L’ultimo
libro
di Giovanni Arrighi[1]
conclude un lungo percorso nel quale il sociologo ed economista italiano passa
dall’adesione al marxismo e vicinanza all’operaismo, alla svolta sistemica
degli anni ottanta, quando insieme ad altri si sforza di generalizzare il punto
di vista della ‘teoria della dipendenza’[2], che aveva contribuito a
fissare nel decennio precedente insieme a Gunder Frank[3] e Samir Amin[4], in una teoria molto più
comprensiva dei “sistemi mondo”[5]. In questo sforzo Arrighi,
lavorando sulla traccia di Braudel e in associazione a Immanuel Wallerstein[6], tenta di produrre delle
generalizzazioni feconde. Ovvero teorie e modelli in grado di gettare una luce
nuova sul passato ed il presente, ed immaginare possibili futuri. La sua fama
diventa larga dalla pubblicazione de “Il lungo XX Secolo”[7] nel 1994, e poi di “Caos
e governo del mondo”[8], con Beverly Silver, nel
1999, ma le sue prime pubblicazioni sono sul sottosviluppo in Africa[9], quindi alcuni studi di
diretta ispirazione marxista sull’imperialismo[10], alcuni studi sul
mezzogiorno italiano[11], e relativi alla svolta[12].
Questo
testo chiude il percorso e la trilogia di studi sui “sistemi-mondo”, a pochi
mesi dalla morte dell’autore, e ne è sia un seguito sia una rielaborazione. Il
tema chiave è il tentativo, compiuto dall’amministrazione Bush, di reagire alla
minaccia di declino che si era presentata sin dalla crisi sistemica degli anni
settanta con una forte proiezione imperiale in grado di aprire un nuovo “secolo
americano”, essenzialmente tramite il controllo diretto, manu militari, delle
regioni chiave per le economie industrializzate. Come si dice sinteticamente,
“guerre per il petrolio”, ma in realtà “guerre per il mondo”. Il primo tema è
dunque il lancio, prima, ed il fallimento, poi, di questo progetto di “dominio
senza egemonia”.
Il
secondo è l’affermazione, o meglio il ritorno, della Cina in posizione centrale
nel mondo.
Questo
tema, la rinascita economica dell’oriente asiatico, è l’effetto di una serie
ininterrotta di “miracoli” economici: il Giappone, la Corea del Sud, Taiwan,
Hong Kong, Singapore, la Malaysia, la Thailandia, infine la Cina.
Ma
l’oriente asiatico, in ombra nella prima parte del secolo scorso (anche se il
Giappone già fa eccezione), non era sempre stato considerato una parte
sottosviluppata del mondo. In effetti ancora Adam Smith, nel settecento, aveva
un’immagine altamente positiva della Cina come del centro sviluppato del mondo
e del luogo di maggiore ricchezza, se pur connotato da una forte stabilità.
Questa immagine degrada molto rapidamente durante l’ottocento, e alla fine
della seconda guerra mondiale la Cina era arrivata ad essere ormai una delle
nazioni più povere del mondo.
Questa
situazione inizia a cambiare di nuovo quando negli anni sessanta in Vietnam gli
Stati Uniti alla fine sono sconfitti e devono scendere a patti, è da allora che
accelera e prende sempre più forza quello che alcuni hanno chiamato
“l’arcipelago capitalista” nell’oriente asiatico.
Il
libro di Arrighi, come lo stesso titolo mostra, utilizza una lettura non
convenzionale del capolavoro di Adam Smith “La ricchezza delle nazioni”[13] per interpretare il
particolare tipo di mercato impiantato con enorme successo in Cina, come “non
capitalista” e continuo alla lunga tradizione del paese. Smith del resto sperava
che potesse impiantarsi una società di mercato globale basata su una maggiore
equità e rispetto per le diverse aree mondiali di civiltà, e quindi non fondata
sulla forma a suo dire “innaturale” di sviluppo che il mercantilismo della sua
epoca stava impiantando. Secondo il modo di leggere il filosofo morale (la sua
prima specializzazione[14]) scozzese che propone questi
non è affatto stato un teorico dello sviluppo capitalistico, o il suo
difensore. Per Arrighi Smith intendeva i mercati come strumento di controllo e
di governo della avidità e questo riveste importanza per comprendere le
economie di mercato non capitaliste, come quella cinese prima che venissero
incorporate in posizione subalterna nel sistema globalizzato di stati guidato
dall’Europa.
Ma
cosa è “un’economia di mercato socialista”, che si vorrebbe creare in
Cina, e cosa, invece, la “economia di mercato elitaria” (secondo la
denuncia di Liu Guoguang nel 2006) che si rischia di creare? Tra il “socialismo
con elementi cinesi” dei discorsi ufficiali e la realtà di capitalismo selvaggio
che si registra spesso c’è, per Arrighi, un vasto lavoro da fare, nelle lotte
del popolo cinese e nella sistemazione delle idee. Questo secondo compito è
quello che si dà.
Adam
Smith e la nuova era asiatica
Il
libro prende le parti dunque di una sorta di “marxismo neosmithiano” che
lavora entro la frattura, ben ricordata nelle prime pagine, tra il marxismo de
“Il Capitale”, concentrato sullo sviluppo delle forze produttive nei
centri più avanzati e che assegna ai relativi lavoratori il compito di guida in
quanto testimoni della maggiore contraddizione, e quello delle periferie del
mondo, concentrato sulla questione del potere e della lotta nazionale di
liberazione.
