Il
libro raccoglie alcuni editoriali del
Monthly Review scelti dagli autori e riconducibili al periodo tra il 1960 e il
1962. Il primo blocco è una serie di articoli, usciti a settembre, ottobre e
novembre del 1960 sotto il titolo “Teoria della politica estera americana”.
La tesi, alla luce degli eventi degli anni cinquanta, è che l’intera politica
estera statunitense è in effetti forgiata dagli interessi di classe interni,
più precisamente dalla completa dominazione dell’economia Usa da parte del
capitalismo monopolistico[1], il cui stato normale è la
depressione cronica. Per evitare dunque che il capitalismo ricada sempre nel
suo stato normale di sottoinvestimento, e depressione, la risposta compatibile
con i vincoli interni del sistema è una sorta di “equilibrio del warfare”.
Ciò
che accade tipicamente ad una società capitalistica dominata dal monopolio è,
infatti, una sorta di autointrappolamento: “la previsione collettiva e i piani
per il futuro sono possibili solo nella misura in cui implicano sacrifici presenti
trascurabili e vantaggi finali per tutti o quasi tutti quelli che contano (e
cioè che possiedono). Se i sacrifici immediati sono notevoli e i benefici
futuri sono collettivi, nessuna azione è possibile” (p.14). La conseguenza più
importante di questa struttura è che la società capitalistica non può mai
agire in anticipo per prevenire una crisi. Un ottimo esempio (che,
ovviamente, gli autori non possono fare in quell’anno) è la crisi climatica[2], nella quale si esce dalla
crisi nella misura in cui con analogo meccanismo di possa attivare una sorta di
“greenfare”.
Il
problema da un punto di vista sistemico è che “una politica estera che favorisce
in ogni modo gli interessi privati accelera il declino e il tramonto degli
Stati Uniti come potenza mondiale; e non si cercheranno rimedi, se non e fino
al momento in cui quegli stessi interessi privati cominciano ad essere lesi anziché
avvantaggiati”[3].
Ma
quando accadrà per gli autori?
Il
problema maggiore è il persistente deficit della bilancia dei pagamenti, che
costringe il sistema americano a pagare sistematicamente più di quanto incassa,
una situazione che si è prodotta dal ’58 e continua a crescere. Sul tema gli
autori torneranno a lungo[4] negli anni seguenti,
mentre la crisi della bilancia dei pagamenti si sviluppa, durante gli anni
della guerra del Vietnam, e poi conduce alla rottura dei primi anni settanta[5]. A quella fase la
tendenziale discesa delle riserve, che accelererà nel decennio successivo (soprattutto
a livello potenziale), e l’accresciuta competizione intercapitalistica con
Europa e Giappone, porta ad una ricerca spasmodica di occasioni di investimento
all’estero da parte delle imprese capitalistiche. Spazio che è sfidato dai
processi di decolonizzazione e dalla sfida egemonica di parte socialista[6], che quindi a quel momento
si presenta come “nube all’orizzonte”.
Come
per lo più ritennero in quegli anni la maggior parte degli autori marxisti
questa tendenziale stagnazione del capitalismo, catturato dalla sua logica
interna orientata all’accumulazione ed al sovrasfruttamento[7] e della costante
difficoltà a sfuggire a ricorrenti “crisi di realizzo”[8], sarebbe stata alla fine
fatale in quanto la pressione delle lotte di liberazione nazionali, sostenuta
dal campo socialista, avrebbe imposto costi crescenti fino a superare l’utilità
esacerbando lo squilibrio dei pagamenti ed esaurendo, alla fine le risorse
umane ed economiche statunitensi. Chiaramente in quegli anni si sta verificando
almeno un triplo scontro: tra l’occidente imperialista e i paesi
coloniali (ma anche le “colonie interne”[9]); tra l’occidente
capitalista e il mondo socialista; tra i centri imperiali di primo livello e
secondo, ovvero tra Usa ed Europa o Giappone. Questa tensione induce durante
tutti gli anni sessanta e settanta una crescente instabilità e lo sforzo, per
gestirla, di aumentare, dove possibile politicamente, la spesa per ripristinare
la domanda ed allontanare la stagnazione. Ma nel farlo accentua
progressivamente il deficit (anzi il doppio deficit, della bilancia commerciale
e del bilancio federale), mettendo sotto crescente pressione il sistema del
dollaro. Ovvero la convertibilità del dollaro in oro definita dagli Accordi di Bretton
Woods, come aveva previsto Keynes[10], alla fine si rileva
insostenibile e definisce una struttura di reciproco ricatto. Ma, come peraltro
previsto anche da Sweezy nei tardi anni sessanta[11], la cosa si risolve nell’interruzione
della convertibilità del dollaro in oro (15 agosto 1971[12]) e nella successiva
globalizzazione del capitale. Una imponente crescita di liquidità, non più
frenata dalla struttura tendenzialmente deflazionaria del cambio fisso, avviene
allora a partire dalla metà degli anni settanta, con la conseguenza che parte
via via più velocemente una ondata crescente di investimenti diretti e
finanziari verso i paesi ex coloniali e del terzo mondo, capitali che portano
con sé forme di disciplinamento, di cattura nella trappola del debito, e di
vero e proprio ricatto politico. Dopo qualche anno ci saranno le necessarie
conseguenze sotto forma di bolle e processi di fuga di capitali e repentine
crisi finanziarie di nuovo tipo: Messico (1995), sud est asiatico (1997),
Russia e Brasile (1998), Argentina (2001). Si è trattato di un insieme di
processi che hanno una componente tecnologica (in un campo nel quale il sistema
sovietico restò inesorabilmente indietro: la information technology), ideologica
(il neoliberismo) e politica (con la spinta alla deregolazione e il continuo
intervento per tamponare la tendenza ad una crisi di natura finanziaria). Si tratta
al fondo di una operazione che è resa possibile da un nuovo protagonismo delle
Banche Centrali che (Greenspan) riescono a “indurre gli attori del mercato a
impiegare i suoi debiti [della banca Centrale] come moneta”, ora che nessun
rapporto reale la sostiene. È ovvio che accettare, in tutto il mondo, “i debiti
americani” (ovvero il dollaro) come moneta implica un certo tipo di rapporto di
forza.
