natura del sistema determina, insomma, per gli autori
la psicologia dei suoi componenti “e non viceversa”. In conseguenza, malgrado
l’opinione di alcuni, l’acquisizione e l’accumulazione di capitali occupa una
posizione dominante come non ha mai avuto nel passato. L’evoluzione successiva,
con la cosiddetta “finanziarizzazione” finirà per dargli ragione.
Ci
sono però alcune differenze importanti, rispetto alla fase precedente del
capitalismo: le società per azioni hanno un orizzonte temporale più esteso e
compiono i calcoli in modo più razionale. Esiste, dunque, una tendenza all’incremento
della produttività e alla creazione di maggiore ricchezza.
Ciò
determina alcuni modi di agire caratteristici: il sistematico tentativo di
evitare l’assunzione di rischi e l’atteggiamento “vivi e lascia vivere” nei
riguardi delle altre società di pari rango. Si tratta di un mutuo rispetto che
si estende alla “comunità” delle grandi imprese industriali che è
“numericamente esigua – comprendendo si e no diecimila persone in tutto il
paese – e i suoi membri sono legati da una complessa rete di rapporti sociali
oltre che economici”. Queste dinamiche generano una sorta di etica di gruppo.
Insomma,
il sistema delle società monopoliste ha tratti aristocratici.
Il
sistema economico si sta dunque dualizzando, si divide in
poche imprese giganti, di tipo monopolista e multinazionale, e una grande
quantità di imprese minori che seguono. Perché il motore primo sono le grandi.
Le imprese minori si limitano a reagire, ma non hanno una iniziativa propria e
sono come parte dell’ambiente delle maggiori.
La
cosa si può dire in modo semplice:
“La differenza
fondamentale tra i sue sistemi è ben nota e si può riassumere nella
proposizione che nel capitalismo concorrenziale l’impresa individuale ‘riceve i
prezzi’, mentre nel capitalismo monopolistico la grande società per azioni ‘fa
i prezzi’” (p.46)
Ma,
bisogna capirlo bene: “quando diciamo che le società per azioni giganti ‘fanno
i prezzi’ intendiamo che esse possono scegliere e in effetti scelgono i prezzi
da fissare per i loro prodotti. Naturalmente vi sono dei limiti alla loro
libertà di scelta: al di sopra e al di sotto di certi prezzi sarebbe
preferibile interrompere completamente la produzione. Ma normalmente la gamma
di scelta è ampia”. La teoria del monopolio si forma intorno a questo fatto,
che è determinato dalla collusione occulta, che si realizza a livello di
ecosistema, delle direzioni e quindi di forme di oligopolio spontaneamente
create.
La
concorrenza naturalmente esiste, ma si muove oltre i prezzi; per lo più
si rifugia nell’arena della “promozione delle vendite”. Infatti, se la spinta
alla riduzione dei costi (e quindi alla riduzione dei salari e della domanda in
ultima analisi), si scaricasse tutta nella riduzione dei prezzi potrebbe
essere considerata complessivamente produttiva[4]; ma poiché questa avviene
solo a causa della spinta all’appropriazione dei profitti e la struttura
monopolistica dei mercati consente proprio alle società di prendersi la parte
più grossa dei frutti della crescita della produttività. Di fatto nel
capitalismo monopolistico “i costi decrescenti implicano margini di profitto
continuamente crescenti”, e, da ultimo, i margini che crescono continuamente
“comportano a loro volta profitti globali che aumentano non solo in cifra
assoluta ma anche come quota del prodotto nazionale”.
Questa
è la “legge della crescita del surplus” che, nelle intenzioni degli
autori, aggiorna, in funzione del cambiamento intervenuto, la “legge della
caduta tendenziale del saggio di profitto”, la quale presumeva un’economia
concorrenziale[5].
