Snodi.
Il
24 febbraio 1965 ad Algeri, ad un’importante conferenza afro-asiatica, Ernesto
Che Guevara[1]
pronunciò un forte discorso[2] che probabilmente finirà
per mettere in moto gli eventi che gli costeranno la vita. In esso, dopo gli
scontri che si erano verificati nei cinque anni precedenti nel governo cubano intorno
alla linea dello sviluppo industriale, il rivoluzionario argentino esortò con
la sua tipica determinazione i popoli sottosviluppati a combattere contro
colonialismo, neocolonialismo e imperialismo, che per svilupparsi ne
determinano il sottosviluppo[3].
Guevara, discorso ad Algeri, 1963 |
Guevara
dirà in quella occasione:
“Da quando i monopoli[4] si impadronirono del mondo,
hanno mantenuto nella povertà la maggior parte dell’umanità, mentre
i guadagni venivano divisi tra i paesi più forti. II livello di vita di
questi paesi è fondato sulla miseria dei nostri; bisogna dunque lottare
contro l’imperialismo per innalzare il livello di vita dei popoli
sottosviluppati. E ogni volta che un paese si stacca dal tronco
imperialista non solo si vince una parziale battaglia contro il nemico
fondamentale, ma si contribuisce anche al suo reale indebolimento e si fa un
passo avanti verso la vittoria definitiva.”
Ma
anche:
“Lo sviluppo dei paesi, che iniziano
il cammino verso la liberazione (dall’imperialismo) deve pesare sui paesi
socialisti […] non può esistere il socialismo se nelle coscienze non si opera
un cambiamento che provochi un nuovo atteggiamento fraterno di fronte
all’umanità, sia di indole individuale, nella società nella quale si sta
costruendo il socialismo o è già stato costruito, sia di indole mondiale, in
relazione a tutti i popoli che soffrono l’oppressione imperialista.
Crediamo che con questo
spirito vada affrontata la responsabilità di aiutare i paesi dipendenti. Non si
dovrebbe più parlare di sviluppare un commercio di mutuo beneficio basati sui
prezzi forzati nel paesi arretrati dalla legge del valore e dalle relazioni
internazionali di scambio ineguale che derivano dalla legge del valore[5]. Come può essere ‘reciprocamente
vantaggioso’ vendere ai prezzi del mercato mondiale le materie prime che
costano ai paesi sottosviluppati sudore e sofferenza incommensurabili e
acquistare ai prezzi del mercato mondiale i macchinari prodotti nelle grandi
fabbriche automatizzate? Se stabiliamo questo tipo di relazione fra i due
gruppi di nazioni, dobbiamo convenire che i paesi socialisti sono, in una
certa maniera, complici dello sfruttamento imperialista. […] I paesi
socialisti hanno il dovere morale di liquidare la tacita complicità con i paesi
sfruttatori dell’occidente. […] Il vero compito consiste nel fissare i prezzi
che consentiranno lo sviluppo. Un grande cambio di concezione consisterà nel
cambiare l’ordine delle relazioni internazionali: non deve essere il
commercio che stabilisce la politica, bensì, al contrario, il commercio deve
essere subordinato ad una politica fraterna verso i popoli”.
La
reazione della delegazione sovietica fu immediata, al ritorno a Cuba Fidel e
Raul Castro lo accoglieranno solennemente. Ma in una riservata e lunga
discussione fu deciso, di comune accordo, di ridurre drasticamente
l’esposizione del comandante Guevara a fianco della rivoluzione cubana, per
proteggerla. Gli fu affidato quindi il comando dell’intervento armato in Africa,
precisamente in Congo dove poco prima era stato assassinato il Presidente
Lumbumba[6], a sostegno del movimento
marxista dei Simba.
Patrice Lumbumba, poco prima di essere fucilato |
La
spedizione durò poco, solo fino a novembre; nell’anno successivo Guevara,
soggiornando sia in Europa sia a Cuba preparò la spedizione in Colombia, dove
arrivò a novembre 1966 insieme ad un gruppo di circa 50 guerriglieri e si
insediò in una zona poco popolata con l’appoggio, che poi si rivelerà ambiguo,
del Partito Comunista boliviano. Nel marzo iniziarono i primi scontri,
inizialmente favorevoli. Ma, quando Debray e Bustos furono arrestati e confermarono
la presenza di Guevara gli Usa mandarono un contingente di Rangers ed impegnarono
la Cia nelle ricerche[7]. In una serie successiva
di scontri, sempre più ineguali, si giunse così alla fine, la cattura e
fucilazione di Ernesto Che Guevara, il 9 ottobre 1967. Cinquantadue anni fa.
Il corpo di Ernesto "Che" Guevara mostrato ai giornalisti |
Il
suo corpo tornerà a Cuba solo nel 1991, insieme a quello di cinque compagni.
Ma
torniamo al 1965. Anzi, a qualche anno prima.
La
rivoluzione a Cuba aveva trionfato, Guevara da comandante militare era
diventato Ministro dell’industria e quindi sulle sue spalle pesava il problema
immane di trasformare un’economia coloniale, arretrata e dipendente
dall’estero, imperniata sulla canna da zucchero e pochi altri prodotti di
trasformazione (rum e sigari), in un’economia industriale ed autosufficiente. E
di farlo mentre gli Stati Uniti prendevano la via della ostilità crescente,
dell’embargo, e dei tentativi di rovesciamento militare (come quello represso
dallo stesso Guevara a Santa Clara). Tra il 1961 ed il 1964 si tenne un aspro
scontro entro il comando cubano sul modello da seguire (il cosiddetto “Grande
dibattito”). La prima ipotesi di Guevara è molto tradizionale[8], bisogna uscire dalla
monocultura dello zucchero, che rende il paese dipendente dall’estero (anche se
è l’Urss e non più gli Usa), e andare a grandi tappe forzate verso
l’industrializzazione. Si tratta della stessa strada che, ma in condizioni
assolutamente diverse, segue Stalin in Urss negli anni trenta (alla quale altri
oppongono quella degli anni venti[9]).
