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lunedì 16 settembre 2019

Paul Sweezy, Leo Huberman, “Teoria della politica estera americana”





Il libro raccoglie alcuni editoriali del Monthly Review scelti dagli autori e riconducibili al periodo tra il 1960 e il 1962. Il primo blocco è una serie di articoli, usciti a settembre, ottobre e novembre del 1960 sotto il titolo “Teoria della politica estera americana”. La tesi, alla luce degli eventi degli anni cinquanta, è che l’intera politica estera statunitense è in effetti forgiata dagli interessi di classe interni, più precisamente dalla completa dominazione dell’economia Usa da parte del capitalismo monopolistico[1], il cui stato normale è la depressione cronica. Per evitare dunque che il capitalismo ricada sempre nel suo stato normale di sottoinvestimento, e depressione, la risposta compatibile con i vincoli interni del sistema è una sorta di “equilibrio del warfare”.



Ciò che accade tipicamente ad una società capitalistica dominata dal monopolio è, infatti, una sorta di autointrappolamento: “la previsione collettiva e i piani per il futuro sono possibili solo nella misura in cui implicano sacrifici presenti trascurabili e vantaggi finali per tutti o quasi tutti quelli che contano (e cioè che possiedono). Se i sacrifici immediati sono notevoli e i benefici futuri sono collettivi, nessuna azione è possibile” (p.14). La conseguenza più importante di questa struttura è che la società capitalistica non può mai agire in anticipo per prevenire una crisi. Un ottimo esempio (che, ovviamente, gli autori non possono fare in quell’anno) è la crisi climatica[2], nella quale si esce dalla crisi nella misura in cui con analogo meccanismo di possa attivare una sorta di “greenfare”.

Il problema da un punto di vista sistemico è che “una politica estera che favorisce in ogni modo gli interessi privati accelera il declino e il tramonto degli Stati Uniti come potenza mondiale; e non si cercheranno rimedi, se non e fino al momento in cui quegli stessi interessi privati cominciano ad essere lesi anziché avvantaggiati”[3].

Ma quando accadrà per gli autori?

Il problema maggiore è il persistente deficit della bilancia dei pagamenti, che costringe il sistema americano a pagare sistematicamente più di quanto incassa, una situazione che si è prodotta dal ’58 e continua a crescere. Sul tema gli autori torneranno a lungo[4] negli anni seguenti, mentre la crisi della bilancia dei pagamenti si sviluppa, durante gli anni della guerra del Vietnam, e poi conduce alla rottura dei primi anni settanta[5]. A quella fase la tendenziale discesa delle riserve, che accelererà nel decennio successivo (soprattutto a livello potenziale), e l’accresciuta competizione intercapitalistica con Europa e Giappone, porta ad una ricerca spasmodica di occasioni di investimento all’estero da parte delle imprese capitalistiche. Spazio che è sfidato dai processi di decolonizzazione e dalla sfida egemonica di parte socialista[6], che quindi a quel momento si presenta come “nube all’orizzonte”.