Contro
la “legge dell’aumento tendenziale del surplus” si potrebbe usare
l’argomento schumpeteriano (di cui, peraltro, Sweezy era assistente) della
“bufera perenne di distruzione creativa”. Si tratta, precisamente del tipo di
argomento che, nel garantire il suo sostegno al capitalismo monopolistico, mise
a punto la “Scuola di Chicago”, ovvero quelli che chiamano “gli ideologi
del capitalismo monopolistico”: sostiene che nel lungo periodo la concorrenza
dei prezzi sarebbe marginale. La concorrenza della nuova merce, la nuova
tecnica, sarebbe più efficace della competizione di prezzo quanto “un
bombardamento supera uno scasso”. L’obiezione di Sweezy a questa posizione è
che in teoria potrebbe, ma non funziona più così da quando le società giganti
hanno consolidato il proprio ecosistema: “la schumpeteriana bufera perenne di
distruzione creativa è diventata un venticello occasionale che per le grandi
società non è più minaccioso comportamento di mutuo rispetto da esse seguito”.
Anche quando le innovazioni “distruttive” sono prodotte da aziende minori,
“competivive”, infatti, sono nella pratica assorbite quasi subito dalle imprese
giganti. Molta della “new economy”, o della “economia delle startup”, che
ovviamente non potevano neppure immaginare, segue questa ‘regola dello
strapotere’[6].
L’altra
obiezione a questa tesi viene avanzata da Kaldor:
“gli economisti
marxisti affermerebbero probabilmente che con lo sviluppo del capitalismo ci
sarebbe da aspettarsi l’aumento costante non solo della produttività del
lavoro, ma anche del grado di concentrazione della produzione. Ciò
determinerebbe un continuo indebolimento delle forze della concorrenza, in
conseguenza del quale la quota del profitto aumenterebbe oltre il punto in cui
esso è in grado di rispondere alle esigenze dell’investimento e al consumo dei
capitalisti. Secondo questa tesi perciò, .. il sistema cesserebbe di essere in
grado di generare abbastanza potere di acquisto per mantenere in funzione il
meccanismo della crescita”
Ottima
sintesi del punto di Baran e Sweezy, in effetti. Alla quale però questi obiettano:
“si può rispondere
semplicemente che, almeno finora, ciò non è ancora avvenuto. Anche se la
crescente concentrazione della produzione nelle mani di imprese giganti si è
svolta quasi come Marx l’ha prevista, essa non è stata accompagnata da un
corrispondente aumento della quota dei profitti”
Baran
e Sweezy rispondono in sostanza che ci deve essere qualcosa che non
va nelle statistiche (e quindi che i dati sono nascosti, motivo per cui
sviluppano la teoria del “surplus”). In altre parole che l’identificazione di
Kaldor dei profitti statisticamente rilevanti con la cosiddetta “quota di
profitto” è il problema: quel che è invece rilevante è la differenza tra la
produzione complessiva e i costi socialmente necessari per produrla,
ovvero il surplus. E, dal lato del profitto, conta la crescita della
sovracapacità non messa all’opera e della disoccupazione; questi sono in certo
senso quei profitti crescenti (potenziali) che non si ritrovano. L’aumento dei
profitti, ovvero del “surplus”, è infatti “tendenziale”. Questa tendenza si
mette in essere se vengono messe al lavoro le potenzialità. Con altri termini:
è il problema di realizzare il plusvalore nel quale si nasconde il surplus
potenziale. Entrambi crescenti.
Da
ultimo ci sarebbe la possibilità teorica di trattenere ai lavoratori il
crescente spazio che si apre tra gli incrementi di efficienza e produttività, e
quindi i costi decrescenti, e i prezzi monopolisti che tendono a disgiungersi
da questi. I sindacati potrebbero strapparli, come in effetti tentarono di fare
nel corso degli anni sessanta e settanta. A questa dinamica, però, il
capitalismo monopolista può rispondere in modo molto semplice: aumentando i
prezzi, che controlla. Dunque attivando una spirale salario-prezzo nel quale,
essendo guidata dall’alto, il lavoro rischierebbe di restare sempre più
indietro. In parte anche questo è ciò che avvenne.
Se
nell’attuale sistema economico monopolistico, insomma, la “legge dell’aumento
tendenziale del surplus” prevale sulla “legge di caduta tendenziale del saggio
di profitto”, che invece sarebbe dominante in quello concorrenziale, essa può
essere formulata come segue: “il surplus tende ad aumentare sia in cifra
assoluta che relativa via via che il sistema si sviluppa” (p.62).
