Nella
prima
parte di questa lettura dell’ultimo libro di Giovanni
Arrighi era stata fondamentalmente inquadrata la prospettiva teorica dalla
quale è inquadrato il declino dell’egemone americano e la crescita dello
sfidante cinese. In primo luogo appare la pertinenza di una frattura entro la
stessa tradizione marxista, cui l’autore per buona parte della sua esistenza si
è riferito. Frattura che può essere letta con gli occhiali di Losurdo come
conflitto di paradigmi tra il “marxismo occidentale”[1] e “orientale”,
rispettivamente risalenti a Marx, Engels e seguaci, ed a Lenin, Castro, Ho Chi
Min, Guevara, e via dicendo. La decisione dell’autore in proposito è di
accettare la definizione di “marxismo neosmithiano” proposta criticamente da
Robert Brenner nel 1977 (contro l’ultima versione del secondo genere di marxismo
espressa nella “teoria della dipendenza”), ma di ribadirne invece la validità
come chiave di lettura dei fatti.
Richiamandosi
ad elementi della lettura del grande filosofo scozzese, si tratta per Arrighi di
comprendere quindi che cosa volle proporre effettivamente, al di là della
semplicistica vulgata della “mano invisibile”, Adam Smith nel 1776 e
misurare la fecondità delle sue intuizioni, mettendole in relazione con le ragioni
del successo cinese. Questo sarà il compito della Seconda e Terza Parte del
lungo testo. Utilizzandole si può rovesciare la percezione, che coinvolse in
fondo anche Marx, di una sorta di naturalità del sentiero di sviluppo
occidentale, mettendone in luce anche più di come comunque fece il grande
tedesco la violenta natura. Riconoscere quindi la fondazione del capitalismo nell’estrazione
di valore dalle periferie coloniali (per ma verità sia esterne sia interne[2])
e la capacità di alimentare e nutrirsi degli squilibri e delle dissimmetrie che
esso stesso coltiva[3].
Riepiloghiamo,
ci sono due tradizioni, e secondo quanto ritiene anche Harvey non facilmente
armonizzate, nel marxismo:
-
quella che risale allo stesso Marx[4], e anche più alla
sistemazione tardo ottocentesco condotta da Engels e dai suoi successori
(Kautsky[5] in particolare), e vede
una linea di sviluppo endogeno, interno, del capitalismo nel continuo
rivoluzionamento delle forze produttive che conducono pro motu proprio ad una
maggiore efficienza e razionalità. Quel che si chiama normalmente “progresso”[6].
-
la seconda, alla quale biograficamente ed
emotivamente aderisce l’autore, che vede nel capitalismo un dispositivo di
oppressione soprattutto delle periferie deboli del mondo, dei suoi popoli, e di
estrazione delle loro risorse. Non c’è quindi progresso, ma “accumulazione
per espropriazione” (Harvey), e, soprattutto, c’è una valutazione per molti
versi opposta della resistenza alla modernizzazione, al “progresso”, quando non
è prodotto dallo sviluppo autonomo e coerente con la propria natura e
tradizione.
Abbiamo
dunque “Sviluppo del sottosviluppo” (Gunder Frank) verso creazione di un
mondo “piatto” e progressista. Abbiamo “disconnessione” verso “integrazione”.
Come concluderà, abbiamo “Commonwealth” verso “Impero”.
La
tesi, spostandosi sul piano storico, come adesso vedremo è che nello sviluppo
orientale c’è stato a lungo un “mercato senza capitalismo”[7], capace di produrre molta
più ricchezza della controparte occidentale, ma anche di intrappolare, in
qualche modo, la società in una sorta di equilibrio che ha limitato l’innovazione
(anche tecnica) o la sua diffusione e utilizzo. Non è sempre stato così, ma lo
è stato nel momento decisivo, quello dell’incontro con l’occidente.
Sulle
tracce della turbolenza globale
Nella
Parte Seconda del libro, per comprendere come tale meccanismo si
dispieghi e come d’uso in tutti i libri della “trilogia”[8], viene prodotta un’ampia
ed estremamente interessante ricostruzione della successione storica delle
crisi, a partire dalla lunga depressione dell’800, vivente Marx e che ha il suo
termine negli ultimi anni dell’ottocento, quando con la morte di Engels si aprì
nel socialismo tedesco, che svolgeva un ruolo di guida di quello europeo, la
controversia Bernstein-Kautsky[9] e il revisionismo. Quasi
improvvisamente una lunga fase di aspra competizione intercapitalistica, che
aveva prodotto prezzi calanti e frequenti crisi locali, con brevissimi
intermezzi, termina e i prezzi ricominciano a salire. Si impone allora un clima
euforico nel mondo degli affari che passerà con il nome di Belle Époque.
Un’epoca nella quale, tuttavia, le ineguaglianze crescono vertiginosamente e i
benefici si ripartiscono a vantaggio di pochi. Sul piano internazionale
riguardarono soprattutto l’Inghilterra e su quello di classe soprattutto quelle
renditiere. La lunga crisi era stata una fase di scarsi profitti, ma di
crescente benessere dei lavoratori, mentre la “Belle Époque” è stata, al
contrario, una fase di profitti, ma non per i lavoratori. Crisi e
benessere dipendono dai punti di vista.
Anche
il lungo boom degli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso, che sfocia al
termine in una crisi dei profitti, deriva da una forma di “sviluppo ineguale”
tra aree economiche. Ovvero di differenti stati di crescita nel senso proposto
da Brenner[10];
un senso ben applicabile a Germania e Giappone. Ritardatari che infine riescono
a raggiungere i paesi guida nella corsa alla frontiera capitalistica. Bisogna
anche ricordare che in tutto il trentennio che segue alla fine della seconda
guerra, e agli Accordi di Bretton Woods la crescita era stata impetuosa nei
paesi guida dell’occidente, ma debole nei paesi “sottosviluppati”. Le cause
sono state molteplici, come sempre capita: la lotta tra i due blocchi, che
tendeva ad esasperare le ragioni di sfruttamento dei satelliti periferici, e
accentuava, appunto, la “dipendenza”; lo stretto controllo politico dei flussi
di capitale. Quell’assetto crebbe, raggiunse i suoi limiti, e andò infine in
crisi (una crisi che fu contemporaneamente geopolitica, sociale, economica). La
svolta si produsse nel 1965-73 è fu resa in ultima analisi necessaria da una
sempre più aspra lotta commerciale, dall’irruzione nelle economie guida di
prodotti e merci a basso costo e dalla riduzione del rendimento degli
investimenti anche del 40% negli Usa. A questo attacco, a partire dai primi
anni settanta gli Stati Uniti reagirono con una drastica svalutazione del
dollaro e con la distruzione del regime di Bretton Woods. Una distruzione
anticipata da molti segnali e forse prevista.