Come
scrive Arrighi: “Non ci sono dubbi sulla distanza che separa la teoria del
sistema capitalistico di Marx dal marxismo di Castro, Amilcar Cabral, Ho Chi
Min, o Mao Zedong, una distanza che si poteva superare solo con un atto di fede
nell’unità storica del movimento marxista” (p.32). Un tema fondamentale,
recentemente ripreso con grande energia da Domenico Losurdo[15].
Questa
frattura, continua, Arrighi:
“fra marxisti
essenzialmente interessati all’emancipazione del Terzo Mondo dall’eredità
dell’imperialismo neocoloniale e marxisti che si preoccupavano principalmente
dell’emancipazione della classe operaia. Il problema era che se Il Capitale
rappresentava effettivamente un’adeguata chiave di lettura del conflitto di
classe, i presupposti di Marx a proposito dello sviluppo capitalistico su scala
mondiale non sembravano reggere a un’analisi empirica. I presupposti di Marx
richiamano molto più la tesi del ‘mondo piatto’ che Thomas Friedman è andato
diffondendo negli ultimi anni.” (p.33)
Un
punto importante.
Alcuni
anni prima, del resto, anche David Harvey, in un libro citato ed utilizzato da
Arrighi, sottolineò lo stesso punto:
“L'impresa
multinazionale, con la sua capacità di spostare rapidamente capitale e tecnologia
da un posto all'altro, di sfruttare risorse diverse, mercati del lavoro, del
consumo e opportunità di profitto, organizzando la propria divisione
territoriale del lavoro, trae gran parte del suo potere dal comando spaziale e
dall'utilizzo di differenziali geografici in modi non consentiti all'impresa
familiare. In ogni caso le implicazioni delle grandi trasformazioni
avvenute nella geografia della produzione, del consumo e dello scambio
attraverso la storia del capitalismo sono di per sé, sicuramente, degne di
essere studiate.
Il confronto diretto
con questo compito potrebbe aiutare a curare gli scismi e le ferite
all'interno della tradizione marxista. Lo stesso Marx ha coraggiosamente
abbozzato una teoria della storia capitalista basata sullo sfruttamento di una
classe da parte dell'altra. Lenin, dal canto suo, ha sviluppato una tradizione
differente, in cui assume centralità lo sfruttamento delle persone in un luogo
da parte di quelle che sono in un altro (la periferia da parte del centro, il Terzo
Mondo da parte del primo).
Le due retoriche
dello sfruttamento coesistono in modo non facile e la loro relazione resa
oscura. Il
fondamento del marxismo-leninismo è quindi ambiguo e ha scatenato aspri
dibattiti sul diritto all'autodeterminazione, sulla questione nazionale, sulle
prospettive del socialismo in un solo paese, sull'universalismo della lotta di
classe, e così via”[16].
Secondo
la valutazione di Arrighi la cosa si può vedere da questo lato: l’analisi
empirica mostra che il mondo, nella globalizzazione in qualche modo prefigurata
anche da Marx, non si è affatto “appiattito”. Al contrario è andato
soggetto ad una sempre maggiore divergenza. Negli stessi anni in cui le
sinistre occidentali si innamoravano dei luoghi più “avanzati” del “laboratorio
della produzione”, ricorda l’autore, Andre Gunder Frank “varava la metafora
dello ‘sviluppo del sottosviluppo’[17] proprio per descrivere e
spiegare quella vistosa divergenza”. Un modello[18] che fu peraltro criticato
proprio dal punto di osservazione del “marxismo occidentale”, perché “ridurrebbe
i rapporti di classe a semplici epifenomeni della relazione centro-periferia”.
In questo senso va, ad esempio, la critica di Brenner nel 1977[19], in un articolo della “New
Left Review”, nel quale pur riconoscendo senso alla posizione di Frank ne
contesta la pretesa conseguenza per la quale la classe sarebbe solo una sorta
di “riflesso”.
Come
inizia Brenner:
“la comparsa
di barriere sistematiche all'avanzamento economico nel corso
dell'espansione capitalista - lo ‘sviluppo del sottosviluppo’ - ha posto
problemi difficili alla teoria marxista. È emersa, in risposta, una forte
tendenza a rivedere bruscamente le concezioni di Marx in merito allo sviluppo
economico. […] Sosterrò qui che il metodo di un'intera linea
di scrittori nella tradizione marxista li ha portati a spostare le relazioni di
classe dal centro delle loro analisi sullo sviluppo economico e il sottosviluppo. La
loro intenzione è stata quella di negare il modello ottimista di progresso
economico derivato da Adam Smith, in base al quale lo sviluppo del commercio e
la divisione del lavoro determinano senza sosta lo sviluppo
economico. Tuttavia, poiché non sono riusciti a scartare i presupposti del
meccanicismo individualista sottostante di questo modello, hanno finito per
erigere una teoria alternativa dello sviluppo capitalista che è, nei suoi
aspetti centrali, l'immagine speculare della tesi ‘progressista’ che desiderano
superare. Quindi, molto simili a quelli che criticano, concepiscono
le relazioni (mutevoli) di classe come emergenti più o meno direttamente dai
requisiti (mutevoli) per la generazione di eccedenze e lo sviluppo della
produzione, sotto le pressioni e le opportunità generate da un mercato mondiale
in crescita.