Come per lo più ritennero in quegli anni la maggior parte degli autori marxisti questa tendenziale stagnazione del capitalismo, catturato dalla sua logica interna orientata all’accumulazione ed al sovrasfruttamento[7] e della costante difficoltà a sfuggire a ricorrenti “crisi di realizzo”[8], sarebbe stata alla fine fatale in quanto la pressione delle lotte di liberazione nazionali, sostenuta dal campo socialista, avrebbe imposto costi crescenti fino a superare l’utilità esacerbando lo squilibrio dei pagamenti ed esaurendo, alla fine le risorse umane ed economiche statunitensi. Chiaramente in quegli anni si sta verificando almeno un triplo scontro: tra l’occidente imperialista e i paesi coloniali (ma anche le “colonie interne”[9]); tra l’occidente capitalista e il mondo socialista; tra i centri imperiali di primo livello e secondo, ovvero tra Usa ed Europa o Giappone. Questa tensione induce durante tutti gli anni sessanta e settanta una crescente instabilità e lo sforzo, per gestirla, di aumentare, dove possibile politicamente, la spesa per ripristinare la domanda ed allontanare la stagnazione. Ma nel farlo accentua progressivamente il deficit (anzi il doppio deficit, della bilancia commerciale e del bilancio federale), mettendo sotto crescente pressione il sistema del dollaro. Ovvero la convertibilità del dollaro in oro definita dagli Accordi di Bretton Woods, come aveva previsto Keynes[10], alla fine si rileva insostenibile e definisce una struttura di reciproco ricatto. Ma, come peraltro previsto anche da Sweezy nei tardi anni sessanta[11], la cosa si risolve nell’interruzione della convertibilità del dollaro in oro (15 agosto 1971[12]) e nella successiva globalizzazione del capitale. Una imponente crescita di liquidità, non più frenata dalla struttura tendenzialmente deflazionaria del cambio fisso, avviene allora a partire dalla metà degli anni settanta, con la conseguenza che parte via via più velocemente una ondata crescente di investimenti diretti e finanziari verso i paesi ex coloniali e del terzo mondo, capitali che portano con sé forme di disciplinamento, di cattura nella trappola del debito, e di vero e proprio ricatto politico. Dopo qualche anno ci saranno le necessarie conseguenze sotto forma di bolle e processi di fuga di capitali e repentine crisi finanziarie di nuovo tipo: Messico (1995), sud est asiatico (1997), Russia e Brasile (1998), Argentina (2001). Si è trattato di un insieme di processi che hanno una componente tecnologica (in un campo nel quale il sistema sovietico restò inesorabilmente indietro: la information technology), ideologica (il neoliberismo) e politica (con la spinta alla deregolazione e il continuo intervento per tamponare la tendenza ad una crisi di natura finanziaria). Si tratta al fondo di una operazione che è resa possibile da un nuovo protagonismo delle Banche Centrali che (Greenspan) riescono a “indurre gli attori del mercato a impiegare i suoi debiti [della banca Centrale] come moneta”, ora che nessun rapporto reale la sostiene. È ovvio che accettare, in tutto il mondo, “i debiti americani” (ovvero il dollaro) come moneta implica un certo tipo di rapporto di forza.
Al contempo, nell’occidente non Usa, avvengono imponenti processi di ristrutturazione e quello che appare a molti “l’avvio di una nuova crisi del sistema di accumulazione del capitale nel campo imperialista”[13]. Crisi che coinvolge anche i paesi socialisti, i quali si sono progressivamente interconnessi con il sistema capitalista (vendendo materie prime e prodotti in cambio di mezzi di produzione, accentuando anche loro il surplus verso i paesi sottosviluppati). È qui che si innesta, nel quadro della crisi delle materie prime, effetto collaterale ma importante del disordine geostrategico e finanziario e della decolonizzazione, la lotta distributiva e la crescente mobilitazione dei tardi anni sessanta e primi anni settanta, questa mobilitazione (che, però, sarà sconfitta[14]) della classe operaia per sottrarsi alla riduzione del tenore di vita. Ovvero allo scarico su di essa delle tensioni di valorizzazione prodotte dallo spostamento della divisione internazionale del lavoro e dall’obsolescenza di alcune tecnologie (ovvero dei settori) traino. Questa mobilitazione è contrastata e gestita dalle gestioni socialdemocratiche nei paesi imperialisti e da forme di governo neofasciste in quelli “subimperialisti”. In entrambi i casi per proteggere i profitti, contenendo il costo del lavoro. Si passa così, per tentativi e per dinamica interna, al modello della “sostituzione delle esportazioni” (Frank, 1977)[15]. Come opportunamente sottolinea Andre Gunder Frank Si tratta di una politica e di un equilibrio internazionale che non richiede una domanda effettiva, “l’unica cosa che conta diventa allora il costo di produzione; bisogna evidentemente che esso sia più basso possibile. I paesi sottosviluppati gareggiano tra di loro per ridurre al massimo questo costo., allo scopo di essere più competitivi. Ciò dà luogo ad una politica di riduzione dei salari e di aumento dello sfruttamento, cioè di supersfruttamento, difeso da un’alleanza politica diversa dalla precedente: un settore della borghesia monopolistica integrata al capitale internazionale produce sempre di più per il mercato estero, senza sviluppo di un capitale che lavori per il mercato interno (quando non è addirittura eliminato come in Cile), produzione fondata sul supersfruttamento del lavoro. Non v’è dunque la base economica per il tipo di alleanze prevalente quando si applicava la politica di sostituzione delle importazioni; bisogna al contrario opprimere la classe operaia e perfino una frazione della borghesia”[16].


Come sia il contributo dei nostri, nel 1960 quando tutto questo è ancora di là da venire, si impernia su quattro affermazioni:
1-     Lo scopo fondamentale della politica estera è di giustificare l’apparato militare per mantenere l’economia e l’impero,
2-     Questa è la ragione autentica dell’anticomunismo,
3-     Le sconfitte non gli fanno mai cambiare idea,
4-     Ma questa situazione non può durare per sempre.

Quel che bisognerebbe fare è esattamente il contrario, non combattere contro le forze del tempo (la decolonizzazione) e sostituire il warfare con il welfare.
Il testo si chiude con una semplice affermazione, una “profezia lenta”: “l’attuale capitalismo monopolistico è essenzialmente un sistema internazionale. Ha bisogno di un vasto ‘mondo libero’ in cui vivere. Se lo spazio vitale si contrarrà progressivamente, restando immutate le sue attuali caratteristiche strutturali, la conclusione logica sarà una crisi paragonabile in portata e gravità, a quella che colpì il mondo capitalistico negli anni dopo il ‘29” (p.43).

In effetti da allora il capitalismo si è espanso, praticamente in tutto il mondo, travolgendo dopo lo scontro finale degli anni settanta e ottanta buona parte del mondo socialista[17] e piegando la restante (ovvero, sostanzialmente, la Cina[18]). Ma al termine dell’espansione guidata dal capitale (e non dalla logica ‘territorialista’[19]) l’iper-globalizzazione, come nel ’29, si è scontrata con i limiti della fragilità intrinseca dei sistemi capitalistici lasciati a se stessi[20].

Il libro prosegue con il saggio “La dottrina Kennedy”, che dà conto dell’avvio della guerra nel Vietnam meridionale e della prospettiva di trasformare tutto il sud-est asiatico (e poi il mondo) in una colonia americana, di paese in paese.