A
questa maggiore competizione Germania e Giappone reagirono cercando di conservare
la competitività contraendo la domanda interna. Seguì una fase confusa,
caratterizzata da manovre dette di “stop and go”, da parte dell’Inghilterra e di
tutte le principali economie del mondo (per evitare il progressivo
indebolimento delle ragioni di scambio e l’instabilità monetaria anche l’ultimo
Johnson ed il primo Nixon cercarono di provare una stretta creditizia, ma la
sconfitta alle elezioni del 1970, convinse quest’ultimo a riaprire lo stimolo[11]). Ma in quel contesto le
politiche espansive a metà dei settanta determinavano tassi di interesse in
caduta e fuga dei capitali verso i tassi più alti di Germania e Giappone, e,
conseguentemente la tendenza dei deficit della bilancia commerciale ad andare
fuori controllo. Dopo un’altra svalutazione del 7,9% allo Smithsonian Agreement
del 1971, nel 1973 tutti si arresero. Complessivamente tra il 1969 ed il 1873
il dollaro si svalutò verso il marco del 50%, cosa che consentì per un poco di
recuperare la competitività delle merci perduta, ma trasferì gli impulsi di
crisi in Europa.
Al
termine di questo primo periodo di aggiustamento lo sviluppo ineguale nel senso
dell’inseguimento tra grandi potenze industriali fu parzialmente ridotto, ma quello
tra queste ed i paesi “in sviluppo” rimase simile. Ma questo determinò una
tendenza endemica all’eccesso di capacità produttiva a livello mondiale che
ridusse per tutti i tassi di profitto. Quindi lo schema interpretativo proposto
(che Arrighi riprende, accettandolo, da Brenner) è di “sovracapacità e
sovraproduzione” (tendenziale). Questa condizione di stagnazione in effetti rimase
persistente dal 1973 al 1993, per venti anni durante i quali si completò la
trasformazione del sistema economico internazionale, ma fu attraversata da tre
momenti principali:
1- la
rivoluzione monetarista degli anni ottanta, che produsse
come effetto principale l’inversione della svalutazione del dollaro e dei
flussi di capitale che tornarono, impetuosi, verso l’economia guida (devastando
i germi di crescita che si erano nel frattempo aperti nel mondo “in via di
sviluppo”). In questo contesto si ebbe la resa della Francia di Mitterrand,
dopo il biennio di politiche keynesiane[12].
2- il
“Plaza Accord” del 1985, che svalutò il dollaro verso lo Jen, ponendo
bruscamente fine alla crescita Giapponese, che stava seriamente preoccupando le
élite americane;
3- il
“Reverse Plaza Accord”, del 1995, che, al contrario, lo rivalutò. Questo
secondo accordo intervenne a salvare il settore manifatturiero giapponese,
spingendo verso l’alto il valore del dollaro e rendendo in conseguenza, in un
contesto nel quale il settore manifatturiero americano era in ripresa e quindi
i valori azionari erano buoni, la borsa americana estremamente attraente per
gli investitori stranieri.
Quel
che seguì è, come sottolinea Brenner nel 2002[13], una “messa in libertà di
un torrente di liquidità proveniente dal Giappone e dall’Oriente asiatico e in
generale dall’estero che si riversò sui mercati finanziari americani,
provocando una brusca riduzione dei tassi di interesse che spianò la via a una
forte crescita dell’indebitamento della grandi società che prendevano a
prestito per comprare azioni di borsa”. Peraltro, a dimostrazione del carattere
di forte progettualità geopolitica (il contesto primario è sempre il dominio
del capitale occidentale, ed anglosassone in particolare) le autorità monetarie
giapponesi facilitarono molto il processo continuando politiche di espansione
monetaria e mitigando le limitazioni per gli investimenti all’estero. Partì
così la bolla di fine secolo.
Il
rovescio della medaglia fu che le grandi aziende, che furono il motore principale
della fase, entrarono ovunque in un periodo di forte indebitamento. Una
condizione che per essere risolta in modo definitivo rendeva necessario passare
per una fase di deflazione dei debiti (privati) che non si fece allora, non si
è fatta alla data del libro, non si è fatta ancora.
Secondo
Brenner le teorie che invece vedono nella forza del movimento operaio
nella contingenza degli anni sessanta e settanta, il fattore decisivo nel
comprimere i profitti e minacciare le basi del meccanismo dell’accumulazione
capitalista sono eccessive. In effetti questo fattore ci fu, ma quello decisivo
non fu la pressione “verticale” entro il sistema produttivo, ma quella
“orizzontale” della competizione tra capitalisti e tra sistemi. Arrighi accetta
solo fino ad un certo punto questa ipotesi e attira l’attenzione “sull’intera
foresta di quella crescente marea multinazionale di conflitti sui salari e le
condizioni di lavoro culminata fra il 1968 e il 1973”, la quale spinge verso
l’alto i salari reali più dell’incremento della produttività. Questa esplosione
ebbe effetto sulla contrazione del saggio di profitto, come ovvio, ma ebbe anche
un effetto marcato e di lunga durata sull’andamento della competizione
intercapitalistica. In questa crisi, al contrario di quella del 1870-90, ci fu
anche un effetto inflazionistico rilevante (mentre in quella fu
deflazionistico) e la rottura monetaria (mentre in quella dominò il gold
standard). Il motivo fondamentale per gli Usa sarebbe che i costi politici di
una politica deflazionista (che è quella standard nell’assetto capitalistico)
erano troppo alti, data la situazione di alta conflittualità interna e relativa
alla guerra del Vietnam. A Nixon serviva invece una qualche espansione per
frenare la rabbia popolare. Peraltro la forza contrattuale dei lavoratori, come
una delle cause per l’abbandono del gold standard è ancora più evidente in
Francia, dove De Gaulle lasciò andare le politiche per evitare che la protesta
studentesca del 1968 si saldasse con quella dei lavoratori. Insomma, per come
la mette il nostro:
“Come suggerisce l’esperienza degli Stati Uniti e della
Francia, la capacità di pressione del movimento operaio durante la transizione
dal boom alla relativa stagnazione della fine degli anni sessanta e dei primi
anni settanta non era un semplice riflesso della competizione
intercapitalistica come era stato il caso durante l’inizio della svolta
recessiva alla fine del diciannovesimo secolo. Al contrario essa fu
sufficientemente forte da esercitare un’azione significativa non solo sulla
stretta dei profitti che caratterizzò la transizione, ma anche nell’indirizzare
la svolta recessiva lungo un percorso inflazionistico piuttosto che
deflazionistico. Certo, sui profitti agiva contemporaneamente anche la
concorrenza tra le aziende e certo dall’indirizzo inflazionistico dato dalla
recessione i lavoratori non trassero particolari vantaggi né per loro né per la
loro capacità di pressione” (p.147).