Si
pone a questo punto il problema, almeno per cercare di contenere nella misura
del possibile le sempre incipienti “crisi da realizzo” o comunque lo stato di
stagnazione endemico e tendenziale, di assorbire il surplus potenziale. Il modo
attraverso il quale questo surplus, che può rendere, se non realizzato
instabile la società e politicamente fragile, è assorbito e utilizzato:
1- Consumi
privati,
2- investimenti
privati,
3- sprechi.
Chiaramente
vige la regola che se cresce il consumo allora diminuisce la quota disponibile
per gli investimenti; ma questa, la quota investimenti, è senza limiti? Ovvero,
il sistema tende a favorire sbocchi sufficienti per gli investimenti?
L’inseguimento
potenziale tra aumento del reddito complessivo e aumento della quota di
investimento è esplosivo. E determina necessariamente, presto o tardi, l’arrivo
al limite della opportunità di investimento, e quindi a sortire l’effetto di
scoraggiare la produzione. Ad un certo punto, cioè, “la determinazione
dell’investimento va ad un ‘punto di rottura’ e fa diminuire prezzi e redditi
per effetto della disoccupazione”.
I
meccanismi di investimento endogeno (tesi avanzata da Steindl) “tendono a
generale un’offerta continuamente crescente di surplus in attesa di
investimento, mentre per la natura del caso non possono determinare un
corrispondente ampliamento degli sbocchi di investimento”. La conseguenza che
ne viene tratta, dalla logica interna del discorso, è di grande importanza:
“di
conseguenza, se fossero disponibili soltanto gli sbocchi endogeni, il
capitalismo monopolistico boccheggerebbe in uno stato di permanente depressione”.
Il
punto di equilibrio reale il sistema lo raggiunge, infatti, con gli
investimenti “esogeni”. Ovvero “quell’investimento che ha luogo
indipendentemente dai fattori di domanda creati dai normali meccanismi del
sistema” (p.76).
Sono
in particolare tre:
1- la
popolazione in aumento,
2- i
nuovi metodi di produzione,
3- l’investimento
all’estero.
La
prima è una variabile dipendente e non indipendente (è la
crescita che per diverse vie induce l’aumento della popolazione, e non il
contrario).
La
seconda è connessa con le innovazioni tecnologiche, ma anche
queste sono rallentate tendenzialmente dal capitalismo monopolista, che potendo
controllare i prezzi e neutralizzare la distruzione competitiva tende sempre a
sovrasfruttare gli investimenti già fatti, e quindi rallenta la sostituzione
tecnologica.
Il
terzo, l’investimento estero, “si deve considerare un
metodo per drenare il surplus dalle aree sottosviluppate, non un canale per farvelo
affluire” e per questo si tratta di un metodo che si nutre della divisione del
lavoro internazionale.
Come
mostra bene l’esempio della Gran Bretagna nella sua fase tardoimperiale, quando
drenava rendite da tutto il mondo come remunerazione del precedente flusso di
investimenti all’estero, i flussi di capitale ed i loro rientri “lungi dal
costituire uno sbocco del surplus creato all’interno, è un mezzo efficacissimo
per trasferire nel paese che investe il surplus generato all’estero. In queste
circostanze è naturalmente evidente che l’investimento estero aggrava il
problema dell’assorbimento del surplus piuttosto che contribuire a risolverlo”
(p.92).
Insomma,
“il capitalismo monopolistico è un sistema intrinsecamente contraddittorio”, ha
la tendenza a creare surplus ma non gli sbocchi di consumo e di investimento
necessari per “realizzarlo”. Quindi questo resta per lo più “potenziale” e
tendenzialmente crescente, ed il suo stato normale è il ristagno (con piccoli
cicli). Ne consegue una cronica sottoutilizzazione delle risorse umane e
materiali.
Un
altro metodo di assorbimento del surplus potenziale, e quindi utile a sfuggire
alle sabbie mobili della depressione cronica, è la promozione delle vendite.
Quindi lo sviluppo dell’intera “economia del benessere” nella quale vengono
coltivati ed alimentati i “ceti divoratori di surplus” (p.108) e condotta una
guerra incessante contro il risparmio ed a favore del consumo.
Naturalmente
una funzione analoga la esplica la spesa statale. Si tratta della dimensione
potenzialmente più importante, ma severamente limitata dalla natura stessa
della società capitalista, nella quale la condizione normale è la produzione a
capacità ridotta. Si può anche dire così: “il sistema semplicemente non genera
una domanda ‘effettiva’ (per adoperare il termine keynesiano) sufficiente ad
assicurare la piena utilizzazione del lavoro e degli impianti produttivi. Messe
in opera queste risorse inutilizzate possono produrre non soltanto mezzi di
sussistenza necessari per i produttori, ma anche quantità addizionali di
surplus”.
