Nella
seconda
parte (qui
la prima) di questa lettura dell’ultimo libro di Giovanni Arrighi avevamo
descritto il modo in cui l’autore dà conto dell’intervallo tra la “crisi spia”
degli anni sessanta, connessa con il doppio deficit statunitense, l’esaurimento
del predominio industriale e il termine con successo dell’inseguimento dei
paesi sconfitti della seconda guerra ed aiutati a rialzarsi in chiave
antisovietica nei confronti degli Usa, l’evento scatenante epocale della
sconfitta in Vietnam.
L’approccio
del libro è molto largo e profondo, nel tentare di spiegare i lunghi percorsi
della transizione in corso, e gli assetti di forza che di volta in volta si
susseguono in essa, pone in questione l’idea che il capitalismo sia una sorta
di destino del mondo, una tappa di un processo necessario di autosuperamento
dell’umanità, che di qui, e necessariamente di qui, potrà infine giungere alla
condizione pacificata del socialismo. Chiaramente questa critica viene svolta e
diventa pertinente in considerazione della questione che è al centro del libro:
può lo sviluppo imponente cinese costituire la base di un nuovo ciclo egemonico
che sia significativamente diverso dal capitalismo anglosassone al quale
succede (in caso succeda)? Non è, in altre parole, il modello cinese in effetti
una pura e semplice mimesi del capitalismo occidentale senza neppure
l’apparenza di libertà liberale? Ovvero, non è il peggio dei due sistemi?
Arrighi
risponde di no. Ma nel farlo è costretto a chiedersi per quale ragione anche
nella cultura marxista, ovvero nelle tante e diverse culture marxiste, in
genere il capitalismo sia considerato contemporaneamente inevitabile e
progressivo. Produce quindi un’interpretazione del modello di regolazione
cinese, come ora vedremo, e della sua storia (le due cose non possono essere
separate) che muove da una interessante interpretazione del capolavoro di Adam
Smith e ne recupera la proposta interpretativa ancorata su un modello di
sviluppo “naturale” di tipo cinese, al quale si contrappone un modello
“artificiale” di tipo occidentale. Il giudizio è quindi rovesciato.
Come
specificano gli autori con i quali si confronta, qui c’è una vera e propria
frattura entro la stessa tradizione marxista. Una frattura che Brenner
individua nella “scuola della dipendenza”[1] (definita “neosmithiana”
(appunto), e Losurdo nella coppia “marxismo occidentale/orientale”[2], e che come ovvio
contrappone il corpo principale (per noi) della tradizione che risale a Marx,
dalla reinterpretazione che, sulla spinta delle necessità storiche e della
situazione, ne forniscono i rivoluzionari effettivi nel terzo mondo (Lenin,
Castro, Guevara, Ho Chi Min, Mao, …) pur nelle loro enormi differenze.
Rimettere
in questione, anzi rovesciare, la naturalità del sentiero di sviluppo
capitalistico-occidentale implica valorizzare in modo più accentuato elementi
di critica che erano e sono pur presenti nell’intera tradizione
marxista: la dipendenza dell’accumulazione capitalistica non tanto dalla
creazione di valore, quanto dalla sua estrazione da periferie “coloniali” (si
badi bene, sia esterne sia interne). Quindi la capacità di alimentare e
nutrirsi ad un tempo delle dissimmetrie e degli squilibri che esso stesso
coltiva[3].
Nella
ultima parte del libro, al fine di ancorare in un solido argomento fattuale
questa intuizione, Arrighi si sforza di mostrare che nel suo sviluppo storico,
e come vide lo stesso Smith, nello sviluppo orientale ed in particolare cinese
è stato creato e si è mantenuto a lungo stabile un “mercato senza
capitalismo” che è stato capace di produrre molta più ricchezza della
controparte occidentale. Lo svantaggio è che, per una serie di ragioni storiche
proprie dell’area, questo modello ha -anche per il suo successo e la sua
stabilità- in qualche modo intrappolato la società cinese in un equilibrio (di
alto livello) che ha limitato e inibito l’innovazione (anche dove veniva
prodotta) o, almeno, la sua diffusione ed utilizzo.
Questo
equilibrio stabile si è dato in almeno due lunghe fasi, prima delle quali ci
sono stati secoli di grande dinamismo ed innovazione (che, secondo alcuni,
erano sul punto di far nascere un capitalismo cinese), e sfortunatamente
l’ultima (la fase terminale della dinastia Qing) è coincisa con l’arrivo in
forze del capitalismo occidentale.
La
logica territoriale nella storia del capitalismo
Dopo
aver compiuto una lunga carrellata sulla concatenazione delle crisi che hanno
portato alle condizioni della transizione di potenza che è il vero tema del
libro, Arrighi scrive un capitolo nel quale è ripresa la posizione di David
Harvey[4] sull’imperialismo “di tipo
capitalistico” come fusione di una logica che cerca il potere attraverso il
controllo di un territorio, ovvero accumulando spazio in qualche modo, e
una controllando il capitale economico che si muove tra gli spazi. La
prima è la “logica territoriale del potere”, la seconda la “logica
capitalistica del potere”. Entrambe sono in una relazione dialettica. Molte
azioni apparentemente sproporzionate come l’enorme quantità di risorse
impiegate nel sud-est asiatico in Vietnam, e l’intero contenimento dell’Unione
Sovietica risponde a questa doppia esigenza, controllare gli spazi perché
restino aperti all’accumulazione ed all’estensione degli scambi.
