Edito
da Einaudi nel 1968 il libro “La
controrivoluzione globale” include una raccolta di articoli dalle annate
1963-68 di Monthly Review, tutti firmati da Leo Huberman e da Paul Sweezy,
intorno ad alcuni temi aggreganti: “la guerra coloniale interna”, ovvero gli
scontri ed i disordini razziali; l’analisi di congiuntura dell’economia interna
ed internazionale in una fase cruciale; la “guerra coloniale esterna”. Le due
“guerre coloniali” sono tenute insieme dall’analisi dell’economia, o meglio
delle esigenze interne del funzionamento economico.
La
guerra coloniale interna
La
prima parte prende avvio dalla “guerra alla povertà” lanciata da
Johnson, che nel programma dell’Amministrazione avrebbe dovuto interessare 1/5
delle famiglie americane (mentre sarebbero dovute essere almeno il doppio), e
destinava quindi una somma di un miliardo di dollari, nove volte insufficiente.
Insomma, come capita, “l’intera faccenda è da cima a fondo una truffa
politica”, che in realtà cercava di mettere un tampone ad un problema di
eccesso di capacità dell’industria americana, rispetto al livello della domanda
di beni e servizi che una società nella quale si estendono la povertà da una
parte (per la maggioranza) e l’abbondanza dall’altra (per una stretta
minoranza), esprimeva sempre di più.
Questo
è l’ambiente nel quale, nell’articolo del 1964 “La guerra coloniale interna”,
si dà conto della rottura tra Eliah Muhammad e Malcom X (che morirà l’anno
dopo, ucciso da sicari probabilmente del primo), e della radicalizzazione del
movimento dei neri. Il “vecchio movimento” (quello di Martin Luther King,
ucciso a sua volta nel 1968) avanzava infatti delle tradizionali richieste di
partecipazione. Secondo la loro analisi i neri erano semplicemente ed immoralmente
privati dei loro diritti fondamentali, e non strutturalmente costretti in un
sistema che ne richiedeva, per sua natura, l’oppressione, al fine di farne la
classe-paria necessaria per il suo equilibrio.
Certo,
anche il movimento dei Muslims soffriva delle sue contraddizioni; in
particolare di una sorta di “nazionalismo nero”, una riedizione del capitalismo
americano semplicemente purgato della gente bianca. Stava emergendo, però, un
nuovo radicalismo, che “in contrasto con l’islamismo nero si viene spostando su
posizioni del tutto rivoluzionarie non solo in rapporto al metodo, ma in
rapporto agli stessi obiettivi” (p.57). Ovvero, “in favore di una concezione
radicalmente nuova dei negri d’America come parte di una maggioranza
internazionale di colore in lotta per un mondo nuovo”. Un esempio è la
posizione di un tal Max Stanford, del Ram, che mostra una profonda comprensione
della situazione internazionale e riesce a sfuggire a quello che gli autori
chiamano, senza mezzi termini, “il razzismo di Malcom X”, che è “l’esatto
opposto del razzismo bianco”.
Saranno
poi eventi come la sollevazione
di Detroit (descritta in “I neri e i rossi”) che nel 1967
vedranno avviarsi questa congiunzione. Infatti, nel classico saccheggio post
insurrezione questa volta si uniranno anche i bianchi poveri, insieme a quelli
neri, e compariranno pratiche di guerriglia urbana evoluta (come franchi
tiratori contro la polizia). Nei quattro giorni di rivolta moriranno 43 persone
e furono impiegate due famose divisioni di paracadutisti dell’esercito
americano (la 82° e la 101°); seguirono oltre mille feriti e duemila edifici
distrutti. Tutto ciò è promettente, dal punto di vista degli autori, ma
richiede un allargamento della lotta, il ghetto da solo non ce la può fare.
In
“riforme e rivoluzione”, del 1968, viene posta una questione generale:
come fare a muoversi tra la Scilla e Cariddi dei risultati immediati e della determinazione
a lungo termine. Ovvero riforme e rivoluzione, le prime sono necessarie per
dare una concretezza alle lotte, ma se si ottengono possono spegnerle. In altre
parole, “il problema più difficile per un movimento rivoluzionario sta nel
conciliare i bisogni e le richieste di immediati miglioramenti delle masse
oppresse con la necessità di trasformare dalle fondamenta tutto il sistema onde
porre fine all’oppressione; in altri termini come conciliare riforme e
rivoluzione” (p.114).
Il
riformismo spegne infatti la volontà di lotta a lungo termine, ma il settarismo
rivoluzionario rischia di “cadere nel vuoto perché apparentemente privo di
legami con le effettive condizioni di vita degli oppressi”. La Scilla e
Cariddi, ha perciò questa forma: “come portare avanti la lotta quotidiana in
modo da rafforzare anziché indebolire la volontà e il potenziale rivoluzionario
di un movimento di massa”.
Oggi,
che movimenti di massa non ce ne sono da decenni, sembra una domanda strana, ma
allora era il dilemma centrale per tutti coloro che non si volevano arrendere
allo status quo.
Cerchiamo
di capire meglio il punto: nelle opere teoriche sia in “Il surplus economico”[1], sia negli interventi di
Paul Baran negli anni cinquanta e sessanta[2] ed infine nel libro “Il
capitale monopolistico”[3], del 1966 con Sweezy, viene
formulato una sorta di “teorema di impossibilità” della rivoluzione sistemica
nelle società del centro capitalistico (monopolista) maturo, il quale ha una
immensa capacità di coinvolgimento ed egemonica, ma anche, e nella stessa
logica[4] produce una capacità di
mobilitazione alle periferie, che di necessità ne devono pagare il prezzo. Lo schema
della rivoluzione al culmine dello sviluppo delle forze produttive ne viene
rovesciato: le condizioni dell’instabilità sistemica del capitalismo si danno
nelle sue periferie interconnesse e vitali per la sua sopravvivenza, nel senso
specifico che senza l’estrazione di ‘surplus potenziale’ da queste esso resta
condannato alla tendenza alla stagnazione e quindi non è in grado di riprodurre
il consenso al suo interno[5].
Nella
prima parte del libro, si sottolinea che se è vero che lo stesso movimento per
il quale le élite lavoratrici bianche sono soddisfatte e coinvolte produce ‘colonie
interne’ supersfruttate che stabilizzano in molti sensi[6] il sistema. In queste
condizioni il rischio resta sempre di andare alla ricerca solo di sollievi
immediati ed a corto raggio e quindi dirottare sul riformismo. Del resto nel
saggio “Riforme e rivoluzione”, del 2 giugno 1968, la questione è posta
in modo diretto e lucido: i militanti di orientamento rivoluzionario bianchi,
dato che manca un movimento di massa e i lavoratori “non riescono neppure a
concepire una alternativa”, possono solo fare attività propagandistica ed
educativa, anziché politica (ovvero “occuparsi della questione del potere”).
l’obiettivo deve essere far convincere della corruzione del sistema e, insieme,
della possibilità effettiva di un altro regime. Lo scopo di questa fase è però
cruciale: far scaturire dalle condizioni (che di per sé non determinano nulla
senza l’appropriata azione) il movimento di fuoriuscita dallo stato delle cose
presenti.
Ma
i militanti neri sono per gli autori, in quella metà degli anni sessanta, in
condizione del tutto diversa: esiste un movimento di massa. Tuttavia la
condizione di “colonia interna”, dominata e supersfruttata se rende attivo il
movimento crea anche le condizioni militari e di forza per le quali questo da
solo non può vincere. È necessaria quindi un’alleanza con i bianchi. Ovvero,
si potrebbe dire, un’alleanza generale delle tante e diverse periferie
sparpagliate che il sistema genera.
Il
problema è che, in vista della formazione di questo ‘blocco sociale’ se, nel
frattempo, si concentrano solo sugli obiettivi immediati “ricadono nella palude
della politica capitalistica, dove non c’è posto per i principi e ogni cosa ha
il suo prezzo. D’altro canto, persistendo nella purezza rivoluzionaria, si
rischia l’isolamento e l’impotenza”.
Come
si conclude?
“sembrerebbe
perciò necessario un programma centrato sopra un obiettivo intermedio che
implichi il rifiuto del sistema sociale esistente, e sia al tempo stesso
raggiungibile senza rovesciarlo”.
La
domanda è se “è possibile un programma di questo tipo, oppure il solo pensarlo
costituisce una contraddizione in termini?”