La
spesa civile dello Stato ha però numerosi problemi interni, per lo più
determinati dalla condizione delle forze attive nel capitalismo monopolistico,
e tende a creare una spinta costante al suo aumento, anche se al momento non è
elevatissima negli Stati Uniti (e, sottolineano, “in una società socialista
razionalmente ordinata, con un potenziale produttivo paragonabile a quello
degli Stati Uniti), la quota di surplus assorbito dallo stato per la
soddisfazione dei bisogni collettivi e personali sarebbe certamente maggiore e
non minore del volume e della quota assorbita oggi dall’amministrazione
pubblica” p.125. D’altra parte, l’esperienza del ciclo della depressione e
ripresa degli anni trenta mostra che anche in condizioni di esazione fiscale
crescente le imprese non ridussero il volume dei profitti (in quanto fu
compensato e sopravanzato dall’espansione economica), mentre furono duramente
colpite dalla depressione stessa: “ciò che pregiudica i profitti delle società
al netto delle imposte, in assoluto e relativamente al resto dell’economia, non
è la forte imposizione né tanto meno la rilevante spesa pubblica, ma la
depressione. Il prelievo da parte dello stato sotto forma di imposte di aggiunge,
non si toglie al surplus privato. Inoltre, poiché la spesa pubblica su larga
scala consente all’economia di funzionare a un livello molto più prossimo alla
piena capacità, l’effetto netto sul volume del surplus privato è ampio e
positivo”. Questa lezione è stata appresa (nel 1960, ma sarà rapidamente
dimenticata).
Ma
quale spesa pubblica è invece accettata senza problemi dagli imprenditori? Per
lo più la spesa all’estero, in particolare militare. La spesa civile ha dei
limiti di espansione che sono interamente provocati dalla paura del capitale
privato di avere dei concorrenti molto temibili. Il capitale monopolistico
avrebbe in tal caso un concorrente che non può battere e che farebbe venire
meno la sua caratteristica principale. Alcuni esempi tratti dal New Deal[7] sono la Tennesse Valley
Authority (un successo, ma proprio per questo un rischio enorme) e l’edilizia
pubblica (un fallimento), o il sistema scolastico, la cui reale funzione è di
consolidare la struttura di classe.
Alla
fine la soluzione fu trovata nella guerra e poi nella guerra fredda.
Dunque
la soluzione del dilemma dell’assorbimento del surplus è da ricercare
essenzialmente nella caratteristica principale del capitalismo di essere, da
sempre, un sistema internazionale e gerarchico, costituito da uno o più
metropoli e da una catena di periferie sfruttate (p.151).
“La gerarchia delle
nazioni che costituiscono il sistema capitalistico è caratterizzata da una
complessa serie di rapporti di sfruttamento. I paesi che stanno al vertice
sfruttano in varia misura tutti gli altri e allo stesso modo i paesi che stanno
a un dato livello sfruttano quelli che stanno più in basso, fino a quando
giungiamo all’ultimo paese che non ha nessuno da sfruttare. Nello stesso tempo,
ogni paese che sta a un dato livello si sforza di essere l’unico sfruttatore
del maggior numero possibile di paesi che stanno più in basso. Abbiamo quindi
una rete di rapporti antagonistici che pongono gli sfruttatori contro gli
sfruttati e contro gli altri sfruttatori. Trascurando le classificazioni
giuridiche possiamo chiamare ‘metropoli’ i paesi che stanno al vertice o vicino
al vertice e ‘colonie’ quelli che stanno alla base o vicino alla base. L’area
di sfruttamento di una data metropoli, da cui i rivali sono più o meno
efficacemente esclusi, ne costituisce ‘l’impero’. Alcuni paesi che si trovano
nei gradini intermedi possono entrare a far parte di un dato impero, portando
alle volte con sé un proprio impero (ad esempio, il Portogallo e l’impero
portoghese come unità subordinate nell’ambito molto maggiore dell’impero
britannico); altri paesi intermedi possono riuscire a mantenere una relativa
indipendenza, come grosso modo fecero gli Stati uniti durante i primi
centociquant’anni della loro vita nazionale indipendente” (p.152).