Alla
fine la tesi fondamentale di Arrighi è che, semplicemente, l’inflazione
funzionava meglio della deflazione per usurare la capacità di lotta dei
lavoratori che caddero sotto i colpi della controrivoluzione di Reagan e
Thatcher. Un ruolo, tuttavia altrettanto importante in questo passaggio lo
giocarono le relazioni nord-sud del mondo e quindi l’impatto della
decolonizzazione. Questa fu influenzata dal clima della guerra fredda e dalla
crisi egemonica americana susseguente alla guerra persa in Vietnam. Il fattore
che fu determinante non fu la pressione dei lavoratori, o il conflitto
concorrenziale, ma “gli effetti diretti e soprattutto indiretti dell’escalation
del Vietnam sulla bilancia dei pagamenti negli Stati Uniti” (p. 153). La
variabile di sistema fu la lotta per la supremazia e per contrastare
nazionalismo e comunismo nel terzo mondo.
È
questo il contesto nel quale la svalutazione del 1969-73 del dollaro finì per
far cadere il peso della crisi dei profitti, causata da questo complesso di
fattori, su Germania[14] e Giappone, provocando
una redistribuzione degli oneri come sottoprodotto di misure per recuperare
margini. Questo assetto di politiche giunse al suo massimo al termine degli
anni settanta.
A
questo punto accelerò la svolta finanziaria e per evitare il “macello dei
capitali” che avrebbe curato la tendenza alla sovrapproduzione però al prezzo
della perdita di egemonia di troppi (sia ceti e aziende sia nazioni) il
capitalismo si ritirò nel suo “quartier generale” (Braudel), ovvero, appunto, nei
mercati finanziari.
La
svolta monetarista ha questo senso, si tratta di una inversione: “gli
Stati Uniti sono passati dal ruolo di principale sorgente mondiale di liquidità
e di investimenti diretti all’estero che avevano coperto durante gli anni
cinquanta e sessanta, a quello di principale nazione debitrice e di pozzo di
liquidità che non hanno più abbandonato ormai dagli anni ottanta” (p.165).
È
dai mercati finanziari che in ultima istanza gli Stati Uniti ottengono quel che
non avevano ottenuto né con le armi né con l’industria, ovvero la sconfitta
dell’Unione Sovietica e, insieme, il disciplinamento del sud del mondo.
Svolse un ruolo la corsa degli armamenti, il crescente indebitamento di tutti i
paesi satelliti dell’Urss (che crolleranno in pochi anni), la crisi messicana
del 1982, la recessione e liquidazione ideologica e politica dello Stato
Assistenziale come parte di un vasto progetto di ricostituzione “dell’esercito di
riserva industriale” e quindi dei margini della produzione (p.168).
Ma
se questo fu lo scheletro della svolta, l’interpretazione di Arrighi, come nei
suoi precedenti libri, passa per la nozione di crisi di egemonia[15]
degli Stati Uniti, che aveva visto un suo momento alto nel New Deal
Rooseveltiano e nella sua ipotesi di estensione al mondo, tramite le Nazioni
Unite; poi nel consolidamento negli anni del keynesismo militare e nella
politica di contenimento della sfida sovietica sulla base di più poli industriali
dominanti (Germania, Giappone in primis), che dovevano restare sempre dominanti[16] e quindi l’appoggio
strategico alla Comunità Economica Europea come necessario contrappeso al
socialismo sia esternamente sia internamente. Ne segue una diagnosi, “lo sviluppo
ineguale [nel senso di Brenner] all’ombra dell’egemonia prodotta dagli Stati
Uniti non fu dunque un processo spontaneo prodotto dall’azione ‘dal basso’ dei
capitalisti impegnati nell’accumulazione ma un processo incoraggiato dall’alto”
(p.173). Un processo, dunque, non solo “capitalistico” (nel senso di Marx e di
Brenner), ma anche “politico”, o meglio, naturalmente “geopolitico”.
Gli
obiettivi che si poneva l’egemone americano erano infatti politici, nel mettere
in piedi il sistema di potere del dopoguerra, e fallirono non tanto nel lasciar
emergere Germania e Giappone come nuovi competitori, quanto nel riuscire a garantire
benessere e pace sociale (gli anni sessanta e settanta sono anni di asprissimi
conflitti sociali nelle “periferie interne”) e dominio sul resto del mondo
emergente.
Sarà
la “controrivoluzione monetarista”, insieme al dilagare dell’economia
finanziaria che ne è causa ed effetto, a ottenere infine i due risultati. Si
tratta di un punto di svolta complesso, nel quale ebbe un ruolo “l’eurodollaro”[17] ed una massa di capitali
mobili che quadruplica tra il 1967 ed il 1970. Dominarono due fenomeni
paralleli: l’esplosione salariale, con conseguente erosione relativa dei
profitti, e la massa di capitali parcheggiati. Si trattò di una enorme massa di
manovra ed un fiume in continua crescita che finisce per fare concorrenza alle
istituzioni monetarie e statunitensi.
Ci
sono per Arrighi in sostanza tre tendenze che si rafforzano a vicenda:
1- La
rottura del sistema di parità fisse,
2- Una
posizione più aggressiva dei paesi del terzo mondo,
3- La
mancanza di domanda di impieghi.
Questo
processo ebbe un successo enorme, l’intera struttura della società si rivoltò,
la direzione e qualità dei consumi passò da una trazione da parte dei consumi
di massa ad una trazione condotta dai consumi “distintivi”. L’egemonia della
classe sociale “affluente”, che esibisce i propri consumi facendone elemento
del prestigio, della legittimità a dirigere, e della stessa propria qualità
morale, si impose sulla precedente semi-egemonia “popolare”. Il processo trovò
i suoi cantori e trovò i suoi critici, ma fu praticamente irresistibile.