Al
contempo, nell’occidente non Usa, avvengono imponenti processi di
ristrutturazione e quello che appare a molti “l’avvio di una nuova crisi del
sistema di accumulazione del capitale nel campo imperialista”[13]. Crisi che coinvolge
anche i paesi socialisti, i quali si sono progressivamente interconnessi con il
sistema capitalista (vendendo materie prime e prodotti in cambio di mezzi di
produzione, accentuando anche loro il surplus verso i paesi sottosviluppati). È
qui che si innesta, nel quadro della crisi delle materie prime, effetto
collaterale ma importante del disordine geostrategico e finanziario e della
decolonizzazione, la lotta distributiva e la crescente mobilitazione dei tardi
anni sessanta e primi anni settanta, questa mobilitazione (che, però, sarà
sconfitta[14])
della classe operaia per sottrarsi alla riduzione del tenore di vita. Ovvero
allo scarico su di essa delle tensioni di valorizzazione prodotte dallo
spostamento della divisione internazionale del lavoro e dall’obsolescenza di
alcune tecnologie (ovvero dei settori) traino. Questa mobilitazione è
contrastata e gestita dalle gestioni socialdemocratiche nei paesi imperialisti
e da forme di governo neofasciste in quelli “subimperialisti”. In entrambi i
casi per proteggere i profitti, contenendo il costo del lavoro. Si passa così,
per tentativi e per dinamica interna, al modello della “sostituzione delle
esportazioni” (Frank, 1977)[15]. Come opportunamente
sottolinea Andre Gunder Frank Si tratta di una politica e di un equilibrio
internazionale che non richiede una domanda effettiva, “l’unica cosa che conta
diventa allora il costo di produzione; bisogna evidentemente che esso sia più
basso possibile. I paesi sottosviluppati gareggiano tra di loro per ridurre al
massimo questo costo., allo scopo di essere più competitivi. Ciò dà luogo ad
una politica di riduzione dei salari e di aumento dello sfruttamento, cioè di
supersfruttamento, difeso da un’alleanza politica diversa dalla precedente: un
settore della borghesia monopolistica integrata al capitale internazionale
produce sempre di più per il mercato estero, senza sviluppo di un capitale che
lavori per il mercato interno (quando non è addirittura eliminato come in
Cile), produzione fondata sul supersfruttamento del lavoro. Non v’è dunque la
base economica per il tipo di alleanze prevalente quando si applicava la
politica di sostituzione delle importazioni; bisogna al contrario opprimere la
classe operaia e perfino una frazione della borghesia”[16].
Come
sia il contributo dei nostri, nel 1960 quando tutto questo è ancora di là da
venire, si impernia su quattro affermazioni:
1- Lo
scopo fondamentale della politica estera è di giustificare l’apparato militare
per mantenere l’economia e l’impero,
2- Questa
è la ragione autentica dell’anticomunismo,
3- Le
sconfitte non gli fanno mai cambiare idea,
4- Ma
questa situazione non può durare per sempre.
Quel
che bisognerebbe fare è esattamente il contrario, non combattere contro le
forze del tempo (la decolonizzazione) e sostituire il warfare con il welfare.
Il
testo si chiude con una semplice affermazione, una “profezia lenta”: “l’attuale
capitalismo monopolistico è essenzialmente un sistema internazionale. Ha bisogno
di un vasto ‘mondo libero’ in cui vivere. Se lo spazio vitale si contrarrà
progressivamente, restando immutate le sue attuali caratteristiche strutturali,
la conclusione logica sarà una crisi paragonabile in portata e gravità, a
quella che colpì il mondo capitalistico negli anni dopo il ‘29” (p.43).
In
effetti da allora il capitalismo si è espanso, praticamente in tutto il mondo,
travolgendo dopo lo scontro finale degli anni settanta e ottanta buona parte
del mondo socialista[17] e piegando la restante
(ovvero, sostanzialmente, la Cina[18]). Ma al termine dell’espansione
guidata dal capitale (e non dalla logica ‘territorialista’[19]) l’iper-globalizzazione,
come nel ’29, si è scontrata con i limiti della fragilità intrinseca dei sistemi
capitalistici lasciati a se stessi[20].
Il
libro prosegue con il saggio “La dottrina Kennedy”, che dà conto dell’avvio
della guerra nel Vietnam meridionale e della prospettiva di trasformare tutto
il sud-est asiatico (e poi il mondo) in una colonia americana, di paese in
paese.
In
“La crisi permanente”, viene, invece analizzata la crisi di Berlino e
della Germania Est, che vede in quegli anni, a sedici anni dalla fine della
guerra mondiale, posta in questione la stessa sovranità di fatto della Germania
orientale. La crisi vede la parte sovietica particolarmente attiva, Krusciov ha
fretta perché essenzialmente il continuo, ininterrotto, flusso di profughi dall’est
verso l’ovest, in assenza di frontiere certe, destabilizza costantemente il
paese.