Il
movimento delle Black Panther, che rappresentava allora la principale
novità in campo si poneva degli obiettivi di sostegno della comunità nera e di
sua liberazione che non erano realizzabili nel quadro dell’America di allora e
mancava, in conseguenza, di “un valido obiettivo a lunga scadenza capace di
fungere da punto di riferimento unitario delle azioni particolari”. Infatti,
“un movimento rivoluzionario in una situazione coloniale deve darsi un
obiettivo di questo tipo sia per mobilitare le masse sia, in ultimo, per
negoziare con gli avversari” (p.117). Ovviamente il problema posto è che, volendo
impostare la rivendicazione come istanza di separazione (ovvero secondo la
linea del “nazionalismo nero”) la frazione sottoposta a oppressione “coloniale”
dei neri è minoritaria nel paese, e quindi non può espellere le altre,
rivendicandolo. La parola d’ordine unificante “fuori del nostro paese!”, delle
lotte di liberazione nazionali (ad esempio Algerina) non può essere, insomma,
pronunciata.
L’alternativa
contemplata dagli autori è il separatismo (nelle sue varie forme), dal quale in
effetti propongono di partire, ma in una forma diversa rispetto al modello
della piena sovranità, poco realistico: la rivendicazione del controllo delle
istituzioni che operano entro i ghetti (una sorta di autonomia rafforzata,
anche se non indipendenza), e del programma di opere pubbliche sul modello
della WPA (agenzia centrare del New Deal). Il vantaggio è che da simili
richieste si avvantaggerebbero tutte le categorie a reddito basso e quindi
potrebbe allargare l’alleanza sociale, andando verso la formazione di un ‘blocco
sociale’ che nelle opportune condizioni potrebbe evolvere in direzione
rivoluzionaria.
La
speranza è che, nelle difficili condizioni date, “le conquiste parziali strappate
lottando senza sosta [può darsi] servano a forgiare un movimento rivoluzionario
più cosciente e risoluto. È questa la via che gli autori del Manifesto
pensavano si dovesse perseguire, ed ai neri americani sempre presentarsi
un’ottima occasione per provare che questa è anche nei fatti la via giusta”
(p.124).
La
struttura economica imperiale: 1964-68
Passando
agli articoli di tenore economico, quelli centrali nella raccolta, viene
descritta la parabola di avvio, da parte americana della crisi degli anni sessanta-settanta
che apre le condizioni dalle quali è alla fine nato il nostro mondo. Il primo è
l’articolo “Il boom Kennedy-Johnson” del 1965, che commenta l’improvviso
entusiasmo ‘keynesiano’ del ceto dirigente americano per una ripresa della
crescita che nei quattro anni delle amministrazioni democratiche è stata
mediamente un, molto forte, 5,4 % (da 502 miliardi di dollari del 1960 a 624
miliardi del 1964). In un solo anno, dal 1963 al 1964 il Pnl Usa è cresciuto di
una entità (40 Mld) pari all’intero prodotto del Canada.
L’anno
dopo scrivono “Il boom continua”, nel quale la recessione che si
pronosticava nel saggio precedente è registrata in ritardo. Ma nel 1966, con “L’oro,
il dollaro e la crisi del sistema capitalistico”, inizia la crisi del
deficit, e nel 1967 Sweezy si chiede se non si è alla “Fine del boom?”,
i nodi vengono al pettine. Finalmente, nel 1968, in “Oro, dollari e impero”
avviene la svalutazione della sterlina e inizia il risiko delle monete sovrane,
la soluzione che si intravede è quella che si verificherà: passare dal gold
standard al dollar standard.
Nell’arco
di cinque anni, insomma: è stato implementato un modello, questo ha raggiunto i
suoi limiti (causati dalle caratteristiche dell’assetto di potere entro il
quale si è tenuta la implementazione delle politiche cosiddette “keynesiane”),
e si è avviato al crack (che avverrà nel 1971 e del quale daranno conto le
conferenze di Andre Gunder Frank del 1972-77 che abbiamo letto[7]).
Ma
vediamo quale è il tragitto descritto in questi articoli: la prima cosa
considerate è che la crescita robusta del Pnl aggregato ha una spiegazione di
superficie facile, la politica finanziaria è stata portata in disavanzo, tra il
1960 ed il 1964, più o meno della stessa misura in cui si è avuta la crescita.
E come afferma la teoria keynesiana, invariati gli altri fattori un
disavanzo porta ad un’espansione. L’obiezione di parte conservatrice[8] si impernia su questo
punto: se cresce il deficit prima o poi gli investitori si spaventeranno e
ridurranno gli investimenti. Si tratta di una versione rudimentale della famosa
teoria delle “aspettative razionali”[9], che però gli autori
declinano in modo molto particolare: se pure gli uomini alla testa dei
giganteschi monopoli che sono alla guida dell’economia e delle scelte di
investimento private possono essere perplessi del deficit pubblico alto e
persistente, non significa che lo siano per qualsiasi spesa. L’impedimento
è, in altre parole, selettivo. Se all’inizio dell’amministrazione Kennedy il
problema era il fiacco sviluppo, ne conseguiva che la spesa poteva essere una
soluzione, ma solo se “chiaramente giustificabile in se stessa” (come dice un
banchiere). Cioè che fosse effettivamente non qualsiasi spesa, ma una spesa capace
di incontrare il consenso e l’approvazione di coloro ai quali spettano le
decisioni sugli investimenti. Ovvero dei capitalisti monopolisti che hanno
l’iniziativa[10].
Fortunatamente c’erano tre voci di spesa da espandere e dotate di ampio e
robusto consenso: il programma militare, quello spaziale e l’interesse sul
debito pubblico. Il deficit fu prodotto quindi espandendo energicamente tutti e
tre. Andando a vedere c’è stata una robusta riduzione (nell’ordine del 50%, ca.
11 miliardi) delle tasse alle imprese, per spingere gli investimenti, ed una notevole
espansione dei budget militari e della Nasa. Naturalmente gli operatori
economici, lungi dall’essere diventati “keynesiani” sono entusiasti di questo
genere di spesa: “ridotto all’osso si tratta semplicemente di impiegare il potere
di indebitamento del governo federale per alimentare i profitti monopolistici”
(p.154). Ovviamente se fosse stato espanso il deficit per fare i poveri, il
lavoro di ultima istanza, i servizi medici, l’istruzione, le case, allora
indubbiamente sarebbe crollata la fiducia. Queste spese sono tali da
avvantaggiare troppi attori e spostano quindi i rapporti di forza nella
società.
La
conseguenza di questa politica accorta è che in tutto il periodo in esame la
crescita del 5% del Pil annua ha portato anche ad una salita senza precedenti
dei profitti delle corporation e (ca 12,5 Miliardi complessivi), mentre i
salari sono rimasti sotto l’aumento della produttività. Il Pil è cresciuto del
24%, i salari del 11%, la produttività del 15% e anche la disoccupazione è
salita mentre il tasso di utilizzazione degli impianti produttivi è sceso.
La
conseguenza è semplice: il ristagno dell’economia non è cambiato, per la
maggior parte, e solo i ricchi hanno tratto beneficio “da questo genere
di boom”. Del resto questo genere di boom è anche l’unico che si può
“promuovere con metodi ben accetti all’establishment politico-economico che
attualmente governa questo paese”. In realtà durante tutto il periodo l’ineguaglianza
è cresciuta e “questo paese sta avviandosi verso tempi di disordine, dai quali
non c’è scampo alcuno entro la cornice del sistema capitalistico” (p.160).
Pochi anni dopo questa profezia entreremo nel ’68 e poi negli anni settanta (ma
lo “scampo” fu trovato durante gli anni ottanta).
Nell’articolo
seguente il deliberato disavanzo fatto di spesa pubblica “non sostitutiva” e
meno pressione fiscale (ai ricchi) è denunciato come la causa che determina un ulteriore
aumento dei profitti monopolistici di ben il 57%, sempre calcolato dal 1960 al
1964. Addirittura si verifica che la crescita di questi accelera ancora, solo
nell’ultimo anno aumenta del 20% (ben il triplo dell’incremento di Pil).
Inoltre gli investimenti crescono del 12% mentre i salari solo del 3%. Ma non inizia
la recessione.
Come
mai? Secondo i parametri di una teoria marxista l’aumento del profitto e degli
investimenti a danno del monte dei salari dovrebbe portare ad una “crisi da
realizzo”, e questa ad una sovrapproduzione, arresto degli investimenti,
ulteriore aumento della disoccupazione, ulteriore contrazione, etc…[11]
La
ragione addotta dagli autori è che in effetti gli investimenti sono stati
superiori alle attese e si è avuta, contemporaneamente, una violenta escalation
in Vietnam. Nel 1965 la capacità produttiva è cresciuta ad un ritmo superiore
alla domanda e si è ancora espansa la capacità di consumare a debito degli
americani. Il rapporto tra indebitamento e reddito dei consumatori è arrivato
ad una soglia, il 30%, che sembrava impossibile da sostenere (da allora lo
abbiamo triplicato o quadruplicato, secondo alcune stime è arrivato al 125%).
