Prima
parte
L’ultimo
libro
di Giovanni Arrighi[1]
conclude un lungo percorso nel quale il sociologo ed economista italiano passa
dall’adesione al marxismo e vicinanza all’operaismo, alla svolta sistemica
degli anni ottanta, quando insieme ad altri si sforza di generalizzare il punto
di vista della ‘teoria della dipendenza’[2], che aveva contribuito a
fissare nel decennio precedente insieme a Gunder Frank[3] e Samir Amin[4], ed al contempo di superarlo
in una teoria molto più comprensiva dei “sistemi mondo”[5]. In questo sforzo Arrighi,
lavorando sulla traccia di Braudel e in associazione a Immanuel Wallerstein[6], tenta di produrre delle
generalizzazioni che pensa come feconde. Ovvero teorie e modelli in grado di
gettare una luce nuova sul passato ed il presente, ed immaginare possibili
futuri. La sua fama diventa larga dalla pubblicazione de “Il lungo XX Secolo”[7] nel 1994, e poi di “Caos
e governo del mondo”[8], con Beverly Silver, nel
1999, ma le sue prime pubblicazioni sono sul sottosviluppo in Africa[9], quindi alcuni studi di
diretta ispirazione marxista sull’imperialismo[10], alcuni studi sul
mezzogiorno italiano[11], e relativi alla svolta[12].
Questo
testo chiude il percorso e la trilogia di studi sui “sistemi-mondo”, a pochi
mesi dalla morte dell’autore, e ne è sia un seguito sia una rielaborazione. Il
tema chiave è il tentativo, compiuto dall’amministrazione Bush, di reagire alla
minaccia di declino che si era presentata sin dalla crisi sistemica degli anni
settanta con una forte proiezione imperiale in grado di aprire un nuovo “secolo
americano”, essenzialmente tramite il controllo diretto, manu militari, delle
regioni chiave per le economie industrializzate. Come si dice sinteticamente,
“guerre per il petrolio”, ma in realtà “guerre per il mondo”. Il primo tema è
dunque il lancio, prima, ed il fallimento, poi, di questo progetto di “dominio
senza egemonia”.
Il
secondo è l’affermazione, o meglio il ritorno, della Cina in posizione centrale
nel mondo.
Questo
tema, la rinascita economica dell’oriente asiatico, è l’effetto di una serie
ininterrotta di “miracoli” economici: il Giappone, la Corea del Sud, Taiwan,
Hong Kong, Singapore, la Malaysia, la Thailandia, infine la Cina.
Ma
l’oriente asiatico, in ombra nella prima parte del secolo scorso (anche se il
Giappone già fa eccezione), non era sempre stato considerato una parte
sottosviluppata del mondo. In effetti ancora Adam Smith, nel settecento, ne aveva
un’immagine altamente positiva. In particolare della Cina come del centro
sviluppato del mondo e del luogo di maggiore ricchezza, se pur connotato da una
forte stabilità. Questa immagine degrada molto rapidamente durante l’ottocento,
e alla fine della seconda guerra mondiale la Cina era arrivata ad essere ormai una
delle nazioni più povere del mondo.
Una
situazione che inizia a cambiare di nuovo quando negli anni sessanta in Vietnam
gli Stati Uniti alla fine sono sconfitti e devono scendere a patti; è da allora
che accelera e prende sempre più forza quello che alcuni hanno chiamato
“l’arcipelago capitalista” nell’oriente asiatico.
Il
libro di Arrighi, come lo stesso titolo mostra, utilizza una lettura non
convenzionale del capolavoro di Adam Smith “La ricchezza delle nazioni”[13] per interpretare il
particolare tipo di mercato impiantato con enorme successo in Cina come “non
capitalista” e continuo alla lunga tradizione del paese. Smith, del resto, sperava
che potesse impiantarsi una società di mercato globale basata su una maggiore
equità e rispetto per le diverse aree mondiali di civiltà; una società non
fondata sulla forma a suo dire “innaturale” di sviluppo che il mercantilismo
della sua epoca stava impiantando. Secondo il modo di leggere il filosofo
morale (la sua prima specializzazione[14]) scozzese che propone Arrighi
questi non è stato affatto un teorico dello sviluppo capitalistico, o il suo
difensore. Smith intendeva i mercati come strumento di controllo e di governo
dell’avidità e ciò riveste importanza per comprendere le economie di mercato
non capitaliste, come quella cinese prima che venissero incorporate in
posizione subalterna nel sistema globalizzato di stati guidato dall’Europa.