Recuperando
la nozione di Lefebvre[5] di “produzione dello
spazio” viene messo in evidenza che la riorganizzazione spaziale è
normalmente un processo che accompagna i momenti di crisi della accumulazione
illimitata di capitale. Per cui molto spesso per risolverle deve intervenire lo
Stato creando nuovo spazio, infrastrutture, reti.
La
questione cruciale è dunque il rapporto tra relazioni spaziali e forze
produttive, inclusa la produzione di sicurezza. La relazione con il keynesismo
militare, la produzione delle guerre, il controllo della liquidità.
“Riassumendo,
la rivalità tra stati per il controllo delle risorse mondiali è stata una
componente fondamentale della competizione intercapitalistica che ha spinto
verso l’accumulazione senza fine di potenza e di ricchezza lungo la traiettoria
europea di sviluppo. La corsa agli armamenti è stata infatti la fonte primaria
dell’infinita serie di innovazioni che hanno portato alla continua formazione,
nei commerci e nella produzione, di nuove configurazioni spaziali di dimensioni
e differenziazione crescenti e alla distruzione di quelle preesistenti. A fare
del percorso europeo un percorso specificamente capitalistico era il fatto che
il controllo sulle risorse finanziarie mondiali conferiva agli europei un
vantaggio decisivo nella competizione per tutte le altre risorse. Sebbene
l’industrialismo abbia costituito sin dall’inizio una componente importante di
tale percorso, la Rivoluzione industriale come tale fu più una variabile
‘intermedia’ che una variabile ‘indipendente’: fu il risultato di
un’interazione, durata due o tre secoli, di capitalismo finanziario, militarismo
e imperialismo sfociata in quel periodo in un formidabile potenziamento della
miscela. Per di più, non appena l’industrializzazione si fu rivelata come
l’elemento chiave della potenza militare, il circolo virtuoso di aumento della
ricchezza e della potenza che fino ad allora aveva caratterizzato il percorso
europeo cominciò a mostrare di essere vicino ai suoi limiti. In Europa la lotta
per la conquista dello spazio considerato vitale per la creazione e il
mantenimento di complessi militari-industriali competitivi andò fuori controllo
creando dei varchi per le rivolte ‘anti-occidentali’ della prima metà del
secolo che improvvisamente fecero lievitare i costi deprimendo
contemporaneamente i benefici dell’espansione territoriale oltremare.
Contemporaneamente questa competizione determinò una migrazione dell’epicentro
del potere dall’Europa dell’ovest verso Est e verso Ovest, in direzione della
Russia e degli Stati uniti, cioè dei due stati di dimensioni continentali che
erano già riusciti ad acquisire tutto lo spazio territoriale necessario a
creare e mantenere complessi militari-industriali competitivi.” (p.303).
A
questo assetto, nel quale si era chiusa la seconda guerra seguirono lunghi anni
di “duopolio” e di “l’equilibrio del terrore”. Ma negli anni ottanta gli Stati
Uniti, alzando progressivamente la posta della competizione, alla fine riuscirono
a mettere in bancarotta i loro rivali. Dunque a sconfiggerli.
Il
retroterra storico della nuova era asiatica
È
a questo punto che, dopo un avvio in sordina nelle prime riforme di Deng
Xiaoping, dagli anni ottanta la Cina sembra essere impegnata in una “pacifica
ascesa” apparentemente irresistibile e all’inizio ben sostenuta dagli stessi
Usa che con tale spostamento spaccano il campo socialista e pongono sotto
pressione da sud il rivale storico. Ma dopo la caduta del comunismo sovietico,
tra il 1989 ed il 1991, questa crescita continua ed accelera e con il tempo
diventa una chiara minaccia.
Allo
stato nel quale il libro viene scritto, il primo decennio del nuovo millennio,
ci sono ormai tre linee di pensiero strategico entro il sistema istituzionale
americano per avere a che fare con la Cina:
1- Venire
a patti.
2- Contenerla
con un circuito flessibile di base, accordi, alleanze. Quindi fare accordi e compromessi.
3- Uscire
dal quadro strategico e cercare di fare “il terzo che gode”, lasciando che sul
treno si ammazzino.
La
seconda strategia, proposta da Kaplan, ha in effetti funzionato molto bene nel
circondare, contenere ed infine battere l’Urss, ma, ricorda Arrighi, la Cina
non è affatto come l’Urss. Questa propone una dottrina dell’helping joeqi
che prevede di “emergere velocemente in modo pacifico” (p.326).
La
prima e la terza sono altrettanto complesse da implementare, e spesso anche
solo da comprendere.
Si
tratta, chiaramente, di “una grande muraglia di incognite”, nella quale è
chiaro solo che nell’attuale assetto della mondializzazione le multinazionali
occidentali prendono tutti i vantaggi e gli Stati Uniti, in quanto ente
collettivo molto meno.
Nella
Quarta Parte, intitolata ad una “era asiatica” che viene in qualche modo
data per certa viene messo in evidenza che comunque gli Stati Uniti soffrono di
una cruciale dipendenza dagli acquisti cinesi in dollari (indispensabile per
conservare il predominio monetario) e d’altra parte di merci a buon mercato
(per sostenere il loro declinante stile di vita per la massa di una popolazione
che non dispone di un reddito commisurato alle sue aspettative). Il secondo
fattore rende estremamente problematico reagire efficacemente alla mancanza di
competitività delle merci prodotte in patria in stabilimenti americani (anche
se buona parte delle merci importate è, in effetti, prodotta sempre da aziende
americane o su licenza, ma, appunto in Cina o nei paesi del sud-est asiatico)
con dazi o altre forme di protezione.