Ma
al contempo nell’anno in corso (1966) alla sensibile attenzione di Sweezy e
Huberman appare evidente che qualcosa sta cambiando nella percezione
dell’oligarchia sulla “grande società”, ovvero che “stia maturando un
ripensamento” (p.170).
Con
questa ulteriore profezia si chiude il saggio del 1966, lo stesso anno in cui
viene pubblicato “Il
capitale monopolistico”, mentre con la focalizzazione del
“mosaico monetario”, nel quale le tensioni sottostanti l’economia americana,
che si preparavano da tempo si sta per scaricare si apre quello del 1966. In “L’oro
il dollaro e la crisi del sistema capitalistico” vengono messe infatti a
tema le conseguenze complesse dello squilibrio di bilancia commerciale americana.
Nelle condizioni del gold standard ciò comporta deflusso, reale o potenziale,
delle riserve auree americane stesse. Quel che succede è che i paesi esteri sono
in surplus, perché producono merci e le vendono in America grazie ad una
rinnovata competitività (si tratta dei paesi europei, Italia inclusa, e del
Giappone, a quel momento), e stanno accumulando riserve in dollari e auree. E’
chiaro a tutti che prima o poi la cosa andrà oltre i suoi limiti di
sostenibilità. Insomma, “il deficit della bilancia commerciale degli Stati
Uniti è una potente bomba ad orologeria che ticchetta da tempo all’interno del
motore finanziario del sistema capitalistico mondiale”. Si, “mondiale”, perché
si tratta di una potenziale crisi di fiducia che si ripercuoterebbe su tutti.
Ma
quali appaiono a quel momento le alternative possibili?
Essenzialmente come prima alternativa si potrebbe eliminare il deficit e quindi
“vivere dei propri mezzi”. Ma si tratta di qualcosa che va avanti dal 1950 ed
ha profondamente a che fare con l’egemonia mondiale, d’altra parte, secondo
molti, non si tratterebbe neppure di vero deficit, le imprese americane hanno
moltissimi investimenti all’estero e quindi il deficit è solo una faccia della
capitalizzazione estera. Quindi frenarlo rallenterebbe anche la penetrazione
del capitale americano all’estero e, indirettamente, il controllo sulle
economie del centro imperiale.
Questa
è però parte della preoccupazione, ma invertita, di uno come De Gaulle. Il
Presidente francese in quegli anni sta tentando di costringere gli Usa ad
eliminare il loro deficit e quindi la presenza americana nell’economia del
paese, usando proprio la minaccia della conversione improvvisa delle ingenti
riserve in dollari. Ciò, dal punto di vista francese, “arresterebbe la
penetrazione americana nelle loro economie, e permetterebbe loro di evitare il
destino che ora sembra minacciarle, di essere gradualmente trasformate in
neocolonie completamente dipendenti dagli Stati Uniti” (p.172).
Insomma,
come dicono molto opportunamente gli autori: “al di là delle complessità e
dei misteri del sistema monetario, stanno i problemi reali dell’interesse e del
potere”.
Da
parte americana questo dilemma potrebbe tradursi, come reazione, nella
creazione da parte americana, ed unilateralmente: di “un forte meccanismo
monetario internazionale basato sul credito, in cui l’oro esplichi al più una
funzione subordinata” (citando un articolo di parte finanziaria). Il punto
centrale (e la profezia) è che “dato che il dollaro è in una posizione speciale
nella sua qualità di moneta mondiale, gli Stati Uniti possono introdurre questo
cambiamento mediante la sola loro azione”. Uno dei modi è semplicemente quel
che accadrà nel 1971: “l’annullamento dell’attuale convertibilità dell’oro
in dollari”. Insomma, i paesi del mondo hanno bisogno dei dollari, non
dell’oro (magari “bisogno” non è il descrittore più preciso).
Nel
1967, viene l’articolo “Fine del boom?”, nel quale sono registrati diversi
elementi critici, scorte eccedenti, discesa del saggio di utilizzazione, ma non
ancora la partenza del processo ciclico autorafforzante della crisi. Ci sono,
infatti, alcune forze in controtendenza che, per ora, sono riuscite a
contrastare le tendenze di avvio del ristagno; tra queste: l’aumento ulteriore
delle spese militari; la riduzione delle imposte ai soliti ben noti; lo stimolo
ulteriore agli investimenti; l’aumento dell’indebitamento dei consumatori (che
passa da 210 a 320 Mld in cinque anni, passando al 55% sul reddito). Ma
comunque per gli autori i nodi stanno iniziando ad arrivare al pettine, se le
controforze perdessero il braccio di ferro che hanno avviato da anni, allora
cosa si avrebbe?
L’elenco
di Sweezy è semplice, “una forte spinta per il movimento studentesco radicale”,
con l’aumento dell’urgenza di qualcosa che, a tutta evidenza, non fu compiuta:
“i compiti di chiarificazione teorica e ideologica avuti per ora solo a livello
di tentativo dell’ala sinistra del SDS”. Inoltre, come ovvio, aumenterebbe la
disoccupazione.
Nel
1968, finalmente, in “Oro, dollari ed impero” la parabola del ciclo di
articoli si chiude e alcuni degli eventi temuti si verificano. La sterlina
viene svalutata (il 16 novembre 1967) e parte una caccia all’oro che costa alla
Fed 1,7 Mld di riserve. Si tratta solo di una piccola parte delle riserve
sovrane estere detenute in moneta americana (ca. 31 Mld), ma avviene in un
momento in cui il deficit americano è salito alla notevole cifra di 4 Mld di
dollari all’anno (più o meno come 150 Mld di dollari attuali). Restano ormai solo
due strade: svalutare il dollaro o uscire dal gold standard (faranno
entrambe nel 1971).
Oppure
è necessario eliminare il deficit, ma non è possibile farlo conservando il
controllo imperiale del quale solo le spese dirette ammontano a 8 Mld all’anno.
Qui bisogna però capire chi, in effetti, ha davvero bisogno dell’impero. Chi ne
trae, ovvero, un effettivo beneficio? La risposta è ovvia: le imprese giganti
plurinazionali le quali ricavano profitti per miliardi di dollari. Nel solo
1966 l’afflusso negli Usa come reddito, royalties ed entrate varie degli
investimenti diretti all’estero delle società americane maggiori è infatti
stato di 5,1 Mld di dollari, ovvero superiore al deficit. Lo scambio è interessante:
i benefici vanno alle multinazionali, i costi sono divisi tra tutti i
contribuenti. In un contesto nel quale l’espansione si produce anche
riducendo le tasse a queste è ancora più paradossale.
Ma
che succederebbe infine se gli Usa uscissero dallo standard? In effetti per
Sweezy si realizzerebbe semplicemente un sistema di scambi flessibili e un
“dollar standard” (p.202). Ovvero, “le unità subordinate dell’impero
conserveranno presumibilmente le loro riserve in dollari, forse sotto forma
alquanto mistificata di un castellino fornito dal Fmi e accetteranno ancora
dollari perché gli Stati Uniti sceglieranno di pagare col deficit della
bilancia dei pagamenti”. Insomma, queste si assumeranno il compito di
neocolonia. Si tratta di quel che Todd (o Amin) chiamerà “il tributo”[12].
Se
invece qualcuno, come il Mercato Comune, deciderà di combattere allora cercherà
di formare un blocco monetario rivale (che è ciò che hanno cercato in qualche
modo di fare con lo Sme e poi con l’euro).
La
guerra coloniale esterna
La
terza parte ospita interventi abbastanza d’occasione sulle principali lotte
anticoloniali del periodo: Vietnam, Panama, l’America Latina. Si parte dal
1964, con “Vietnam: la crisi si avvicina”, lo stesso anno con “Gli
Stati Uniti e Panama”, e con “La politica degli Stati Uniti in America
Latina”.
Nel
1965 l’articolo “La strada della rovina”, sull’inasprimento della guerra
in Vietnam, nel quale viene compiuta un’ampia retrospettiva delle ragioni dello
scontro, ed enunciato quello che appariva a molti la posta in palio “può un paese
aprirsi combattendo una via di uscita dal ‘mondo libero’ – cioè dal mondo della
libera iniziativa, dal mondo soggetto allo sfruttamento del capitalismo americano
– attraverso un confronto diretto con la più potente nazione imperialista? Cina
e Cuba si aprirono la propria, ma combattendo soltanto con i luogotenenti
locali della suprema potenza imperiale. Per il Vietnam è diverso. Qui la potenza
imperiale s’è assunta in prima persona la responsabilità di impedire la fuga
dal mondo libero alla metà di un piccolo e arretratissimo paese – e sta
fallendo” (p.244).