Ma
cosa è “un’economia di mercato socialista”, che si vorrebbe creare in
Cina, e cosa, invece, la “economia di mercato elitaria” (secondo la
denuncia di Liu Guoguang nel 2006) che si rischia di creare? Tra il “socialismo
con elementi cinesi” dei discorsi ufficiali e la realtà di capitalismo selvaggio
che si registra spesso c’è, per Arrighi, un vasto lavoro da fare, nelle lotte
del popolo cinese e nella sistemazione delle idee. Questo secondo compito, ambizioso,
è quello che si dà.
Adam
Smith e la nuova era asiatica
Il
libro prende le parti dunque di una sorta di “marxismo neosmithiano” che
lavora entro la frattura, ben ricordata nelle prime pagine, tra il marxismo de
“Il Capitale”, concentrato sullo sviluppo delle forze produttive nei
centri più avanzati e che assegna ai relativi lavoratori il compito di guida in
quanto testimoni della maggiore contraddizione, e quello delle periferie del
mondo, concentrato sulla questione del potere e della lotta nazionale di
liberazione.
Come
scrive Arrighi: “Non ci sono dubbi sulla distanza che separa la teoria del
sistema capitalistico di Marx dal marxismo di Castro, Amilcar Cabral, Ho Chi
Min, o Mao Zedong, una distanza che si poteva superare solo con un atto di fede
nell’unità storica del movimento marxista” (p.32). Un tema fondamentale,
recentemente ripreso con grande energia da Domenico Losurdo[15].
Questa
frattura, continua, Arrighi:
“fra marxisti
essenzialmente interessati all’emancipazione del Terzo Mondo dall’eredità
dell’imperialismo neocoloniale e marxisti che si preoccupavano principalmente
dell’emancipazione della classe operaia. Il problema era che se Il Capitale
avesse rappresentato effettivamente un’adeguata chiave di lettura del conflitto
di classe, i presupposti di Marx a proposito dello sviluppo capitalistico su
scala mondiale non sarebbero sembrati reggere a un’analisi empirica. I
presupposti di Marx richiamano molto più la tesi del ‘mondo piatto’ che Thomas
Friedman è andato diffondendo negli ultimi anni.” (p.33)
Un
punto importante.
Alcuni
anni prima, del resto, anche David Harvey, in un libro citato ed utilizzato da
Arrighi, sottolineò lo stesso punto:
“L'impresa multinazionale,
con la sua capacità di spostare rapidamente capitale e tecnologia da un posto
all'altro, di sfruttare risorse diverse, mercati del lavoro, del consumo e
opportunità di profitto, organizzando la propria divisione territoriale del
lavoro, trae gran parte del suo potere dal comando spaziale e dall'utilizzo di
differenziali geografici in modi non consentiti all'impresa familiare. In ogni
caso le implicazioni delle grandi trasformazioni avvenute nella geografia
della produzione, del consumo e dello scambio attraverso la storia del
capitalismo sono di per sé, sicuramente, degne di essere studiate.
Il confronto diretto
con questo compito potrebbe aiutare a curare gli scismi e le ferite
all'interno della tradizione marxista. Lo stesso Marx ha coraggiosamente
abbozzato una teoria della storia capitalista basata sullo sfruttamento di una
classe da parte dell'altra. Lenin, dal canto suo, ha sviluppato una tradizione
differente, in cui assume centralità lo sfruttamento delle persone in un luogo
da parte di quelle che sono in un altro (la periferia da parte del centro, il
Terzo Mondo da parte del primo).