Il
capitalismo genera ovunque da un lato ricchezza e dall’altro miseria.
Nella
ricostruzione a grandi linee che segue del ottocento e novecento, visti dal
punto di vista delle lotte egemoniche per il potere, viene illustrata tra le
altre cose la funzione della ricostruzione post bellica in Europa, in chiave
anticomunista: “ricostruire e rafforzare nel modo più rapido possibile i centri
tradizionali del potere capitalistico ed integrarli in un’alleanza militare
dominata dagli Stati Uniti”, attraverso il Piano Marshall del 1947 e con il
Patto atlantico del 1949. Quindi, sotto l’ombrello ideologico della guerra
fredda furono implementate una rete di basi militari e di interventi del
capitale americano all’estero che spinsero il consolidamento (sull’esempio
della Standard Oil) delle società multinazionali. Accadde in pratica che
“industria dopo industria, le società statunitensi trovavano che i loro ricavi
esteri aumentavano e che i profitti sull’investimento all’estero erano spesso
molto più alti che negli Stati uniti. Quando i ricavi all’estero cominciarono
ad aumentare, i margini di profitto delle operazioni interne cominciarono a
ridursi … questo è l’insieme di fattori che imposte lo sviluppo della società
per azioni miltinazionale” (p.166).
L’investimento
all’estero delle società americane passì dai 7 miliardi del 1946 a 40 miliardi
nel 1963, aumentano di cinque volte in termini reali.
L’ampia
ricostruzione della storia del capitalismo americano, proposta nella parte
centrale del libro, e che qui ovviamente non si può riprodurre, non trascura di
mettere nella dovuta evidenza il rapporto tra il capitalismo monopolistico e i
rapporti di sfruttamento e segregazione razziali, sia nel contesto del
ottocento, fino alla guerra civile, sia in seguito. La guerra civile[8], in particolare, “non fu
combattuta dalla classe dominante del nord per liberare gli schiavi, come molti
erroneamente credono, ma per contrastare le ambizioni dell’oligarchia del sud
proprietaria di schiavi che voleva sottrarsi al rapporto sostanzialmente
coloniale che la legava con il capitale del nord”. Sarà l’enorme espansione
della domanda di lavoro industriale che mosse la situazione.
“i gradini più bassi
della scala economica erano occupati da successive ondate di emigranti
provenienti prevalentemente dall’Europa, ma tra i quali non mancavano quelli
provenienti dall’Asia, dal Messico e dal Canada. Via via che i nuovi arrivati
venivano a prendere il loro posto in fondo alla scala, i figli e i nipoti degli
emigranti ‘più anziani’ salivano la scala per soddisfare il bisogno di
lavoratori semispecializzati e specializzati e di impiegati, mentre il sistema
della pubblica istruzione assolveva la funzione decisiva di prepararli a queste
occupazioni socialmente più qualificate e più remunerative. Mette conto di
rilevare che il modello inferiorità-pregiudizio-discriminazione operò anche nel
caso dei nuovi emigranti. La reazione dei lavoratori locali fu quasi sempre
ostile e talvolta estremamente cattiva. Anne Braden, una valorosa combattente
per i diritti dei negri dei nostri tempi, ha descritto quello che nella sua
città natale è diventato noto con il nome di ‘lunedì di sangue’: ‘a
luisville, nel Kentucy, il lunedì 6 agosto 1855, una folla di rivoltosi entrò
nei quartieri cittadini abitati da immigrati tedeschi e irlandesi, incendiò
botteghe e case di abitazione e quando i loro occupanti cercarono di fuggire
aprirono il fuoco e li uccisero. Si sparò anche alle donne che fuggivano con i
bambini in braccio dalle case incendiate. I rivoltosi erano incitati dalle
grida delle mogli e figlie contegnose che sollecitavano a ‘uccidere ogni
tedesco e irlandese con i loro discendenti’.”
Chiaramente
questo atteggiamento si rovesciava, come una scala, man mano sugli ultimi
venuti, di modo che i penultimi potessero, ad ogni conto, sentire almeno di
essergli superiori.