Solo, mentre i loro
avversari tendono a vedere tali processi determinati dal mercato come innesco,
automaticamente, di una dinamica di sviluppo economico, loro li vedono come
rafforzamento dell'arretratezza economica. Di conseguenza, non tengono
conto né del modo in cui le strutture di classe, una volta stabilite,
determineranno in effetti il corso dello sviluppo economico o del
sottosviluppo su un'intera epoca, né del modo in cui emergono queste stesse
strutture di classe: risultato di lotte di classe i cui risultati sono
incomprensibili in termini di sole forze di mercato”.
L’accusa
a Frank e compagni è quindi di una sorta di meccanicismo che, in effetti,
potrebbe anche essere inteso dalla dinamica del testo (ed in particolare dalla
parabola complessiva della scuola). In particolare la polemica Frank-Amin, seguita
alla pubblicazione nel 1999 di “Re-Orient”[20], mentre Amin prende la
direzione esattamente opposta e riformula in termini più ampi i concetti della
vecchia “teoria della dipendenza”, ribadendo la necessità di una, almeno
parziale, “disconnessione” per acquisire autonomia e autogoverno, Frank ormai
guarda alla totalità e considera quindi ogni sviluppo come effetto non di un movimento
interno (ad esempio di sviluppo delle forze produttive nella dialettica tra le classi
sociali, dalla quale si può verificare storicamente l’insorgenza del
capitalismo), ma di una rete di influenze e determinazioni sempre estesa a
livello mondiale. Nativamente estesa a livello mondiale. Se tutto dipende dall’economico,
ma questo è sovradeterminato dall’insieme totale delle relazioni
internazionali, allora la lotta, che pure continua a rivendicare nella forma
dei “movimenti antisistemici”, non può più avere alcun progetto possibile.
La
tesi circa l’insorgenza storica del capitalismo di Brenner riformula invece in
modo più tradizionale quella di Marx evidenziando le condizioni, contingenti,
per le quali paesi esposti al commercio internazionale, ed in esso quindi
incorporati, sviluppano le condizioni dello sviluppo capitalistico
(concentrazione dei mezzi di produzione fuori dei ceti produttivi e
competizione causata dallo spiazzamento dei ceti dirigenti). A questo modello marxiano
contrappone quello, che definisce “Neosmithiano”, basato su specializzazione e
divisione del lavoro sotto la spinta della messa in contatto commerciale del
quale quello di Frank sarebbe solo un caso particolare.
Arrighi
utilizza questa distinzione, accettando la qualifica che non condivide fino in
fondo di “neosmithiano”, per segnalare la differenza tra processi che
costituiscono mercati non capitalistici e processi di sviluppo capitalistico. Secondo
la sua ricostruzione i primi processi erano sviluppatissimi nell’oriente fino
al diciannovesimo secolo in assenza del secondo; quindi, mentre, come vedremo,
la Cina restava in qualche modo intrappolata in un “equilibrio di alto livello”[21], l’Europa ne venne
liberata dalla scoperta dell’America. E’ per questo che mentre al tempo di
Smith la Cina era considerata più avanzata, ad un certo punto partì una “grande
divergenza”[22],
malgrado l’Europa non avesse affatto mercati più efficienti né per le merci né
per i fattori di produzione. Secondo Pomeranz, infatti, nel 1789 i principali
mercati europei erano meno aperti alla concorrenza, nei termini
delimitati da Smith, di quanto lo fossero quelli cinesi.
Le
questioni teoriche e pratiche che derivano da questa “riscoperta di Smith a
Pechino” sono diverse: occorre spiegare le cause del salto energetico che
impiega l’occidente, passando al carbone fossile, presente in abbondanza ma non
usato nella stessa maniera anche in Cina, e, seconda cosa, bisogna spiegare
perché la globalizzazione a regia inglese, nel diciannovesimo secolo, porti con
sé la divergenza. La prima domanda vede enfatizzato da Wong[23] il salto di intensità
dato dall’uso del combustibile, invece da Frank[24] l’opposta condizione di
relativa scarsità di capitale e lavoratori[25], e la Pomeranz[26] la diversa dotazione di
risorse insieme al rapporto centro-periferia “ossia al fatto che i paesi chiave
dell’Europa nordoccidentale ricavano dal continente americano materie prime e
vi esportano manufatti in misura considerevolmente maggiore di quanto i paesi
guida dell’Asia riuscissero a fare con le proprie periferie” (p.41).
Naturalmente il nuovo tipo di periferia che la conquista dell’America crea, con
la tratta degli schiavi e il sistema coloniale europeo, l’imposizione di forme
mai viste di agricoltura intensiva ad altissimo sfruttamento (nella piantagione
di Cortez lavoravano quindicimila indios in condizione di schiavitù[27]) fanno la differenza.
Un
ruolo molto importante, in questo scambio, lo gioca l’argento americano,
estratto in miniere-lagher e reinvestito in commerci di lunga percorrenza, in
particolare con l’Asia. Anzi l’Asia per tutto il diciottesimo secolo in pratica
lo drenava quasi tutto (tra l’altro, come vedremo, questo facile drenaggio è
uno dei fattori che convince i Qing che non è indispensabile munirsi di forti
flotte e autonoma capacità di commercio di lunga distanza).
Un
modello che tenta di spiegare tutti questi fattori nella loro complessa
relazione è quello tentato da Karou Sugihara[28] che pone l’accento sulla
“rivoluzione industriosa”, che si sarebbe verificata in oriente dal
sedicesimo al diciottesimo secolo insieme a tecnologie ed istituzioni ad alto
contenuto di lavoro, a causa della scarsità relativa di risorse coltivabili.