Il
fallimento di questo tentativo, che in sostanza mancava delle necessarie
dimensioni, porta Guevara a sviluppare, andando in direzione opposta e quindi
allontanandosi dalla fedeltà al mondo sovietico (pur senza avvicinarsi a quello
cinese) quei temi che lo renderanno amato da tutto il movimento degli anni
sessanta: per superare i limiti della burocratizzazione e statalizzazione che
stanno bloccando la vita economica dell’isola, richiama i valori e lo spirito
della rivoluzione, fa leva sulla coscienza rivoluzionaria e l’uomo nuovo, quindi
sugli incentivi immateriali, la lotta alla miseria, ma anche all’alienazione;
come dirà nel 1964 nel suo discorso all’Onu[10]: “Ogni vero uomo deve
sentire sul proprio volto il colpo inferto sul volto di qualsiasi uomo”.
Qui
nell’intervista rilasciata nel 1964 in Irlanda.
Nel
commento, a lungo inedito, ai manuali sovietici di economia, Guevara appunterà
che la “fraterna collaborazione” che dovrebbe vivere nel Consiglio del mutuo
aiuto economico è ormai mutata anche nel campo socialista in “fenomeni di
espansionismo, di scambio ineguale, di concorrenza, finanche di sfruttamento e
certamente di sottomissione degli stati deboli ai forti”.
"Che" Guevara e Fidel Castro |
Insieme
allo spirito internazionalista e il sostegno solidarista e fraterno è
necessaria la pianificazione delle risorse, come vedremo allargata a scala
sovranazionale. Ancora nel 1965-66, ovvero nell’ultimo contributo prima che la
morte ne interrompa la riflessione, la pianificazione è quindi ribadita come
via necessaria allo sviluppo del socialismo[11]. Ma una pianificazione
nella quale siano le masse ad essere coinvolte nell’elaborazione (e non nella
implementazione). Ovvero nelle quali il popolo sia messo in condizioni di
decidere le grandi linee (tasso di crescita, divisione tra risparmio e consumo)
mentre le scelte per attuare le direzioni decise restino agli specialisti.
Si
tratta di un pensiero ancora incompleto e poco sviluppato, ma anche della
direzione verso forme di pianificazione democratica e socialista che resteranno
a lungo all’attenzione della riflessione per tutti gli anni settanta ed oltre[12].
Ovviamente
a Cuba prevale una linea più pragmatica, quella filo-sovietica di Carlos Rafael
Rodriguez, che riconoscendo l’impossibilità di modificare le ragioni di scambio
con l’Urss conferma il ruolo centrale dell’agricoltura e della canna da
zucchero[13].
È chiaro ormai che l’isola, da sola, resta comunque troppo piccola e dipendente[14].
D’altra
parte sopravvive.
Dunque
quale è il dilemma?
Come
disse[15] Guevara
nel 1960 ad una conferenza televisiva, la sovranità politica e la sovranità
nazionale sono fittizie se non c’è anche l’indipendenza economica. Ma
questa semplice regola si scala a tutti i livelli. Come dice appunto, “se
non c’è economia propria, se si è dominati dal capitale straniero, non si può
essere liberi dalla tutela del paese dal quale si dipende tanto meno si può
fare la volontà del paese se questa urta contro i grandi interessi della
nazione che lo domina economicamente”.
L’altra
parte della bilancia è che anche il “campo socialista” nel suo complesso ha
questa stessa, identica, dura necessità: salendo di scala al livello di un
sub-sistema mondo, questo deve accumulare abbastanza potenza per contrapporsi
al campo capitalista. Ciò in particolare in quella tornata di anni decisiva[16].
Il senso del richiamo di Guevara è che non sembra esserci spazio tra la
relazione ineguale nei confronti del capitale occidentale, rappresentato di
volta in volta, secondo l’area di influenza, dagli Stati Uniti, o da Francia e
Inghilterra, e la relazione ineguale che si riproduce da sola, dentro i rapporti di scambio governati dalla ‘legge del
valore’, nei confronti del ‘capitale’[17]
sovietico. In altre parole, la contrapposizione tra sistemi industriali
dominanti (che richiedono fornitori di materie prime subalterni, a basso costo,
e mercato di sbocco per il surplus) che informa di sé la guerra fredda, stringe
con la sua logica il mondo[18].
Sarà infatti crescentemente difficile restare “non allineati”.
Per
capire meglio la questione bisogna ricordare che in quegli anni tutto il mondo
radicale, egemonizzato dalla cultura marxista, ritiene che la tendenziale
stagnazione del capitalismo nella forma monopolista (catturato
necessariamente dalla sua logica interna orientata all’accumulazione ed al
sovrasfruttamento[19]
e dalla costante difficoltà a sfuggire alle ricorrenti “crisi di realizzo”[20]),
sarebbe stata alla fine fatale. Infatti la pressione delle lotte di
liberazione nazionali, sostenute dal campo socialista, avrebbe imposto costi
crescenti fino a superare la sua utilità esacerbando lo squilibrio dei
pagamenti ed esaurendo, alla fine le risorse umane ed economiche statunitensi[21].
Si
può dire, insomma, che in quegli anni si sta verificando almeno un quadruplo
scontro:
-
tra l’occidente imperialista e i paesi soggetti
al giogo coloniale o neo-coloniale (ma anche le “colonie interne”[22]);
-
tra l’occidente capitalista e il mondo
socialista;
-
tra i centri imperiali di primo e di secondo
livello, ovvero tra Usa e Giappone, o Germania, Francia, Inghilterra;
-
più invisibile, entro il mondo socialista,
tra l’egemone sovietico e le sue periferie interne ed esterne.
Si
tratta di scontri est-ovest, scontri entro l’ovest, e scontri tra nord e sud. Questi
hanno una inestricabile doppia natura: economica e politica. Il loro esito,
mentre si sviluppa la fase finale della guerra del Vietnam, la crescente competizione
intercapitalista, l’irrisolvibile squilibrio della bilancia dei pagamenti e del
deficit pubblico americano, la competizione intersistema, sarà il mondo nel
quale viviamo.