Quindi
l’attenzione del testo si sposta sull’America Latina, e sulla strategia di
Kennedy “Alleanza per il progresso”, che vede proporre dagli Usa l’erogazione
di aiuti per lo sviluppo in cambio di riforme di tipo liberale. L’aiuto
straniero è sperimentato come “strumento di riforma e materia di progresso”. Secondo
Sweezy, questa può sembrare una idea, ma non funzionerà, perché nessuno vuole
queste riforme e la loro natura effettiva è di aumentare ineguaglianze e
problemi politici, tendenzialmente producendo deflazione (p.82).
“La
controversia Cino-sovietica” descrive invece il dibattito tenutosi al XXII
Congresso del Pcus. La differenza emersa tra cinesi e russi riguarda essenzialmente
la linea di azione che i paesi socialisti devono seguire per ridurre i rischi
di escalation militare e nucleare. La posizione cinese è che il capitalismo
americano è, in fondo, una “tigre di carta” e bisogna contrapporsi in modo
netto e deciso, quindi anche concentrare le risorse, non disperderle in favore
di paesi “non allineati”[21], a meno non scelgano da
quale parte stare. La posizione sovietica, al contrario, assume una maggiore prudenza
nei confronti della potenza occidentale e attribuisce una maggiore rilevanza
agli stati rispetto ai movimenti delle classi lavoratrici e quindi dei popoli. Vede
il mondo come diviso in tre campi: occidentale, socialista, e non allineato. Quindi
la strategia proposta è di guadagnare tempo, negoziare, accordarsi, evitare lo
scontro. Per gli autori, i russi hanno ragione e i cinesi torto.
Nel
saggio “Il mercato comune”, per noi particolarmente interessante, viene
fornita una visione da parte americana alla formazione negli anni cinquanta,
con il Trattato di Roma[22] del Mercato Comune. Secondo
Sweezy e Huberman esso “mette in pericolo la posizione dominante Usa”, proprio perché
esso è “molto di più di una unione doganale” (p.97). Questa tesi viene
riportata nella discussione pubblica americana e da parte dell’amministrazione
ma per comprenderne il senso, in base all’opinione di Sweezy, bisogna risalire
al vero senso della cosa. E per ottenerlo ricordare che l’antefatto dell’accordo
sul mercato comune è la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio
(CECA), entrata in vigore nel 1951. La CECA metteva insieme il desiderio dei francesi
di sottomettere l’industria pesante tedesca ad un controllo internazionale e il
desiderio dei grandi cartelli di espandere i loro mercati e perfezionare l’apparato
di controllo e pianificazione. Come capita anche altre volte in seguito i
francesi non ottengono i loro obiettivi, perché “la Germania occidentale, aiutata
e incoraggiata dagli Stati Uniti, divenne ben presto la potenza guida dell’Europa
occidentale, e invece di essere controllata cominciò a esercitare essa stessa
funzioni di controllo” (p.98). Invece i grandi cartelli ottennero il loro scopo
ed anche un precedente. Nel frattempo quasi ovunque la sinistra era in crescita
e la radicalizzazione delle masse si stava accentuando in modo preoccupante,
nel 1947 ci furono imponenti scioperi nel nord della Francia, nel 1948 sembrò
che l’intera Europa fosse sull’orlo di una rivoluzione sociale.
A
questo punto interviene il Piano Marshall, con i suoi miliardi di
dollari di aiuti, e la sinistra fu cacciata dai governi di coalizione senza
tante cerimonie (era, evidentemente, la condizione per avere i dollari). Nel 1951
i laburisti furono sconfitti in Gran Bretagna, quindi “tutte le posizioni di
potere reale furono occupate da rappresentanti fidati dei grossi calibri dell’industria
e della finanza”. Il blocco sociale che li portava su era formato dalla borghesia
antisocialista, dalle masse contadine cattoliche ed un settore della classe
operaia che “godeva della prosperità e sostanzialmente non s’interessava d’altro”.
Fino a che dura la crescita, tutti gli anni cinquanta, la cosa è molto stabile.
È
in questo contesto, nel quale l’intero mondo dei grandi affari era ormai
intrecciato “in un dedalo di accordi e di sovrastrutture di carattere finanziario,
tecnologico e commerciale”, che si pensa di generalizzare il successo della
CECA, costituendo il MEC. In definitiva, “sotto ogni aspetto il Mercato Comune
corrisponde esattamente alle necessità, ed è destinato al servizio, del mondo e
degli interessi dei grandi affari internazionali che l’hanno creato. Se non si
capisce e si tiene presente questo, si può dire ben poco di sensato e di
significativo intorno a questa istituzione”. Non è solo un vasto mercato
protetto, ma anche una vasta area in cui operare liberamente.
Si
tratta di un’area di libertà, per le grandi imprese, circondata da barriere
doganali uniformi. Dunque nel suo complesso “non è un passo nella direzione di
un commercio più libero, ma di un maggiore protezionismo”. Nell’area protetta
sono infatti eliminate le restrizioni (in verità molto gradualmente), e la
libera concorrenza viene assunta come sacro principio ispiratore di tutta l’impresa.