Si
trattava di una nuova Belle Epoque fondata su un meccanismo che, in basso, è
sostenuto da una continua anticipazione di futuro, una costante espansione
finanziaria e quindi delle strutture del debito e che, secondo Arrighi, nel
lungo periodo potrebbero portare ad un “nuovo crollo sistemico” (è in realtà
molto più vicino, dato che il libro esce nel 2007). Qui domina la riduzione
della concorrenza attraverso l’estensione delle relazioni clienti-fornitore
‘captive’, basate sull’associazione di monopoli e monopsoni, e l’interconnessione
internazionale per sfuggire, o per arbitrare, ai regimi di regolazione.
È
il modello Wall Mart degli anni novanta, sulla base del quale,
generalizzandolo, si imporrà nel nuovo millennio il modello della “gig economy”[18] e di “Amazon”.
Ma
se l’egemonia americana, pur con questa enorme ripresa di centralità (ovvero
incremento del dominio) è per Arrighi comunque in disfacimento, la fase
imperiale si affermò come puro e brutale dominio solo dal 2001. A seguito
dell’opportuno attentato delle Torri Gemelle (occasione presa al volo) Bush
lanciò un nuovo programma imperiale ripetendo la mossa fortunata di Roosevelt (che
usò l’attacco di Pearl Harbor per fare la guerra di cui aveva bisogno per
risolvere la crisi del New Deal) e di Truman (quando costruì la “guerra fredda”
per poter proseguire le politiche espansive al livello necessario senza che i
capitali si opponessero[19]). Considerando la
persistenza del trauma della sconfitta del Vietnam, però, lo fece attraverso la
“dottrina Powell”: colpire subito con una enorme sproporzione e disimpegnarsi. In
Afganistan e soprattutto in Iraq la prima parte andò bene, ma la seconda fu uno
spettacolare fallimento. Gli Stati Uniti si ritrovarono ancora una volta in un
pantano, e con una continua emorragia di capitali.
Alla
fine fu un fallimento ancora più grave, anche perché il resto del mondo rifiutò
la guerra americana e si rifiutò di sostenerne i costi.
In
conseguenza anche l’idea di un ordine mondiale riformato per mano militare,
anziché con il “dolce commercio” come voleva Clinton nel suo entusiasmo
democratico per la globalizzazione, fallì.
Restava
quindi il dilemma di come finanziare la guerra:
1- Attraverso
un aumento delle tasse,
2- Aumentando
l’indebitamento con l’estero,
3- Rendendo
la guerra autosufficiente,
4- Sfruttando
il ruolo del dollaro.
In
effetti furono tentati tutti, ma alla fine fu soprattutto il dollaro a
svalutarsi, del 35% (come accadde peraltro dopo la guerra del Vietnam).
Naturalmente si tratta di una politica rischiosa perché funziona solo fino a
che la fiducia reggeva. Precisamente una politica che danneggia tutti i detentori
di dollari fuori casa e, in particolare, le riserve valutarie sovrane[20] in dollaro, ovvero il
ruolo dello stesso come “valuta di riserva”.
Ma
c’è soprattutto un altro lato della cosa: fino a che gli Usa restarono
invischiati nella guerra del golfo crebbe anche la dipendenza dalle
importazioni e dal credito estero a buon mercato. In queste condizioni non si poteva
infatti cercare di ostacolare la crescita del nuovo paese che stava emergendo a
sfidare il ruolo centrale americano: la Cina. Infatti in queste condizioni lo
squilibrio della bilancia commerciale non poteva essere combattuto con i dazi,
in quanto avrebbero potuto far aumentare l’inflazione a causa della necessaria
sostituzione delle importazioni a basso prezzo cinesi con altre comunque più
care.
Ma
allora, fino a che non si scioglie questo nodo, l’aumento dell’influenza
cinese, che estende i suoi rapporti con paesi decisivi come l’Iran ed il
Venezuela, o con parte dell’Africa, resta difficilmente contenibile.
Nel
seguito del libro Arrighi guarderà molto più da vicino questa crescita.
[1] - Domenico Losurdo, “Il
marxismo occidentale”, 2017.
[2] - Per avere un’idea di questo punto,
che naturalmente merita ben più elevato approfondimento, può essere utile
rileggere alcuni articoli dei Monthly Review, raccolti nel 1968 nel libro di Leo
Huberman e Paul Sweezy “La
controrivoluzione globale” che per lo più si confronta con il movimento
di liberazione delle minoranze nere.
[3] - Il punto teorico è analizzato in particolare nella
principale opera della scuola americana, l’ultima di Paul Baran, “Il
capitale monopolistico”, scritto nel 1967 con Paul Sweezy. In esso
viene formulato una sorta di “teorema di impossibilità” nella fase monopolistica
del capitalismo. La rivoluzione sistemica nelle società del centro
capitalistico (monopolista) maturo non avviene dove si aspetta; questo ha,
infatti, una immensa capacità di coinvolgimento ed egemonica, ma anche, e nella
stessa logica produce una capacità di mobilitazione alle periferie,
che di necessità ne devono pagare il prezzo. Lo schema della rivoluzione al
culmine dello sviluppo delle forze produttive ne viene rovesciato: le
condizioni dell’instabilità sistemica del capitalismo non si danno al centro,
ma nelle sue periferie interconnesse e vitali per la sua sopravvivenza, nel
senso specifico che senza l’estrazione di ‘surplus potenziale’ da queste esso
resta condannato alla tendenza alla stagnazione e quindi non è in grado di
riprodurre il consenso al suo interno. Questa forma di
capitalismo, diretta e controllata dalle grandi imprese per azioni monopoliste
e multinazionali, è quindi strutturalmente imperiale e
organizzato di necessità per grandi catene di sfruttamento
internazionali. Catene che determinano l’estrazione di valore e la
contrapposizione tra la massima opulenza e la massima disperazione, entro e
fuori le cittadelle assediate delle metropoli occidentali.