La questione centrale sembra
qui essere che tutte le forze citate sono “parte interdipendente di una
totalità”, e quindi sono nel loro insieme l’espressione
necessaria di un modo di produzione allargato alla scala mondiale che solo a
questa scala può essere compreso[23]. A questa regola pure
il mondo socialista reale resta invischiato e progressivamente. Anche in esso
avviene accumulazione del capitale, pur se la funzione di comando è esercitata
da oligarchie politiche, e questa è necessariamente “ineguale”. In questo
quadro i paesi socialisti stanno assumendo sempre più un ruolo “subimperiale”.
Esportano, insomma, materie prime verso i paesi capitalisti “metropolitani” e
importano da questi prodotti industriali e tecnologie, quindi trovano un
equilibrio esportando prodotti manufatturati verso i paesi sottosviluppati dai
quali importano diverse materie prime. In questo schema a Cuba è necessariamente
riaffidato il ruolo di esportatore di materie prime e prodotti finiti della
filiera di trasformazione agricola e di sbocco di manufatti dell’industria
socialista. Un ruolo subalterno che non ne consente lo sviluppo, almeno non
nella forma e velocità desiderata.
Guevara in Congo |
Insomma, Guevara in
questa fase decisiva pone implicitamente la questione che per attuare la
rivoluzione non basta battere il “nemico immediato” della propria borghesia
connessa con le ragioni di scambio ineguali che creano dipendenza, perché il
“nemico strategico” resta la struttura imperialista in quanto tale.
Questo nemico è chiaramente individuato all’avvio del discorso.
“Cuba è qui a questa conferenza per parlare a nome dei popoli
dell'America Latina. Come abbiamo sottolineato in altre occasioni, Cuba
parla anche di un paese sottosviluppato e di quello che sta costruendo il
socialismo.
Non è un caso che alla nostra delegazione sia
permesso di esprimere il proprio parere qui, nella cerchia dei popoli dell'Asia
e dell'Africa. Un'aspirazione comune ci unisce nella nostra marcia verso
il futuro: la sconfitta dell'imperialismo. Un passato comune di
lotta contro lo stesso nemico ci ha uniti lungo la strada.
Questa è un'assemblea di popoli in lotta e la
lotta si sta sviluppando su due fronti altrettanto importanti che richiedono
tutti i nostri sforzi. La lotta contro l'imperialismo, per la
liberazione dalle catene coloniali o neocoloniali, che viene condotta mediante
armi politiche, armi o una combinazione delle due, non è separata dalla lotta
contro l'arretratezza e la povertà. Entrambe sono tappe sulla stessa
strada che porta alla creazione di una nuova società di giustizia e abbondanza.
È indispensabile prendere il potere politico e
sbarazzarsi delle classi oppressive. Ma poi il secondo stadio della lotta,
che può essere ancora più difficile del primo, deve essere affrontato.”
Senza sconfiggere questo
nemico, “al secondo stadio della lotta”, i paesi sottosviluppati fallirebbero
nel compito di “creare una nuova società di giustizia ed abbondanza”, e
fallirebbero nella costruzione del socialismo, che definisce semplicemente come
“l’abolizione dello sfruttamento di un essere umano da parte di un altro”.
La posizione intransigente che propone trae da questa definizione (l’unica
valida a suo parere), una conseguenza netta: “fino a che tale obiettivo non è
raggiunto […] non possiamo nemmeno parlare di costruzione del socialismo”. E
questa via, di completa abolizione dello sfruttamento, per essere tale deve
essere condotta da ogni paese “direttamente e consapevolmente”; “senza essere
complici”, attraverso la trasmissione della dipendenza delle “ragioni di
scambio”[24] che determinano prezzi
di sottosviluppo.
Ciò che la delegazione
cubana viene a proporre a questa Conferenza ha il sapore di una proposta
controegemonica, sembra un programma-mondo: fissare ragioni di scambio
effettivamente multipolari che consentano l’effettivo sviluppo di tutti. Per
ottenerlo bisogna uscire dalla “logica del valore” e quindi entrare in una
prospettiva espressamente politica ed internazionalista; rispondere ad
una logica esigente che presupponga una scelta di campo netta[25] e che cambi,
interamente, “l’ordine delle relazioni internazionali”.
“Questo è solo un inizio Il vero compito
consiste nel fissare i prezzi che consentiranno lo sviluppo. Un grande
cambiamento di idee sarà coinvolto nel cambiare l'ordine delle relazioni
internazionali. Il commercio estero non dovrebbe determinare la politica,
ma dovrebbe, al contrario, essere subordinato a una politica fraterna nei
confronti dei popoli”.
Il progetto prevede
investimenti nei paesi sottosviluppati, ma in una logica internazionalista e
socialista e non capitalista, dunque in una “vera divisione internazionale del
lavoro” che non sia basata sui rapporti di forza esistenti ma sulle
potenzialità immense che lo sviluppo delle “forze nascoste nei nostri
continenti” può scatenare. Il rapporto che Guevara, insomma, propone tra i
paesi sviluppati e dotati di surplus effettivo impiegabile e i paesi da
sviluppare al loro potenziale non è fondato sul debito, che crea
dipendenza e fragilità, ma su accordi di scambio paritari, a prezzi e quantità
concordate.
“Gli stati nei cui territori devono essere
effettuati i nuovi investimenti avrebbero tutti i diritti inerenti alla
proprietà sovrana su di essi senza alcun pagamento o credito. Ma sarebbero
obbligati a fornire quantità concordate di prodotti ai paesi investitori per un
certo numero di anni a prezzi fissi.
Anche il metodo per finanziare la parte locale
delle spese sostenute da un paese che riceve investimenti di questo tipo merita
studio. La fornitura di beni negoziabili su crediti a lungo termine ai
governi dei paesi sottosviluppati potrebbe essere una forma di aiuto che non
richiede il contributo di una valuta forte liberamente convertibile”.
Chiaramente questa forma
di internazionalismo socialista dovrebbe prevedere anche il sostegno tecnologico
ed il massimo potenziamento dell’istruzione.