L’insieme di questi fattori ha comportato una notevole crescita della
popolazione e anche del tenore di vita. Mentre in passato la popolazione cinese
aveva oscillato entro la “trappola malthusiana” dalle parti dei cento milioni
di persone, all’improvviso giunse infatti a quattrocento milioni. Nel 1800
quindi su basi di mercato, ma senza alcuna evoluzione in direzione industriale,
si sviluppa una economia forte ed autosufficiente, fortemente introversa, basata
sulla famiglia e la comunità di villaggio. Si tratterebbe in parole semplici di
un sentiero di sviluppo del tutto diverso da quello seguito dall’occidente e
che Marx inclinava a vedere come necessario[29]: la proletarizzazione e
creazione delle classi contrapposte degli operai e dei capitalisti. Il modello
antropologico che si impone predilige chi sa fare più lavori diversi ed è
abituato a cooperare e di inserirsi armonicamente nel lavoro della fattoria,
affrontando e risolvendo insieme gli imprevisti. Complessivamente il modello
prediligeva l’impiego di risorse umane invece che di risorse materiali.
Su
questo modello, ad esempio nel caso giapponese, si innesta la spinta
tecnologica che viene dall’occidente, creando un modello ibrido, ovvero una
“industrializzazione ad alta intensità di manodopera”. Un modello che iniziò ad
essere competitivo solo nel secondo dopoguerra nelle sue particolari
condizioni.
Ci
sono quindi due modelli distinti di crescita economica:
1- Quello
smithiano, nel quale “lo sviluppo si dipana in un contesto
sociale dato, sfrutta in funzione della crescita tutti il potenziale che quel
contesto racchiude, ma non arriva mai a modificarlo in misura significativa”,
2- Il
modello marxiano in cui “lo sviluppo economico su basi di
mercato invece, tende a distruggere il contesto sociale che lo ospita e a
creare le condizioni per l’affermarsi di una nuova struttura sociale (che non
necessariamente diventare realtà) caratterizzata da un diverso potenziale di
crescita” (p.56).
Per
Smith il mercato è del resto un vero e proprio strumento di governo e
l’economia politica è un ramo delle scienze dell’uomo di stato. La sua presenza
presuppone l’esistenza di uno stato forte, “capace di creare e riprodurre le
condizioni necessarie per l’esistenza del mercato stesso”. Si tratta di essere
quindi molto lontani dalla pretesa fiducia dogmatica negli effetti benefici di
una riduzione dell’intervento statale e nel mercato autoregolato.
Insomma,
Smith, per Arrighi, “sarebbe stato d’accordo con Karl Polanyi”[30].
In
relazione al tema della caduta del saggio di profitto[31] (come noto idea che Marx
preleva da Ricardo e Smith), il compito dello stato è quindi esattamente creare
la competizione e proteggerla per ridurre i profitti al minimo. Ovvero,
per contenerli nei termini che siano socialmente accettabili. Lo stato deve
operare per superare le contraddizioni che lo sviluppo economico produce.
Un
punto molto rilevante nella trattazione di Smith è quando viene messo a
confronto il tema della divisione del lavoro. Distinguendo tra divisione tecnica
del lavoro (la “fabbrica di spilli” all’inizio del libro di Smith) e divisione sociale
del lavoro (la relazione tra unità produttive indipendenti), il filosofo
scozzese si concentra sulle relazioni tra settori, o tra territori, e i
relativi scambi di mercato. Quindi “sulla concorrenza come agente di ulteriore
divisione del lavoro e specializzazione fra vari comparti del commercio e della
produzione; e in conseguenza su cosa debba fare un governo per promuovere,
regolare e sfruttare la sinergia fra concorrenza e divisione del lavoro”
(p.65). Quando si concentra esclusivamente sulla divisione del lavoro lo fa per
evidenziarne i difetti (nel ridurre l’uomo a una sola dimensione).
Venendo
ai sentieri di sviluppo nell’opera di Smith si trovano contrapposti uno
sviluppo “naturale”, graduale e per linee interne, attribuito alla Cina, che
passa gradualmente dagli investimenti sull’agricoltura, poi alle manifatture ed
infine al commercio estero. Ed uno sviluppo “innaturale e retrogrado”, e quindi
“completamente rovesciato”, attribuito al caso olandese. Qui si parte dal
commercio estero, che induce lo sviluppo di manifatture di lusso e raffinate,
di qui allo stimolo all’agricoltura con il surplus guadagnato.
Tornando
alla questione del modello “smithiano” verso quello “marxiano”, e quindi alla
discussione con Brenner, autore marxista con il quale Arrighi si confronta in
tutto il libro, è riconosciuto che Marx sviluppa un programma di ricerca
completamente diverso da quello del filosofo scozzese (di cui ha, comunque,
grandissimo rispetto). Ad esempio, rispetto allo sguardo verso i governi che esprime
il suo predecessore Marx esprime una prospettiva che guarda alle “classi
sociali”; non gli interessa se una “nazione” si impoverisce o si arricchisce,
ma chi, all’interno di questa, lo fa. Quindi al centro della ricerca non
c’è più la concorrenza (che pure è accuratamente modellata, ma con uno sguardo
che potremmo dire “micro”), ma “il conflitto di classe e il progresso
tecnologico sui luoghi di produzione”. Ancora, c’è il “segreto laboratorio
della produzione” e non la circolazione tra i luoghi di produzione (è chiaro
che ognuno di questi elementi è presente in Marx, e su ognuno la sua analisi è
accurata ed efficace, ma la narrazione che li tiene insieme è in qualche modo
rovesciata).