In fondo, però, per “libera concorrenza” si intende “libertà per le grosse
imprese (a carattere per lo più monopolistico) di conseguire i massimi profitti,
mentre il governo interviene o aiuta come e quando occorre”. In altre parole,
attraverso l’accordo viene garantito il capitalismo. Qualunque riforma
fondamentalmente socialista che fosse promossa da uno degli stati membri (all’epoca
6) sarebbe bloccata dal meccanismo di decisione a maggioranza, “così tutto il
congegno per frenare e controllare un futuro movimento rivoluzionario, ad
esempio in Francia o in Italia o in entrambi i paesi allo stesso tempo, è già
pronto”.
Un
simile meccanismo (anche con la sua proiezione coloniale in Africa), non è la
piena garanzia di sviluppo e successo, ma, invece, il processo di accumulazione
capitalista accelerato al livello dei trust più grandi porta a due tipi di
concentrazione: quella geografica nelle aree più sviluppate, dove sono i
trasporti, i servizi, le industria e la mano d’opera più qualificata. Lo sviluppo
si concentrerà nella bassa valle del Reno e nell’Italia settentrionale, “lasciando
sostanzialmente da parte le zone arretrate del meridione della Germania, della
Francia e dell’Italia”. Anche le istituzioni che dovrebbero correggere lo squilibrio
(Banca di Sviluppo e Fondo Sociale), di fatto sono vincolate statutariamente ad
agire in base a criteri commerciali, e quindi va dove meno ce ne è bisogno, e
il Fondo sociale “è destinato non a promuovere lo sviluppo delle aree
arretrate, ma ad addestrare i lavoratori di queste aree e a spostarli per
soddisfare la crescente necessità di manodopera delle regioni più avanzate”
(p.107).
E
quella industriale. Infatti anche l’accrescimento dei mercati
favorisce le imprese più grandi, e sarà quindi tra le cause di un imponente
processo di concentrazione industriale.
Insomma:
qui sta prendendo forma una nuova potenza capitalistica e imperialistica,
con una popolazione ed un potenziale paragonabile agli Stati Uniti. Normalmente
questo avrebbe dato seguito ad una accanita lotta commerciale, senza esclusione
di colpi, ed eventualmente al termine militare. Ma ora a fronte di questa
rivalità c’è il campo socialista. Questo farà da potentissimo collante, e
quindi è più probabile che i potenziali di lotta interimperialista siano messi
da parte per formare un blocco compatto contro la sfida sovietica.
Seguono
saggi sulla “Minaccia della guerra preventiva”, nel quale è analizzata la
diversa strategia di escalation nucleare tra Usa e Urss. E due saggi sulla
crisi di Cuba.
Il
12 agosto 1962, gli autori scrivono un saggio che in effetti va posto in
connessione con i saggi sulla crisi degli anni sessanta (o meglio sul processo
di ‘crisi rinviata’ che segue all’esaurimento tendenziale del boom degli
anni cinquanta) a partire dal 1965, con “Il boom Kennedy-Johnson”, che
abbiamo letto nel libro “La controrivoluzione globale”[23]. Si tratta di “Il
capitalismo americano ad una stretta”. Huberman e Sweezy notano che da
agosto, appunto del 1962, quasi tutti gli indicatori sono in ribasso, sembra
quindi avvicinarsi una recessione. La quinta dal dopoguerra, che porterebbe a
termine l’espansione del 1961 dopo soli 18 mesi. Considerando tutti i cicli del
dopoguerra la conclusione è che le crisi sono (prima crisi 1948/49, seconda
1953/54, terza 1957/58, quarta 1961/62) sempre
più ravvicinate e con un recupero sempre più parziale. Inoltre la disoccupazione
è stata sempre crescente (il recupero della perdita di occupazione nei periodi
di crisi sempre più parziale), passando complessivamente dal 3,9 al 5,6 % e l’utilizzazione
della capacità produttiva sempre calante, dal 98 al 81%.
Il
significato di fondo di questi fenomeni è attribuito alla contrazione dei
profitti, ma questa a sua volta non è attribuibile agli “alti salari”, o agli
errori di politica, come vorrebbero gli economisti conservatori, bensì alla
stagnazione latente, determinata come effetto secondario, ma interno e
necessario, proprio degli alti profitti. La tesi deriva da un articolo del
giugno 1958, ma anche dal libro di Paul Baran “Il surplus economico”[24]. Gli alti profitti tendono,
nelle condizioni del capitalismo monopolistico che ha una relativa capacità di
controllare i prezzi e rinviare gli investimenti, a non essere prontamente
restituiti al mercato, in forma di domanda di beni e servizi; quindi appare una
tendenza al declino sia della domanda totale, sia della produzione media e
infine dei profitti. Questa dinamica ha una forza tale che anche se l’economia
potesse viaggiare vicina al suo massimo (stimato in un 15% superiore all’attuale),
con una quota di profitti invariata (12,5%) genererebbe un monte profitti
doppio dell’attuale (90 Mld contro 45) che non potrebbe essere assorbito dagli
investimenti e quindi ricadrebbe. Questa scheletrica dimostrazione mostrerebbe
l’impossibilità (data la tendenza alla massimizzazione dell’appropriazione del
surplus come profitto del sistema decentrato capitalista, in particolare nelle
condizioni monopoliste), per il sistema di assestarsi sul pieno impiego dei
mezzi produttivi e dei lavoratori. Ovviamente la dimostrazione abbreviata
rinvia ad una più ampia prodotta da Paul Sweezy nella sua lettura della teoria
marxiana degli anni quaranta e che abbiamo già letto[25].
In
questo modo si spiega la frase apparentemente paradossale che segue: “ogni
mutamento che provoca un aumento dei profitti – aumenti dei prezzi,
automatizzazione dei processi produttivi, e via dicendo – non fa che abbassare
il livello sostenibile di utilizzazione della capacità produttiva” (p.132).