La proposta che Guevara,
come parte della delegazione cubana, porta ad Algeri, in linea con il lavoro di
quegli anni[27], è insomma di “organizzare
un grande blocco solido”, il quale aiuti i nuovi paesi[28] a liberarsi sia dal
potere politico dell’imperialismo come dal suo “potere economico”. E di farlo
garantendo la coesione rivoluzionaria di tutti i paesi partecipanti nell’ambito
di una divisione del lavoro di nuovo genere, realmente paritaria e connessa con
le proprie migliori caratteristiche ed esigenze.
“dovremmo essere vigili nel preservare il
carattere rivoluzionario dell'Unione, impedendo l'ammissione in esso di governi
o movimenti non identificati con le aspirazioni generali del popolo e creando
meccanismi che consentano la separazione da esso da qualsiasi governo o
movimento popolare divergendo dalla strada giusta”[29].
Causa che è chiaramente
definita: l’indipendenza da ogni forma, per quanto travestita essa sia, di
imperialismo e colonialismo per il pieno sviluppo, libero ed armonioso, delle
potenzialità e della umanità di ogni popolo, secondo la sua propria misura.
Ernesto 'Che' Guevara in Bolivia |
Non averlo dimenticato
rende incompatibile la figura tragica e certamente romantica di Ernesto Guevara
con la necessaria[30] real politique che Fidel
Castro deve seguire per sopravvivere in un mondo grande e terribile.
[1] - Credo non siano
molti a non conoscere affatto Ernesto Che Guevara, e per quelli della mia
generazione praticamente nessuno, tuttavia forse vale la pena dare qualche
cenno biografico. Ernesto Guevara nacque in Argentina il 14 giugno 1828 da un
imprenditore di origini basche e irlandesi e da Celia de la Serna che fu
un’attivista politica ed una femminista militante fortemente anticlericale ed
atea la quale, a sua volta, proveniva da una agiata famiglia di allevatori.
Addirittura secondo alcuni genealogisti la madre proveniva da Domingo
Martinez de Irala. Ernesto Guevara dunque si chiamava “da de la Serna o da
Lynch”. Una famiglia borghese con tratti aristocratici molto colta, un poco
bohemiens e con una grande attrazione per l’avventura. Dal 1931 soffre di asma,
fino alla morte, che rende difficile la partecipazione costante ed ordinata ai
cicli scolastici. Fu molto appassionato di poesia ed in particolare di Pablo
Neruda, e di psicologia (Freud e Jung) oltre che di filosofia (Russell). Dal
Rugby prende il soprannome di “el chanco”, il maiale, perché il suo stile di
gioco irruente lo fa essere sempre sporco. Crescendo inizia a leggere autori
più impegnati politicamente come Jack London, Neruda, John Steinbeck, Zola, e
Baudelaire. Si interesso molto ad un personaggio decisivo come il Mahatma
Gandhi (di cui va letto “Hind
Swaraj” e di cui abbiamo letto anche il libro di Gianni Sofri “Gandhi
tra oriente e occidente”), ma anche di Nehru. Legge anche Engels e
Marx, Lorca e Machado. Quindi studia prima ingegneria e poi medicina,
laureandosi nel 1953. La sua vera formazione politica avviene durante un
viaggio in motocicletta nel sudamerica di allora tra il 1950 e la laurea. E’ in
Costa Rica che entra in contatto con l’entourage Fidel Castro, reduce dal
fallito assalto alla caserma della Moncada, e si trovò coinvolto nel golpe,
appoggiato dalla Cia, in Guatemala. Erano anni di grande agitazione politica e
in Messico incontra prima Raul e poi Fidel Castro, aderisce al Movimento del 26
luglio. Dopo il matrimonio con Gadea e la nascita della prima figlia, siu
imbarca con Fidel sulla nave Granma e sbarca a Cuba il 2 dicembre 1955. Dopo i
primi sanguinosi scontri restano solo dodici guerriglieri. La rivoluzione dura,
con alterne vicende, fino alla fuga di Batista il 1 gennaio 1959. Il giorno
dopo la colonna di Guevara entra a L’Avana. Prima degli eventi raccontati in
questo post svolge numerose attività politiche ed amministrative, nel Ministero
dell’Agricoltura, come Governatore della Banca Nazionale, come comandante
militare, nella crisi dei
missili, come Ministro dell’Industria.
[2] - Il discorso si
trova in questa
fonte. L’avvio enuncia un solo obiettivo comune dei popoli dell’Asia e
dell’Africa, in nome dei “popoli dell’America Latina”: “sconfiggere
l’imperialismo”. Questa lotta, come dice Guevara, “non è separata dalla lotta
contro l’arretratezza e la povertà”; la lotta contro l’imperialismo e quella
contro la povertà sono “tappe della stessa strada che porta alla creazione di
una nuova società di giustizia ed abbondanza”. Riporto in modo più esteso un
passaggio chiave: “Se il nemico imperialista, gli Stati Uniti o qualsiasi
altro, attua il suo attacco contro i popoli sottosviluppati e i paesi
socialisti, la logica elementare determina la necessità di un'alleanza tra i
popoli sottosviluppati e i paesi socialisti. Se non ci fossero altri
fattori di unione, il nemico comune dovrebbe essere sufficiente. Naturalmente, queste alleanze non possono essere
fatte spontaneamente, senza discussioni, senza fitte alla nascita, che a volte
possono essere dolorose. Abbiamo detto che ogni volta che un paese viene
liberato è una sconfitta per il sistema imperialista mondiale. Ma dobbiamo
concordare sul fatto che la rottura non è raggiunta dal semplice atto di
proclamare l'indipendenza o di vincere una vittoria armata in una
rivoluzione. Si ottiene quando il dominio economico imperialista su un
popolo viene posto fine. Pertanto, è una questione di vitale interesse per
i paesi socialisti che si verifichi una vera pausa. Ed è nostro dovere
internazionale, un dovere determinato dalla nostra ideologia guida, contribuire
ai nostri sforzi per rendere questa liberazione il più rapida e profonda
possibile.