Diamo
da parola ad Arrighi:
“Questo spostamento
nella natura e negli argomenti della ‘narrazione’ ha finito per creare una gran
confusione relativamente alla teoria implicita di Marx dello sviluppo
nazionale. Dico implicita perché di una simile teoria non v’è traccia esplicita
nel pensiero di Marx. Vi si trova invece una teoria dello sviluppo
capitalistico su scala mondiale che coglie, anticipandoli, i tratti di quella
che oggi chiamiamo ‘globalizzazione’ ma sbaglia nel predire che lo sviluppo
capitalistico avrebbe ‘appiattito’ il mondo, nel senso in cui Thomas Friedman
usa questa espressione.
In effetti
l’aspettativa di un imminente appiattimento del mondo era così viva in Marx da
spingerlo a basare interamente la sua teoria dello sviluppo capitalistico
sull’assunzione di un mondo senza confini, in cui la forza-lavoro è totalmente
spossessata di ogni mezzo di produzione e tutte le merci, ivi compresa la
stessa forza-lavoro, vengono liberamente scambiate, a un prezzo all’incirca
pari alla sua riproduzione” (p.88)
Si
tratta di una rappresentazione piuttosto semplificata[32], ma fondamentalmente
corretta.
La
differenza tra le teorie dello sviluppo economico nazionale di Marx (implicita)
e di Smith (espressa) sono principalmente connesse con la critica dello scopo
della trasformazione in merci fatta propria dal capitalista. Per Marx lo scopo
è l’accumulo di denaro (D-M-D’) mentre per Smith di utilità (si potrebbe dire
M-D-M’). Naturalmente il processo di circolazione completo è una stringa di
M-D-M-D’-M’’-D’’-M’’’,…) e quindi si tratta di focalizzazione. La seconda differenza
è che entrambi identificano nel commercio di lunga distanza l’elemento cruciale
del decollo capitalista dell’Europa, ma per Smith è “innaturale”, mentre per
Marx è semplicemente il capitalismo. Ne deriva una svalutazione radicale
di tutto ciò che si oppone al pieno dispiegarsi della logica della borghesia, e
quindi in primo luogo del “modello asiatico”. Modello che sarebbe sconfitto
dalla maggiore efficienza e quindi dal minore prezzo delle sue merci[33].
Ma
il centro della critica che Marx svolge all’economia politica di Smith è che i
cambiamenti tecnici ed organizzativi che interessano la società non sono
originati essenzialmente dalla concorrenza che induce la nascita di nuovi
settori specializzati e stimola la divisione del lavoro, ma dall’incessante
conflitto tra il lavoro ed il capitale per la divisione del surplus. Ne
segue che i capitalisti scaricano la pressione della concorrenza sui lavoratori
(come scrive già Engels nel 1844[34] mettendo in concorrenza i
lavoratori anziché concorrere con gli altri capitalisti) attraverso la continua
innovazione e quindi, al suo tempo, ampliando dimensione e concentrazione delle
unità produttive. L’aumento della dimensione delle unità produttive e della
divisione tecnica del lavoro sono quindi le condizioni essenziali della
crescita della classe dei capitalisti e della stagnazione di quella dei
lavoratori spossessati dei mezzi di produzione. Cioè, come si può dire, “i
mutamenti tecnici ed organizzativi non sono neutri ma hanno un segno di
classe”. Naturalmente gli effetti anche per Marx, come per Smith, sono deleteri
per le qualità morali ed intellettuali dei lavoratori.
Altre
differenze sono nella nozione di tendenza alla crisi, presente nell’uno
e assente nell’altro (che, casomai vede una tendenza alla stabilizzazione,
ovvero alla stagnazione di alto livello); per Marx la crescita della
concorrenza e la riduzione del tasso di profitto non sono dirette ad uno stato
stazionario, ma piuttosto ad una “distruzione creatrice” che in Arrighi ha tre
possibili dimensioni: aumento delle dimensioni dei capitali e riorganizzazione
del sistema di aziende; creazione di un sovrappiù di popolazione e di un nuovo
schema di divisione del lavoro internazionale; comparsa di nuovi epicentri di
accumulazione capitalistica. Nel suo insieme il capitalismo ha quindi una
spinta immanente a infrangere i suoi limiti, superando le fasi di
sovraccumulazione con l’allargamento.
Questa
posizione di Marx è fatta propria da Giovanni Arrighi ma solo a livello
globale, invece secondo lui a livello dello sviluppo nazionale, o dell’intera
Europa, non è adeguato a dare conto della insorgenza del capitalismo stesso, o
della rivoluzione industriale. In questo punto si allinea alle tesi dell’ultimo
Gunder Frank o di Hosea Jaffe[35], “le differenze tra i
processi di sviluppo dell’economia di mercato in Europa e nell’Oriente asiatico
non sono riconducibili alla presenza o all’assenza di specifiche istituzioni
politiche o economico-commerciali, ma piuttosto alla loro combinazione in due
differenti strutture di potere”. In altre parole non si trattava di avere più o
meno “capitalisti”, ma del potere di imporre il proprio interesse di classe a
scapito dell’interesse nazionale.
Come
scriveva Braudel:
“Si può parlare di trionfo del
capitalismo solo quando esso si identifica con lo stato, quando si fa stato.
Nella sua prima grande fase, quella delle città-stato italiane come Venezia,
Genova e Firenze, il potere era saldamente nelle mani di una élite di ricchi.