[4] - Ad esempio si legga questo
famoso passo: “la produzione basata sul capitale crea da una parte l’industria
universale, […] dall’altra crea un sistema di sfruttamento generale delle
qualità naturali ed umane, un sistema della utilità generale, il cui supporto è
tanto la scienza quanto tutte le qualità fisiche e spirituali, mentre nulla di
più elevato-in-sé, di giustificato di per se stesso, si presenta al fi fuori di
questo circolo della produzione sociale e dello scambio. … soltanto col
capitale la natura diventa un puro oggetto per l’uomo, una pura cosa di
utilità, e cessa di essere riconosciuta come forza per se; e la conoscenza
teoretica delle sue leggi autonome si presenta soltanto come astuzia per
subordinarla ai bisogni umani, sia come oggetto di consumo, sia come mezzo di
produzione. In virtù di questa sua tendenza il capitale spinge a superare sia
le barriere e i pregiudizi nazionali sia l’idolatria della natura e la
soddisfazione tradizionale, orgogliosamente ristretta entro determinati limiti,
dei bisogni esistenti, e la riproduzione del vecchio modo di vivere. Nei
riguardi di tutto questo il capitale opera distruttivamente, opera una
rivoluzione permanente, abbatte tutti gli ostacoli che frenano lo sviluppo
delle forze produttive, la dilatazione dei bisogni, la varietà della produzione
e lo sfruttamento e lo scambio delle forze della natura e dello spirito” (K.
Marx, “Grundisse”, p.11)
[5] - Ad esempio può essere ricordata
la discussione tra Lenin e Kautsky sulla “dittatura del proletariato”, come necessità
(la repressione della borghesia da parte degli operai in armi e le loro
organizzazioni), dato lo sviluppo insufficiente delle forze produttive, e/o la
necessità di passare per una fase ‘borghese’. Questa discussione, tra un
modello rigido di progresso storico del socialismo (difeso da Kautsky) e un
modello che, a ben vedere, sposta il focus sulla indipendenza e la lotta
antimperialista (di Lenin), animerà successivamente tutto il movimento
socialista. Ad esempio il dibattito Stalin-Trotsky e la questione della
decolonizzazione nel dopoguerra. Quindi c’è la questione della estinzione dello
Stato. In “Stato e rivoluzione”, Lenin più o meno dice che il comunismo
pienamente dispiegato, discutendo della “Critica al programma di Gotha”,
comporterà la dissoluzione dello Stato ed il controllo spontaneo delle
deviazioni tramite il controllo sociale dei lavoratori (“in armi”). Ma, nella
fase intermedia, “che sarà molto lunga”, lo Stato è necessario, insieme alla
dittatura del proletariato, per impedire che i pochi opprimano i molti. Lo
Stato, come macchina di repressione dovrà quindi funzionare, ma per i molti
contro i pochi. A questo testo, ed alla prassi conseguente nel “comunismo
di guerra” Kautsky, in “La dittatura del proletariato”, 1918, risponde intanto
che il partito bolscevico in effetti governa “contro altri partiti socialisti”,
quindi individua la divergenza nello scontro tra “il metodo democratico ed il
metodo dittatoriale”. La questione che pone il leader della socialdemocrazia
tedesca (poi avremo tragiche conseguenze nel momento in cui a gennaio 1919
scoppierà, in risposta alle richieste pressanti sovietiche, la “rivolta
spartachista”, nella quale la parte di socialdemocrazia al governo risponderà
con una feroce repressione che costerà la vita a Rosa Luxemburg) è che “il
nostro scopo finale, compreso con esattezza, non è il socialismo, ma consiste
nella abolizione di ogni forma di sfruttamento e oppressione sia essa diretta
contro una classe, un partito, una nazione, una razza (programma di Erfurt)” (adottato
nel 1891), p.25. Anche la “forma socialista di produzione”, è quindi indicata
come mezzo e non fine, come dice “se ci si dimostrasse che in ciò sbagliamo,
che la liberazione del proletariato e dell’umanità in genere si può raggiungere
unicamente o nel modo più opportuno sulla base della proprietà privata dei
mezzi di produzione come ancora riteneva Proudhon, dovremmo rifiutare il
socialismo, senza minimamente rinunciare alla nostra meta finale, ma appunto
nell’interesse di questa”. In conseguenza non si può pensare al socialismo
senza la democrazia. “Per socialismo moderno noi intendiamo non soltanto
un’organizzazione sociale della produzione, ma anche un’organizzazione
democratica della società”. Non proseguo nell’analisi di un testo davvero
importante e che meriterebbe una lettura organica. A questo, come noto Lenin
risponde con il violentissimo “La rivoluzione proletaria ed il rinnegato
Kautsky”, nel quale riconduce il discorso del primo al liberalismo, per lui
“il ‘contrasto fondamentale’ tra ‘il metodo democratico e il metodo
dittatoriale’ è il nocciolo della questione. E’ l’essenza dell’opuscolo di
Kaustky. Ed è una confusione teorica così mostruosa, un’abiura del marxismo
così completa, che deve convenirsi aver Kautsky di molto sorpassato Bernstein”.
In sostanza accusa il tedesco di essere antistorico, e di guardare
scolasticamente a tempi ormai passati (il XIX secolo). E di “guardare la cosa
dal punto di vista di un liberale, cioè come questione di democrazia in
generale e non di democrazia borghese”. La questione è che “un marxista non
dimentica mai di porre la domanda: [democrazia] per quale classe?” (p.35) e
quindi questi “ha dimenticato la lotta di classe”. Ora, la semplice verità è
che, in Marx, per Lenin, “la dittatura è un potere che si appoggia direttamente
sulla violenza, non vincolato da alcuna legge. La dittatura rivoluzionaria del
proletariato è un potere conquistato e sostenuto dalla violenza del
proletariato contro la borghesia, un potere non vincolato da alcuna legge”. Ma
qui, per capire queste dure parole, siamo nel novembre 1918. Il nocciolo della
questione (p.40) è dunque “la violenza”.
[6] - Una nozione altamente complessa
e dai molti significati, che tuttavia ai fini del nostro discorso tende a
cadere sotto la critica che le rivolse Walter Benjamin nelle “Tesi sulla
storia”, (13° tesi): ““la teoria
socialdemocratica, e più ancora la prassi, era determinata da un concetto di
progresso che non si atteneva alla realtà, ma presentava un’istanza dogmatica.
Il progresso, come si delineava nel pensiero dei socialdemocratici, era,
innanzitutto un progresso dell’umanità stessa (e non solo
delle sue capacità e conoscenze). Era, in secondo luogo, un progresso
interminabile (corrispondente ad una perfettibilità infinita dell’umanità).
Ed era, in terzo luogo, essenzialmente incessante (tale da
percorrere spontaneamente una linea retta o spirale). Ciascuno di questi
predicati è controverso, e da ciascuno potrebbe prendere le mosse la critica.