In “La crisi permanente”, viene, invece analizzata la crisi di Berlino e della Germania Est, che vede in quegli anni, a sedici anni dalla fine della guerra mondiale, posta in questione la stessa sovranità di fatto della Germania orientale. La crisi vede la parte sovietica particolarmente attiva, Krusciov ha fretta perché essenzialmente il continuo, ininterrotto, flusso di profughi dall’est verso l’ovest, in assenza di frontiere certe, destabilizza costantemente il paese.

Quindi l’attenzione del testo si sposta sull’America Latina, e sulla strategia di Kennedy “Alleanza per il progresso”, che vede proporre dagli Usa l’erogazione di aiuti per lo sviluppo in cambio di riforme di tipo liberale. L’aiuto straniero è sperimentato come “strumento di riforma e materia di progresso”. Secondo Sweezy, questa può sembrare una idea, ma non funzionerà, perché nessuno vuole queste riforme e la loro natura effettiva è di aumentare ineguaglianze e problemi politici, tendenzialmente producendo deflazione (p.82).

La controversia Cino-sovietica” descrive invece il dibattito tenutosi al XXII Congresso del Pcus. La differenza emersa tra cinesi e russi riguarda essenzialmente la linea di azione che i paesi socialisti devono seguire per ridurre i rischi di escalation militare e nucleare. La posizione cinese è che il capitalismo americano è, in fondo, una “tigre di carta” e bisogna contrapporsi in modo netto e deciso, quindi anche concentrare le risorse, non disperderle in favore di paesi “non allineati”[21], a meno non scelgano da quale parte stare. La posizione sovietica, al contrario, assume una maggiore prudenza nei confronti della potenza occidentale e attribuisce una maggiore rilevanza agli stati rispetto ai movimenti delle classi lavoratrici e quindi dei popoli. Vede il mondo come diviso in tre campi: occidentale, socialista, e non allineato. Quindi la strategia proposta è di guadagnare tempo, negoziare, accordarsi, evitare lo scontro. Per gli autori, i russi hanno ragione e i cinesi torto.


Nel saggio “Il mercato comune”, per noi particolarmente interessante, viene fornita una visione da parte americana alla formazione negli anni cinquanta, con il Trattato di Roma[22] del Mercato Comune. Secondo Sweezy e Huberman esso “mette in pericolo la posizione dominante Usa”, proprio perché esso è “molto di più di una unione doganale” (p.97). Questa tesi viene riportata nella discussione pubblica americana e da parte dell’amministrazione ma per comprenderne il senso, in base all’opinione di Sweezy, bisogna risalire al vero senso della cosa. E per ottenerlo ricordare che l’antefatto dell’accordo sul mercato comune è la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA), entrata in vigore nel 1951. La CECA metteva insieme il desiderio dei francesi di sottomettere l’industria pesante tedesca ad un controllo internazionale e il desiderio dei grandi cartelli di espandere i loro mercati e perfezionare l’apparato di controllo e pianificazione. Come capita anche altre volte in seguito i francesi non ottengono i loro obiettivi, perché “la Germania occidentale, aiutata e incoraggiata dagli Stati Uniti, divenne ben presto la potenza guida dell’Europa occidentale, e invece di essere controllata cominciò a esercitare essa stessa funzioni di controllo” (p.98). Invece i grandi cartelli ottennero il loro scopo ed anche un precedente. Nel frattempo quasi ovunque la sinistra era in crescita e la radicalizzazione delle masse si stava accentuando in modo preoccupante, nel 1947 ci furono imponenti scioperi nel nord della Francia, nel 1948 sembrò che l’intera Europa fosse sull’orlo di una rivoluzione sociale.
A questo punto interviene il Piano Marshall, con i suoi miliardi di dollari di aiuti, e la sinistra fu cacciata dai governi di coalizione senza tante cerimonie (era, evidentemente, la condizione per avere i dollari). Nel 1951 i laburisti furono sconfitti in Gran Bretagna, quindi “tutte le posizioni di potere reale furono occupate da rappresentanti fidati dei grossi calibri dell’industria e della finanza”. Il blocco sociale che li portava su era formato dalla borghesia antisocialista, dalle masse contadine cattoliche ed un settore della classe operaia che “godeva della prosperità e sostanzialmente non s’interessava d’altro”. Fino a che dura la crescita, tutti gli anni cinquanta, la cosa è molto stabile.
È in questo contesto, nel quale l’intero mondo dei grandi affari era ormai intrecciato “in un dedalo di accordi e di sovrastrutture di carattere finanziario, tecnologico e commerciale”, che si pensa di generalizzare il successo della CECA, costituendo il MEC. In definitiva, “sotto ogni aspetto il Mercato Comune corrisponde esattamente alle necessità, ed è destinato al servizio, del mondo e degli interessi dei grandi affari internazionali che l’hanno creato. Se non si capisce e si tiene presente questo, si può dire ben poco di sensato e di significativo intorno a questa istituzione”. Non è solo un vasto mercato protetto, ma anche una vasta area in cui operare liberamente.
Si tratta di un’area di libertà, per le grandi imprese, circondata da barriere doganali uniformi. Dunque nel suo complesso “non è un passo nella direzione di un commercio più libero, ma di un maggiore protezionismo”. Nell’area protetta sono infatti eliminate le restrizioni (in verità molto gradualmente), e la libera concorrenza viene assunta come sacro principio ispiratore di tutta l’impresa. In fondo, però, per “libera concorrenza” si intende “libertà per le grosse imprese (a carattere per lo più monopolistico) di conseguire i massimi profitti, mentre il governo interviene o aiuta come e quando occorre”. In altre parole, attraverso l’accordo viene garantito il capitalismo. Qualunque riforma fondamentalmente socialista che fosse promossa da uno degli stati membri (all’epoca 6) sarebbe bloccata dal meccanismo di decisione a maggioranza, “così tutto il congegno per frenare e controllare un futuro movimento rivoluzionario, ad esempio in Francia o in Italia o in entrambi i paesi allo stesso tempo, è già pronto”.