Da tutto ciò si deve trarre una
conclusione: i paesi socialisti devono contribuire a pagare per lo sviluppo di
paesi che iniziano ora sulla strada della liberazione. Lo affermiamo in
questo modo senza alcuna intenzione di ricatto o drammaticità, né stiamo
cercando un modo semplice per avvicinarci alle popolazioni
afro-asiatiche; è la nostra profonda convinzione. Il socialismo non può
esistere senza un cambiamento nella coscienza che si traduce in un nuovo
atteggiamento fraterno nei confronti dell'umanità, sia a livello individuale,
all'interno delle società in cui il socialismo è
stato costruito o che è stato costruito, sia a livello mondiale, nei confronti
di tutti i popoli che soffrono di imperialismo oppressione. Riteniamo che la
responsabilità di aiutare i paesi dipendenti debba essere affrontata con questo
spirito. Non si dovrebbe più parlare dello sviluppo di scambi reciprocamente
vantaggiosi basati sui prezzi forzati nei paesi arretrati dalla legge del
valore e dalle relazioni internazionali di scambio disuguale che derivano dalla
legge del valore.
Come può essere ‘reciprocamente
vantaggioso’ vendere ai prezzi del mercato mondiale le materie prime che
costano ai paesi sottosviluppati sudore e sofferenza incommensurabili e
acquistare ai prezzi del mercato mondiale i macchinari prodotti nelle grandi
fabbriche automatizzate di oggi? Se stabiliamo quel tipo di relazione tra i due
gruppi di nazioni, dobbiamo concordare sul fatto che i paesi socialisti sono,
in un certo senso, complici dello sfruttamento imperialista. Si può
sostenere che la quantità di scambi con i paesi sottosviluppati è una parte
insignificante del commercio estero dei paesi socialisti. È vero, ma non
elimina il carattere immorale di quello scambio.”
[3] - Si tratta, ovviamente, della proposizione della “Teoria
della dipendenza”, che in quegli anni sessanta domina il campo della
critica anticapitalista di matrice marxista e che prima si muterà nella “teoria
dei sistemi mondo”, e poi si dissolverà progressivamente. Il punto teorico è che le istituzioni ed i rapporti
economici (ma anche quelli sociali e culturali, o politici) che si osservano
nel mondo “centrale” e “sviluppato”, e quelli che si osservano nelle “periferie”
e “sottosviluppate”, sono il prodotto le une delle altre in una dialettica che
si sviluppa attraverso relazioni reciproche di dipendenza e conflitto nella
reciproca connessione. I paesi più forti drenano ‘surplus potenziale’ (Baran)
da quelli deboli e in questo modo determinano il loro sottosviluppo. In questo
modo i primi si avvicinano al loro “potenziale”, mentre i secondi ne restano
distanti. Come scriverà Andre Gunder Frank (in “Capitalismo e sottosviluppo in America latina”, 1967), l’accumulazione del capitale che avviene in
questa forma è quindi nella sua essenza e di necessità ineguale. Questa
struttura di accumulazione, che drena risorse verso la catena dei centri e la
porta all’esterno dei paesi (per questo) sottosviluppati, “penetra come una
catena il mondo sottosviluppato nella sua totalità, creando una struttura di
sottosviluppo ‘interna’”. È questa la ragione per la quale nessuna posizione interclassista
e nazionalista ha possibilità di avere successo nel superamento del
sottosviluppo. Il sottosviluppo non è una questione esterna, ma è una intera
struttura costitutiva delle soggettività e quindi degli assetti politici.
[4] - Per un’analisi
delle caratteristiche specifiche del capitalismo monopolistico, influente
nell’ambiente americano e fortemente connessa con la linea principale di
sviluppo teorico della “teoria della dipendenza”, alla quale, se pur in modo
non specifico Guevara si riferisce qui (sono presenti nel corpus dell’opera
anche lettere indirizzate ad uno dei suoi padri, Paul Sweezy), si veda, Paul
Baran, “Il
‘surplus’ economico”, del 1956, e il libro che uscirà l’anno successivo
e riassume un decennio di lavoro condotto insieme di Paul Sweezy e Paul Baran,
“Il
capitale monopolistico”, del 1966.
[5] - Qui si tratta di
un passaggio di grande densità teorica, direttamente connessa con la ‘teoria
dello scambio ineguale’ a quell’epoca avanzata dalla scuola di Baran e Sweezy
(con il quale era in contatto) e dagli economisti sudamericani Furtado, Dos
Santos ed altri. Nel discorso Guevara indica la necessità di avviare scambi
rapportati alle esigenze di sviluppo dei paesi e non fondate sul cosiddetto
‘valore di mercato’ (ovvero sui rapporti di forza globali), di completare
l’offerta seguendo la catena del valore e non limitandosi alla esportazione
delle materie prime, di avviare nuove relazioni di cooperazione nel campo
socialista per fornite tecnologie, competenze e capitali adatti a questo
sviluppo (in cambio di accordi pluriennali di scambio di merci a prezzi
politicamente fissati), e, non certo ultimo, di avviare una pianificazione a
scala regionale (ovvero sovranazionale).
[6] - Patrice Lumbumba
(1925, 1961) è stato leader del processo di indipendenza congolese e Primo
Ministro della Repubblica del Congo da giugno a settembre 1960. Nazionalista e
panafricanista guidò il Movimento Nazionale Congolese dal 1958. Dopo l’indipendenza
dal Belgio scoppiò una rivolta nell’esercito (i katangan) durante la quale egli
si rivolse per aiuti prima alle Nazioni Unite (e quindi agli Usa) e poi all’Urss.
Questa mossa gli cosò la vita, per cui quando diventò presidente Mobutu (ex
capo di stato maggiore e non lontano dai katangan), con la supervisione e
appoggio dell’ex paese coloniale, il Belgio, e degli Usa, fu incarcerato e
giustiziato. Divenne un mito, in tutte le manifestazioni panafricane negli anni
sessanta l’immagine di Lumbumba, insieme a quella di Ho Chi Min e, dopo il
1967, di Che Guevara era onnipresente.
[8] - A chi proponeva
nel 1961 una sorta di “Nep”, un socialismo di mercato nel quale si lasciasse
autonomia alle aziende nella ricerca del profitto, Guevara opponeva – anche
confusamente - una pianificazione centralizzata, con beni e servizi in parte
gratuiti.