Questa
sorta di entusiasmo per quel che appariva, troppo presto, come l’avvio della “decadenza
e caduta dell’impero americano”, viene articolato ulteriormente in “La
necessità della rivoluzione”, articolo del dicembre 1965. La questione si
pone in questo modo: le due potenze del campo socialista, Urss e Cina, e la
potenza americana si confrontano sempre per interposta guerriglia e senza
alcuna reale possibilità di scontro diretto (malgrado molti strumentalmente vi
alludano continuamente). Del resto lo contro diretto costerebbe troppo e l’oligarchia
americana vuole solo potersi garantire una zona di libero sfruttamento in cui
le proprie aziende possano “fare affari alle proprie condizioni”. È chiaro che la
potenza Usa “sarebbe naturalmente più che contenta di poter aggiungere Russia e
Cina a tale zona di libero sfruttamento, ma sa che si tratta di un obiettivo
tutt’altro che realistico, perseguendo il quale andrebbe incontro ad un sicuro
disastro” (p.259). Ci riuscirà dopo il 1989, ma questa è una questione che
dobbiamo rinviare. Per ora, scrivono Huberman e Sweezy, cerca di contenere la
perdita di spazio.
Ma
la vera questione non è militare, è, ovviamente, “se i problemi di fondo che
hanno dato vita ai movimenti rivoluzionari e alle guerre di guerriglia possano
eventualmente trovare soluzione nel quadro del sistema che gli Stati Uniti sono
decisi a difendere”, se la risposta è no nessuna soluzione militare è
sostenibile a lungo termine. In primo luogo la questione è alimentare, è in
grado il mondo, nella sua parte più periferica di raggiungere una indipendenza
alimentare che debelli la fame?
Nel
1966 scrivono “Vietnam: si apre una nuova fase”, nel quale si dà conto
del dilemma finale dell’amministrazione Johnson, tra portare gli effettivi a
600.000 uomini e rischiare lo scontro frontale con la Cina, o avviare ritirata
e disimpegno. Nello stesso anno “Il lungo cammino”, in cui viene
descritta la controffensiva degli anni sessanta, accompagnata dalla potente
espansione economica descritta in precedenza dell’era di Kennedy e successori. Di
fronte a questa “violenta espansione dell’imperialismo americano” l’Unione
Sovietica è scesa a patti, e alcuni anelli deboli hanno ceduto, in altri
luoghi, come il Vietnam, la lotta è stata aspra. Ma in avvenire questa
espansione, che non si può arrestare, comporterà crescenti costi, e quindi
deficit pubblico accoppiato a profitto privato, e crescente deficit della
bilancia dei pagamenti, quindi messa sotto pressione crescente del rapporto
dollaro con oro. Quindi “grandi crisi vanno maturando, crisi senza precedenti
per ampiezza e gravità” (p.294). Nell’estate viene quindi pubblicato l’articolo
che dà il titolo al libro “Controrivoluzione globale”, in cui dopo aver
richiamato le rivolte nei ghetti americani della prima parte del libro, e aver
chiarito che si verificano in una società opulenta semplicemente perché questa
non ha mai varcato le soglie delle case dei ghetti stessi, ribadisce il nesso
tra la più grande espansione dal tempo della guerra mondiale (quella che in
seguito si chiamerà il “trentennio glorioso”) con la povertà ai due capi, le
colonie interne ed esterne. Ma la lotta contro le colonie è ciò che ispira il
tentativo di ‘controrivoluzione’ che le amministrazioni progressiste, da anni,
stavano portando avanti con crescente dispendio di risorse (e di vite). La cosiddetta
“crociata globale”, come ebbe a dire un critico come Walter Lippman (sul “New
York Times” del 31 agosto 1966), dovrebbe cessare e fare spazio, per questi, ad
una strategia ‘riformista’ che preveda il governo del capitalismo monopolistico
e l’abbandono dell’impero. Con le risorse risparmiate fare gli investimenti
necessari a ridurre le “colonie interne” e quindi la loro conflittualità. Si
tratta di un piano di pacificazione sociale. Lo scontro con il socialismo sarebbe
affidato al progressivo allentamento della tensione e quindi al “dolce
commercio” anziché alla spada. L’idea è che con il tempo le teste calde saranno
sostituite e, come temono anche i leader cinesi la rivoluzione socialista sia
reversibile. Il passo è significativo e merita di essere riportato:
“paradossalmente a pensarla
così non sono soltanto alcuni accorti difensori del capitalismo: le stesse
vedute sono implicite nella concezione dei suoi peggiori nemici, i teorici del
marxismo cinese, i quali, in maniera decisamente più decisa dei marxisti del
passato, hanno posto l’accento sulla reversibilità della rivoluzione
socialista. se infatti è vero, come sostengono i cinesi, che perfino in Unione
Sovietica è in corso un processo di pacifica restaurazione del capitalismo, le
probabilità che tale sistema sopravviva sono molto maggiori di quanto non
fossero soliti ammettere i marxisti. In effetti la condizione fondamentale della
sopravvivenza del capitalismo sarebbe in questo caso che esso evitasse le
avventure che potrebbero condurlo al suicidio” (p.302)
Il
problema è che per gli autori del Monthly Review il capitalismo, essendo
diretto da forze autointeressate solo al proprio stretto profitto, tende al
suicidio. La strategia “controrivoluzionaria”, con i suoi immani costi, in
prospettiva insostenibili, sia umani sia economici, salvaguarda il sistema del
profitto monopolistico, come lo fanno la presenza di “colonie”, sia interne sia
esterne. Sulla base di questo schiacciante consenso, cieco alle conseguenze, il
sistema sociale capitalista va verso il suo esito.
Dopo
questa profezia, ancora non adempiuta, questa tesi è rinforzata dall’articolo “Perché
il Vietnam?”, ancora nel 1966, nel quale vengono ancora una volta ripercorsi
i passi della guerra.
Tentativo
di conclusione: guardando avanti
Perché
tutto questo movimento è rifluito? Non si può certamente
rispondere a questa domanda nel breve spazio che manca. Alcuni dei testimoni
più connessi con questa impostazione che abbiamo descritto, penseranno che l’esito
delle tensioni, economiche e finanziarie, e più profondamente sociali e financo
militari, che sono state attive in questo passaggio dal 1963 al 1968, sia una “crisi
sistemica” che si apre definitivamente nel 1971 (quando gli Usa cedono e
interrompono la convertibilità del dollaro in oro).
Ad
esempio Samir Amin, in “La crisi”[13] individua in questo
passaggio il crollo dei tassi di profitto, fino ad allora crescenti, dei tassi
di investimento (che erano tendenzialmente calanti da tempo) e quindi della crescita.
La crescita non tornerà più al livello del periodo 1945-75. Ma il capitalismo,
lungi dall’arrendersi, reagirà con un ulteriore livello di concentrazione e di
espansione, e di finanziarizzazione in grado di mettere al sicuro le rendite
monopolistiche. Ma reagirà anche con una imponente offensiva ideologica,
esemplificata dal libro di Francis Fukuyama “La fine della storia e l’ultimo
uomo”[14].
Questa offensiva è naturalmente punteggiata da guerre coloniali appena
mascherate da operazioni di “polizia internazionale”, e si è costituita nel
quadro che Amin chiama di “imperialismo collettivo” di una “triade” fatta da
Usa, Europa e Giappone. Insomma, gli scontri dei capitali e commerciali degli
anni sessanta, ben descritti dai Monthly Review, sarebbero esitati in una
sorta di compromesso egemonico con parziale divisione del lavoro. Una nuova
mondializzazione capitalistica che non passa per il monopolio industriale ma tramite
il controllo delle tecnologie di punta, dei mercati finanziari in grado spesso
di sostituire gli eserciti, e delle informazioni.
Di
parere simile, sotto certi aspetti, è Giovanni Arrighi, che in “Caos e
governo del mondo”[15] interpreta il passaggio
come segnale del possibile declino dell’egemonia americana, ma fuori di ogni
semplice logica causale lineare. Si tratta qui della crescente difficoltà a creare
ordine e alla superficie di riassorbire fenomeni di sovraccumulazione e conseguente
creazione di capitali mobili, con i
relativi ambienti sociali “densi” dediti alla loro gestione e di cui parla la
Sassen, in “Territorio, autorità, diritti”[16] per
i quali si attiva una feroce competizione da parte delle forze territoriali e
statali. Sono in sostanza le organizzazioni territoriali che competono tra di
loro per attrarre e trattenere il capitale mobile, avviando con ciò processi
imponenti di redistribuzione verso l’alto. Chi vince in modo visibile rispetto a
tutti gli attori questa contesa ha la
base per affermare una nuova egemonia. La presenza di questa, che non è un
effetto automatico dell’esistenza della base
di potere, in qualche modo ricrea l’ordine nell’anarchica dinamica del mobile e riorganizza il mondo. Riesce quindi,
intorno alla parte condivisa dei propri obiettivi, valori e funzionamenti, a
creare la cooperazione. Una cooperazione sempre ‘dominata’. Dall’altra parte il
crollo di un ordine egemonico esistente è dovuto al fatto che la “densità
dinamica del sistema” sta eccedendo le capacità organizzative espresse dal
blocco sociale e tecnico centrale, e cresce il caos, per contingenza storica e
non per necessità sistemica.