In
quello che è un nodo successivamente sciolto da Trump, viene indicato il circolo
vizioso socio-politico che deriva da questo schema depressivo: merci
importate vs meno lavoro solo temporaneamente rinviato dalla finanza[6]. Un circolo che fa, come
reazione, emergere la “rivoluzione conservatrice” (come la chiama Thomas Frank[7]) ovvero di “bianchi,
operai e classe media, che reagiscono alla perdita di prestigio sociale e di
reddito rafforzando la propria identificazione con valori religiosi, forze
armate e partito repubblicano più che con i propri interessi di classe, le
proprie organizzazioni sindacali e il partito democratico” [8] (p.342).
Questo
grumo di sentimenti politici viene inizialmente tradotto in mandato politico da
George Bush (2001-9), che è quel a cui pensa Arrighi, ma poi in qualche modo trasformato
nel “we can” di Barack Obama (2009-17) e finalmente preso di petto e
portato in piena luce, insieme al problema della “Rust belt” quindi del midwest
e del sud, con il suo profondo rancore, dalla sorprendente campagna di Trump[9]. In essa i temi
dell’egemonia americana, attraverso i fondamentali produttivi, sono posti come
centrali e quindi quelli del confronto con gli ex inseguitori, con Giappone,
Germania (e, per estensione, Unione Europea) e soprattutto Cina. Ma anche
Messico e Canada (con la revoca dell’accordo-chiave di Clinton, il padre della
globalizzazione neoliberale, e la successiva ridiscussione su basi più
convenienti per il reshoring[10] delle industrie
americane).
Del
resto l’incoerenza della politica di Bush, ma per certi versi anche quella di
Obama, era che al contempo cercava l’appoggio della “rust belt” e del
capitalismo monopolistico fortemente finanziarizzato e internazionalizzato che
la generava. Per come la mette Arrighi, “si tratta insomma di una mancanza di
coerenza che esprime la necessità dell’amministrazione Bush di coniugare la
volontà del capitale americano di trarre profitto dall’espansione cinese con i
sentimenti nazionalistici e militaristi della propria base elettorale”.
Dal
punto di vista del progetto di potenza anglosassone, dunque bisogna cambiare
passo nel confronto con la Cina e passare a focalizzare il contenimento intorno
a lei. Ma della Cina, in ultima analisi, i decisori americani non sanno nulla.
E quindi non riescono a prefigurare le conseguenze della sua ascesa. A partire
dalla leggenda che vede nascere lo Stato Nazionale in Europa, quando molti
stati del sud-est asiatico hanno secoli di precedenza (il Giappone, la Corea,
la Cina stessa, il Vietnam, il Laos, la Thailandia e la Cambogia). Oppure dalla
questione dei traffici marittimi privati: anche questo fattore decisivo non è
prerogativa esclusiva dell’Europa, in proposito si ricorda come durante la
dinastia Song (960-1276) ci fu una grande fioritura di traffici.
La
Cina, insomma, non viene dopo. Non è una appendice dell’occidente e da questo
interamente determinata.
Ci
sono grandi differenze:
1- La
dinamica del sistema europeo era caratterizzata dalla competizione militare fra
le singole entità nazionali e da una tendenza all’espansione geografica del
sistema di dominio. L’evento di pace più lungo (1815-1914) è stato infatti senza
precedenti e peraltro caratterizzato da una intensa attività di lotte di
espansione competitive. Invece il sistema asiatico si distingueva per la
sostanziale assenza di scontri militari di rilievo (anche nella “pace” europea
ci furono numerose guerre minori per procura o frizionali, da alcune di queste
nacque lo stato italiano). In Asia ci furono, al contrario, trecento anni di pace
ininterrotte tra due eventi bellici, entrambi provocati dal Giappone (il più
militarista tra gli stati orientali), le due invasioni della Corea nel 1592-98
e nel 1894-95, che finirono in entrambi i casi per coinvolgere i cinesi.
2- L’assenza
di ogni tendenza alla costruzione di imperi oltremare e della corsa agli
armamenti.
E’
possibile che tra le due differenze ci siano relazioni di interna necessità
(l’impero oltremare viene sviluppato per la pressione competitiva, anche se nel
caso europeo è mosso dall’imprenditoria privata, tuttavia protetta e coperta
dalla nazione di riferimento).
Per
lo più, oltre tutto, le guerre orientali non sono avvenute tra stati nazionali,
ma alla frontiera. In particolare negli ultimi anni dei Ming e nei primi
centocinquanta anni della dinastia Qing. la grande strategia dell’impero cinese
fu sempre di cercare di trasformare una frontiera difficile (quella con le
tribù seminomadi mongole) in una periferia pacificata abilitata a fungere da
cuscinetto. A riprova di ciò bisogna ricordare che non appena questo obiettivo
sembrò ottenuto (intorno al 1760) cessò immediatamente l’espansione
territoriale (p.354).
Ma
c’è anche una fondamentale differenza per Arrighi, e questa potrebbe fungere da
spiegazione, insieme alla minore competizione, per spiegare l’assenza di una
spinta coloniale (ovviamente un’altra è il carattere molto più “pieno” delle
aree limitrofe all’estremo oriente): la dinamica delle risorse. Mentre in
Europa si estraggono, con qualsiasi mezzo, risorse dalle periferie conquistate,
in Cina, al contrario, nelle periferie si investe per conquistarne l’amicizia
e/o la subalternità[11].