[9] - Peraltro nel suo
slancio Guevara attribuisce i problemi del socialismo all’implementazione della
stessa Nep, grazie alla quale “i quadri si sono alleati al sistema, costituendo
una casta privilegiata”, e conduce a riradicare, a suo dire, il capitalismo
nella Urss di Brejnev. Una tesi evidentemente leggerina sul piano storico.
[11] - Nel discorso del
1965 dirà, in proposito: “La pianificazione è una delle leggi del socialismo e
senza di essa il socialismo non esisterebbe. Senza una corretta
pianificazione non vi è alcuna garanzia adeguata che tutti i vari settori
dell'economia di un paese si combinino armoniosamente per fare i passi avanti
richiesti dalla nostra epoca. La pianificazione non può essere lasciata
come un problema isolato di ciascuno dei nostri piccoli paesi, distorto nel
loro sviluppo, possessori di alcune materie prime o produttori di alcuni
prodotti fabbricati o semilavorati, ma carente nella maggior parte degli
altri. Fin dall'inizio, la pianificazione dovrebbe assumere una certa
dimensione regionale al fine di mescolare le varie economie nazionali e quindi
realizzare l'integrazione su una base che è veramente di reciproco vantaggio”.
[12] - Si veda, Michael
Lowy, “Compagno di viaggio”
[13] - Anche se,
bisogna dire che vengono scambiate con Urss e Cina a valori superiori al prezzo
di mercato.
[14] - Certo manifesta
anche momenti di indipendenza, come quando appoggia in Angola i rivoluzionari,
contro la linea dell’Urss, ma si piega ad appoggiare l’invasione della
Cecoslovacchia (1968), e inizia a smarcarsi solo nel 1987, quando Fidel, al
ventennale della morte del Che, ne rievoca la figura marcando la sua figura
eretica.
[15] - “Tutti questi
concetti di sovranità politica, di sovranità nazionale sono fittizi se non c’è,
accanto a essi, l’indipendenza economica. La sovranità politica e
l’indipendenza economica vanno di pari passo. Se non c’è economia propria, se
si è dominati dal capitale straniero, non si può essere liberi dalla
tutela del paese dal quale si dipende tanto meno si può fare la volontà del
paese se questa urta contro i grandi interessi della nazione che lo domina
economicamente”.
[16] - Si possono
leggere le riflessioni condotte in corso di eventi dai Monthly Review, raccolti
in “La
controrivoluzione globale”, e quelle di pochi anni successivi di Andre
Gunder Frank in “Riflessioni
sulla nuova crisi economica globale”. La divisione del lavoro che si
istituisce a partire dagli anni settanta, e che a Cuba sono evidenti a partire
dalle conseguenze della “baia dei porci” e della “crisi dei missili”, è che i paesi
socialisti si connettono alla catena di trasmissione del capitalismo mondiale
grazie alla creazione di un sempre maggiore surplus verso i paesi
sottosviluppati d’area.
[17] - Se sia
“capitale” in senso marxiano quello sovietico è questione altamente complessa e
che esula largamente dagli scopi di questo post. Ma si può provare a dire che
pur non essendo soggetto alla spinta immanente all’autoaccrescimento, la
tendenza al potenziamento delle forze produttive, e quindi alla necessaria
accumulazione di capitale a questo scopo orientato, è trasmessa dalla
competizione geopolitica vitale con il sistema capitalistico. Quindi, se pur
non in via prioritaria ma indiretta, alcune dure logiche transitano nel sistema
socialista e si irradiano a tutti i suoi livelli, generando ai livelli di
minore differenziazione e potenza una sorta di ‘dipendenza’ sui generis.
[18] - Questa
dichiarazione, 1960, è rivolta al capitale americano, ma può essere estesa:
“I capitali stranieri non si muovono per generosità, non si
spostano per fare un nobile gesto di carità, non si muovono ne si mobilitano
per il desiderio di affratellare i popoli. Il capitale straniero si muove solo
per il desiderio di aiutare se stesso. Il capitale privato straniero è
l’eccedente in un paese che si trasferisce in un altro allo scopo di ottenere
guadagni maggiori. Quello che muove il capitale d’investimento privato
straniero non è la generosità, ma il guadagno.” E ancora: Il fenomeno dello
scambio diseguale tra paesi industrializzati ed economicamente dipendenti si
manifesta nei suoi aspetti più brutali con il colonialismo.
Però i paesi completamente indipendenti rischiano anche di trovarsi
chiusi nella prigione del mercato capitalista, poiché i grandi
paesi industrializzati si impongono sulla base dell’elevato sviluppo
tecnico. I grandi paesi sviluppati cominciano, dopo l’indipendenza, a
esercitare sugli Stati liberati una specie di “succhiamento” e
dopo alcuni anni sono maturate le condizioni per una dominazione
politico-economica. Intervista concessa a: «Revolution
Africaine» Algeri, 23 dicembre 1964
[19] - La
caratteristica principale del capitalismo è di essere, da sempre, un sistema
internazionale e gerarchico, costituito da uno o più metropoli e da una catena
di periferie sfruttate (“Il capitale monopolistico”, p.151).
“La gerarchia delle nazioni che costituiscono il sistema capitalistico è
caratterizzata da una complessa serie di rapporti di sfruttamento. I paesi che
stanno al vertice sfruttano in varia misura tutti gli altri e allo stesso modo
i paesi che stanno a un dato livello sfruttano quelli che stanno più in basso,
fino a quando giungiamo all’ultimo paese che non ha nessuno da sfruttare. Nello
stesso tempo, ogni paese che sta a un dato livello si sforza di essere l’unico
sfruttatore del maggior numero possibile di paesi che stanno più in basso.