Per questo la politica più razionale, ma la meno fattibile, sarebbe del
controllo generale dei prezzi per accrescere i redditi reali dei consumatori e
ridurre i profitti dei grandi complessi privati.
Dunque
la previsione che gli autori compiono è di un declino durevole e marcato,
a meno che l’amministrazione Kennedy riesca ad introdurre misure efficaci che
determinino forze di compensazione e stabilizzatrici abbastanza potenti. Una tradizionale
è stata, come visto, la spesa militare (infatti nel 1960, con Eisenhower, la
difesa spese 45 miliardi, e con il successivo aumento a 53 miliardi c’è stato
qualche beneficio, ma limitato).
Gli
autori pensano che più che sull’espansione della spesa militare (che, invece,
sarà imponente a causa della guerra del Vietnam) si punterà su riduzioni
fiscali, questa potrebbe ottenere in senso congiunturale qualche risultato. Ma
anche se accadesse ciò aggraverebbe la bilancia dei pagamenti (cosa che è
infatti avvenuta, fino all’esito del 1971) che peggiorerebbe ancora, se la
stagnazione fosse superata.
Il
capitalismo americano, insomma, appare “in un vicolo cieco”.
Questo
nel 1962.
[1] - Si veda prima della data degli
articoli sia Paul Sweezy, “La
teoria dello sviluppo capitalistico”, 1942, sia Paul Baran, “Il
surplus economico”, 1958. Il capitalismo nella fase monopolista tende
alla stagnazione per la rottura del rapporto di formazione del prezzo ancorato
alla concorrenza (per quanto si trattasse di un modello ideale), e la tendenza
sistematica al sottoinvestimento ed ai sovraprofitti (per cui alla crisi da
realizzo ed al sottoconsumo). Questa tendenza è contrastata da alcuni fattori
che cercano di dissipare il surplus, o di impiegarlo fuori del processo
strettamente produttivo (che innalzerebbe la concorrenza aggravando la crisi),
tra i mezzi c’è ovviamente la spesa all’estero (in particolare le spese
imperiali e quindi, ma non solo, militari) e c’è la moltiplicazione dei lavori
improduttivi e dei relativi ceti. “Parlando in maniera generalissima, questa
parte improduttiva è formata da tutto quel lavoro che ha come risultato la
produzione di beni e servizi la cui domanda si possa attribuire alle condizioni
e ai rapporti specifici del sistema capitalistico, e che sarebbe assente in una
società razionalmente ordinata” (p.44). Ma questo movimento economico ha un
risvolto potentissimo nelle forme di interiorizzazione e controllo sociale. Ci
torneranno nei libri ed interventi degli anni sessanta. Quindi Paul Baran, Paul
Sweezy, “Il
capitale monopolistico”, 1966, nel quale è formulato sia un “teorema di
impossibilità” sia la direzione di una possibile soluzione sistemica: se il
capitalismo nella forma monopolista tende a soggiacere alla “legge della crescita
tendenziale del surplus”, e quindi ad una costante moltiplicazione degli
sprechi e dei ceti intermedi ed improduttivi, finendo per essere soffocato
dalla sua stessa avidità, e se in questa capacità di creare e distribuire tra
pochi ricchezza riposa la sua stabilità sociale, al contempo esso per
garantirsi l’equilibrio e la sopravvivenza necessita di estendere lo
sfruttamento e l’estrazione di surplus potenziale alle periferie dell’impero
(periferie sia esterne, le colonie, sia interne, le classi-paria). Questa forma
di capitalismo, diretta e controllata dalle grandi imprese per azioni
monopoliste e multinazionali, è quindi strutturalmente imperiale e
organizzato di necessità per grandi catene di sfruttamento internazionali.
Catene che determinano l’estrazione di valore e la contrapposizione tra la
massima opulenza e la massima disperazione, entro e fuori le cittadelle
assediate delle metropoli occidentali.
[2] - La quale è perfettamente
spiegabile a partire da questo modello: lo stress ambientale derivante dalla
componente antropica del mutamento climatico, come dall’inquinamento, indice
danni diffusi e crescenti. Tuttavia la soluzione andrebbe ad accrescere in modo
significativo i costi fissi e variabili nella produzione di tutti o quasi i
beni e servizi. In questi termini la soluzione è politicamente impraticabile,
perché osteggiata dalle lobbies più rilevanti per la buona ragione (dal loro punto
di vista) che hanno solo da perdere. Cosa del tutto diversa se l’azione per
intervenire nei meccanismi del cambiamento climatico, e dell’inquinamento,
aprono nuovi mercati e occasioni di investimento fondamentalmente pagati dalla
parte pubblica, ovvero dalla generalità della società. In questo caso la
soluzione è vincente, esattamente come per il “warfare”. Si attiva una sorta di
“greenfare”. Per un ragionamento che conduce in questa direzione si veda “Greta
Thunberg: la posta egemonica e lo scontro per il mondo”.
[3] - Si può interpretare la svolta
anti-globalizzazione (o anti ‘seconda-globalizzazione’ in favore di una ‘terza’,
i cui contorni sono ancora poco visibili) di Trump come l’emergere di un simile
conflitto inter-capitalistico.