Ne
consegue, da questo insieme di fattori, che mentre lo sviluppo europeo è
fortemente estroverso quello estremorientale è più introverso. Inoltre il peso
degli scambi commerciali sulle lunghe distanze resta sempre molto più rilevante
per il sistema europeo, che in termini di sistema-mondo era periferico[12], che nel sistema
orientale, nel quale gli scambi a breve raggio, interstatali o infrastatali, sono
preminenti. È in questa dissimmetria che affonda il basso rendimento immediato
delle famose spedizioni di Zheng He nell’Oceano Indiano nel quindicesimo
secolo.
Questa
dissimetria a svantaggio europeo è fatta saltare dalla scoperta, non
accidentale ma sistemica (ovvero espressione della ricerca di sbocchi e della
competizione tra le corone europee), dell’America e soprattutto dalla costosa
spinta alla sua colonizzazione. Questa ha finito per offrire agli stati europei
sia nuovi mezzi per la penetrazione nei mercati asiatici sia una nuova fonte di
ricchezza e potere.
In
sostanza “l’estroversione della lotta per il potere in Europa era una
caratteristica fondamentale della specifica combinazione di capitalismo,
militarismo e ambizione territoriale che è stata la forza propulsiva della
globalizzazione del sistema statale europeo” (p.357).
Consegue
da questa lettura la necessità di riconoscere che il mercato interno non è
una invenzione occidentale, per tutto il diciottesimo secolo il più grande
mercato nazionale è in Cina. Si tratta di una istituzione dalla lunga
gestazione che viene consolidata dalle politiche della dinastia Qing, ma che
parte dalla necessità durante la dinastia Song del Sud (1127-1276) di
finanziare le spese militari e le ricostruzioni derivanti dalle guerre con i
mongoli a nord e di ovviare alla perdita di controllo della essenziale “via
della seta” incoraggiando altre attività tassabili come i traffici marittimi
privati. A questo fine finanziarono la ricerca cantieristica e navale e resero
le giunche cinesi le più avanzate del periodo, con innovazioni come la bussola,
la pruna affilata su fondo piatto, etc… gli spostamenti di popolazione al sud
portò la densità nelle regioni risicole più alta che in Europa e il sovrappiù
agricolo consentì una elevata diversificazione di attività. Sotto la dinastia
Yuan (1277-1368) questo processo di consolidò, portando a estese reti
commerciali tra i mari del sud-est e l’oceano indiano[13]. In sostanza per Arrighi
“nell’Asia orientale ai tempi dei Song e degli Yuan erano già presenti quelle
che si sarebbero dimostrate tendenze tipiche del percorso di sviluppo europeo”.
Ma
queste tendenze non sfociarono nella competizione tra stati per la costruzione
di imperi territoriali e commerciali oltremare. Anzi, sotto la dinastia Ming ci
fu una svolta introversa, furono poste sotto controllo le rotte esterne e
favorito il commercio interno, e fu spostata la capitale da Nanchino a Pechino,
spostando di fatto a nord le strutture commerciali e di mercato che si erano
sviluppate nel sud. Furono anche costruite vie d’acqua interne per portare le
risorse agricole del sud al nord che si specializzò nelle produzioni di cotone
grezzo, mentre nello Yangtzi avveniva la lavorazione in tessuti.
I
Ming, insomma, favorirono una più pronunciata divisione del lavoro e relativo
commercio interno e centralizzarono il controllo fiscale, ponendo restrizioni
al commercio marittimo come all’emigrazione nel sud-est asiatico. E’ questo il
contesto nel quale le spedizioni d Zheng He, quando la turbolenza della
frontiera nord diventa impellente vennero interrotte.
Il
dilemma è acuto, come scrive Janet Abu-Lughod: “sul punto di dominare una
considerevole porzione del globo e in possesso di un vantaggio tecnologico non
solo attinente alle produzioni pacifiche, ma anche alla potenza militare e
navale […] perché mai la Cina ha fatto retromarcia e ritirato la flotta,
lasciando così un enorme vuoto di potere che i mercanti mussulmani, privi com’erano
dell’appoggio militare di una flotta di stato, si trovarono assolutamente
impreparati a colmare, ma che i loro ‘colleghi’ europei si sarebbero dimostrati
ansiosi e perfettamente in grado di occupare solo settant’anni dopo”
(cit.p.360).
La
risposta di Arrighi è semplice:
“Gli
stati europei hanno combattuto guerre senza fine allo scopo di stabilire un
controllo esclusivo sulle rotte che univano l’Ovest all’Est, perché il
controllo del commercio con l’Oriente rappresentava una risorsa critica per la
ricerca di ricchezza e potere da loro praticata. Invece per i governanti cinesi
il controllo delle rotte commerciali di lunga distanza era assai meno
importante che non il consolidamento di relazioni pacifiche con gli stati
confinanti e l’integrazione di tutto il loro popoloso dominio in un’unica
economia nazionale a base agricola. Quindi per i Ming era del tutto razionale
non disperdere risorse nel tentativo di controllare rotte commerciali fra Est e
Ovest, per concentrarsi invece nello sviluppo del mercato interno, dando così
l’avvio a quello che Smith definirà come modello esemplare del suo percorso
‘naturale’ verso la ricchezza”.