Abbiamo quindi una rete di rapporti antagonistici che pongono gli sfruttatori
contro gli sfruttati e contro gli altri sfruttatori. Trascurando le
classificazioni giuridiche possiamo chiamare ‘metropoli’ i paesi che stanno al
vertice o vicino al vertice e ‘colonie’ quelli che stanno alla base o vicino
alla base. L’area di sfruttamento di una data metropoli, da cui i rivali sono
più o meno efficacemente esclusi, ne costituisce ‘l’impero’. Alcuni paesi che
si trovano nei gradini intermedi possono entrare a far parte di un dato impero,
portando alle volte con sé un proprio impero (ad esempio, il Portogallo e
l’impero portoghese come unità subordinate nell’ambito molto maggiore
dell’impero britannico); altri paesi intermedi possono riuscire a mantenere una
relativa indipendenza, come grosso modo fecero gli Stati uniti durante i primi
centociquant’anni della loro vita nazionale indipendente” (ivi p.152). Il
capitalismo, in altre parole, genera ovunque da un lato ricchezza e dall’altro
miseria.
[20] - Si può
sinteticamente definire una “crisi di realizzo”, quando le merci prodotte
faticano a trovare acquirenti per effetto di un eccesso di profitto (ovvero di
una debolezza del consumo), e quindi sono costrette a competere per “realizzare”
il loro valore e tradurlo in capitale. Una crisi di realizzo è solo parte di un
ciclo autorafforzante (ma che può essere interrotto dalle opportune
contromanovre volte a reflazionare il sistema) che determina il crollo degli
investimenti, e quindi della occupazione.
[21] - Qualcosa del
genere accade, ma con esiti in qualche modo opposti: la tensione induce durante
tutti gli anni sessanta e settanta una crescente instabilità e lo sforzo, per
gestirla, di aumentare, dove possibile politicamente, la spesa per ripristinare
la domanda ed allontanare la stagnazione. Ma nel farlo accentua
progressivamente il deficit (anzi il doppio deficit, della bilancia commerciale
e del bilancio federale), mettendo sotto crescente pressione il sistema del
dollaro. Ovvero la convertibilità del dollaro in oro definita dagli Accordi di
Bretton Woods, come aveva previsto Keynes (cfr. “Moneta
internazionale”), alla fine si rileva insostenibile e definisce una
struttura di reciproco ricatto. Ma, come peraltro previsto anche da Sweezy nei
tardi anni sessanta (“La
controrivoluzione globale”), la cosa si risolve nell’interruzione della
convertibilità del dollaro in oro (15 agosto 1971[21]) e nella successiva
globalizzazione del capitale. Una imponente crescita di liquidità, non più
frenata dalla struttura tendenzialmente deflazionaria del cambio fisso, avviene
allora a partire dalla metà degli anni settanta, con la conseguenza che parte
via via più velocemente una ondata crescente di investimenti diretti e
finanziari verso i paesi ex coloniali e del terzo mondo, capitali che portano
con sé forme di disciplinamento, di cattura nella trappola del debito, e di
vero e proprio ricatto politico. Dopo qualche anno ci saranno le necessarie
conseguenze sotto forma di bolle e processi di fuga di capitali e repentine
crisi finanziarie di nuovo tipo: Messico (1995), sud est asiatico (1997),
Russia e Brasile (1998), Argentina (2001). Si è trattato di un insieme di
processi che hanno una componente tecnologica (in un campo nel quale il sistema
sovietico restò inesorabilmente indietro: la information technology),
ideologica (il neoliberismo) e politica (con la spinta alla deregolazione e il
continuo intervento per tamponare la tendenza ad una crisi di natura
finanziaria). Si tratta al fondo di una operazione che è resa possibile da un
nuovo protagonismo delle Banche Centrali che (Greenspan) riescono a “indurre
gli attori del mercato a impiegare i suoi debiti [della banca Centrale] come
moneta”, ora che nessun rapporto reale la sostiene. È ovvio che accettare, in
tutto il mondo, “i debiti americani” (ovvero il dollaro) come moneta implica un
certo tipo di rapporto di forza.
[22] - I Monthly
Review chiamano “colonie interne” le aree di sfruttamento, razziale o meno,
interne alle metropoli capitalistiche, si veda, Leo Huberman, Paul Sweezy, “La
controrivoluzione globale”.
[23] - Questa è
precisamente la conclusione alla quale perverranno i teorici della dipendenza,
anche se in modo differenziato, ovvero Andre Gunder Frank, Giovanni Arrighi,
Immanuel Wallerstein, Samir Amin, per restare ai principali, e che renderanno
necessario costruire il paradigma del “sistema mondo”.
[24] - Questa parte della teoria, comune anche a normali
teorie ‘borghesi’, è piuttosto ovvia, il prezzo tra due beni (o di un bene e di
un altro rispetto ad un’unità di misura comune, ad esempio il denaro internazionalmente
accettato come il dollaro) è relativo ai rapporti di forza che si determinano
sul “mercato”, e che dipendono da molteplici fattori non tutti economici. Ad
esempio, se un paese ha un surplus di vino, essendosi specializzato solo in
tale produzione di esportazione, poniamo di Porto, e l’unico grande mercato
“libero”, nel quale può vendere il prodotto è la Gran Bretagna, dovrà accettare
il prezzo determinato dai grossisti anglosassoni, detentori del monopolio di
accesso al mercato, anche se è di poco superiore al suo prezzo di produzione,
l’alternativa è riempire i magazzini e non avere la moneta per comprare, al
prezzo anche qui determinato dai commercianti esteri, in quando detentori di un
monopsonio (sostenuto da Trattati e, se del caso, cannoniere), e sul limite
della loro capacità di spesa. L’effetto è che un paese a sovranità molto
limitata (avendola perso sui campi di battaglia), progressivamente si
impoverisce. Tutto questo scompare nelle formule semplificate, potenza della
matematica, e nelle alate parole di David Ricardo. L’ipotesi, fondativa della
disciplina economica internazionale, che il ‘libero scambio’ sia sempre a
vantaggio reciproco, è, per usare le
parole di Keen “una fallacia fondata su una fantasia”. Questa teoria ignora direttamente la realtà, nota a chiunque, che quando la
concorrenza estera riduce la redditività di una data industria il capitale in
essa impiegato non può essere “trasformato” magicamente in una pari quantità di
capitale impiegato in un altro settore. Normalmente invece “va in ruggine”.