Le due retoriche
dello sfruttamento coesistono in modo non facile e la loro relazione resa
oscura. Il
fondamento del marxismo-leninismo è quindi ambiguo e ha scatenato aspri
dibattiti sul diritto all'autodeterminazione, sulla questione nazionale, sulle
prospettive del socialismo in un solo paese, sull'universalismo della lotta di
classe, e così via”[16].
Secondo
la valutazione di Arrighi la cosa si può vedere da questo lato: l’analisi
empirica mostra che il mondo, nella globalizzazione in qualche modo prefigurata
anche da Marx, non si è affatto “appiattito”. Al contrario è andato
soggetto ad una sempre maggiore divergenza. Negli stessi anni in cui le
sinistre occidentali si innamoravano dei luoghi più “avanzati” del “laboratorio
della produzione”, ricorda l’autore, Andre Gunder Frank “varava la metafora
dello ‘sviluppo del sottosviluppo’[17] proprio per descrivere e
spiegare quella vistosa divergenza”. Un modello[18] che fu peraltro criticato
da molti proprio dal punto di osservazione del “marxismo occidentale”, perché
“ridurrebbe i rapporti di classe a semplici epifenomeni della relazione
centro-periferia”. In questo senso va, ad esempio, la critica di Brenner nel
1977[19], in un articolo della “New
Left Review”, nel quale pur riconoscendo senso alla posizione di Frank ne
contesta la pretesa conseguenza per la quale la classe sarebbe solo una sorta
di “riflesso”.
Come
inizia Brenner:
“la comparsa
di barriere sistematiche all'avanzamento economico nel corso
dell'espansione capitalista - lo ‘sviluppo del sottosviluppo’ - ha posto problemi
difficili alla teoria marxista. È emersa, in risposta, una forte tendenza
a rivedere bruscamente le concezioni di Marx in merito allo sviluppo
economico. […] Sosterrò qui che il metodo di un'intera linea
di scrittori nella tradizione marxista li ha portati a spostare le relazioni di
classe dal centro delle loro analisi sullo sviluppo economico e il sottosviluppo. La
loro intenzione è stata quella di negare il modello ottimista di progresso
economico derivato da Adam Smith, in base al quale lo sviluppo del commercio e
la divisione del lavoro determinano senza sosta lo sviluppo
economico. Tuttavia, poiché non sono riusciti a scartare i presupposti del
meccanicismo individualista sottostante di questo modello, hanno finito per
erigere una teoria alternativa dello sviluppo capitalista che è, nei suoi
aspetti centrali, l'immagine speculare della tesi ‘progressista’ che desiderano
superare. Quindi, molto simili a quelli che criticano, concepiscono
le relazioni (mutevoli) di classe come emergenti più o meno direttamente dai
requisiti (mutevoli) per la generazione di eccedenze e lo sviluppo della
produzione, sotto le pressioni e le opportunità generate da un mercato mondiale
in crescita.
Solo, mentre i loro
avversari tendono a vedere tali processi determinati dal mercato come innesco,
automaticamente, di una dinamica di sviluppo economico, loro li vedono come
rafforzamento dell'arretratezza economica. Di conseguenza, non tengono
conto né del modo in cui le strutture di classe, una volta stabilite,
determineranno in effetti il corso dello sviluppo economico o del
sottosviluppo su un'intera epoca, né del modo in cui emergono queste stesse
strutture di classe: risultato di lotte di classe i cui risultati sono
incomprensibili in termini di sole forze di mercato”.
L’accusa
a Frank e compagni è quindi di una sorta di meccanicismo che, in effetti, tale potrebbe
anche essere inteso dalla dinamica del testo (ed in particolare dalla parabola
complessiva della scuola). In particolare giova prestare attenzione alla
polemica Frank-Amin seguita alla pubblicazione nel 1999 di “Re-Orient”[20]. Mentre Amin prende la
direzione esattamente opposta e riformula in termini più ampi i concetti della
vecchia “teoria della dipendenza”, ribadendo la necessità di una, almeno
parziale, “disconnessione” per acquisire autonomia e autogoverno, Frank ormai
guarda alla totalità e considera quindi ogni sviluppo come effetto non di un
movimento interno (ad esempio di sviluppo delle forze produttive nella
dialettica tra le classi sociali, dalla quale si può verificare storicamente
l’insorgenza del capitalismo), ma di una rete di influenze e determinazioni
sempre estesa a livello mondiale. Una rete nativamente estesa a livello
mondiale. Segue una conseguenza non intenzionale: se tutto dipende
dall’economico, ma questo è sovradeterminato dall’insieme totale delle
relazioni internazionali, allora la lotta, che pure continua a rivendicare
nella forma dei “movimenti antisistemici”, non può più avere alcun progetto
possibile.