Qui
viene anche una delle differenze più sorprendenti della diversa mentalità, e
situazione materiale, dell’estremo oriente, rispetto al caso europeo: persino
il commercio tributario (che, appunto, le missioni di Zheng He avrebbero
espanso) aveva un saldo negativo. Da oltre mille anni, dai tempi delle dinastie
Qin, i rapporti tributari fra il centro e gli stati vassalli, al contrario del
modello occidentale (ma, per quel che ne sappiamo anche persiano), non erano
dalla periferia al centro via tributo o tassa. Gli stati vassalli, salvo che
nella dinastia Yuan, portavano doni simbolici, ad attestare la loro fedeltà,
ricevendo in cambio doni di valore maggiore. La relazione era quindi in qualche
modo di clientela/protezione. il “regno di mezzo”, che era più ricco per la sua
estensione e mercato interno, acquistava la fedeltà e controllava i flussi di
merci attraverso la creazione di una fascia di paesi vassalli tenuti in
condizione di reciproca convenienza[14]. Questa unione di
“ricchezza e liberalità” che procura “amici e servi”, come disse Thomas Hobbes,
funzionava se il paese era ricco e se era abbastanza forte da disincentivare
(anche pagandoli) i vicini a provare ad appropriarsene.
La
transizione violenta tra Ming e Qing è causata dal venire meno di tutte queste
condizioni. Quindi dalla riduzione del “tributo inverso” e dalle crescenti
difficoltà fiscali. Per un poco si trovò un equilibrio basato sull’argento
europeo e l’esazione di tasse ai traffici relativi, ma nel 1644 una
generalizzata rivolta affermò la dinastia successiva. La dinastia
rivoluzionaria partì con il bando al commercio privato e una violenta politica
della “terra bruciata” che trasformò il sud-est della Cina in “una terra di
nessuno che teneva separati i due universi economici”. Dopo venti anni fu
rimosso il bando ma inserite comunque drastiche limitazioni alle navi e la proibizione
di mettere su di esse le armi da fuoco. Nel 1717 fu di nuovo proibito andare
all’estero e nel 1757 definito un unico porto autorizzato. Ma
contemporaneamente fu esteso il mercato interno con le terre di frontiera nord
e ridotte le tasse, insieme a redistribuzione delle terre e bonifiche. Seguì
una politica di riduzione delle ineguaglianze interne e grandi opere per dare
lavoro, oltre che la ristrutturazione dei granai pubblici (che compravano il
grano nei periodi di abbondanza e lo mettevano a disposizione a prezzo politico
in quelli di carenza). Pace, prosperità, crescita demografica e quel modello
che Smith vide al suo tempo.
Tutto
molto efficace e razionale, ma con un grosso punto debole che i contemporanei
non potevano vedere: gli europei.
La
Cina era infatti entrata in quella che Arrighi chiama “una trappola di equilibrio
di alto livello”, l’insieme degli incentivi presenti nella situazione non
incoraggiava l’innovazione e lo sviluppo tecnico e tendeva ad essere statica.
Non è sempre stato così, anzi tra il 800 e 1300 c’era stata una grande crescita
tecnica in Cina, ma poi rallentò. Alcuni, come Christopher Chase-Dunn e Thomas
Hall[15] ne hanno tratto la
convinzione che il capitalismo era sul punto di materializzarsi nella Cina dei
Song (del sud), ovvero prima dello spostamento a nord ad opera dei Ming. Certo,
dopo di allora ci fu un altro scalino di crescita tra la fine dei Ming e i
Qing, appunto per effetto delle massicce politiche pubbliche e riforme rivolte
a rendere più equilibrata l’economia, ma portò, se pure ad un equilibrio più
“alto”, in realtà ad una maggiore distanza dal capitalismo.
Bisogna
intendere i termini per come qui si usano:
“il
carattere capitalistico di uno sviluppo su basi di mercato non è determinato
dalla presenza di istituzioni e disposizioni capitalistiche, ma dalla relazione
tra potere dello stato e capitale. Si possono aggiungere capitalisti a volontà
a una economia di marcato, ma se lo stato non è subordinato al loro interesse
di classe, quell’economia di mercato mantiene il suo carattere non
capitalistico” (p.368).
Soprattutto
sotto la dinastia “rivoluzionaria” dei Qing, ma anche sotto i precedenti Ming,
anche se i banchieri e uomini di affari della provincia dello Shanxi e
oltremare assomigliavano agli stessi tipi umani europei del sedicesimo secolo
nel complesso prevaleva l’ostilità dello stato per chi era diventato
“anormalmente ricco” (come si esprime Braudel); cosa che significa che “lì non
poteva esserci capitalismo, fatta eccezione per alcuni gruppi ben definiti che
erano sostenuti dallo stato e, in definitiva, alla mercé dello stato”[16].
Come
sottolinea anche un autore cinese:
“gran parte della ricchezza commerciale
europea è stata divorata da governi sempre a corto di mezzi e ansiosi di
espandere le loro entrate fiscali per far fronte all’aumento senza fine dei
costi della guerra […] Sia i mercanti sia i governanti europei traevano
vantaggio da questa loro complessa relazione, i primi intascando profitti
favolosi e i secondi procurandosi il denaro di cui avevano assoluta necessità.
La Cina del tardo impero non ha sviluppato questo tipo di mutua dipendenza dai
grandi mercanti. In assenza di difficoltà finanziarie di dimensioni
paragonabili a quelle europee, i funzionari governativi cinesi fra il
sedicesimo e il diciottesimo secolo erano meno stimolati a immaginare forme di
finanza creativa e a contrarre grandi debiti coi mercanti, mentre restava loro
sostanzialmente estraneo il concetto di debito pubblico, così come quello di
debito privato”[17].
Ci
furono peraltro grandi organizzazioni affaristiche capaci di controllare grandi
reti di intermediari commerciali ed appaltatori, ma rimasero sempre un gruppo
subordinato, che per lo più proliferava negli spazi interstiziali. L’esempio
più importante è quello della famiglia Zheng che mise in piedi un vero e
proprio impero commerciale di dimensioni simili all’Olanda del tempo,
eliminando anche la concorrenza portoghese, usando navi da guerra competitive e
armi da fuoco. Riuscirono anche a liberarsi degli esattori Ming, ma ne
provocarono la reazione, si rifugiarono infine a Taiwan ma furono sconfitti
militarmente dai Qing nel 1683. Questo provocò il disarmo dei commercianti
cinesi e la “terra bruciata”.