[4] - Si veda la seconda parte de “La
controrivoluzione globale”, nella quale sono descritti i tentativi di
tenere sotto controllo la tendenza alla crisi e prolungare il boom del dopoguerra
(e l’egemonia mondiale americana) anche se il mutato quadro competitivo
internazionale la sta sfidando in modo crescente. Si va dalla descrizione del “boom
kennediano” del 1965, alla crescente crisi dell’oro nel 1966 e 67. Nel 1968 l’unica
soluzione possibile sembra “passare dal gold standard al dollar standard”, come
avvenne nel 1971.
[5] - Si veda, Gunder Frank, “Riflessioni
sulla nuova crisi economica mondiale”
[6] - Una sfida che sarà sconfitta a
partire dai primi anni ottanta, sostanzialmente negli anni delle
amministrazioni Reagan, che fanno ripartire la guerra fredda, innalzano in modo
insostenibile la spesa militare in anni di difficoltà crescenti, e richiamano i
capitali sottoponendo i paesi in sviluppo ad una pressione che mette sotto
stress per altra via le risorse del campo socialista. La Urss ne uscirà drasticamente
indebolita, mentre la Cina si convincerà, con Deng, ad avviare una
trasformazione strutturale (con molta pazienza “cinese”).
[7] - La caratteristica principale del
capitalismo è di essere, da sempre, un sistema internazionale e gerarchico,
costituito da uno o più metropoli e da una catena di periferie sfruttate (“Il
capitale monopolistico”, p.151). “La gerarchia delle nazioni che
costituiscono il sistema capitalistico è caratterizzata da una complessa serie
di rapporti di sfruttamento. I paesi che stanno al vertice sfruttano in varia
misura tutti gli altri e allo stesso modo i paesi che stanno a un dato livello
sfruttano quelli che stanno più in basso, fino a quando giungiamo all’ultimo
paese che non ha nessuno da sfruttare. Nello stesso tempo, ogni paese che sta a
un dato livello si sforza di essere l’unico sfruttatore del maggior numero
possibile di paesi che stanno più in basso. Abbiamo quindi una rete di rapporti
antagonistici che pongono gli sfruttatori contro gli sfruttati e contro gli
altri sfruttatori. Trascurando le classificazioni giuridiche possiamo chiamare
‘metropoli’ i paesi che stanno al vertice o vicino al vertice e ‘colonie’
quelli che stanno alla base o vicino alla base. L’area di sfruttamento di una
data metropoli, da cui i rivali sono più o meno efficacemente esclusi, ne
costituisce ‘l’impero’. Alcuni paesi che si trovano nei gradini intermedi
possono entrare a far parte di un dato impero, portando alle volte con sé un proprio
impero (ad esempio, il Portogallo e l’impero portoghese come unità subordinate
nell’ambito molto maggiore dell’impero britannico); altri paesi intermedi possono
riuscire a mantenere una relativa indipendenza, come grosso modo fecero gli
Stati uniti durante i primi centociquant’anni della loro vita nazionale
indipendente” (ivi p.152). Il capitalismo, in altre parole, genera ovunque da
un lato ricchezza e dall’altro miseria.
[8] - Si può sinteticamente definire una
“crisi di realizzo”, quando le merci prodotte faticano a trovare acquirenti per
effetto di un eccesso di profitto (ovvero di una debolezza del consumo), e
quindi sono costrette a competere per “realizzare” il loro valore e tradurlo in
capitale. Una crisi di realizzo è solo parte di un ciclo autorafforzante (ma
che può essere interrotto dalle opportune contromanovre volte a reflazionare il
sistema) che determina il crollo degli investimenti, e quindi della
occupazione.
[9] - I Monthly Review chiamano
“colonie interne” le aree di sfruttamento, razziale o meno, interne alle
metropoli capitalistiche, si veda, Leo Huberman, Paul Sweezy, “La
controrivoluzione globale”.
[10] - Nel 1943 alla Conferenza di
Bretton Woods il Piano di White (USA) e quello di Keynes (UK) sono pubblicati
dai rispettivi governi e si contrappongono. In quello del secondo ora trovano
spazio anche istituzioni mirate a promuovere il libero scambio, a finanziare
gli investimenti internazionali produttivi, a stabilizzare il mercato delle
materie prime. Si tratta nel complesso di un insieme di strumenti volti al
contrasto del ciclo economico ed alla prevenzione delle crisi. Lo schema di
Keynes lavora per la pace perché impedisce l’accumulo di quello che l’economista
chiama “arsenali finanziari”, in termini di riserve valutarie e debiti
esteri che inevitabilmente sviluppano una vera e propria capacità di ricatto.
Togliere da parte del creditore, di fatto, la possibilità al debitore di pagare
(costringendolo a politiche recessive) allontana infatti la pace (“pagare”
viene dal latino “pax”). Lo scontro tra i due schemi si risolve in quella che
Keynes vive come una “resa incondizionata”, quando nell’aprile 1944 ad Atlantic
City viene firmato il Joint Statement, e poi il 1 luglio dello stesso anno
a Bretton Woods gli Accordi. All’ultimo istante, senza neppure dare agli
alleati il tempo di leggere fino in fondo, sarà anche inserita formalmente la
chiave di volta: l’utilizzo del dollaro come moneta internazionale. Inizia
la Pax Americana. Fantacci, in “Fine
della finanza”, vede la cosa in modo semplice: le premesse della crisi
che si aprirà nel 1971, quando l’enorme quantità di cartamoneta in dollari, cui
non corrispondono ormai né oro né tanto meno beni, determina un shock ed una
fiammata inflazionistica in tutto il mondo (di cui la tempesta del petrolio è
solo effetto secondario). Dunque si presenta l’inflazione accompagnata da
stagnazione come effetto ultimo della “finanza da guerra” che prevale a Breton
Woods, contro il “disarmo” proposto da Keynes (cfr. ivi p.44). In sostanza in
tale occasione, dice Fantacci: “gli interessi della finanza hanno prevalso
sugli interessi del commercio. Il sistema di Bretton Woods rappresenta una
sconfitta dell’economia di mercato a opera del capitalismo, inteso a la Braudel
come ‘anti-mercato’ fondato sull’alleanza fra potere politico statuale e potere
finanziario internazionale. Quello uscito da Bretton Woods è un sistema di
finanza di guerra, funzionale alla mobilitazione indiscriminata delle risorse:
burro e cannoni, welfare e warfare.” (ivi., p.46). Si veda John Maynard Keynes,
“Moneta
internazionale”
[11] - Si veda, Huberman, Sweezy, “La
controrivoluzione globale”.