Sarebbe, in altre parole, quel che stava
accadendo negli anni sessanta: una crescita non governata della competizione ed
un indebolimento relativo americano a partire dal doppio deficit degli anni
sessanta e dalla sconfitta del Vietnam. Una situazione che fu riorganizzata ad
un livello più alto nei settanta-novanta[17].
Ma questo livello di densità dinamica è giunto ai suoi limiti interni nel 2008
e ora attraversa un’altra crisi di ristrutturazione (che potrebbe preludere ad
una nuova egemonia).
Quando comincia quella che Fred Halliday
chiama “la seconda guerra fredda”, il governo americano inizia a
competere in modo molto più aggressivo con l’Unione Sovietica, e ad attrarre il
capitale mobile per finanziare i deficit commerciali (necessaria al consenso
interno nell’intreccio degli scontri di classe degli anni sessanta e settanta,
per garantire il “sogno americano” e insieme i margini dell’industria) e quello
pubblico (alimentato sia dalla spesa sociale sia, e soprattutto, dalla ancora crescente
spesa militare). Crescono enormemente i profitti sui capitali e l’espansione
finanziaria esplode, insieme alla percezione del potere americano nel mondo.
Dal 1980 al 1990 le multinazionali che seguono alla finanziarizzazione
esplodono da 10.000 circa a oltre 30.000 e con esse la crescita della
concorrenza e la migrazione dei capitali nei paradisi fiscali. Ma soprattutto
si ha un cambiamento essenziale nel rapporto tra governo ed imprese.
In questo periodo i capitali in giro per
il mondo e le aperture commerciali, orientate agli interessi “capitalistici”,
ovvero del sistema di potere delle multinazionali (uno dei fattori di forza da
sempre degli USA e del loro sistema di potere, ma in precedenza funzionalizzato
anche alla logica di lungo periodo del sistema Stato), provocano ancora con
massivi Investimenti Diretti all’Estero e flussi di capitali mobili attraverso
la “finanza ombra”, la crescita industriale dell’Asia Orientale. Cioè, ai margini
del sistema cresce una nuova base di potere, che tende ad essere indipendente,
secondo l’autore, dalla dominazione egemonica occidentale. Quindi
potenzialmente portatrice di una nuova egemonia. Mentre questo avviene e
diventa visibile, negli anni ottanta, si ha anche il repentino crollo del
sistema sovietico e quindi la fine dell’”invenzione della guerra fredda”. Al
converso, la capacità militare si concentra sempre più e sembra avviare una
biforcazione che è l’elemento di maggiore differenza rispetto alle precedenti
crisi egemoniche.
Questa strana situazione in una prima
fase, a ridosso del 1989 e nel decennio successivo provoca un clima euforico
nel quale l’unilateralismo imperiale sembra affermarsi, fino al fallimento
dell’Iraq che rappresenta il punto di massimo sviluppo di tale autoinganno.
Ma questa crisi interrompe anche una
caratteristica propria di tutte le fasi espansive di un sistema egemonico per
Arrighi: il patto sociale tra gruppi dominanti e subordinati. Dalla pace
sociale, in cui si ha espansione del commercio, creazione di surplus e sempre
maggiore capacità produttiva, si passa ad un “circolo vizioso”, in cui cresce
la conflittualità e la competizione indebolisce i patti sociali e la
finanziarizzazione va di pari passo con la polarizzazione economica. In
conseguenza in tutte queste fasi si ha una relativa distruzione delle classi
medie.
Un
altro testimone è Andre Gunder Frank, che vive in prima fila il turning poit e
prova generale di richiamo del mondo sotto egemonia liberale nel golpe dell’11
settembre 1973 in Cile, un evento dalle vaste conseguenze[18], e in
esilio in Europa, assiste al processo di brutale ri-disciplinamento delle forze
popolari tramite il potenziamento di alcuni meccanismi di interconnessione
subalterna[19].
La mobilitazione globale del capitale produttivo, che cerca ovunque
“forza-lavoro” a basso costo fa transitare il modello “fordista” in quello
della “accumulazione flessibile” (Harvey). Le “tigri asiatiche”, per
alcuni anni modello di riferimento in una specie di staffetta che mette sotto
pressione il mondo del lavoro occidentale (travolgendo con prodotti a basso
costo moltissime filiere industriali consolidate, ponendo sotto rischio di
delocalizzazione o esternalizzazione i settori indisponibili ad accettare la
flessibilizzazione del lavoro), si sviluppano attraverso un mix di
autoritarismo, investimento pubblico massiccio, sostegno ai campioni nazionali
e apertura selettiva, con un modello “orientato verso l’esterno” che per molti
versi è l’esatto opposto di quello immaginato dalla “teoria dello sviluppo”.
Ma a
ben vedere la “teoria” non presumeva che fosse “centro” l’occidente e
“periferia” l’Asia. In effetti la catena dei “centri-periferia” è funzionale,
non geografica, e nuove tecnologie (come quelle implementate tra gli anni
sessanta e ottanta) possono ben estenderla e renderla porosa. La dominazione è
una dialettica tra classi dominanti/dominate e relativi snodi che si indentificano
per la loro posizione nei flussi internazionali di risorse (capitali, merci,
forza-lavoro). I centri dominanti interconnessi a quelli dominati (che possono
essere contigui come dall’altra parte del mondo), e le borghesie “compradore” sono
sempre un effetto della totalità. Il nuovo assetto quindi non confuta la “teoria
della dipendenza”, ma passa piuttosto dal disegno di un mondo a grandi
campiture sfumate, ad un mondo a pelle di leopardo dai contorni netti. Un mondo
nel quale tanti centri interconnessi sfruttano insieme delle periferie distribuite,
a volte vicinissime.
Per
l’ultimo Gunder Frank, tornando alla crisi degli anni settanta, la crisi prende
avvio nel 1965, con le recessioni in Germania e in Usa, a partire dalle quali
si registrò un declino del tasso di profitto che portò ad un drastico calo
degli investimenti. L’opinione di Frank è che si è trattato di una crisi da sovrapproduzione che innescò
una crisi da accumulazione, con
conseguente abbassamento dei prezzi ed avvio di bolle speculative[20]. Contribuì anche la lotta
della classe operaia, che nella misura in cui riuscì ad interferire nel
processo produttivo[21], determinò come risposta
da parte del capitale l’innovazione ed automazione, o la delocalizzazione. Ma
naturalmente altrettanta importanza l’ha avuta la lotta tra capitalisti, che è,
anzi, stato il fattore più importante nella riduzione del tasso di profitto. Naturalmente
in queste analisi il problema è sempre di capire quale sia la causa e quale
l’effetto, e per Frank l’ipotesi è che non sia la finanza, ma l’economia
‘reale’ che continua a guidare l’economia.
Più
specificamente il racconto di Frank parte dall’inclusione, malgrado la sua
opinione precedente[22], anche dei paesi
socialisti nell’economia-mondo; per cui anche in Urss partì negli anni ottanta
una profonda recessione che alla fine conduce al crollo, dato che non riesce a
superarla. La ragione viene fatta risalire alla ‘lunga durata’ e ad un ritardo
storico che affonda almeno in cinque secoli, dell’Europa orientale da quella
occidentale. Una differenza che si è protratta interamente durante l’intero
arco del socialismo storico che è in definitiva il tentativo di
industrializzarsi e di svilupparsi, superando il gap con l’occidente[23]: “i Soviet più
l’elettricità” di Lenin.
Mentre
però fino agli anni sessanta sembrava che il gap fosse stato superato, e che il
mondo socialista fosse in vista del sorpasso, nei settanta la crisi mondiale lo
colpisce. Essa passa attraverso quattro recessioni successive (1967, 1969-70,
1973-75, 1979-82) inframmezzate da piccole riprese cicliche che non recuperano
interamente i livelli economici precedenti. Questa situazione induce politiche
supply-side di smantellamento dello schema keynesiano (peraltro reintrodotto
come spesa militare da Reagan), ottenendo però l’effetto non voluto di
approfondire le recessioni successive perché disattivano gli strumenti per
gestire le congiunture. L’ultima crisi costringe allora, terminata ogni
arma, a drastiche politiche restrittive (fiscali e monetarie), per ridurre
ancora i costi di produzione e aumentare i profitti. Questa manovra induce la
stagnazione della domanda, e cerca di compensarla aumentando le esportazioni
(ovvero ‘rubando’ la già asfittica domanda estera). Inizia in questo modo il
programma di smantellamento del welfare state che si diceva “non più
economicamente sostenibile” da parte in particolare della sinistra
(Challagan, Mitterrand[24], Carter).