Insomma, questo piccolo apologo morale di Ricardo è come la maggior parte della
teoria economica convenzionale: “ordinata, plausibile e sbagliata”. E’,
come scrive Keane “il prodotto del pensiero da poltrona di persone che non
hanno mai messo piede nelle fabbriche che le loro teorie economiche hanno
trasformato in mucchi di ruggine”.
[25] - Nel discorso
chiarisce che bisogna stare in un campo interamente, non giocare di sponda con
l’altro, pensando che prendere il meglio risponda al proprio interesse.
Chiarisce il rischio degli investimenti diretti capitalisti, che sembrano
aiutare ma accentuano la concorrenza tra i poveri e la specializzazione non
pianificata, o meglio pianificata da altri, per gli interessi del capitale
monopolistico e dunque, a lungo termine soggetto al rischio di ritiro, alla
trappola del debito, all’approfondimento della dipendenza. Tutte cose che
puntualmente si verificheranno, in particolare dopo il ciclo di richiamo degli
investimenti diretti e dei capitali negli anni ottanta. Del resto, come tutta
la letteratura della dipendenza mostra, lo sviluppo per vie esterne, basato sui
crediti ed il capitale occidentale, in quanto mosso per le esigenze di
valorizzazione del mercato mondiale, da attori operanti su di esso (le aziende
multinazionali), spesso stabilisce una base industriale “sproporzionata
rispetto alle attuali capacità”, e produce merci che non sono consumate internamente.
[26]- Si veda nota 8, e
l’articolo “The Significance of
Socialist Planning”, 1964.
[27] - Subito dopo il
trionfo della rivoluzione, nel 1959, Guevara avvia un largo giro dei paesi
coinvolti nel Patto
di Bandung, che era stato siglato nel 1955 tra 29 paesi del “sud del mondo”,
non tutti socialisti. L’elemento unificatore di questo accordo è la lotta al
colonialismo, che unisce l’Egitto di Nasser, l’India di Nehru, l’Indonesia di
Sukamo, la Cina di Zhou Enlai. Successivamente, nel 1961, e quindi poco prima
di questa conferenza, alla conferenza di Belgrado si propone la linea del “non
allineamento”, con ben 120 stati (l’attuale presidente è Maduro). Nel 1963,
ad una prima conferenza ad Algeri, Guevara aveva presentato la rivoluzione
cubana.
[28] - La conferenza
cade in qualche modo a metà del processo di decolonizzazione, quando in
numerosi paesi sono in corso lotte anticapitaliste o comunque anticolonialiste.
Guevara cita in proposito il Laos, la Guinea portoghese, il Sud Africa, la
Palestina, il Venezuela, il Guatemala e la Colombia.
[29] - Sembra di
leggere echi lontani della polemica che Urss e Cina, che si manifesta in
evidenza nel XXII Congresso del Pcus (1961) intorno al caso dell’Albania. I
cinesi sostenevano che il campo socialista dovesse evitare di disperdere forze
aiutando paesi “non allineati”, al contrario concentrando le risorse sui paesi
più bisognosi (la Cina stessa, ovviamente, o Cuba, l’Algeria). I sovietici,
rigettando la tesi della “tigre di carta”, sostengono l’esistenza e la
rilevanza di un “terzo campo”, e quindi tengono rapporti di aiuto e
cooperazione verso paesi come l’India, l’Egitto.
[30] - La logica di
Ernesto Che Guevara, che trova facile sintonia con quella del movimento che si
svilupperà l’anno dopo la sua morte è di una radicale indisponibilità ai
compromessi necessari per sopravvivere. È possibile che nella sua presenza così
sfidante alla Conferenza di Algeri sia stata concordata nel governo cubano una
sorta di “divisione dei compiti”, con il leader più sacrificabile (perché
comunque non cubano) tra quelli di primo piano (Fidel, Raul, Cinfuegos) ad
“alzare la posta” con l’indispensabile alleato sovietico, ma certamente il
discorso fu molto duro. Del resto egli riteneva, come disse nel 1966,
criticando il Manuale di economia politica sovietico, che l’Urss stesse
“tornando al capitalismo” (cfr. Helen Jaffe, “Ernesto
‘Che’ Guevara, a rebel against soviet politica economy”. In un certo senso
Guevara è ad un punto di connessione tra lo spirito del “marxismo occidentale”
(un certo messianesimo di derivazione ebraico-cristiano, antiautoritarismo
abbastanza astratto, utopismo in relazione alla dissoluzione dello Stato e
della moneta) ed il “marxismo orientale” (lotta anticoloniale ed antimperiale
come centrale, valorizzazione del tempo presente e dei rapporti di forza
concreti, riconoscimento), si veda Domenico Losurdo “Il
marxismo occidentale”.
D’altra parte occorre tenere
presente la dura necessità della sopravvivenza nel contesto di un imperialismo
che in quel giro di anni non si fa alcuno scrupolo di rovesciare con la forza
tutti i paesi deboli e/o non sufficientemente protetti. Per un paese piccolo e
poco industrializzato come Cuba, con la sua estrema vicinanza agli Usa, non ci
sono letteralmente alternative all’appoggio sovietico. O, meglio, l’unica
alternativa sarebbe proprio il mondo tripolare che Guevara lascia intravedere,
un terzo blocco compatto di paesi che si sostengono a vicenda e mettono insieme
le proprie risorse. Ma, cambiando il punto di vista, anche per l’Urss si
ripropone alla scala idonea lo stesso dilemma: per fare fronte alla sfida
condotta dal capitalismo occidentale, che in caso di debolezza non si farebbe
scrupolo di usare le armi (come capiterà nel bombardamento del Parlamento a
Mosca il 4 ottobre 1993) bisogna accumulare nel modo più rapido possibile le
forze e spingere sulla industrializzazione, a costo di comprimere i consumi
interni ed esterni nella propria area di influenza (si tratta del cosiddetto
“Dilemma di Danill’son”), cosa che del resto aveva, mutando i fattori, la stessa
Inghilterra nel corso del suo sviluppo egemonico (quando l’industrializzazione
fu resa possibile dall’estensione a scala mondiale di rapporti di scambio
dominati).
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