La
tesi circa l’insorgenza storica del capitalismo di Brenner riformula invece in
modo più tradizionale quella di Marx evidenziando le condizioni, contingenti,
per le quali paesi esposti al commercio internazionale, ed in esso quindi
incorporati, sviluppano le condizioni dello sviluppo capitalistico
(concentrazione dei mezzi di produzione fuori dei ceti produttivi e
competizione causata dallo spiazzamento dei ceti dirigenti). A questo modello marxiano
contrappone quello, che definisce “Neosmithiano”, basato su specializzazione e
divisione del lavoro sotto la spinta della messa in contatto commerciale del
quale quello di Frank sarebbe solo un caso particolare.
Arrighi
utilizza questa distinzione, accettando la qualifica che non condivide fino in
fondo di “neosmithiano”, per segnalare la differenza tra processi che
costituiscono mercati non capitalistici e processi di sviluppo capitalistico. Secondo
la sua ricostruzione i primi processi erano sviluppatissimi nell’oriente fino
al diciannovesimo secolo in assenza del secondo; quindi, mentre, come vedremo,
la Cina restava in qualche modo intrappolata in un “equilibrio di alto livello”[21], l’Europa ne venne
liberata dalla scoperta dell’America. E’ per questo che mentre al tempo di
Smith la Cina era considerata più avanzata, ad un certo punto partì una “grande
divergenza”[22],
ma, bisogna notare, malgrado l’Europa non avesse affatto mercati più efficienti
né per le merci né per i fattori di produzione. Secondo Pomeranz, infatti, nel
1789 i principali mercati europei erano meno aperti alla concorrenza,
nei termini delimitati da Smith, di quanto lo fossero quelli cinesi.
Le
questioni teoriche e pratiche che derivano da questa “riscoperta di Smith a
Pechino” sono diverse: occorre spiegare le cause del salto energetico che
impiega l’occidente, passando al carbone fossile, presente in abbondanza ma non
usato nella stessa maniera anche in Cina, e, seconda cosa, bisogna spiegare
perché la globalizzazione a regia inglese, nel diciannovesimo secolo, porti con
sé la divergenza. La prima domanda vede enfatizzato da Wong[23] il salto di intensità
dato dall’uso del combustibile, invece da Frank[24] l’opposta condizione di
relativa scarsità di capitale e lavoratori[25], e la Pomeranz[26] la diversa dotazione di
risorse insieme al rapporto centro-periferia “ossia al fatto che i paesi chiave
dell’Europa nordoccidentale ricavano dal continente americano materie prime e
vi esportano manufatti in misura considerevolmente maggiore di quanto i paesi
guida dell’Asia riuscissero a fare con le proprie periferie” (p.41).
Naturalmente ciò che fa la differenza è specificamente il nuovo tipo di
periferia che crea la conquista dell’America, con la tratta degli schiavi e il
sistema coloniale europeo, l’imposizione di forme mai viste di agricoltura
intensiva ad altissimo sfruttamento (nella piantagione di Cortez lavoravano
quindicimila indios in condizione di schiavitù[27]). Inoltre un ruolo molto
importante, in questo scambio, lo gioca l’argento americano, estratto in
miniere-lager e reinvestito in commerci di lunga percorrenza, in particolare
con l’Asia. Anzi l’Asia per tutto il diciottesimo secolo in pratica lo drenava
quasi tutto (tra l’altro, come vedremo, questo facile drenaggio è uno dei
fattori che convince i Qing che non è indispensabile munirsi di forti flotte e
autonoma capacità di commercio di lunga distanza).