Ma
quel che è importante e spesso poco notato è che la stessa cosa avviene
anche nei paesi socialisti: negli anni settanta i paesi del blocco
abbandonano le politiche ISI (‘Industrializzazione per Sostituzione delle
Importazioni’) e cercano di avviare una strategia di ‘crescita guidata
dalle importazioni’ (di tecnologia occidentale) ed esportazioni. In
America Latina, questa idea viene imposta dagli Usa e forze alleate a forza di
colpi militari (Bolivia, Cile, Argentina), ma lo stesso avviene in Asia nelle
Filippine, ed in Africa. In un modo o nell’altro la strategia della crescita
trainata dalle esportazioni di prodotti e importazione di beni di investimento
è adottata da tutti i paesi del mondo, anche poco adatti. Si tratta di una
politica disperata (cosiddetta del “Washington Consensus”), che ebbe successo
solo per pochi paesi, “le poche economie del sud-est asiatico che riuscirono a
penetrare i mercati recessionari dell’Occidente, per lo più difesi da politiche
protezionistiche”. Gli altri aumentarono solo il debito estero e la fragilità
strutturale, venendo sfruttati a tal fine nella fase di espansione della
finanza occidentale, che doveva riciclare gli ingenti ‘eurodollari’ ed i
‘petrodollari’. Il denaro, infatti, che non poteva più essere investito in
occidente, in crisi da sovrapproduzione (o sottoconsumo), si riversò nei paesi
“in via di sviluppo”, che erano alle prese con il fallimento delle loro
politiche. La successiva svolta restrittiva fu il compito che si assunse
Volker, e fu promossa per migliorare la posizione degli Usa (indebolitasi sotto
la presidenza Nixon che aveva distrutto nel 1971 il sistema di Bretton Woods e
aveva fermato le importazioni giapponesi, provocandone la lunga stagnazione).
Il
monetarismo implementato tra gli ultimi anni settanta ed i primi ottanta è, per
Frank, la risposta a questa situazione che tende a peggiorare sempre di più. Il
tasso di interesse viene portato dal 5-6% improvvisamente al 20-21%, innescando
una forte crisi del debito nei paesi del terzo mondo esposti. I paesi che
attraversano questa spirale del debito sono la Polonia nel 1981, il Messico e
l’Argentina nel 1982, che rispondono con manovre di “stabilizzazione
strutturale”. Ma queste politiche, a servizio del debito, sono implementate
anche dai partiti comunisti (Polonia, Ungheria, Romania, Yugoslavia, che al
termine del decennio o poco dopo subiscono un cambio di regime per l’erosione
del consenso, sono le famose “rivoluzioni colorate” del 1989) e da governi
militari, o non, sudamericani (Argentina, Brasile, Messico). Di fatto anche il
Nicaragua, che non faceva parte del Fmi, e non era obbligato adottò una
politica di “condicionalidad sin fondo”.
In
sostanza, come dice Frank:
“il
costo della crisi, e soprattutto la recessione del 79-82, fu scaricato [da
Volker che aspirò i capitali con gli alti tassi] sui paesi dell’est e del sud.
Si poneva però un problema: fino ad ora queste aree avevano rappresentato
regioni verso cui dirigere i prestiti per sostenere la domanda nelle economie
occidentali. Ma, a causa della crisi del debito che esse attraversavano, ciò
non era più possibile. Era allora necessario trovare altre strade: fu l’America
del Nord a diventare, dal 1986, il più importante paese debitore del mondo”[25].
Ma
nel frattempo la spesa militare in via di continuo aumento, e la competizione
alla quale l’Urss fu costretta su questo terreno, costrinsero questa ultima a
drenare risorse dall’industrializzazione e dai servizi pubblici ed infine al
collasso.
Questo
si verificò perché al contempo la politica ‘keynesiana’, sia pure ‘bastarda’ e
non dichiarata, stava tenendo a galla l’economia occidentale, ma aveva portato Africa,
America latina e paesi dell’est ad una depressione economica più profonda di
quella degli anni trenta. Contemporaneamente nel 1981 ci fu anche il crollo dei
prezzi di alcune materie prime di cui l’Urss era particolarmente ricca
(petrolio e oro, in particolare) mentre i paesi della sua area erano tutti in
grave crisi.
La
bancarotta colpì per l’insieme di queste ragioni l’Est prima che l’Ovest, che
potevano aspirare risorse dal Giappone e dall’Europa, e che riuscì a sostenere
il “doppio deficit” americano grazie ai capitali attratti da tutto il
mondo e all’acquisto dei suoi buoni del Tesoro.
Insomma,
l’Unione Sovietica non crollò per colpa di Gorbaciov, che non aveva
alternative, ma fece solo l’errore di non investire abbastanza sull’agricoltura,
perdendo il consenso di gran parte del paese, e dunque non trovò nel momento
cruciale il capitale politico sufficiente per superare una dura fase di
ristrutturazione[26].
Volendo
sintetizzare, come dice in modo efficace Emmanuel Todd in “Dopo l’impero”[27], quando nel 1989-91 si
produce il secondo punto di svolta del sentiero, dopo quello del 1971-73 (svolta
monetaria, e conseguenze geopolitiche), e l’Unione Sovietica collassa, insieme
ad essa viene meno anche l’invenzione della guerra fredda (come dice Arrighi) che
aveva consentito nel dopoguerra a diversi tipi di capitalismo[28] di convivere calibrando
l’accettazione delle regole liberali. Emerge l’egemonia neoliberale, anzi la
sua dittatura, sotto il segno della quale nel 1991-93 viene negoziato anche il
Trattato di Maastricht[29]. A quel momento si iniziò
a concepire un mondo in equilibrio e ci fu una breve fase di smobilitazione
militare. Ma nel primo quinquennio l’economia e la società russa continuò a
disgregarsi, nel 1995 la produzione si dimezza, l’Ucraina, la Bielorussia ed il
Kazakistan diventano indipendenti, 75 milioni di persone. Dai 268 milioni di
abitanti dell’Unione Sovietica del 1981 (contro 230 degli Stati Uniti) ai 144
milioni del 1995 (mentre gli USA sono saliti a 285. Una completa inversione
demografica.
Nel
1996 sembra ad alcuni allora che il vecchio avversario sia sul punto di
disintegrarsi. È questo il momento in cui alle élite americane si presenta
“l’opzione imperiale”, e il sogno di vincere definitivamente la “partita di
scacchi”[30].
La globalizzazione finanziaria, che riduce anche la pluralità di capitalismi
all’unico modello anglosassone (e sottoversione tedesca), accelera negli stessi
anni, e i flussi puramente finanziari verso gli USA esplodono da 60 a 271 Mld.
Ciò consente di distribuire consumi senza produzione, ovvero di “comprare
tempo” (Streeck) garantendosi insieme il consenso del sistema industriale (che
vuole pagare poco il lavoro, esternalizzando quando può e ricattando comunque),
dei lavoratori e delle classi medie (alle quali il sistema finanziario offre
l’alternativa al reddito del facile indebitamento).
Ma
non è un progetto. Si tratta di un abbandono al corso naturale delle cose, i
decisori americani sono “privi di volontà”, interamente catturati dal
gioco miope e ravvicinato delle lobby, come spiegavano Sweezy e Huberman.
Ovvero interamente piegati alla logica autoaccrescitiva del capitale. Questa
non-scelta univa il vantaggio di accontentare gli spiriti animali del capitale
(con cospicui vantaggi anche personali) e di garantirsi comunque il consenso. È
la famosa “terza via” degli anni novanta.
Dunque
questa “classe dirigente priva di volontà” porta il mondo e gli stessi Stati
Uniti su un sentiero pericoloso, mentre “un’opzione nazionale a lungo termine
sarebbe stata infinitamente più sicura”. La massa continentale del paese e la
concentrazione del suo sistema finanziario (alla fine limitato a poche unità
aziendali, sia pure enormi, e poche decine di migliaia di persone), lo
rendevano possibile e più stabile, ma bisognava concentrarsi sulla regolazione
della finanza, la protezione dell’industria, ed una politica multilaterale
basata su un riconoscimento reciproco.