Dopo
la guerra la rivoluzione agricola e la forte natalità nelle campagne interne
misero a disposizione delle città industriali flussi continui e quindi
l’immigrazione esterna non serviva più. Come scrivono “in tali circostanze era
del tutto naturale ricorrere alle limitazioni legali dell’immigrazione.
L’opposizione all’immigrazione aveva cominciato a farsi sentire fin dal 1880,
ma prima della guerra non era riuscita mai a vincere i potenti gruppi
capitalistici interessati ad avere abbondante disponibilità di lavoro a buon
mercato. Ora che tale disponibilità era assicurata da fonti interne, gli stessi
capitalisti si unirono all’opposizione, soprattutto per timore che gli operai
immigrati potessero infettare gli Stati Uniti con il virus rivoluzionario, che,
dopo aver abbattuto il sistema capitalistico in Russia, sembrava minacciare il
resto dell’Europa” (p.216). Furono lasciati entrare, dal 1924, solo lavoratori
qualificati e da aree non pericolose.
I
flussi interni, che avevano sostituito quelli esterni, implicarono
l’urbanizzazione dei negri; dal 1870 al 1950 l’emigrazione dagli stati del sud
si moltiplicò da 47.000 a 1.170.000 ogni decennio. Anche più in generale, il
rapporto tra la popolazione delle campagne e delle città si rovesciò nell’arco
di un cinquantennio (da ¾ nelle campagne a ¾ nelle città).
Attraverso
questi imponenti flussi i negri entrarono nella vita centrale del paese, nelle
grandi città e nel settore produttivo della nazione dal gradino più basso e la
maggior parte vi restò.
Ci
restarono perché diffusi interessi privati si giovano dell’esistenza di un
sottoproletariato non integrato, e nel senso più diretto perché ne possono
usufruire per servizi, lavoretti occasionali, stagionali, … ma anche gli
imprenditori deviano l’attenzione della forza lavoro sfruttata, mettendola
l’una contro l’altra. Le piccole imprese marginali sopravvivono solo con un
lavoro debolissimo da sfruttare.
Tutti
questi gruppi nel loro insieme sono la grande maggioranza della popolazione
bianca che è impegnata in un complesso gioco di status, nella società altamente
articolata e complessa dei ceti medi. La paura e l’ambizione (di scendere e
salire di status) muove allora un profondo desiderio, in ogni gruppo sociale
“di compensare il senso invidia e di inferiorità che sente verso i gruppi
superiori con il senso di superiorità e di disprezzo verso i gruppi inferiori” (p.224).
Il “gruppo-paria” in un certo senso, svolge una funzione essenziale:
stabilizza l’intera piramide sociale, soprattutto se questo interiorizza la
presunta inferiorità e spontaneamente “sta al suo posto”. La cosa è rilevante:
“la soddisfazione che i
bianchi ricavano dal sentimento di superiorità socio-economica che provano nei
confronti dei negri trova la sua contropartita nella paura, nella rabbia e
persino nel panico che essi provano davanti alla prospettiva che i negri possano
conseguire l’eguaglianza. Poiché lo status sociale è una questione relativa, i
bianchi sono inevitabilmente portati a interpretare il movimento di elevazione
dei negri come un movimento che declassa loro stessi. Questo insieme di
atteggiamenti, prodotto da stratificazioni e pregiudizi sociali della società
del capitalismo monopolistico, contribuisce a spiegare perché i bianchi non
soltanto si rifiutano di aiutare i negri ad elevarsi socialmente, ma si
oppongono decisamente ai tentativi di elevazione fatti dai negri”.
Il
terzo ordine di fattori è la scomparsa di molti lavori a bassissima
qualificazione a causa della evoluzione tecnologica, in particolare dopo il
1950.
In
definitiva tutto ciò fa parte dell’essenza del capitalismo, un sistema che si
impernia sui due fratelli siamesi della più grande opulenza e della massima
miseria. Nel quale la compravendita di beni e forza lavoro che si svolge sul
mercato determina rapporti tra gli uomini dominati dalla logica dello scambio,
del “qui pro quo”. Una logica che non stabilisce il valore delle cose ed i
prezzi delle merci in base all’uso e ai costi di produzione, ovvero al lavoro
che vi è, il contenuto sociale in essi, ma solo in base al criterio del massimo
profitto. Questo, lo scambio, diventa la formula per mantenere la scarsità nel
mezzo dell’abbondanza. Perché sempre più risorse umane e materiali restino
inutilizzate solo perché nel mercato in quel momento non c’è un ‘quid’ che si
possa scambiare con il ‘quo’ della produzione potenziale.