Un simile meccanismo (anche con la sua proiezione coloniale in Africa), non è la piena garanzia di sviluppo e successo, ma, invece, il processo di accumulazione capitalista accelerato al livello dei trust più grandi porta a due tipi di concentrazione: quella geografica nelle aree più sviluppate, dove sono i trasporti, i servizi, le industria e la mano d’opera più qualificata. Lo sviluppo si concentrerà nella bassa valle del Reno e nell’Italia settentrionale, “lasciando sostanzialmente da parte le zone arretrate del meridione della Germania, della Francia e dell’Italia”. Anche le istituzioni che dovrebbero correggere lo squilibrio (Banca di Sviluppo e Fondo Sociale), di fatto sono vincolate statutariamente ad agire in base a criteri commerciali, e quindi va dove meno ce ne è bisogno, e il Fondo sociale “è destinato non a promuovere lo sviluppo delle aree arretrate, ma ad addestrare i lavoratori di queste aree e a spostarli per soddisfare la crescente necessità di manodopera delle regioni più avanzate” (p.107).
E quella industriale. Infatti anche l’accrescimento dei mercati favorisce le imprese più grandi, e sarà quindi tra le cause di un imponente processo di concentrazione industriale.
Insomma: qui sta prendendo forma una nuova potenza capitalistica e imperialistica, con una popolazione ed un potenziale paragonabile agli Stati Uniti. Normalmente questo avrebbe dato seguito ad una accanita lotta commerciale, senza esclusione di colpi, ed eventualmente al termine militare. Ma ora a fronte di questa rivalità c’è il campo socialista. Questo farà da potentissimo collante, e quindi è più probabile che i potenziali di lotta interimperialista siano messi da parte per formare un blocco compatto contro la sfida sovietica.


Seguono saggi sulla “Minaccia della guerra preventiva”, nel quale è analizzata la diversa strategia di escalation nucleare tra Usa e Urss. E due saggi sulla crisi di Cuba.


Il 12 agosto 1962, gli autori scrivono un saggio che in effetti va posto in connessione con i saggi sulla crisi degli anni sessanta (o meglio sul processo di ‘crisi rinviata’ che segue all’esaurimento tendenziale del boom degli anni cinquanta) a partire dal 1965, con “Il boom Kennedy-Johnson”, che abbiamo letto nel libro “La controrivoluzione globale[23]. Si tratta di “Il capitalismo americano ad una stretta”. Huberman e Sweezy notano che da agosto, appunto del 1962, quasi tutti gli indicatori sono in ribasso, sembra quindi avvicinarsi una recessione. La quinta dal dopoguerra, che porterebbe a termine l’espansione del 1961 dopo soli 18 mesi. Considerando tutti i cicli del dopoguerra la conclusione è che le crisi sono (prima crisi 1948/49, seconda 1953/54, terza 1957/58, quarta 1961/62)  sempre più ravvicinate e con un recupero sempre più parziale. Inoltre la disoccupazione è stata sempre crescente (il recupero della perdita di occupazione nei periodi di crisi sempre più parziale), passando complessivamente dal 3,9 al 5,6 % e l’utilizzazione della capacità produttiva sempre calante, dal 98 al 81%.
Il significato di fondo di questi fenomeni è attribuito alla contrazione dei profitti, ma questa a sua volta non è attribuibile agli “alti salari”, o agli errori di politica, come vorrebbero gli economisti conservatori, bensì alla stagnazione latente, determinata come effetto secondario, ma interno e necessario, proprio degli alti profitti. La tesi deriva da un articolo del giugno 1958, ma anche dal libro di Paul Baran “Il surplus economico[24]. Gli alti profitti tendono, nelle condizioni del capitalismo monopolistico che ha una relativa capacità di controllare i prezzi e rinviare gli investimenti, a non essere prontamente restituiti al mercato, in forma di domanda di beni e servizi; quindi appare una tendenza al declino sia della domanda totale, sia della produzione media e infine dei profitti. Questa dinamica ha una forza tale che anche se l’economia potesse viaggiare vicina al suo massimo (stimato in un 15% superiore all’attuale), con una quota di profitti invariata (12,5%) genererebbe un monte profitti doppio dell’attuale (90 Mld contro 45) che non potrebbe essere assorbito dagli investimenti e quindi ricadrebbe. Questa scheletrica dimostrazione mostrerebbe l’impossibilità (data la tendenza alla massimizzazione dell’appropriazione del surplus come profitto del sistema decentrato capitalista, in particolare nelle condizioni monopoliste), per il sistema di assestarsi sul pieno impiego dei mezzi produttivi e dei lavoratori. Ovviamente la dimostrazione abbreviata rinvia ad una più ampia prodotta da Paul Sweezy nella sua lettura della teoria marxiana degli anni quaranta e che abbiamo già letto[25].
In questo modo si spiega la frase apparentemente paradossale che segue: “ogni mutamento che provoca un aumento dei profitti – aumenti dei prezzi, automatizzazione dei processi produttivi, e via dicendo – non fa che abbassare il livello sostenibile di utilizzazione della capacità produttiva” (p.132). Per questo la politica più razionale, ma la meno fattibile, sarebbe del controllo generale dei prezzi per accrescere i redditi reali dei consumatori e ridurre i profitti dei grandi complessi privati.