[12] - Alle nove di sera,
improvvisamente, il Presidente Nixon, dopo settimane di tensione con i paesi
europei, ed in particolare con la Francia di De Gaulle, interrompe la convertibilità
“provvisoriamente”. Il Segretario del Tesoro, John Connally presenta la cosa in
questi termini: “il dollaro sarà anche la nostra moneta, ma è il vostro
problema”, e, in al pubblico americano: “gli stranieri hanno intenzione di
fotterci. Il nostro compito è di fotterli prima”. Non si tratta di un atto di
pace, e tanto meno di pura finanza, si tratta di fare la guerra “per la difesa
della libertà del mondo”, come disse Nixon. Come dice lo stesso Nixon, “si
tratta di consentire agli Stati Uniti di riguadagnare competitività internazionale
e, al contempo, di imporre agli alleati di sopportare l’onere corrispondente,
come equo contributo alla causa comune”. Inizialmente, come risulta dai verbali
del Gabinetto del giorno dopo, la misura è presa per costringere gli alleati ad
un tavolo negoziale, ma resterà permanente perché ha liberato le Erinni della
finanza. Due anni di febrili negoziati portano infine, nel marzo 1973, alla
libera fluttuazione delle valute. Quel che succede è che gli Stati Uniti non
ottengono dagli alleati di contribuire alle spese di protezione, ma ottengono
di pagarle con moneta senza copertura.
[13] - Gunder Frank, “Riflessioni
sulla crisi economica mondiale”, 1972
[14] - In Italia nel biennio 1976-78, e
negli anni immediatamente seguenti. Si veda, ad esempio, questo post sulla
lotta di classe alla Fiat, “Le
lotte operaie alla Fiat negli anni settanta: il lavoro e la questione del
potere” ed il seguente “Le
lotte operaie alla Fiat negli anni settanta: sicurezza sul lavoro e tecnologia”.
[15] - Modello che serve
a disciplinare la classe operaia nelle “metropoli” attraverso l’imposizione
della “austerità”, ed a accrescere il saggio di sfruttamento, con ogni mezzo
brutale possibile, nei paesi ‘periferici’ o ‘semi-periferici’. Il mezzo è la
crisi della bilancia dei pagamenti che giustifica, appunto, la proiezione alle
esportazioni e questa la compressione salariale. A sua volta la crisi della
bilancia dei pagamenti, e la crisi fiscale, saranno tra i fattori che
promuoveranno il riciclo delle eccedenze (senza passare per i consumi) che
diventerà nel tempo il sistema d’ordine centrale del nuovo modello sociale e
geopolitico fondato sulla finanza e l’economia del debito.
[16] - Andre Gunder Frank, “Riflessioni
sulla nuova crisi economica mondiale”, p. 104
[17] - La crisi finale dell’Urss, ha
naturalmente molte cause e avviene nel contesto dell’incrudimento della sfida
egemonica e competitiva che un’amministrazione americana sempre più aggressiva
gli porta a partire proprio dalla crisi degli anni sessanta e settanta. L’azione
del Presidente Nixon nei confronti della Cina che aveva l’obiettivo di essere
più vicino al gigante comunista di quanto lo fosse l’altro, facendo leva su una
evidente potenziale rivalità geostrategica e numerose frizioni e divergenze
passate ebbe un rilevante ruolo, aprendo un fronte a sud, e il passaggio dell’Egitto,
nel 1973, nel campo dei “paesi liberi”. Ma, anche più importante, negli anni
immediatamente successivi ci fu la disgregazione progressiva della parte europea
del Patto di Varsavia, con la crisi della Polonia (Lech Walesa e Solidarnosc) e
della Cecoslovacchia (Havel). L’azione di Nixon fu proseguita, nella stessa
linea da Ford e Carter, portando alla eliminazione di fatto dell’influenza sovietica
nel cruciale medio oriente, e quindi Reagan. D’altra parte l’Urss compì l’errore
strategico di invadere l’Afganistan, nel quale consumò ingentissime risorse economiche,
politiche ed umane. Mentre l’economia sovietica era entrata in una fase di
ristagno, Reagan alzò il livello della sfida militare, attraverso la “Iniziativa
di Difesa Strategica” (SDI) che consisteva di uno scudo missilistico contro l’arma
di distruzione di massa che aveva garantito, con la certezza della reciproca
distruzione, la pace. Nel 1985, finalmente, a Cernenko succede Michail Gorbaciov
con il quale si avvia il tentativo di riforma ad ampio raggio della economia e
dell’assetto politico sovietico, ed, al contempo posta la premessa per un
reciproco disarmo. Solo quattro anni dopo ci sarà la dissoluzione della parte
est dell’impero e sei anni dopo la finale dissoluzione dell’Urss, senza alcuno
spargimento di sangue. L’Urss fino agli anni sessanta, ovvero fino alla
scrittura di questi saggi, era cresciuta ad un ritmo molto alto, ed era
caratterizzata dal predominio dell’industria sull’agricoltura e della industria
pesante su quella leggera. Si trattava di un sistema pianificato centralmente
nel quale dei “ministeri della produzione” intermediavano tra i settori