Un
modello che tenta di spiegare tutti questi fattori nella loro complessa
relazione è quello tentato da Karou Sugihara[28] il quale pone l’accento
sulla “rivoluzione industriosa”, che si sarebbe verificata in oriente
dal sedicesimo al diciottesimo secolo insieme a tecnologie ed istituzioni ad
alto contenuto di lavoro, a causa della scarsità relativa di risorse
coltivabili. L’insieme di questi fattori ha comportato una notevole crescita
della popolazione e anche del tenore di vita. Mentre in passato la popolazione
cinese aveva oscillato entro la “trappola malthusiana” dalle parti dei cento
milioni di persone, all’improvviso giunse infatti a quattrocento milioni. Nel
1800 quindi, su basi di mercato, ma senza alcuna evoluzione in direzione industriale,
si sviluppa una economia forte ed autosufficiente, fortemente introversa, basata
sulla famiglia e la comunità di villaggio. Si tratterebbe in parole semplici di
un sentiero di sviluppo del tutto diverso da quello seguito
dall’occidente e che Marx inclinava a vedere come necessario[29]: la proletarizzazione e
creazione delle classi contrapposte degli operai e dei capitalisti. Il modello
antropologico che si impone predilige chi sa fare più lavori diversi ed è
abituato a cooperare e di inserirsi armonicamente nel lavoro della fattoria,
affrontando e risolvendo insieme gli imprevisti. Complessivamente il modello
prediligeva l’impiego di risorse umane invece che di risorse materiali.
Su
questo modello, ad esempio nel caso giapponese, si innesta la spinta tecnologica
che viene dall’occidente, creando un modello ibrido, ovvero una
“industrializzazione ad alta intensità di manodopera”. Un modello che iniziò ad
essere competitivo solo nel secondo dopoguerra nelle sue particolari
condizioni.
Ci
sono quindi due modelli distinti di crescita economica:
1- Quello
smithiano, nel quale “lo sviluppo si dipana in un contesto
sociale dato, sfrutta in funzione della crescita tutti il potenziale che quel
contesto racchiude, ma non arriva mai a modificarlo in misura significativa”,
2- Il
modello marxiano in cui “lo sviluppo economico su basi di
mercato invece, tende a distruggere il contesto sociale che lo ospita e a
creare le condizioni per l’affermarsi di una nuova struttura sociale (che non
necessariamente diventare realtà) caratterizzata da un diverso potenziale di
crescita” (p.56).
Per
Smith il mercato è del resto un vero e proprio strumento di governo e
l’economia politica è un ramo delle scienze dell’uomo di stato. La sua presenza
presuppone l’esistenza di uno stato forte, “capace di creare e riprodurre le
condizioni necessarie per l’esistenza del mercato stesso”. Si tratta di essere
quindi molto lontani dalla pretesa fiducia dogmatica negli effetti benefici di
una riduzione dell’intervento statale e nel mercato autoregolato.
Insomma,
Smith, per Arrighi, “sarebbe stato d’accordo con Karl Polanyi”[30].
In
relazione al tema della caduta del saggio di profitto[31] (come noto idea che Marx
preleva da Ricardo e Smith), il compito dello stato è quindi esattamente creare
la competizione e proteggerla per ridurre i profitti al minimo. Ovvero,
per contenerli nei termini che siano socialmente accettabili. Lo stato deve
operare per superare le contraddizioni che lo sviluppo economico produce.
Un
punto molto rilevante nella trattazione di Smith è quando viene messo a
confronto il tema della divisione del lavoro. Distinguendo tra divisione tecnica
del lavoro (la “fabbrica di spilli” all’inizio del libro di Smith) e divisione sociale
del lavoro (la relazione tra unità produttive indipendenti), il filosofo
scozzese si concentra sulle relazioni tra settori, o tra territori, e i
relativi scambi di mercato. Quindi “sulla concorrenza come agente di ulteriore
divisione del lavoro e specializzazione fra vari comparti del commercio e della
produzione; e in conseguenza su cosa debba fare un governo per promuovere,
regolare e sfruttare la sinergia fra concorrenza e divisione del lavoro”
(p.65). Secondo la lettura di Arrighi Smith, anche quando si concentra
esclusivamente sulla divisione del lavoro lo fa principalmente per evidenziarne
i difetti (nel ridurre l’uomo a una sola dimensione).