Dunque la previsione che gli autori compiono è di un declino durevole e marcato, a meno che l’amministrazione Kennedy riesca ad introdurre misure efficaci che determinino forze di compensazione e stabilizzatrici abbastanza potenti. Una tradizionale è stata, come visto, la spesa militare (infatti nel 1960, con Eisenhower, la difesa spese 45 miliardi, e con il successivo aumento a 53 miliardi c’è stato qualche beneficio, ma limitato).
Gli autori pensano che più che sull’espansione della spesa militare (che, invece, sarà imponente a causa della guerra del Vietnam) si punterà su riduzioni fiscali, questa potrebbe ottenere in senso congiunturale qualche risultato. Ma anche se accadesse ciò aggraverebbe la bilancia dei pagamenti (cosa che è infatti avvenuta, fino all’esito del 1971) che peggiorerebbe ancora, se la stagnazione fosse superata.

Il capitalismo americano, insomma, appare “in un vicolo cieco”.

Questo nel 1962.


[1] - Si veda prima della data degli articoli sia Paul Sweezy, “La teoria dello sviluppo capitalistico”, 1942, sia Paul Baran, “Il surplus economico”, 1958. Il capitalismo nella fase monopolista tende alla stagnazione per la rottura del rapporto di formazione del prezzo ancorato alla concorrenza (per quanto si trattasse di un modello ideale), e la tendenza sistematica al sottoinvestimento ed ai sovraprofitti (per cui alla crisi da realizzo ed al sottoconsumo). Questa tendenza è contrastata da alcuni fattori che cercano di dissipare il surplus, o di impiegarlo fuori del processo strettamente produttivo (che innalzerebbe la concorrenza aggravando la crisi), tra i mezzi c’è ovviamente la spesa all’estero (in particolare le spese imperiali e quindi, ma non solo, militari) e c’è la moltiplicazione dei lavori improduttivi e dei relativi ceti. “Parlando in maniera generalissima, questa parte improduttiva è formata da tutto quel lavoro che ha come risultato la produzione di beni e servizi la cui domanda si possa attribuire alle condizioni e ai rapporti specifici del sistema capitalistico, e che sarebbe assente in una società razionalmente ordinata” (p.44). Ma questo movimento economico ha un risvolto potentissimo nelle forme di interiorizzazione e controllo sociale. Ci torneranno nei libri ed interventi degli anni sessanta. Quindi Paul Baran, Paul Sweezy, “Il capitale monopolistico”, 1966, nel quale è formulato sia un “teorema di impossibilità” sia la direzione di una possibile soluzione sistemica: se il capitalismo nella forma monopolista tende a soggiacere alla “legge della crescita tendenziale del surplus”, e quindi ad una costante moltiplicazione degli sprechi e dei ceti intermedi ed improduttivi, finendo per essere soffocato dalla sua stessa avidità, e se in questa capacità di creare e distribuire tra pochi ricchezza riposa la sua stabilità sociale, al contempo esso per garantirsi l’equilibrio e la sopravvivenza necessita di estendere lo sfruttamento e l’estrazione di surplus potenziale alle periferie dell’impero (periferie sia esterne, le colonie, sia interne, le classi-paria). Questa forma di capitalismo, diretta e controllata dalle grandi imprese per azioni monopoliste e multinazionali, è quindi strutturalmente imperiale e organizzato di necessità per grandi catene di sfruttamento internazionali. Catene che determinano l’estrazione di valore e la contrapposizione tra la massima opulenza e la massima disperazione, entro e fuori le cittadelle assediate delle metropoli occidentali.
[2] - La quale è perfettamente spiegabile a partire da questo modello: lo stress ambientale derivante dalla componente antropica del mutamento climatico, come dall’inquinamento, indice danni diffusi e crescenti. Tuttavia la soluzione andrebbe ad accrescere in modo significativo i costi fissi e variabili nella produzione di tutti o quasi i beni e servizi. In questi termini la soluzione è politicamente impraticabile, perché osteggiata dalle lobbies più rilevanti per la buona ragione (dal loro punto di vista) che hanno solo da perdere. Cosa del tutto diversa se l’azione per intervenire nei meccanismi del cambiamento climatico, e dell’inquinamento, aprono nuovi mercati e occasioni di investimento fondamentalmente pagati dalla parte pubblica, ovvero dalla generalità della società. In questo caso la soluzione è vincente, esattamente come per il “warfare”. Si attiva una sorta di “greenfare”. Per un ragionamento che conduce in questa direzione si veda “Greta Thunberg: la posta egemonica e lo scontro per il mondo”.
[3] - Si può interpretare la svolta anti-globalizzazione (o anti ‘seconda-globalizzazione’ in favore di una ‘terza’, i cui contorni sono ancora poco visibili) di Trump come l’emergere di un simile conflitto inter-capitalistico.
[4] - Si veda la seconda parte de “La controrivoluzione globale”, nella quale sono descritti i tentativi di tenere sotto controllo la tendenza alla crisi e prolungare il boom del dopoguerra (e l’egemonia mondiale americana) anche se il mutato quadro competitivo internazionale la sta sfidando in modo crescente. Si va dalla descrizione del “boom kennediano” del 1965, alla crescente crisi dell’oro nel 1966 e 67. Nel 1968 l’unica soluzione possibile sembra “passare dal gold standard al dollar standard”, come avvenne nel 1971.