Peraltro,
se la divisione del lavoro, come voleva Adam Smith, è la chiave della ricchezza
delle nazioni, essa ha anche un lato oscuro, perché “si impadronisce oltre che
della sfera economica, di ogni altra sfera della società, ponendo dappertutto
le basi di quel perfezionamento delle specializzazioni e di un frazionamento
dell’uomo che fece prorompere a suo tempo Adam Ferguson, il maestro di Adam
Smith nell’esclamazione: ‘noi facciamo una nazione di iloti, e non ci sono
uomini liberi fra di noi’”[9].
Owen,
Fourier, Marx furono colpiti da questo lato alienante della divisione del
lavoro, l’ultimo immaginò che si potesse porre rimedio e creare un uomo
completo “in avanti”, attraverso un grado più alto della produttività del
lavoro[10] e solo “nella fase
superiore della società comunista”. Baran e Sweezy ritengono che questa “fu una
illusione”, dal punto di vista dell’aumento della produttività del lavoro il
capitalismo ha dimostrato di avere enormi capacità, di gran lunga superiori a
quelle immaginate da Marx. Ma nulla di quel che prevedeva si è realizzato.
L’intera
società è investita da una profonda crisi esistenziale: “un pesante,
soffocante, senso di vuoto e vanità dell’esistenza permea il clima
intellettuale e morale del paese. Il malessere priva il lavoro di scopo e significato;
trasforma il tempo libero in ozio debilitante e privo di gioia; pregiudica
totalmente il sistema scolastico e un sano sviluppo dei giovani; trasforma la
religione e la chiesa in tramiti commercializzati di ‘falsa comunità’ e
distrugge il fondamento stesso della società borghese, la famiglia”.
Ciò
malgrado, non convince più la tradizionale posizione ortodossa marxiana,
secondo la quale “il proletariato industriale deve alla fine fare la
rivoluzione contro i capitalisti suoi oppressori”. Uno dei motivi è
quantitativo: gli operai dell’industria sono una piccola minoranza (ed
eravamo nel 1966, poi sono enormemente diminuiti, almeno in occidente). L’altro
è che “i suoi nuclei organizzativi nelle industrie di base sono in larga misura
stati integrati nel sistema come consumatori e sono diventati membri
ideologicamente condizionati dalla società”. La verità è che “essi non sono più
le vittime preferite del sistema”.
Oggi:
“il sistema ha le sue
vittime preferite. Queste sono i disoccupati e gli incollocabili, i lavoratori
agricoli emigrati, gli abitanti dei ghetti delle grandi città, gli studenti che
hanno finito le scuole, gli anziani che vivono con misere pensioni di
anzianità, in una parola gli esclusi, quelli che per il loro limitato potere
d’acquisto sono incapaci di fruire delle soddisfazioni del consumo, quali che
esse siano. Ma questi gruppi, malgrado il loro numero impressionante, sono
troppo eterogenei, troppo sparpagliati e frazionati per costituire una forza
coerente nella società. E l’oligarchia, mediante sussidi ed elargizioni, sa
come tenerli divisi e impedire che diventino un sottoproletariato di miserabili
affamati” (p.304).
Sotto
questo profilo le prospettive sono esigue. La diagnosi è impietosa.
Ma
Il
capitalismo monopolistico avanzato non è isolato: resta connesso in catene
di sfruttamento con il resto del mondo che sono organicamente necessarie per
non farlo precipitare nella stagnazione permanente.
E’
da questo punto che la scuola del “Montly Review” parte per cercare di
risolvere i “teoremi di impossibilità” che aveva essa stessa formulato:
se il capitalismo nella forma monopolista tende a soggiacere alla “legge
della crescita tendenziale del surplus”, e quindi ad una costante
moltiplicazione degli sprechi e dei ceti intermedi ed improduttivi, finendo per
essere soffocato dalla sua stessa avidità, e se in questa capacità di creare e
distribuire tra pochi ricchezza riposa la sua stabilità, al contempo esso per
garantirsi l’equilibrio e la sopravvivenza necessita di estendere lo
sfruttamento e l’estrazione di surplus potenziale alle periferie dell’impero. Questa
forma di capitalismo, diretta e controllata dalle grandi imprese per azioni
monopoliste e multinazionali, è quindi strutturalmente imperiale e
organizzato di necessità per grandi catene di sfruttamento internazionali.