Come
spiegava Sweezy il capitalismo questo non lo sa fare, riesce solo ad
abbandonarsi al corso degli eventi e trarne beneficio immediato, quindi prende
sempre la “china infinita” del deficit commerciale e l’opzione imperiale che vi
è strutturalmente legata. Ma questa non scelta, direttamente scaturita dai
dilemmi delle crisi esplose negli anni settanta ed incubate nei sessanta,
comportava un rischio: che i rivali (in particolare sistemici, in primis russi
e cinesi) si riprendessero, lasciando l’America esposta in condizioni di
debolezza strutturale (ovvero impoverita e dipendente dai flussi finanziari che
sono volatili per loro natura).
Come
dice Todd, è quel che è successo, alla fine del ciclo dei Bush, non corretto
dal ciclo obamiano, l’America ha scoperto di essere passata “da una
posizione semi-imperiale ad una pseudo-imperiale”.
L’esito
è Trump[31].
[1] - Paul Baran, “Il
surplus economico”, 1957. Il capitalismo nella fase monopolista tende
alla stagnazione per la rottura del rapporto di formazione del prezzo ancorato
alla concorrenza (per quanto si trattasse di un modello ideale), e la tendenza
sistematica al sottoinvestimento ed ai sovraprofitti (per cui alla crisi da
realizzo ed al sottoconsumo). Questa tendenza è contrastata da alcuni fattori
che cercano di dissipare il surplus, o di impiegarlo fuori del processo
strettamente produttivo (che innalzerebbe la concorrenza aggravando la crisi),
tra i mezzi c’è ovviamente la spesa all’estero (in particolare le spese
imperiali e quindi, ma non solo, militari) e c’è la moltiplicazione dei lavori
improduttivi e dei relativi ceti. “Parlando in maniera generalissima, questa
parte improduttiva è formata da tutto quel lavoro che ha come risultato la
produzione di beni e servizi la cui domanda si possa attribuire alle condizioni
e ai rapporti specifici del sistema capitalistico, e che sarebbe assente in una
società razionalmente ordinata” (p.44). Ma questo movimento economico ha un risvolto
potentissimo nelle forme di interiorizzazione e controllo sociale. Ci torneranno
nei libri ed interventi degli anni sessanta.
[2] - Paul Baran “Saggi
marxisti”, in particolare in un saggio del 1958 spiega la stabilità
della società americana con i seguenti fattori: il tenore di vita della
popolazione lavoratrice è cresciuto in modo considerevole, e, se pur del tutto
inadeguato, appare un netto miglioramento a chi non comprende le
potenzialità che non sono sfruttate ma vede solo il relativo progresso
concreto intorno a sé. Riguardando dietro sé ognuno infatti ricorda la povertà
maggiore della propria infanzia, o dei propri nonni, e pensa di essere in un
mondo che avanza. Inoltre, chi subisce gli effetti delle perturbazioni
cicliche, ad esempio, viene a trovarsi arruolato nell’esercito di riserva,
sente ciò come una avversità personale invece che come l’effetto del destino di
una classe sfruttata in un ordine sociale ingiusto. Infine la mentalità
dominante, che è quella propria della borghesia, vede nel capitalismo l’ordine
naturale ed ovvio delle cose. Ora l’ineguaglianza, lo sfruttamento e
l’ingiustizia sono sentiti come aspetti dell’ordine naturale delle cose, e
quindi non si pensa neppure di lottare contro di essi, ma di
sottrarsi individualmente ai loro effetti. Nelle società a
capitalismo avanzato: “i desideri stessi degli uomini sono determinati da
impulsi aggressivi, sono diretti al conseguimento di privilegi individuali e
allo sfruttamento degli altri, al consumo frivolo ed al divertimento vuoto.
Avendo introiettato i tabù e gli imperativi della morale
borghese, le persone immerse nella civiltà del capitalismo monopolistico non
desiderano ciò di cui hanno bisogno e non hanno bisogno di ciò che desiderano”.
[3] - Paul Baran, Paul Sweezy, “Il
capitale monopolistico”, 1966. Vi si formula sia un “teorema di
impossibilità” sia la direzione di una possibile soluzione sistemica: se il
capitalismo nella forma monopolista tende a soggiacere alla “legge della
crescita tendenziale del surplus”, e quindi ad una costante moltiplicazione
degli sprechi e dei ceti intermedi ed improduttivi, finendo per essere
soffocato dalla sua stessa avidità, e se in questa capacità di creare e
distribuire tra pochi ricchezza riposa la sua stabilità sociale, al contempo
esso per garantirsi l’equilibrio e la sopravvivenza necessita di estendere lo
sfruttamento e l’estrazione di surplus potenziale alle periferie dell’impero
(periferie sia esterne, le colonie, sia interne, le classi-paria). Questa forma
di capitalismo, diretta e controllata dalle grandi imprese per azioni
monopoliste e multinazionali, è quindi strutturalmente imperiale e
organizzato di necessità per grandi catene di sfruttamento internazionali.
Catene che determinano l’estrazione di valore e la contrapposizione tra la
massima opulenza e la massima disperazione, entro e fuori le cittadelle assediate
delle metropoli occidentali.
[4] - la caratteristica principale del
capitalismo è di essere, da sempre, un sistema internazionale e gerarchico,
costituito da uno o più metropoli e da una catena di periferie sfruttate (“Il
capitale monopolistico”, p.151). “La gerarchia delle nazioni che costituiscono
il sistema capitalistico è caratterizzata da una complessa serie di rapporti di
sfruttamento. I paesi che stanno al vertice sfruttano in varia misura tutti gli
altri e allo stesso modo i paesi che stanno a un dato livello sfruttano quelli
che stanno più in basso, fino a quando giungiamo all’ultimo paese che non ha
nessuno da sfruttare. Nello stesso tempo, ogni paese che sta a un dato livello
si sforza di essere l’unico sfruttatore del maggior numero possibile di paesi
che stanno più in basso. Abbiamo quindi una rete di rapporti antagonistici che
pongono gli sfruttatori contro gli sfruttati e contro gli altri sfruttatori.
Trascurando le classificazioni giuridiche possiamo chiamare ‘metropoli’ i paesi
che stanno al vertice o vicino al vertice e ‘colonie’ quelli che stanno alla
base o vicino alla base. L’area di sfruttamento di una data metropoli, da cui i
rivali sono più o meno efficacemente esclusi, ne costituisce ‘l’impero’. Alcuni
paesi che si trovano nei gradini intermedi possono entrare a far parte di un
dato impero, portando alle volte con sé un proprio impero (ad esempio, il
Portogallo e l’impero portoghese come unità subordinate nell’ambito molto
maggiore dell’impero britannico); altri paesi intermedi possono riuscire a
mantenere una relativa indipendenza, come grosso modo fecero gli Stati uniti
durante i primi centociquant’anni della loro vita nazionale indipendente”
(p.152).
Il capitalismo, in altre parole, genera ovunque da un
lato ricchezza e dall’altro miseria.
[5] - Si vedano le conclusioni del “Il
capitale monopolistico”.
[6] - Storicamente il capitalismo, non
solo ma in particolare negli Usa, ha avuto a che fare con rapporti di
sfruttamento e segregazione razziale. L’esperienza traumatica della guerra
civile, per Sweezy e Baran, (cfr. “il capitalismo monopolistico”) “non fu
combattuta dalla classe dominante del nord per liberare gli schiavi, come molti
erroneamente credono, ma per contrastare le ambizioni dell’oligarchia del sud
proprietaria di schiavi che voleva sottrarsi al rapporto sostanzialmente
coloniale che la legava con il capitale del nord”. Sarà l’enorme espansione
della domanda di lavoro industriale che mosse la situazione. “i gradini più
bassi della scala economica erano occupati da successive ondate di emigranti
provenienti prevalentemente dall’Europa, ma tra i quali non mancavano quelli
provenienti dall’Asia, dal Messico e dal Canada. Via via che i nuovi arrivati
venivano a prendere il loro posto in fondo alla scala, i figli e i nipoti degli
emigranti ‘più anziani’ salivano la scala per soddisfare il bisogno di
lavoratori semispecializzati e specializzati e di impiegati, mentre il sistema
della pubblica istruzione assolveva la funzione decisiva di prepararli a queste
occupazioni socialmente più qualificate e più remunerative. Mette conto di
rilevare che il modello inferiorità-pregiudizio-discriminazione operò anche nel
caso dei nuovi emigranti. La reazione dei lavoratori locali fu quasi sempre
ostile e talvolta estremamente cattiva. Anne Braden, una valorosa combattente
per i diritti dei negri dei nostri tempi, ha descritto quello che nella sua
città natale è diventato noto con il nome di ‘lunedì di sangue’: ‘a Louisville,
nel Kentucy, il lunedì 6 agosto 1855, una folla di rivoltosi entrò nei
quartieri cittadini abitati da immigrati tedeschi e irlandesi, incendiò
botteghe e case di abitazione e quando i loro occupanti cercarono di fuggire
aprirono il fuoco e li uccisero. Si sparò anche alle donne che fuggivano con i
bambini in braccio dalle case incendiate. I rivoltosi erano incitati dalle
grida delle mogli e figlie contegnose che sollecitavano a ‘uccidere ogni
tedesco e irlandese con i loro discendenti’”.