Ma essa, se si vuol fare sul serio, deve risalire oltre questi predicati e
rivolgersi a qualcosa di comune a essi tutti. La concezione di un progresso del
genere umano nella storia è inseparabile da quella del processo della storia
stessa come percorrente un tempo omogeneo e vuoto. La critica dell’idea di
questo processo deve costituire la base della critica dell’idea del progresso
come tale”
Il
tempo della storia, invece, non è il tempo astratto e vuoto della valorizzazione,
ovvero il tempo in ultima analisi del capitale che, trascinando davanti a sé lo
sviluppo tecnologico in direzione della massima autovalorizzazione e
continuamente dissolvendo gli ostacoli, si produce attraverso di esso; ma è il
tempo, dice nella 14° tesi, “quello pieno di ‘attualità’”. Ovvero
è il tempo di ciò che si fa attuale (ad esempio la Roma antica
durante la rivoluzione francese per Robespierre). Si arriva a dire che (15°
tesi) “la coscienza di far saltare il continuum della storia è propria delle
classi rivoluzionarie nell’attimo della loro azione”, infatti dalla “selva
del passato”, nell’area in cui comanda la ‘classe dominante’ (diremmo in cui si
esercita la sua egemonia che la fa dominante), il balzo di tigre che attualizza
un ‘passato’, rendendolo nuovamente presente, fa sì che si possa restare
“signore delle proprie forze” (In “Angelus novus”, p.83 e seg.). Emerge
la concezione di una sorta di tempo granulare e discontinuo, in cui l’atto che
costituisce potere (e quindi valore) diventa la scelta di cosa considerare
contemporaneo, cosa attuale. Un tempo, quindi, politico.
[7] - Si tratta di una questione davvero difficile, la
tesi riportata deriva in sostanza dalla proposta di Braudel. Naturalmente non
si intende il “mercato” come la circolazione delle “merci” nel senso descritto
da Marx perché questa presuppone i rapporti di produzione del capitalismo.
Andiamo a Braudel, in particolare “La dinamica del capitalismo”, 1977,
che riassume i concetti di “Civiltà materiale”, 1979: il “capitalismo”
(ma sta parlando di quello preindustriale) vi viene individuato come sistema
economico avverso al “mercato”. Il “capitalismo” si può costruire solo con il
supporto dello Stato, il fenomeno è interpretato
come effetto di una sorta di gioco di strategia in cui diversi poteri sfruttano
le condizioni e le istituzioni del tempo per consolidare un predominio avverso
alla grande maggioranza, inclusi i nuclei e frammenti di mercato e gli
imprenditori in essi operanti. Questa lettura inquadra, insomma, il fenomeno
cui si dà nome “capitalismo” distinguendolo, ed in qualche modo opponendolo,
sia alla divisione del lavoro (lettura di Adam Smith) sia ad ethos culturali e
religiosi (Max Weber). In questo libro, la cui lettura dovremo rimandare, le
“socioeconomie” sono insomma influenzate sia da “chi possiede i mezzi di
produzione, la terra, le navi, le materie prime, i prodotti finiti e le
posizioni dominanti” (come sottolineava Marx che qui è citato), sia dallo
Stato, che è “causa e conseguenza insieme” e turba, piegando anche
involontariamente, i rapporti. diversa lettura del “capitalismo”, che
vede addensarsi a partire dal 1200 e che non è letto, secondo la tradizione che
risale a Smith, e non viene seriamente contestata neppure da Marx, come un
fenomeno connesso con la concorrenza, la divisione del lavoro e la
razionalizzazione, che è pervertito tardivamente da colonialismo e imperialismo
(in Marx e nei suoi successori), deformato dai monopoli. Come abbiamo visto il
“capitalismo” scaturisce dal commercio internazionale, di lunga percorrenza, e
dalle lunghe catene di scambi in cui il medium “denaro” può esplicare la
propria logica ed è quindi, dall’inizio, internazionale, volto a creare e
sfruttare privilegi facendo leva sulla mobilità, scaturente dal monopolio.
Parassitario di rapporti sociali locali e poteri politici nazionali (dei
nascenti Stati o delle autorità semifeudali esistenti). Esso crea e rende
possibili le “economie-mondo” (la cui lettura è una delle marche di Braudel e
della sua scuola i cui continuatori sono Wallerstein e Arrighi), imponendo strutture piramidali e canalizzando in
luoghi densi e privilegiati (le “città globali” di cui parla Saskia Sassen) i loro affari d’ordine e
sfruttando quelle diventate marginali (qui si può andare a “Espulsioni, brutalità e complessità nell’economia globale”). Il capitale si forma e si sposta, si organizza
intorno a centri in cui operano infrastrutture di servizio e reti di
competenza, prima emergono in questa veste centri come Firenze, Milano, Venezia
e Genova, poi nello scorrere dei decenni Anversa, Amsterdam e quindi Londra,
infine New York fuori del perimetro temporale della ricerca.
Per
Braudel, diamogli la parola: “la caratteristica fondamentale dell’economia
preindustriale è la coesistenza delle rigidità, inerzie e lentezze di
un’economia ancora elementare coi movimenti limitati e minoritari, benché vivi
ed incisivi, caratteristici della crescita moderna. Da un lato, contadini che
vivono nei loro villaggi e sviluppano forme autonome, quasi autarchiche di
economia, dall’altra un’economia di mercato ed un capitalismo in espansione
che, estendendosi a macchia d’olio, tracciano, a poco a poco, la
configurazione del mondo in cui viviamo. Due universi, dunque, due generi di
vita apparentemente estranei ma le cui masse rispettivamente rimandano tuttavia
l’una all’altra” (p.26).
“L’economia
di mercato” nella tradizione storiografica che, appunto, risale alla
sistemazione prodotta nell’ultimo quarto del settecento da Adam Smith, è la
presenza che assorbe il nostro campo visivo, ma per Braudel essa “non è che un
frammento di un più vasto insieme, a causa della sua stessa natura che la
riduce a giocare il ruolo di semplice area di collegamento tra produzione e
consumo: fino al XIX secolo, l’economia di mercato costituisce soltanto un
livello più o meno consolidato e resistente, talora una sottile intercapedine,
tra l’oceano della vita quotidiana che si estende sotto di essa ed i movimenti
del gioco capitalistico che, più d’una volta, la manovrano dall’alto” (p.49).