Nell’Olanda del diciassettesimo secolo, l’aristocrazia che esprimeva i
Reggenti, governava a beneficio, e spesso sotto la direttiva dei mercanti,
imprenditori e banchieri. Analogamente, la Gloriosa rivoluzione del 1688 in
Inghilterra segnò l’accesso al potere degli imprenditori sull’esempio olandese”[36]
Questo
fenomeno va connesso con la tendenza a reagire alla caduta del tasso di
profitto con l’espansione finanziaria e con la competizione interstatale per
attrarre questi flussi finanziari.
Ne parleremo nella seconda parte.
Ne parleremo nella seconda parte.
[1] - Giovanni
Arrighi (1937, 2009)
[2] - La “teoria
della dipendenza” negli anni sessanta domina il campo della critica
anticapitalista di matrice marxista e che si muterà prima nella “teoria dei
sistemi mondo” per poi dissolversi progressivamente. Il punto teorico è
che le istituzioni ed i rapporti economici (ma anche quelli sociali e culturali,
o politici) che si osservano nel mondo “centrale” e “sviluppato”, e quelli che
si osservano nelle “periferie” e “sottosviluppate”, sono il prodotto le une
delle altre in una dialettica che si sviluppa attraverso relazioni reciproche
di dipendenza e conflitto nella reciproca connessione. I paesi più forti
drenano ‘surplus potenziale’ (Baran) da quelli deboli e in questo modo
determinano il loro sottosviluppo. In questo modo i primi si avvicinano al loro
“potenziale”, mentre i secondi ne restano distanti. Come scriverà Andre Gunder
Frank (in “Capitalismo
e sottosviluppo in America latina”, 1967), l’accumulazione del capitale
che avviene in questa forma è quindi nella sua essenza e di necessità ineguale.
Questa struttura di accumulazione, che drena risorse verso la catena dei centri
e la porta all’esterno dei paesi (per questo) sottosviluppati, “penetra come
una catena il mondo sottosviluppato nella sua totalità, creando una struttura
di sottosviluppo ‘interna’”. È questa la ragione per la quale nessuna posizione
interclassista e nazionalista ha possibilità di avere successo nel superamento
del sottosviluppo. Il sottosviluppo non è una questione esterna, ma è una intera
struttura costitutiva delle soggettività e quindi degli assetti politici.
[3] - Andre Gunder Frank (1929, 2005)
[4] - Samir Amin (1931, 2018)
[5] - La “teoria
dei sistemi mondo” è l’evoluzione da una parte della “Teoria della
dipendenza”, dalla quale eredita l’idea che l’interconnessione tra i paesi
procede attraverso le loro relazioni commerciali e gli scambi di capitale,
relazioni funzionali, più marginalmente individui, ma lascia cadere la tattica
della “disconnessione” e quindi della ricerca di indipendenza e sostituzione
delle importazioni (anche di capitale), ovvero le varianti della linea
Listiana. Traendo ispirazione principale al lavoro di Ferdinand Braudel andando
in effetti a sostituire la lettura di derivazione marxista e connessa con la
linea genealogica del pensiero antimperialista otto-novecentesco (in
particolare Lenin), che rileggeva la relazione padrone/servo in un’ottica
ancora connessa con il nazionalismo metodologico, per la quale si individuava
una catena di principali/agenti funzionalmente connessi principalmente dalle
relazioni commerciali, ovvero dagli scambi, con un paradigma che negli anni
novanta si manifesta nel contesto del successo del globalismo e del paradigma
della “storia globale” (Sebastian Conrad, “Storia
globale”). Lo spostamento di scala, in qualche modo debitore sia del clima
post-modernista sia della infatuazione per le ‘scienze della complessità’,
parte da una critica appropriata dell’eurocentrismo ma è attraversato dal
rischio di tradursi in una nuova versione di filosofia della storia sul modello
moderno-lineare invalso in occidente sulla scorta della rivoluzione scientifica
e la sistemazione newtoniana. L’eurocentrismo cacciato dalla porta potrebbe,
insomma, rientrare dalla finestra. In questa direzione interviene la forte
critica di Gunder Frank, a partire da “Re-Orient” e in buona misura risulta
corretta dal libro in oggetto. Per la critica di Frank si veda “Per
una storia orizzontale della globalizzazione”, parte seconda.
[6] - Immanuel
Wallerstein (1930, 2019)
[7] - Giovanni
Arrighi “Il
lungo XX secolo”
[8] - Giovanni
Arrighi, Beverly Silver, “Caos
e governo del mondo”
[9] - Nel 1969
pubblica “Sviluppo economico e sovrastrutture in Africa”.
[10] - Nel 1978, “La
geometria dell’imperialismo: i limiti del paradigma hobsoniano”, e nel
1982, “Dinamiche della crisi mondiale”;
[11] - Arrighi, “Semiperipheal development: the politics of southern
Europe in the twentieth century”, 1985, “Il capitalismo in un contesto
ostile”.
[12] - Arrighi, “Antisystemic
movement”, 1989
[13] - Adam Smith, “La
ricchezza delle nazioni”, è stato completato nel 1776.
[14] - Adam Smith nasce
a Kirkcaldy il 5 giugno 1723 e muore ad Edimburgo il 17 luglio 1790, studia
filosofia sociale e morale all’università di Glasgow e poi a Oxford, dal 1751 è
professore di logica e dall’anno successivo di filosofia morale a Glasgow. La
sua prima opera importante è “Teoria dei sentimenti morali” (1759),
seguita da “Lectures on justice, police, revenue and arms” (1763).