[6] - Una sfida che sarà sconfitta a partire dai primi anni ottanta, sostanzialmente negli anni delle amministrazioni Reagan, che fanno ripartire la guerra fredda, innalzano in modo insostenibile la spesa militare in anni di difficoltà crescenti, e richiamano i capitali sottoponendo i paesi in sviluppo ad una pressione che mette sotto stress per altra via le risorse del campo socialista. La Urss ne uscirà drasticamente indebolita, mentre la Cina si convincerà, con Deng, ad avviare una trasformazione strutturale (con molta pazienza “cinese”).
[7] - La caratteristica principale del capitalismo è di essere, da sempre, un sistema internazionale e gerarchico, costituito da uno o più metropoli e da una catena di periferie sfruttate (“Il capitale monopolistico”, p.151). “La gerarchia delle nazioni che costituiscono il sistema capitalistico è caratterizzata da una complessa serie di rapporti di sfruttamento. I paesi che stanno al vertice sfruttano in varia misura tutti gli altri e allo stesso modo i paesi che stanno a un dato livello sfruttano quelli che stanno più in basso, fino a quando giungiamo all’ultimo paese che non ha nessuno da sfruttare. Nello stesso tempo, ogni paese che sta a un dato livello si sforza di essere l’unico sfruttatore del maggior numero possibile di paesi che stanno più in basso. Abbiamo quindi una rete di rapporti antagonistici che pongono gli sfruttatori contro gli sfruttati e contro gli altri sfruttatori. Trascurando le classificazioni giuridiche possiamo chiamare ‘metropoli’ i paesi che stanno al vertice o vicino al vertice e ‘colonie’ quelli che stanno alla base o vicino alla base. L’area di sfruttamento di una data metropoli, da cui i rivali sono più o meno efficacemente esclusi, ne costituisce ‘l’impero’. Alcuni paesi che si trovano nei gradini intermedi possono entrare a far parte di un dato impero, portando alle volte con sé un proprio impero (ad esempio, il Portogallo e l’impero portoghese come unità subordinate nell’ambito molto maggiore dell’impero britannico); altri paesi intermedi possono riuscire a mantenere una relativa indipendenza, come grosso modo fecero gli Stati uniti durante i primi centociquant’anni della loro vita nazionale indipendente” (ivi p.152). Il capitalismo, in altre parole, genera ovunque da un lato ricchezza e dall’altro miseria.
[8] - Si può sinteticamente definire una “crisi di realizzo”, quando le merci prodotte faticano a trovare acquirenti per effetto di un eccesso di profitto (ovvero di una debolezza del consumo), e quindi sono costrette a competere per “realizzare” il loro valore e tradurlo in capitale. Una crisi di realizzo è solo parte di un ciclo autorafforzante (ma che può essere interrotto dalle opportune contromanovre volte a reflazionare il sistema) che determina il crollo degli investimenti, e quindi della occupazione.
[9] - I Monthly Review chiamano “colonie interne” le aree di sfruttamento, razziale o meno, interne alle metropoli capitalistiche, si veda, Leo Huberman, Paul Sweezy, “La controrivoluzione globale”.
[10] - Nel 1943 alla Conferenza di Bretton Woods il Piano di White (USA) e quello di Keynes (UK) sono pubblicati dai rispettivi governi e si contrappongono. In quello del secondo ora trovano spazio anche istituzioni mirate a promuovere il libero scambio, a finanziare gli investimenti internazionali produttivi, a stabilizzare il mercato delle materie prime. Si tratta nel complesso di un insieme di strumenti volti al contrasto del ciclo economico ed alla prevenzione delle crisi. Lo schema di Keynes lavora per la pace perché impedisce l’accumulo di quello che l’economista chiama “arsenali finanziari”, in termini di riserve valutarie e debiti esteri che inevitabilmente sviluppano una vera e propria capacità di ricatto. Togliere da parte del creditore, di fatto, la possibilità al debitore di pagare (costringendolo a politiche recessive) allontana infatti la pace (“pagare” viene dal latino “pax”). Lo scontro tra i due schemi si risolve in quella che Keynes vive come una “resa incondizionata”, quando nell’aprile 1944 ad Atlantic City viene firmato il Joint Statement, e poi il 1 luglio dello stesso anno a Bretton Woods gli Accordi. All’ultimo istante, senza neppure dare agli alleati il tempo di leggere fino in fondo, sarà anche inserita formalmente la chiave di volta: l’utilizzo del dollaro come moneta internazionale. Inizia la Pax Americana. Fantacci, in “Fine della finanza”, vede la cosa in modo semplice: le premesse della crisi che si aprirà nel 1971, quando l’enorme quantità di cartamoneta in dollari, cui non corrispondono ormai né oro né tanto meno beni, determina un shock ed una fiammata inflazionistica in tutto il mondo (di cui la tempesta del petrolio è solo effetto secondario). Dunque si presenta l’inflazione accompagnata da stagnazione come effetto ultimo della “finanza da guerra” che prevale a Breton Woods, contro il “disarmo” proposto da Keynes (cfr. ivi p.44). In sostanza in tale occasione, dice Fantacci: “gli interessi della finanza hanno prevalso sugli interessi del commercio. Il sistema di Bretton Woods rappresenta una sconfitta dell’economia di mercato a opera del capitalismo, inteso a la Braudel come ‘anti-mercato’ fondato sull’alleanza fra potere politico statuale e potere finanziario internazionale. Quello uscito da Bretton Woods è un sistema di finanza di guerra, funzionale alla mobilitazione indiscriminata delle risorse: burro e cannoni, welfare e warfare.” (ivi., p.46). Si veda John Maynard Keynes, “Moneta internazionale