Chiaramente questo atteggiamento si rovesciava, come
una scala, man mano sugli ultimi venuti, di modo che i penultimi potessero, ad
ogni conto, sentire almeno di essergli superiori.
Dopo la guerra la rivoluzione agricola e la forte
natalità nelle campagne interne misero a disposizione delle città industriali
flussi continui e quindi l’immigrazione esterna non serviva più. Come scrivono
“in tali circostanze era del tutto naturale ricorrere alle limitazioni legali
dell’immigrazione. L’opposizione all’immigrazione aveva cominciato a farsi
sentire fin dal 1880, ma prima della guerra non era riuscita mai a vincere i
potenti gruppi capitalistici interessati ad avere abbondante disponibilità di
lavoro a buon mercato. Ora che tale disponibilità era assicurata da fonti
interne, gli stessi capitalisti si unirono all’opposizione, soprattutto per
timore che gli operai immigrati potessero infettare gli Stati Uniti con il
virus rivoluzionario, che, dopo aver abbattuto il sistema capitalistico in
Russia, sembrava minacciare il resto dell’Europa” (p.216). Furono lasciati
entrare, dal 1924, solo lavoratori qualificati e da aree non pericolose.
I flussi interni, che avevano sostituito quelli
esterni, implicarono l’urbanizzazione dei negri; dal 1870 al 1950 l’emigrazione
dagli stati del sud si moltiplicò da 47.000 a 1.170.000 ogni decennio. Anche
più in generale, il rapporto tra la popolazione delle campagne e delle città si
rovesciò nell’arco di un cinquantennio (da ¾ nelle campagne a ¾ nelle città).
Attraverso questi imponenti flussi i negri entrarono
nella vita centrale del paese, nelle grandi città e nel settore produttivo
della nazione dal gradino più basso e la maggior parte vi restò. Ci restarono
perché diffusi interessi privati si giovano dell’esistenza di un
sottoproletariato non integrato, e nel senso più diretto perché ne possono
usufruire per servizi, lavoretti occasionali, stagionali, … ma anche gli
imprenditori deviano l’attenzione della forza lavoro sfruttata, mettendola
l’una contro l’altra. Le piccole imprese marginali sopravvivono solo con un
lavoro debolissimo da sfruttare.
Tutti questi gruppi nel loro insieme sono la grande
maggioranza della popolazione bianca che è impegnata in un complesso gioco di
status, nella società altamente articolata e complessa dei ceti medi. La paura
e l’ambizione (di scendere e salire di status) muove allora un profondo
desiderio, in ogni gruppo sociale “di compensare il senso invidia e di
inferiorità che sente verso i gruppi superiori con il senso di superiorità e di
disprezzo verso i gruppi inferiori” (p.224). Il “gruppo-paria” in un certo
senso, svolge una funzione essenziale: stabilizza l’intera piramide sociale,
soprattutto se questo interiorizza la presunta inferiorità e spontaneamente
“sta al suo posto”. La cosa è rilevante:
“la soddisfazione che i bianchi ricavano dal
sentimento di superiorità socio-economica che provano nei confronti dei negri
trova la sua contropartita nella paura, nella rabbia e persino nel panico che
essi provano davanti alla prospettiva che i negri possano conseguire
l’eguaglianza. Poiché lo status sociale è una questione relativa, i bianchi
sono inevitabilmente portati a interpretare il movimento di elevazione dei
negri come un movimento che declassa loro stessi. Questo insieme di
atteggiamenti, prodotto da stratificazioni e pregiudizi sociali della società
del capitalismo monopolistico, contribuisce a spiegare perché i bianchi non
soltanto si rifiutano di aiutare i negri ad elevarsi socialmente, ma si
oppongono decisamente ai tentativi di elevazione fatti dai negri”.
Il terzo ordine di fattori è la scomparsa di molti
lavori a bassissima qualificazione a causa della evoluzione tecnologica, in
particolare dopo il 1950.
[7] - Ovvero Andre Gunder Frank, “Riflessioni
sulla nuova crisi economica mondiale”.
[8] - Abbiamo, per esempio, letto il
libro di Milton Friedman, caposcuola dei detti conservatori, “Capitalismo
e libertà”, che è del 1962.+
[9] - Già anticipata dalla scuola
austriaca di Von Mises e Hayek, ma poi formalizzata negli anni settanta da
Robert Lucas e Thomas Sargent che l’applicano in campo macroeconomico, seguiti
da Milton Friedman.
[10] - Si veda su questo punto “Il
capitalismo monopolistico”.
[11] - Si può vedere la ricostruzione
dello stesso Sweezy del 1942 in “La
teoria dello sviluppo capitalistico”
[12] - Cfr. Emmanuel Todd, “Dopo
l’impero”, 2002.
[14] - Francis Fukuyama, “La fine della storia e l’ultimo
uomo”, 1989. In esso la “teoria della dipendenza” è identificata come la
dottrina centrale che “ha tenuto in vita” il marxismo negli anni sessanta e
settanta, a suo parere “fornendo una coerenza intellettuale alle rivendicazioni
del sud povero del mondo nei confronti del nord ricco e industrializzato”. Il
legame funzionale proposto tra la povertà del sud e la ricchezza del nord è
contrastato dal politologo americano tramite controesempi tratti dalle
esperienze recenti: Corea del Sud negli anni cinquanta, Taiwan, Singapore, Hong
Kong Singapore, Malayasa e Thailandia. Tutti paesi che sarebbero sfuggiti al
sottosviluppo grazie al libero mercato ed alla connessione con i mercati di
sbocco occidentali ed i relativi capitali. Si tratta di una tesi parziale,
molti si sono sviluppati, al contrario, grazie ad una calibrata disconnessione
e una forte guida politica, altri hanno sviluppato dipendenze che hanno pagato
nelle crisi della fine degli anni novanta con una lunga stagnazione.
[15] - Giovanni Arrighi, “Caos
e governo del mondo”, 1999
[16] - Saskia Sassen “Territorio,
autorità, diritti”
[17]
- La crisi
egemonica che si apre nel 1970 ha del resto, per Arrighi, molte somiglianze con
quelle precedenti:
-
l’intensificazione delle rivalità
tra grandi potenze,
-
l’emergere di un nuovo centro di
potere ai margini del raggio di azione dello stato egemonico in declino,
una espansione del sistema
finanziario che è imperniato sulle strutture di questo.
[18] - Si veda “11
settembre 1973, Allende e le sue conseguenze”
[19] - Si veda Andre Gunder Frank, “Riflessioni
sulla nuova crisi mondiale”, una raccolta di conferenze del 1972-77.
[20] - “Il funzionamento generale del
meccanismo della crisi è il seguente. Le aziende innovatrici, introducendo
nuova tecnologia, riescono a tagliare i costi del capitale fisso obsoleto. Ma
ciò determina una sovra-capacità produttiva e quindi una sovrapproduzione, vale
a dire un volume di produzione eccessivo rispetto alla possibilità di
assorbimento del mercato. Di qui un abbassamento dei prezzi e, come conseguenza,
la diminuzione del tasso di profitto. Questo processo, a sua volta, ha come
effetto quello di ridurre gli investimenti e di provocare, nel settore
monetario, quella che si chiama bolla speculativa” (P.46).
[22] - Nei suoi libri degli anni
sessanta che abbiamo letto, nei quali i paesi socialisti erano individuati come
contro-sistema.
[23] - Si veda Domenico Losurdo, “Il marxismo occidentale”, 2017.
[25] - E’ quello che Varoufakis, con
bella immagine, chiama l’inversione de “il Minotauro mondiale”, si veda Yanis
Varoufakis, “Il Minotauro Globale”, 2011.
[26]
- Insomma,
da questa analisi allargata (ed “orizzontale”) Gunder Frank ne ricava
l’opinione che “la vera ragione della caduta dell’Unione Sovietica è il posto
che questa regione occupava nel sistema economico mondiale”.
[27] - Emmanuel Todd, “Dopo
l’impero”
[28] - Giapponese, tedesco, svedese e
coreano è l’elenco di un libro influente come “Il
vantaggio competitivo delle nazioni”, del 1990 del guru del
marketing Michael Porter
[30] - l’anno
in cui appare “La grande scacchiera” di Brzezinski è il 1997
[31]
- In molti sensi diversi, sia
come risultato della “Rivolta
degli elettori”, sia come impossibilità di continuare a non giocare
politicamente e quindi come urgenza di riprendere la “Grande
partita”.
Nessun commento:
Posta un commento