Quindi la sistemazione del pensiero economico giunto fino a lui (fisiocratici e
mercantilisti) e la proposta di una prospettiva di sintesi in “Indagine
sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni”, nel 1776.
[15]
- Domenico Losurdo, “Il
marxismo occidentale”. Nel testo Losurdo indica una frattura
fondamentale (naturalmente con qualche eccezione) tra due tradizioni del
marxismo mondiale: quella occidentale e quella orientale. Poiché il marxismo in
pratica ha sempre trionfato in paesi non imperialisti, non dominanti e
centrali, e deboli oltre che periferici, si è sempre imposto il tema
dell’indipendenza e della difesa dalle brame coloniali, ovvero la
sopravvivenza. In occidente, invece, il capitalismo si è sviluppato sempre come
pensiero critico e quindi il tema centrale è diventato l’antiautoritarismo in
chiave di antinazionalismo e di attesa messianica e millenaristica di una
finale dissoluzione dello stato. Mentre in occidente
prevale lo spirito utopico, ad esempio espresso dall’auspicio blochiano della
fine dell’economia del denaro, in oriente, si pone quello dello sviluppo
economico e delle forze produttive, come indispensabile leva per poter
difendere le conquiste sociali dall’aggressione concreta delle forze
organizzate del capitale occidentale. Chi sostiene questa posizione, nel punto
di passaggio è già Lenin. Mentre Bloch esprime quest’auspicio della fine
dell’economia mercantile nel 1918, o Walter Benjamin nel 1920, il capo della
rivoluzione russa sposta progressivamente il tiro, e sulla spinta della
necessità ridefinisce la priorità dalla posizione della distruzione dello Stato
(ai fini della sua ricostruzione) di “Stato e rivoluzione”, del 1917,
con la NEP del 1921, in cui lo sviluppo economico di un paese ancora arretrato
è il tema cruciale. Nel 1923, nella famosissima “Lettera al
Congresso”, un Lenin ormai morente scrive, infatti: “sarei pronto a dire
che per noi il centro di gravità si sposta sul lavoro culturale, se non
fossimo impediti dai rapporti internazionali, dall’obbligo di lottare per la
nostra posizione su scala internazionale … davanti a noi si pongono
due compiti fondamentali, che costituiscono un’epoca. Si tratta del compito di
trasformare il nostro apparato statale, che proprio non vale nulla e che
abbiamo ereditato al completo dall’epoca precedente”. E prosegue: “il nostro
secondo compito consiste nel lavoro culturale fra i contadini. E questo lavoro
ha come scopo economico appunto la cooperazione” (in questo riecheggiano i temi dell’ultimo Marx stesso). Ma, e questo è
cruciale: “questa rivoluzione culturale comporta delle difficoltà incredibili,
sia di carattere puramente culturale (poiché siamo analfabeti) che di carattere
materiale (poiché per diventare colti è necessario un certo sviluppo
dei mezzi materiali di produzione, è necessaria una certa base materiale”.
Questa della “certa base materiale” è
l’ultima parola della Lettera. L’ultimo lascito.
[16] - David Harvey, “Geografia del
dominio”, Ombre Corte, 2018, p.67 [trad. parziale di “Space of capital:
towards a Critical Geography”, 2001].
[17] - Andre Gunder
Frank chiama “sviluppo del sottosviluppo” la relazione perversa tra centri e
periferie per la quale lo sviluppo dei primi dipende e incentiva il
sottosviluppo dei secondi. Questa tesi si sfumerà notevolmente nella teoria dei
“sistemi-mondo” e sarà contrastata da altri autori marxisti “occidentali”, come
Robert Brenner.
[18] - Arrighi lo
descrive in questo modo, una metafora varata per descrivere spiegare quella
vistosa divergenza [tra i paesi sviluppati e quelli in ritardo]. La divergenza,
sosteneva, altro non era che l’espressione di un processo di espansione
capitalistica globale capace di generare allo stesso tempo sviluppo (ricchezza)
al centro (Europa occidentale e poi America del Nord e Giappone) e
sottosviluppo (povertà) nel resto del pianeta”. p.34
[19] - Robert Brenner, “The origin of capitalist
development: a critique of neosmithian Marxism”, “New Left Review”, I/104, luglio 1977. Si veda anche “Reply
to Sweezy”, NLR, I/108, marzo 1978, e Paul Sweezy, “Commento
su Bremmer”, NRL i/108, marzo 1978. Ben Fine, “On the origin of capitalist
development”, I/109, Maggio
1978, Alex Callinicos, “England’s transition to capitalism”, I/207, 1994.
[20]- Nel 1999 con “Re-Orient” Gunder Frank
improvvisamente rompe con le premesse eurocentriche della “scuola dei
sistemi-mondo” e tutti i suoi amici della “banda dei quattro” (Frank, Amin,
Arrighi, Wallerstein). Arriva a sostenere che un “sistema mondo” è
sempre esistito, almeno da seimila anni. Da allora cicli di sviluppo e crisi,
trasportati dalle linee di commercio a lungo tragitto si sono susseguiti a
livello planetario (con i necessari slittamenti). Ma anche l’accumulazione di
capitale come principio di organizzazione delle leadership egemoniche e la
dialettica centro/periferie sarebbe una caratteristica permanente. La civiltà
occidentale non ha quindi alcuna specificità, non ci sono punti dai quali
sarebbe partita, non ci sono demarcazioni, non c’è un eccezionalismo. Rispetto
alle differenze conta più la continuità.