[11] - Si veda, Huberman, Sweezy, “La controrivoluzione globale”.
[12] - Alle nove di sera, improvvisamente, il Presidente Nixon, dopo settimane di tensione con i paesi europei, ed in particolare con la Francia di De Gaulle, interrompe la convertibilità “provvisoriamente”. Il Segretario del Tesoro, John Connally presenta la cosa in questi termini: “il dollaro sarà anche la nostra moneta, ma è il vostro problema”, e, in al pubblico americano: “gli stranieri hanno intenzione di fotterci. Il nostro compito è di fotterli prima”. Non si tratta di un atto di pace, e tanto meno di pura finanza, si tratta di fare la guerra “per la difesa della libertà del mondo”, come disse Nixon. Come dice lo stesso Nixon, “si tratta di consentire agli Stati Uniti di riguadagnare competitività internazionale e, al contempo, di imporre agli alleati di sopportare l’onere corrispondente, come equo contributo alla causa comune”. Inizialmente, come risulta dai verbali del Gabinetto del giorno dopo, la misura è presa per costringere gli alleati ad un tavolo negoziale, ma resterà permanente perché ha liberato le Erinni della finanza. Due anni di febrili negoziati portano infine, nel marzo 1973, alla libera fluttuazione delle valute. Quel che succede è che gli Stati Uniti non ottengono dagli alleati di contribuire alle spese di protezione, ma ottengono di pagarle con moneta senza copertura.
[13] - Gunder Frank, “Riflessioni sulla crisi economica mondiale”, 1972
[14] - In Italia nel biennio 1976-78, e negli anni immediatamente seguenti. Si veda, ad esempio, questo post sulla lotta di classe alla Fiat, “Le lotte operaie alla Fiat negli anni settanta: il lavoro e la questione del potere” ed il seguente “Le lotte operaie alla Fiat negli anni settanta: sicurezza sul lavoro e tecnologia”.
[15] - Modello che serve a disciplinare la classe operaia nelle “metropoli” attraverso l’imposizione della “austerità”, ed a accrescere il saggio di sfruttamento, con ogni mezzo brutale possibile, nei paesi ‘periferici’ o ‘semi-periferici’. Il mezzo è la crisi della bilancia dei pagamenti che giustifica, appunto, la proiezione alle esportazioni e questa la compressione salariale. A sua volta la crisi della bilancia dei pagamenti, e la crisi fiscale, saranno tra i fattori che promuoveranno il riciclo delle eccedenze (senza passare per i consumi) che diventerà nel tempo il sistema d’ordine centrale del nuovo modello sociale e geopolitico fondato sulla finanza e l’economia del debito.
[16] - Andre Gunder Frank, “Riflessioni sulla nuova crisi economica mondiale”, p. 104
[17] - La crisi finale dell’Urss, ha naturalmente molte cause e avviene nel contesto dell’incrudimento della sfida egemonica e competitiva che un’amministrazione americana sempre più aggressiva gli porta a partire proprio dalla crisi degli anni sessanta e settanta. L’azione del Presidente Nixon nei confronti della Cina che aveva l’obiettivo di essere più vicino al gigante comunista di quanto lo fosse l’altro, facendo leva su una evidente potenziale rivalità geostrategica e numerose frizioni e divergenze passate ebbe un rilevante ruolo, aprendo un fronte a sud, e il passaggio dell’Egitto, nel 1973, nel campo dei “paesi liberi”. Ma, anche più importante, negli anni immediatamente successivi ci fu la disgregazione progressiva della parte europea del Patto di Varsavia, con la crisi della Polonia (Lech Walesa e Solidarnosc) e della Cecoslovacchia (Havel). L’azione di Nixon fu proseguita, nella stessa linea da Ford e Carter, portando alla eliminazione di fatto dell’influenza sovietica nel cruciale medio oriente, e quindi Reagan. D’altra parte l’Urss compì l’errore strategico di invadere l’Afganistan, nel quale consumò ingentissime risorse economiche, politiche ed umane. Mentre l’economia sovietica era entrata in una fase di ristagno, Reagan alzò il livello della sfida militare, attraverso la “Iniziativa di Difesa Strategica” (SDI) che consisteva di uno scudo missilistico contro l’arma di distruzione di massa che aveva garantito, con la certezza della reciproca distruzione, la pace. Nel 1985, finalmente, a Cernenko succede Michail Gorbaciov con il quale si avvia il tentativo di riforma ad ampio raggio della economia e dell’assetto politico sovietico, ed, al contempo posta la premessa per un reciproco disarmo. Solo quattro anni dopo ci sarà la dissoluzione della parte est dell’impero e sei anni dopo la finale dissoluzione dell’Urss, senza alcuno spargimento di sangue. L’Urss