Tuttavia
questa presenza ubiqua, che connette e collega aree diverse, e nella quale
rifornimenti, prezzi, flussi, produzioni, sono messi in contatto, a volte
manipolati, influenzati, fatti oggetto delle prime “politiche economiche”,
protetti o sfidati, osservati e razionalizzati, appare ai contemporanei come il
vero elemento decisivo. L’equilibratore, fondato sul meccanismo che appare agli
occhi della “concorrenza”, che riesce di superare i dislivelli. Le carenze
dell’offerta, quelle della produzione, della domanda. “Il mercato diventa così
un dio nascosto e benevolo, la <mano invisibile> di Adam Smith, il
mercato autoregolato del XIX secolo, chiave di volta dell’economia per tutto il
periodo in cui ci si è attenuti al principio del laisser faire, laisser
passer”. Che ne pensa Braudel? Lo dice subito, “in tutto questo c’è, senza
dubbio, una parte di verità, una parte di malafede, ma anche di
illusione”. Intanto il mercato è manipolato, alterato, dal potere politico, dai
monopoli, poi questo è incompleto ed imperfetto come legame tra produzione e consumo.
Braudel tiene “a sottolineare la parola incompleto”, e continua:
“mentre credo nelle virtù e nell’importanza dell’economia di mercato, ciò che
non mi convince è la sua funzione di fattore assoluto, esclusivo”. Questo è
semplicemente “un mito”.
Oltre a questa cosa c’è? Intanto, ovviamente, le
strutture del quotidiano, della vita materiale, ma anche “il capitalismo”.
Braudel lo dice chiaramente, il termine è scelto per avere una diversa
etichetta che si distingua dall’economia di mercato. Si tratta di “forme di
attività molto differenti”. È chiaro che si tratta di un termine ambiguo e
pericoloso; lanciato (anzi, come dice prudentemente, oggetto “del suo primo
vero <lancio>” nell’opera maggiore di
Sombart nel 1902) è “praticamente ignorato da Marx” e viene connesso
normalmente alla rivoluzione industriale. Ma questa è contaminata dal passato,
si stava delineando da tempo, da molto prima del XVIII secolo. Questo, il
“capitalismo” è dunque “in linea di massima … il modo in cui è gestito, con
finalità generalmente poco altruistiche il gioco della costante immissione” del
capitale nel processo di produzione. Dove “capitale” non è solo il denaro, ma anche
i beni o le infrastrutture (le case) o la natura (ad esempio le foreste) nel
momento in cui sono sfruttati e partecipano al processo di produzione.
[8] - Ovvero i tre libri sulla
ricostruzione del ciclo del capitalismo che abbiamo citato.
[9] - Nella controversia tra Bernstein
e Kautsky, alla quale partecipò anche una giovane ma già determinata Rosa
Luxemburg si attiva la divaricazione tra posizioni riformiste-compatibiliste e
posizioni rivoluzione-crolliste. Per come la mette Luxemburg, “o la
trasformazione socialista continua ad essere una conseguenza delle
contraddizioni obiettive del sistema capitalistico, allora insieme a questo
sistema si sviluppano anche le sue contraddizioni, e un crollo, in questa o in
quella forma, a un certo momento, ne è il risultato; ma allora anche i ‘mezzi
di adattamento’ [Bernstein] sono inefficaci e la teoria del crollo è giusta.
Oppure i ‘mezzi di adattamento’ sono in realtà tali da impedire un crollo del
sistema capitalistico, rendono quindi il capitalismo in grado di esistere,
sopprimono le sue contraddizioni; ma allora il socialismo cessa di essere una
necessità storica, e sarà tutto quel che si vuole tranne che un risultato dello
sviluppo materiale della società. Questo dilemma conduce ad un altro dilemma: o
Bernstein ha ragione per quanto riguarda il corso dello sviluppo capitalistico,
e allora la trasformazione socialista della società si muta in un’utopia,
oppure il socialismo non è un’utopia e allora la teoria dei ‘mezzi di
adattamento’ non deve essere valida. That is the question, questo è il
problema”, Rosa Luxemburg, “Newe Zeit”, 1896.
[11] - Fu allora, sul finire del
giorno, che Nixon disse “adesso siamo diventati tutti keynesiani”.
[12] - Si veda, “Francoise
Mitterrand e le svolte degli anni ottanta”.
[13]- Robert
Brenner, “The economics of global turbolence. The advanced capitalist economics
from long book to long downturn”, 2002
[14] - Si veda Massimo d’Angelillo, “La
Germania e la crisi europea”, la politica di Brandt, l’unica fase
keynesiana della storia tedesca (nella quale politiche di crescita vengono
portate avanti ‘dal lato della domanda’) si interrompe quando nel 1974
l’economia che era fino all’anno prima in piena occupazione (tasso di
disoccupazione 0,6%) rallenta bruscamente, cresce solo dello 0,6% (anno prima
+4,3%), e, inoltre, una opaca operazione di spie lo coinvolge in uno scandalo
che porta il cancelliere alle dimissioni a maggio 1974, gli succede Helmut
Schmidt che abbandona il keynesismo per puntare sul “modell Deutschland”,
che cerca di fare della Germania il perno dei flussi finanziari internazionali,
fondata su un marco “forte” e la compressione della domanda interna per
favorire le esportazioni.
[15] - Tra “base” (termine che viene usato per
“struttura” da Marx, nell’”Ideologia tedesca”, infatti userà struktur e basis) e la “soprastruttura”
(uberbau, tutte metafore
architettoniche come si vede, si tratta di ciò che è edificato sopra e del
fondamento), in una condizione nella quale evidentemente ci vogliono entrambe,
c’è una relazione molto più stretta di quella, pur complessa, della vulgata
marxista. Il concetto di egemonia è per espressa ammissione, ripreso da Gramsci
(che lo rileva da Lenin, ma lo estende molto) che lo impernia in una critica
della vulgata marxista del rapporto tra “struttura” e “soprastruttura” nella
loro reciproca influenza. I due concetti sono una unità, in senso dialettico.