[21] - Che ad un certo
punto arresta il circolo tra dimensione del mercato, divisione del lavoro e
miglioramento economico, a causa dell’urto con limiti geografici, o
istituzionali, insuperabili.
[22] - Titolo del
libro di Kenneth Pomeranz, “La grande divergenza”, del 2000.
[23] - Bin Wong, “The role of the chinese state in long-distance commerce”,
1997
[24] - Andre Frank, “Re
orient”, 1998. In questo libro avviene la svolta contro l’eurocentrismo
delle teorie dominanti e l’abbandono dello schema della sostituzione delle
importazioni.
[25] - Mentre in Cina
abbondano i lavoratori e scarseggia in senso relativo il capitale, in Europa è
l’opposto.
[26] - Pomeranz, cit.
[27] - Cfr. Tzvetan
Todorov, “La conquista dell’America”, 1984. In particolare il tema del
diverso sguardo che gli occidentali esercitano sul mondo e sull’uomo.
[28]- Karou Sugihara, “The european miracle and the east asian miracle
towards a new global economic history, ‘Sangyo to keizal’”, 2003
[29] - Questo è un
punto che diventa recentemente controverso, per citare un recente studio su
Marx di Marcello Musto: “Con continuità, dunque, dalle prime formulazioni della
concezione materialistica della storia, risalente agli anni ‘40, fino agli
ultimi interventi degli anni Ottanta, Marx mise in evidenza la relazione
esistente tra il ruolo fondamentale dell’incremento produttivo generato dal
modo di produzione capitalistico, e le precondizioni necessarie alla nascita
della società comunista per la quale il movimento operaio avrebbe dovuto
lottare. Le ricerche condotte negli ultimi anni della sua esistenza gli
permisero, però, di rivedere questa convinzione e di evitare di cadere
nell’economicismo che contraddistinse invece le analisi di tanti suoi seguaci”
(Marcello Musto, “Karl Marx”, 2018, p.219). La transizione attraverso la
via del capitalismo (separazione dai mezzi di produzione, proletarizzazione, industrialismo
e divisione del lavoro tra salariati e capitalisti) con la conseguenza politica
della centralità della classe generata dal capitalismo, quella operaia,
connessa intimamente con il centro della produzione (con il suo “laboratorio”)
nella trasformazione in società socialista, è messa in crisi, se pur per
abbozzi, dal confronto con il caso Russo. Per l’ultimo Marx, come per Engels,
la Russia è la probabile frontiera della trasformazione, il luogo dei più acuti
conflitti e contraddizioni, un coacervo del più retrivo feudalesimo con le
forme più spregiudicate di finanza e la nascente borghesia, ma anche ancora una
nazione vastissima e contadina. Osservandola (Marx impara addirittura verso i
sessanta anni il russo, per studiare il dibattito in corso tra “populisti” e “marxisti”)
prende in considerazione l’ipotesi che la transizione attraverso la
proletarizzazione non sia “sempre necessaria”, e che sia meramente un fenomeno
storico, non un modello astorico. Si veda anche Marcello Musto “L’ultimo
Marx”, ed il post “Karl
Marx, la comune rurale e la questione russa”.
[30] - Karl Polanyi, “La
grande trasformazione”
[31] - La caduta del saggio di profitto
è una delle “leggi” più centrali e controverse della economia classica. In Marx
bisogna partire dal fatto che l’accumulazione dipende (come il profitto) dalla
progressiva meccanizzazione del processo produttivo, però, ciò implica che la
produttività del lavoro cresce continuamente nel capitalismo. Con essa cresce
quella che Marx chiama la “composizione organica del capitale”. In temini di
formule: P = s’ (1 - q)
Con un saggio del plusvalore
costante si determina la conseguenza che il saggio di profitto finisce per
variare in ragione inversa della composizione organica del capitale, e quindi “se
q aumenta, allora p deve diminuire”.
Questa è la tendenza alla caduta del saggio di profitto.
[32] - Si veda, ad
esempio, la prefazione di Engels, del 1888, a “Dazio
protettivo e libero scambio”, di Marx (conferenza del 1848).
[33] - Scrive nel Manifesto
del Partito Comunista: “i tenui prezzi delle sue merci sono l’artiglieria
pesante con cui essa [la borghesia] abbatte tutte le muraglie cinesi”. In
effetti però ci volle proprio l’artiglieria non metaforica.
[34] - Friedrich
Engels, “La
situazione della classe operaia in Inghilterra”, 1844
[35] - Hosea Jaffe
(1921, 2014) è stato uno storico e scrittore sudafricano noto per tesi molto
aspre contro l’eurocentrismo degli studi economici e storici. Abbiamo letto, ad
esempio, “Era
necessario il capitalismo?” del 2008, in esso si scaglia contro Engels
ed in parte Marx mettendo in evidenza le tesi eurocentriche e l’interpretazione
del capitalismo come fase necessaria di passaggio verso il socialismo. La sua
tesi è che il capitalismo è regressivo ed ha prodotto danni ingenti ovunque è
stato applicato in quanto si è sempre sviluppato insieme al colonialismo, che è
ad esso strutturalmente necessario. La questione è, in altre parole, se la
dissoluzione dei modi di produzione ‘comunitari’, più o meno dispotici, e
‘tributari’ (possono anche esserci entrambi contemporaneamente) sia stato un progresso.
[36] - Ferdinand Braudel, “Afterhoughts on material civilization and
capitalism”, 1977, p. 64
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