fino agli anni sessanta, ovvero fino alla scrittura di questi saggi, era cresciuta ad un ritmo molto alto, ed era caratterizzata dal predominio dell’industria sull’agricoltura e della industria pesante su quella leggera. Si trattava di un sistema pianificato centralmente nel quale dei “ministeri della produzione” intermediavano tra i settori produttivi e l’organo di pianificazione centrale (il Gosplan). Chiaramente questa dialettica induceva una serie di scontri frizionali e comportamenti strategici, sulla programmazione delle risorse, la gestione delle scorte, l’individuazione di obiettivi. Quindi sono presenti alcuni altri problemi tendenziali ed endemici (non solo presenti in un regime socialista, ma qui privi di alcuni elementi di contrasto intrinseci) come la resistenza all’innovazione, la scarsa produttività del lavoro per demotivazione, una sorta di compromesso tra bassi salari e lavoro tranquillo e sicuro, obiettive difficoltà di calcolo in un sistema enormemente complesso e che si esasperavano per le forniture civili, tendenzialmente numerosissime, squilibri tra prezzi e merci. A partire da una nota famosa emessa dallo stesso Stalin, e poi accelerando durante i primi anni sessanta ci sono molti tentativi di riforma, come la regionalizzazione della pianificazione, o, nel 1965, il tentativo di lasciare parte degli utili alle imprese pubbliche per programmarsi gli investimenti necessari. Queste riforme non sortirono gli effetti aspettati, ed il sistema andò incontro ad una crescente entropia. Il crollo finale, fu causato da motivi interni, dunque, ma anche dalla pressione esterna e dalla necessità di fare fronte ad una sfida crescente e sempre più aggressiva (si ricorderà il discorso di Reagan sull’Urss “impero del male” del 1983). Un ruolo lo ha anche la ritirata dalla proiezione internazionale, condotta da Gorbaciov, che riallineò parte del mondo sotto la linea americana, proprio mentre la finanziarizzazione del sistema capitalistico metteva a disposizione, anche se di pochi paesi (le cosiddette ‘tigri asiatiche’ e pochi altri semi-imperiali), ingenti capitali di rischio. Questo fenomeno polarizza ulteriormente il mondo, anche perché nei primi anni ottanta, era avvenuto in qualche misura il contrario: sotto la duplice spinta degli alti tassi imposti dalla FED, i capitali rientrarono negli Stati Uniti e la fase che si apre nel 1978-80 per questi è di crisi (Bairoch, 1999), interrompendo la fase di crescita superiore a quella dell’occidente (ca. 2,2%) che aveva aperto tante speranze. Alcuni paesi si distaccano dal sentiero di sviluppo e molti non lo hanno mai ripreso. Altri avviano un percorso di integrazione, utilizzando l’occasione della finanziarizzazione e della “sostituzione delle esportazioni”, che offre l’opportunità di industrializzarsi. Il paese che se ne giova più di tutti è un paese socialista, la Cina.
[18] - Se la Cina sia capitalista, socialista, o se sia una forma bastarda (o “cinese”) di entrambe è una domanda che esula di gran lunga il presente testo, ma si può dire che non sia una forma pura né del primo né del secondo (oppure che sia una forma di socialismo smithiano, come quello sovietico era listiano).
[19] - Uso qui la distinzione di Arrighi. Cfr “Il lungo XX secolo”. Il modello concettuale analitico che Arrighi cerca di mettere a fuoco è piuttosto complesso: agiscono entro la “struttura egemonica” due distinte forme di leadership, quella dello Stato (che opera con “logica territorialista”) e quella dei gruppi dominanti (che operano con “logica capitalistica”). Nelle fasi di espansione del sistema, prevale la cooperazione e si approfondisce la divisione del lavoro e la specializzazione. Ma l’emulazione da parte degli Stati subalterni dotati di risorse utilizzabili del modello “vincente” della potenza egemone, se all’inizio è molla per una maggiore mobilitazione di risorse (ad esempio di maggiori investimenti) poi diventa, con il tempo, causa del prevalere del momento competitivo. A questo punto prevale una logica di corto respiro, quella che chiama “tirannia delle piccole decisioni”, e l’intensificata competizione, che rende impossibile la cooperazione, induce una crisi sistemica. I suoi segnali sono l’aumento della competizione, dei conflitti sociali (che qui sono in posizione invertita rispetto al modello negriano) e l’emergere “interstiziale” di nuove configurazioni di potere, che si candidano a rimontare una nuova egemonia.
È qui che si presenta, come effetto della sovra-accumulazione e della accresciuta competizione, la fase finanziaria. Al termine, fino ad ora, il capitalismo è stato riorganizzato sotto una nuova leadership.
[20] - Cfr. Hyman Minsky, “Keynes e l’instabilità del capitalismo”, 1975
[21] - Alla Conferenza di Bandung, nel 1955, si crea un polo di 29 paesi del “sud del mondo”.
[23] - Leo Huberman, Paul Sweezy, “La controrivoluzione globale”, Einaudi, 1968.
[24] - Paul Baran, “Il surplus economico”, 1958.
[25]  Paul Sweezy, “La teoria dello sviluppo capitalistico”, 1942

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