Catene che determinano l’estrazione di valore e la contrapposizione tra la
massima opulenza e la massima disperazione, entro e fuori le cittadelle assediate
delle metropoli occidentali.
Però
è qui che nasce la speranza.
Se
al centro è “esile” alla “periferia” interconnessa alle catene di sfruttamento
ed estrazione di surplus potenziale rinasce. E’ qui che diventa ancora
possibile mobilitare le forze necessarie per fuoriuscire da un sistema che vive
sull’irrazionale moltiplicazione degli sprechi, corrompendo e svuotando il
senso della vita. E’ qui che si può lottare.
Questa
lotta non dovrà avvenire, dove l’attendeva Marx, nel luogo di massimo sviluppo
delle forze produttive, ma nei luoghi in cui lo sviluppo (mondiale) determina
il sottosviluppo (locale). I luoghi in cui si può dare, come concludono, “la
suprema forma di resistenza”, ovvero “la guerra rivoluzionaria per uscire dal
sistema capitalistico mondiale e avviare la ricostruzione economica e sociale
su basi socialiste”. Su “basi socialiste”, ovvero non orientate alla
massima competizione per il profitto, per un mondo che, gradualmente
liberandosi, non sia più diretto alla barbarie e finalmente in pace.
Quindi
lotta da condurre in ogni luogo, ma diretta a sviluppare
una nuova relazione fondamentale tra i popoli e le nazioni; una relazione
fondata sul mutuo appoggio e sostegno e non sulla licenza, sotto protezione militare,
di sfruttare senza alcuna remora ogni posizione dominante per estrarre valore.
Una
lotta “che non può concludersi fino a quando non ha abbracciato il mondo intero”
(p.306), ma che andrà avviata, resistendo, nelle periferie.
[1] - Come si vede nel testo, e come è
ripreso, peraltro in questo, per Sweezy l'origine delle crisi nel capitalismo avrebbe
a che fare con la “tendenza a espandere la capacità di produrre beni di consumo
più rapidamente della domanda di beni di consumo”, dal che conseguirebbe
un'inevitabile propensione alla stagnazione dell'economia capitalistica.
[2] - In particolare nella
ricostruzione delle posizioni precedenti di Paul Baran, si veda “Il
surplus economico”, 1957, e il recente “Saggi
marxisti”.
[3] - Come giustamente ricordano in
una nota Marx nelle “Teorie sul plusvalore” inserisce nel plusvalore
elementi come le entrate dello Stato, della chiesa o le spese per trasformare
le merci in moneta ed anche i lavoratori “improduttivi”, ma li considerava
secondari e quantitativamente marginali, lo sviluppo del capitalismo, con la
pronunciata terziarizzazione e l’enorme crescita della macchina statuale, ha
reso non più sostenibile questa sottovalutazione.
[4] - Si avrebbe un equilibrio tra la
discesa dei salari e dei prezzi.
[5] - Non è una critica assoluta, come
specificano gli autori la legge sulla caduta del profitto prevale in certe
circostanze e quella sull’aumento del surplus in altre. Anzi si può dire che
vigono entrambe nelle condizioni specifiche (che possono essere compresenti).
[6] - Un esempio è lo strapotere di
Amazon, si veda “Amazon
e il suo monopolio”, che estremizza il modello anni novanta di Walmart, che
è uno degli agenti più rilevanti della ondata di delocalizzazioni, estensione
della rete logistica, organizzazione a rete della grande distribuzione, degli
anni novanta, estendendo la logica monopolista fuori del settore industriale,
al commercio al dettaglio. La tecnica qui è della unione di un monopsonio con
un monopolio per annichilire ogni possibile concorrenza.
[7] - Si veda Kiran Patel, “Il
New Deal”
[9] -Karl Marx, “Il Capitale”,
vol I, cap.12
[10] - Si veda questo commento della “Critica
al Programma di Gotha”, “Utopie.
Milanovic e il superamento del denaro”
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