produttivi e l’organo di pianificazione centrale (il Gosplan). Chiaramente
questa dialettica induceva una serie di scontri frizionali e comportamenti
strategici, sulla programmazione delle risorse, la gestione delle scorte, l’individuazione
di obiettivi. Quindi sono presenti alcuni altri problemi tendenziali ed
endemici (non solo presenti in un regime socialista, ma qui privi di alcuni elementi
di contrasto intrinseci) come la resistenza all’innovazione, la scarsa
produttività del lavoro per demotivazione, una sorta di compromesso tra bassi salari
e lavoro tranquillo e sicuro, obiettive difficoltà di calcolo in un sistema
enormemente complesso e che si esasperavano per le forniture civili, tendenzialmente
numerosissime, squilibri tra prezzi e merci. A partire da una nota famosa
emessa dallo stesso Stalin, e poi accelerando durante i primi anni sessanta ci
sono molti tentativi di riforma, come la regionalizzazione della pianificazione,
o, nel 1965, il tentativo di lasciare parte degli utili alle imprese pubbliche
per programmarsi gli investimenti necessari. Queste riforme non sortirono gli
effetti aspettati, ed il sistema andò incontro ad una crescente entropia. Il
crollo finale, fu causato da motivi interni, dunque, ma anche dalla pressione
esterna e dalla necessità di fare fronte ad una sfida crescente e sempre più
aggressiva (si ricorderà il discorso di Reagan sull’Urss “impero del male” del
1983). Un ruolo lo ha anche la ritirata dalla proiezione internazionale, condotta
da Gorbaciov, che riallineò parte del mondo sotto la linea americana, proprio
mentre la finanziarizzazione del sistema capitalistico metteva a disposizione,
anche se di pochi paesi (le cosiddette ‘tigri asiatiche’ e pochi altri semi-imperiali),
ingenti capitali di rischio. Questo fenomeno polarizza ulteriormente il mondo, anche
perché nei primi anni ottanta, era avvenuto in qualche misura il contrario: sotto
la duplice spinta degli alti tassi imposti dalla FED, i capitali rientrarono
negli Stati Uniti e la fase che si apre nel 1978-80 per questi è di crisi (Bairoch,
1999), interrompendo la fase di crescita superiore a quella dell’occidente (ca.
2,2%) che aveva aperto tante speranze. Alcuni paesi si distaccano dal sentiero
di sviluppo e molti non lo hanno mai ripreso. Altri avviano un percorso di integrazione,
utilizzando l’occasione della finanziarizzazione e della “sostituzione delle
esportazioni”, che offre l’opportunità di industrializzarsi. Il paese che se ne
giova più di tutti è un paese socialista, la Cina.
[18] - Se la Cina sia capitalista, socialista,
o se sia una forma bastarda (o “cinese”) di entrambe è una domanda che esula di
gran lunga il presente testo, ma si può dire che non sia una forma pura né del
primo né del secondo (oppure che sia una forma di socialismo smithiano, come
quello sovietico era listiano).
[19] - Uso qui la distinzione di
Arrighi. Cfr “Il
lungo XX secolo”. Il modello concettuale analitico che Arrighi cerca di
mettere a fuoco è piuttosto complesso: agiscono entro la “struttura egemonica”
due distinte forme di leadership, quella dello Stato (che opera con “logica
territorialista”) e quella dei gruppi dominanti (che operano con “logica
capitalistica”). Nelle fasi di espansione del sistema, prevale la cooperazione
e si approfondisce la divisione del lavoro e la specializzazione. Ma
l’emulazione da parte degli Stati subalterni dotati di risorse utilizzabili del
modello “vincente” della potenza egemone, se all’inizio è molla per una
maggiore mobilitazione di risorse (ad esempio di maggiori investimenti) poi
diventa, con il tempo, causa del prevalere del momento competitivo. A questo
punto prevale una logica di corto respiro, quella che chiama “tirannia delle
piccole decisioni”, e l’intensificata competizione, che rende impossibile la
cooperazione, induce una crisi sistemica. I suoi segnali sono l’aumento della
competizione, dei conflitti sociali (che qui sono in posizione invertita
rispetto al modello negriano) e l’emergere “interstiziale” di nuove
configurazioni di potere, che si candidano a rimontare una nuova egemonia.
È qui che si presenta, come effetto della
sovra-accumulazione e della accresciuta competizione, la fase finanziaria. Al
termine, fino ad ora, il capitalismo è stato riorganizzato sotto una nuova leadership.
[20] - Cfr. Hyman Minsky, “Keynes
e l’instabilità del capitalismo”, 1975
[21] - Alla Conferenza di
Bandung, nel 1955, si crea un polo di 29 paesi del “sud del mondo”.
[22] - Cfr, “25
marzo 1957: il Trattato di Roma”
[23] - Leo Huberman, Paul Sweezy, “La
controrivoluzione globale”, Einaudi, 1968.
[24] - Paul Baran, “Il
surplus economico”, 1958.
[25]
Paul Sweezy, “La
teoria dello sviluppo capitalistico”, 1942
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