Quando
alla fine giunsero gli europei, e dopo guerre che costarono oltre venti milioni
di morti[18],
tutto il sistema cinese fu incorporato in posizione subordinata nel sistema
europeo, ormai divenuto mondiale. Si ebbe una enorme contrazione della sua
quota della produzione mondiale. all’Asia orientale mancava una cosa
essenziale, la sinergia tra militarismo, industrialismo e capitalismo che
invece è tipica del cammino europeo.
Ma
ciò, ovvero la subordinazione, non fu:
“in
misura determinante il frutto di una maggiore competitività dell’impresa
economica europea rispetto a quella asiatica e, in particolare a quella cinese.
Contrariamente all’affermazione di Marx e Engels che le merci a buon mercato
sarebbero state ‘l’artiglieria pesante’ con cui la borghesia europea avrebbe
abbattuto ‘tutte le muraglie cinesi’, i produttori e i mercanti inglesi
incontrarono molte difficoltà a battere la concorrenza delle loro controparti
cinesi anche dopo che le muraglie dei regolamenti statali che avviluppavano
l0economia nazionale della Cina erano state abbattute dalle cannoniere
britanniche. Sebbene dopo il 1830 alcuni settori e regioni dell’economia cinese
venissero pesantemente danneggiati dalle importazioni di prodotti tessili
inglesi, nei mercati rurali le stoffe di cotone provenienti dall’Inghilterra
non furono mai in grado di competere col più robusto panno cinese. Inoltre, man
mano che le importazioni dall’estero rendevano obsoleta la filatura manuale del
cotone, l’introduzione anche in Cina di filati più a buon mercato prodotti a
macchina conferì all’industria tessile locale una nuova spinta propulsiva che
non solo le consentiva di mantenere le proprie posizioni, ma anche di crescere.
Le aziende occidentali che aprirono stabilimenti in Cina non riuscirono mai a
penetrare commercialmente in modo efficace nelle sconfinate regioni interne, e
dovettero sempre dipendere dalla mediazione dei grossisti cinesi sia per le
forniture di materia prima sia per la vendita dei loro prodotti. Gli
imprenditori e i prodotti occidentali ebbero effettivamente successo solo in
alcuni settori industriali, come le ferrovie e le miniere, ma nel resto
dell’attività economica il mercato cinese non doveva procurare che frustrazioni
agli uomini d’affari stranieri” (p.373).
Sorsero
settori redditizi, il più rilevante divenne l’esportazione di lavoratori, i
coolie, e la gestione delle rimesse. Ciò fece le fortune di Singapore, Hong
Kong, Penang e Macao e di molti capitalisti cinesi all’estero, fino al collasso
della dinastia nel 1911. Ma già dalla guerra del 1841, cosiddetta “dell’oppio”,
la Cina nel suo complesso non era più il centro del sistema orientale.
A
questo punto il Giappone, modernizzandosi a tappe forzate, tenta di prenderne
il posto. La guerra che segue nel 1894 accelera ulteriormente il disfacimento
ed il caos politico. Seguono i signori della guerra, un’altra invasione
giapponese, la guerra civile tra comunisti e nazionalisti.
Subentra
l’egemonia americana.
Origini
e dinamica della ascesa cinese
A
questo punto resta da cercare di spiegare le ragioni dell’ascesa cinese dal
pozzo del declino in cui era caduta. In grande misura questa è in relazione con
l’attrazione di capitali e di know how occidentale, ma non dipende tanto dalla
manodopera abbondante ed a buon mercato, quanto dalla disponibilità di
forza-lavoro di alta qualità in termini di salute, istruzione e margini di
autonomia, insieme alla rapida espansione delle condizioni della domanda e
dell’offerta generata dalla mobilitazione produttiva di queste risorse nel paese.
Ma questa attrazione riesce per la mediazione ancora una volta dei capitalisti
cinesi, per lo più della diaspora, ovvero di Taiwan e Hong Kong. In pratica è
come se si fosse stabilita un’alleanza tra il Partito Comunista al potere e
gli imprenditori d’oltremare, che consentono ai capitali occidentali di
saltare sul carro.
Ma
la Cina non si allinea mai, in nessuna circostanza, al Washington Consensus,
protegge la propria sovranità e cerca sempre di mantenere la stabilità nelle
ristrutturazioni facendole procedere solo di conserva con la creazione di nuovi
posti di lavoro. Accetta gli investimenti diretti solo e nella misura in cui li
reputa funzionali ai propri interessi nazionali. Tiene alte le protezioni,
modernizza il sistema di istruzione.
In
sostanza mette più in competizione tra di loro i capitalisti che i lavoratori
(p.395).
Insomma,
tiene sempre il coltello dalla parte del manico, determinando una
condizione di perenne sovraccumulazione che genera una pressione al ribasso dei
saggi di profitto. Si tratta di una sorta di capitalismo ‘alla Smith’, che
costringe i capitalisti, per mezzo dell’inarrestabile concorrenza, a muoversi
in direzione dell’interesse nazionale.
Anche
se al prezzo di episodi di superfruttamento nell’insieme si tratta, cioè, di
una “accumulazione senza spoliazione”. Svolgono un ruolo in questa direzione le
imprese di municipalità (p.400), le conquiste dell’epoca di Mao, l’incapacità,
per ora, della classe dei capitalisti di prendere il potere.