Ma avviene in qualche modo in Gramsci, nell’intreccio di concetti che si
rimandano, un passaggio che è colto molto più da Arrighi che da Negri: la
struttura, la base, è in un rapporto con la soprastruttura che ad essa si
innerva e intreccia, quasi confondendosi, in un modo che ricorda quello tra
storia ed evento. Cioè quel rapporto, nella lettura storica che Gramsci compie
in tutta la sua opera, tra passato e presente. Affondare le radici nella
storia, che è la stessa mossa nell’interpretazione del presente che compie la
tradizione degli Annales (forse non a
caso avviata nel ’29 e a conoscenza del nostro), significa per Gramsci
liberarsi di ogni trascendenza residuale, di ogni teologia. Il concetto compare
nei primi mesi del 1930, nei Quaderni del Carcere, e precisamente
nell’ambito del discorso sul risorgimento (che abbiamo letto per ora qui)
e resta praticato fino alla fine, ogni volta con una qualificazione: politica,
culturale, linguistica, intellettuale, morale, ... l’egemonia è in qualche
modo, proverei a dire, uno strumento ed un effetto, che opera nel garantire e
realizzare la prevalenza di uno verso l’altro. Sia esso una classe, o un blocco
storico, una nazione (come del caso). Il concetto, per essere compreso, va
connesso con la sua assenza, ovvero con il puro e semplice “dominio”. Dove il
potere è nudo, privo della necessaria componente del consenso, si ha quindi
solo l’esercizio brutale del “dominio”.
Ma il vero potere non si limita alla costrizione; si estende alle menti ed ai
cuori, si fa seguire in qualche modo volontariamente, coinvolgendo insieme: la
rappresentazione di sé che si costruisce, l’immagine del mondo, e la meccanica
dei valori e obiettivi, con la loro gerarchia. Si radica inoltre nella “base”
degli interessi, e dei bisogni, cui in qualche modo (secondo il filtro delle
rappresentazioni) l’egemone risponde, facendosene almeno in parte carico. Il
vero potere è dunque egemonia. Abbiamo, ad esempio egemonia tedesca in Italia,
quando volontariamente si sceglie di seguire la logica della moneta stabile e
forte, della deflazione come orizzonte, dell’austerità suo mezzo. L’egemonia ha
sempre un suo campo e, per chi vi appartiene, un coerente insieme di desideri,
effetti di dominio (verso qualche subalterno) inseparabili da effetti
identitari, e sempre risponde almeno a parte ai suoi interessi e bisogni
secondo la loro percezione.
Dunque le potenze realmente egemoniche,
come sono state quella olandese, inglese e americana al loro meglio, quando si
sono fatte carico, anche se diversamente, di produrre e distribuire beni
pubblici e senso, o come la Russia sovietica, che esportava una egemonia
potente, hanno riorganizzato in parte per effetto della loro base di potere, ma
in parte altrettanto importante (e inseparabile) per effetto della loro
struttura di valori, rappresentazioni coerenti, tecniche e regole, intorno a sé
porzioni decisive del mondo, rendendolo “sistema”. Cioè rendendolo capace di
funzionare insieme e creare le premesse per una accumulazione che ha anche
disciplinato, in qualche modo, i capitali incorporati entro le loro strutture e
quelli mobili (che fin che dura l’egemonia sono limitati). I capitali sono,
infatti, una sorta di rapporto sociale.
[16] - La divisione della potenza
doveva vedere in sostanza tre poli industriali dominanti nel campo occidentale
(Usa, Germania e Giappone) e uno nel campo sovietico (Urss). Poi, a completare
si potrebbe citare i poli secondari e subalterni (Italia, Francia e nel campo
socialista la Germania dell’Est) e quelli declinanti (Inghilterra).
[17] - Si veda, ad esempio, questa
altra descrizione della crisi in Massimo Amato e Luca Fantacci “Fine
della finanza”.
[18] - Si veda “Gig
economy o sharing economy?” e “Amazon
e il suo monopolio”. Quando Walmart apre un nuovo punto di vendita nel
territorio le reti di commercio di prossimità, anche le più forti ed
organizzate, cedono, non riuscendo a stabilire con i fornitori la stessa
relazione di potere schiacciante. La grande catena nata pochi anni fa da un
solo punto vendita nello stato di Bill Clinton e divenuta una delle
multinazionali più grandi al mondo, di cui abbiamo molte volte parlato (ad
esempio qui), basa il suo
potere nell’unione perfetta di un monopsonio (di fatto diventa, per la sua
grandezza l’unico possibile acquirente per i suoi fornitori) e di un monopolio
(con i suoi prezzi diventa l’unico a vendere su un territorio), che si fondano
letteralmente l’uno sull’altro, e nel farlo devasta insieme la rete del piccolo
commercio, desertificando le città, e il mercato del lavoro, verso il quale il
monopsonio si estende. Se si ha la sfortuna di essere un lavoratore debole in
un territorio nel quale c’è uno dei giganti di WalMart, si può scegliere tra
essere senza lavoro ed esserne schiavo. Qualcuno potrebbe
dire, a questo punto, che è il capitalismo. In effetti lo è; il capitalismo è
una forma di organizzazione sociale per sua natura predatoria. La famiglia
Walton, che lo ha fondato nel 1962, ed ora è più ricca di 100 milioni di
americani con i suoi oltre 80 miliardi di dollari di patrimonio, ha solo
applicato il modello. Man mano che il lavoro si è indebolito, a partire dalla
rivoluzione reaganiana, un modello che mobilita capacità rese sottoutilizzate
dal crollo delle agenzie che proteggevano il lavoro dallo strapotere del
capitale ed al contempo offre alle stesse popolazioni marginali riduzioni di
costo (ottenute dallo sfruttamento selvaggio della debolezza di lavoratori e
fornitori), si è fatto progressivo ed irresistibile. Più si allarga lo strato
di lavoratori impoveriti, più una catena che offre salari di stretta
sussistenza per vendere prodotti a basso prezzo (e qualità), strangolando i
fornitori e costringendoli a loro volta ad abbassare i salari, è in vantaggio.
La competizione come unico criterio legittimo, essenza dello spirito del
capitalismo, alla fine porta alla concentrazione nelle stesse mani delle due
forme interrelate di monopolio.
[19] - Si veda, Paul Baran, Paul
Sweezy, “Il
capitale monopolistico”
[20] - Al momento si stima che il 64%
delle riserve valutarie mondiali siano detenute in dollari, il 26% in euro, il
4% in sterline e il 3,3% in yen. Di quelle in dollari 3.700 miliardi sono
detenuti dalla Cina, 1.200 dal Giappone, solo 430 complessivamente dall’eurozona
e 400 dalla Russia (che ne sta vendendo il 10%), seguono Taiwan (300), Brasile
(250), India (250), Corea del Sud (200), Hong Kong (180), Singapore (165).
Insomma il sud-est asiatico nel suo complesso ne detiene 6.200 miliardi, i
principali paesi del resto del mondo 1.000.
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