Poteva
farsi qualcosa di diverso? Arrighi risponde di no. “Il partito
comunista non poteva fare altro che giocare al gioco della politica mondiale
con le regole che c’erano, ossia con quelle capitalistiche, come d’altra parte
sapeva benissimo lo stesso Mao. Dopo che l’incombente sconfitta in Vietnam
aveva costretto gli Stati Uniti a riammetterla nel giro dei normali scambi
commerciali e diplomatici con gli altri paesi dell’estremo oriente e con il
resto del mondo, era perfettamente logico per la Cina comunista cercare di
sfruttare le opportunità aperte da quei rapporti per rilanciare la ricchezza
nazionale e la sua potenza” (p.409).
Alcune
radici del resto sono proprio presenti nella rivoluzione anti-leninista
condotta sin dall’inizio da Mao. Anche
se restava il Partito-avanguardia questo portava avanti una “linea di massa”,
non solo maestro ma anche allievo delle masse. Ciò significava anche promuovere
contadini più che operai (la “classe rivoluzionaria” di Marx), dato che questi
per lo più stavano dalla parte del capitale con il quale erano integrati. Ciò
spinse il partito rivoluzionario verso la Cina profonda, lontano dalla costa.
Ma ciò modellò anche il particolare rapporto con le masse contadine che furono
elevate ed assorbite dal partito comunista e quello con la rivoluzione
industriale, che non fu mai presa in modo acritico (come in sostanza ha fatto
il comunismo sovietico).
Alla
fine per Arrighi l’ascesa economica cinese, anche se difettosa e rischiosa, è
il “sintomo premonitore di quella maggiore equità e rispetto reciproco fra i
popoli di stirpe europea e non europea che Smith aveva delineato e auspicato
duecentotrenta anni fa”.
Per
concludere due sono le caratteristiche di un possibile, futuro, “Beijng
consensus” per Arrighi:
1- La
localizzazione, ovvero “il riconoscimento della
necessità di tarare lo sviluppo sulla base delle necessità locali”,
2- Il
multilateralismo, cioè “il riconoscimento dell’importanza
della cooperazione tra stati”.
L’insieme
di queste due caratteristiche può aprire lo spazio ad una nuova Bandung[19] che metta fuori gioco le
istituzioni finanziarie del Nord, offrendo condizioni migliori, e che ponga
infine termine, anche se ci vorrà tempo, all’egemonia Usa.
Producendo
un possibile Commonwealth futuro.
[1] - Si veda “Sviluppi
della teoria della dipendenza”
[2] - Si veda, Domenico Losurdo, “Il
marxismo occidentale”
[3] - Come abbiamo visto nella Parte Seconda, qui è
d’obbligo riferirsi alla principale opera della scuola americana, l’ultima di Paul
Baran, “Il
capitale monopolistico”, scritto nel 1967 con Paul Sweezy. In esso
viene formulato una sorta di “teorema di impossibilità” nella fase
monopolistica del capitalismo. La rivoluzione sistemica nelle società del
centro capitalistico (monopolista) maturo non avviene dove si aspetta; questo
ha, infatti, una immensa capacità di coinvolgimento ed egemonica, ma anche, e
nella stessa logica produce una capacità di mobilitazione alle
periferie, che di necessità ne devono pagare il prezzo. Lo schema della
rivoluzione al culmine dello sviluppo delle forze produttive ne viene
rovesciato: le condizioni dell’instabilità sistemica del capitalismo non si
danno al centro, ma nelle sue periferie interconnesse e vitali per la sua
sopravvivenza, nel senso specifico che senza l’estrazione di ‘surplus
potenziale’ da queste esso resta condannato alla tendenza alla stagnazione e
quindi non è in grado di riprodurre il consenso al suo interno. Questa forma di capitalismo, diretta e controllata dalle grandi imprese per
azioni monopoliste e multinazionali, è quindi strutturalmente imperiale e
organizzato di necessità per grandi catene di sfruttamento
internazionali. Catene che determinano l’estrazione di valore e la
contrapposizione tra la massima opulenza e la massima disperazione, entro e
fuori le cittadelle assediate delle metropoli occidentali.
[4] - David
Harvey, “The new imperialism”, 2003
[5] - Henry Lefebvre, “Spazio
e politica”, 1974,
[6] - Si veda la classica analisi di
Wolfgang Streeck, “Tempo
guadagnato”, 2013.
[7] - Thomas
Frank, “What’s the matter with Kansas? How the conservative won the heart
America”, Owl Books, 2005.
[8] - Si tratta di un effetto
largamente studiato. Si veda Andrew Spannaus, “La
rivolta degli elettori”, 2017.
[9] - La campagna di Trump è per molti
versi sorprendente, si veda ad esempio: George Lakoff “Nessuno
sa perché Trump sta vincendo. La risposta delle scienze cognitive”, o
“Donald Trump, Barac Obama, “Discorsi
di insediamento”.
[10] - Il “reshoring” è un fenomeno
strettamente economico e designa il rientro in patria delle aziende che in precedenza
avevano delocalizzato la produzione. In genere si tratta di aziende collocate
nei segmenti alti del prodotto che vogliono ulteriormente valorizzare il
proprio marchio, ma influiscono fattori come il costo dei trasporti, connessi
con i prodotti energetici (e la loro volatilità), la necessità di avere linee
di produzione più moderne e flessibili, e il fatto che nei paesi di primo esodo
(incluso la Cina) i salari si avvicinano a quelli occidentali (che per lo più,
al contrario, scendono). In Italia il fenomeno riguarda soprattutto aziende
della moda e dell’elettronica-elettrotecnica.
[11] - Questa differenza dipende probabilmente
dalla ricchezza e forza relativa e dalle masse in campo tra i paesi europei,
sempre in equilibrio instabile tra di loro e soggetti a continui giochi
triangolari, e la situazione del sud-est asiatico nel quale un grande e ricco
centro si trova circondato da stati antichi, singolarmente molto meno forti ma
in grado, come una muta di cani nei confronti di un leone, di fare seri danni
se coalizzati. La strategia meno costosa potrebbe essere stata in questo
contesto di pagare e corrompere, poi le pratiche diventano tradizione, e le
tradizioni diventano cultura.
[12] - Questa è poi una delle tesi
essenziali di tutta la scuola, e di un’ampia corrente storiografica che
continua a lavorare in questa direzione. Comunque c’è una essenziale dissimmetria
di lunga durata negli scambi tra il sistema europeo e quello orientale, e dura
fin tutto l’ottocento: in sostanza le merci vanno dall’oriente all’occidente,
mentre dall’occidente all’oriente vanno per lo più metalli preziosi. La
soluzione inglese, il famoso “commercio triangolare” basato sulla conquista
dell’India, è uno dei fattori decisivi (insieme all’altro “triangolo”
atlantico) per l’egemonia inglese ed europea.
[13] - La letteratura citata in questa
parte è essenzialmente cinese, si tratta di Jung-pang Lo, “Marittime commerce
and its relation to the Sung Navy”, 1969, Po-kueng Hui, “Overseas chinese
business networks: east asian economic development in historical prospective”,
1995, Lien-sheng Yang, “Money and credit in China. A short
history”, 1952, Luquan Guan, “Songdai guangzhou de haiwai maoyi”, 1994,
Yoshinobu Shiba, “song foreign trade: its scope and organization”, 1983, ma
anche occidentale, Francesca Bray, “The rice economies: thecnology and
development in asian societies”, 1986, Mark Elvin, “The pattern of the chinese
past”, 1973, Ravi Palat, “Historical transformation in agranian system based on
wet-rice coltivation: toward an alternative model of social change” 1995,
[14] - La fonte di questa informazione
è cinese, si tratta di Gao Weinong, “Zou xiang jistsi de Zhongguo yu ‘chaogong’
guo guanxi”, 1993
[15] -
Chase-Dunn, Hall, “Rise and demise: comparing word-system”, 1997
[16] - Ferdinand Braudel, “Civiltà
materiale, economia e capitalismo”, 1982
[17] - Bin
Wong, “China trasformed. Historical change and the limits of european
experience”, 1997, p.146
[18] - Hosea Jaffe, in “Era
necessario il capitalismo?” ricorda l’articolo che Marx scrisse per il “New
York Tribune” nel 1853 sulla “rivoluzione in Cina ed in Europa”. In esso
prevedeva che “le prossime insorgenze dei popoli europei e il loro movimento
per la libertà repubblicana e un’economia di governo dipendono probabilmente
più da ciò che avviene nel Celeste Impero – antitesi di ciò che è l’Europa –
che da qualsiasi altra spinta politica in atto, comprese le minacce della
Russia e il rischio conseguentemente plausibile di una guerra europea”. Ma “ciò
che avviene nel Celeste Impero” era in effetti la rivoluzione Taiping
(1851-1864) piegata solo dalle truppe inglesi del generale Gordon, ed era,
niente di meno che, “la più grande lotta di classe della storia”. Basata nella
città di Nanchino ebbe come bersaglio la libertà delle donne, la terra ai
contadini, l’espulsione delle potenze straniere, l’educazione popolare e
l’eguaglianza dei cittadini. E come antitesi i poteri coloniali. Malgrado
questo esempio che giudica lui stesso “formidabile”, però Marx alla fine sembra
contrario. Il dilemma sembra essere il seguente: la rivoluzione Taiping, in
caso di successo, avrebbe potuto rovesciare il modo di produzione del
dispotismo asiatico dall’interno? Senza, cioè, passare per il modo di
produzione capitalistico e per la conseguente dominazione coloniale? Il Manifesto
dei Taiping, che al loro massimo ebbero oltre due milioni di combattenti,
prevedeva una società senza classi e l’eguaglianza universale, inoltre
l’abolizione della proprietà privata sui terreni, e l’espropriazione dei beni
dei proprietari per accedere ad una proprietà comunitaria della terra, inoltre
l’abolizione del commercio privato e l’eguaglianza tra i sessi, con messa al
bando di schiavitù, oppio, tabacco, alcol, poligamia, monarchia ed espulsione
dei colonialisti stranieri. Purtroppo, quando questi furono sconfitti e
sterminati dai cannoni inglesi, in un articolo del 1862 Marx dichiarò che
“nella lotta contro il marasma conservatore non sembrano avere introdotto altro
che forme grottesche di distruzione, senza alcun germe di rigenerazione”
(p.102).
[19] - Si tratta del movimento dei
paesi coinvolti nel Patto di Bandung,
che era stato siglato nel 1955 tra 29 paesi del “sud del mondo”, non tutti
socialisti. L’elemento unificatore di questo accordo è la lotta al
colonialismo, che unisce l’Egitto di Nasser, l’India di Nehru, l’Indonesia di
Sukamo, la Cina di Zhou Enlai. Successivamente, nel 1961, e quindi poco prima
di questa conferenza, alla conferenza di Belgrado si propone la linea del “non
allineamento”, con ben 120 stati (l’attuale presidente è Maduro).
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