Venendo
ai sentieri di sviluppo nell’opera di Smith si trovano contrapposti uno
sviluppo “naturale”, graduale e per linee interne, attribuito alla Cina, che
passa gradualmente dagli investimenti sull’agricoltura, poi alle manifatture ed
infine al commercio estero. Ed uno sviluppo “innaturale e retrogrado”, e quindi
“completamente rovesciato”, attribuito al caso olandese. Qui si parte dal
commercio estero, che induce lo sviluppo di manifatture di lusso e raffinate,
di qui allo stimolo all’agricoltura con il surplus guadagnato.
Tornando
alla questione del modello “smithiano” verso quello “marxiano”, e quindi alla
discussione con Brenner, autore marxista con il quale Arrighi si confronta in
tutto il libro, è riconosciuto che Marx sviluppa un programma di ricerca
completamente diverso da quello del filosofo scozzese (di cui ha, comunque,
grandissimo rispetto). Ad esempio, rispetto allo sguardo verso i governi che
esprime il suo predecessore Marx esprime una prospettiva che guarda alle
“classi sociali”; non gli interessa se una “nazione” si impoverisce o si
arricchisce, ma chi, all’interno di questa, lo fa. Quindi al centro
della ricerca non c’è più la concorrenza (che pure è accuratamente modellata,
ma con uno sguardo che potremmo dire “micro”), ma “il conflitto di classe e il
progresso tecnologico sui luoghi di produzione”. Ancora, c’è il “segreto
laboratorio della produzione” e non la circolazione tra i luoghi di produzione (è
chiaro che ognuno di questi elementi è presente in Marx, e su ognuno la sua analisi
è accurata ed efficace, ma la narrazione che li tiene insieme è in qualche modo
rovesciata).
Diamo
da parola ad Arrighi:
“Questo spostamento
nella natura e negli argomenti della ‘narrazione’ ha finito per creare una gran
confusione relativamente alla teoria implicita di Marx dello sviluppo
nazionale. Dico implicita perché di una simile teoria non v’è traccia esplicita
nel pensiero di Marx. Vi si trova invece una teoria dello sviluppo
capitalistico su scala mondiale che coglie, anticipandoli, i tratti di quella
che oggi chiamiamo ‘globalizzazione’ ma sbaglia nel predire che lo sviluppo
capitalistico avrebbe ‘appiattito’ il mondo, nel senso in cui Thomas Friedman
usa questa espressione.
In effetti
l’aspettativa di un imminente appiattimento del mondo era così viva in Marx da
spingerlo a basare interamente la sua teoria dello sviluppo capitalistico
sull’assunzione di un mondo senza confini, in cui la forza-lavoro è totalmente
spossessata di ogni mezzo di produzione e tutte le merci, ivi compresa la stessa
forza-lavoro, vengono liberamente scambiate, a un prezzo all’incirca pari alla
sua riproduzione” (p.88)
Si
tratta di una rappresentazione piuttosto semplificata[32], ma fondamentalmente
corretta.
La
differenza tra le teorie dello sviluppo economico nazionale di Marx (implicita)
e di Smith (espressa) sono principalmente connesse con la critica dello scopo
della trasformazione in merci fatta propria dal capitalista. Per Marx lo scopo
è l’accumulo di denaro (D-M-D’) mentre per Smith di utilità (si potrebbe dire
M-D-M’). Naturalmente il processo di circolazione completo è una stringa di
M-D-M-D’-M’’-D’’-M’’’,…) e quindi si tratta di focalizzazione. La seconda
differenza è che entrambi identificano nel commercio di lunga distanza
l’elemento cruciale del decollo capitalista dell’Europa, ma per Smith è
“innaturale”, mentre per Marx è semplicemente il capitalismo. Ne deriva
una svalutazione radicale di tutto ciò che si oppone al pieno dispiegarsi della
logica della borghesia, e quindi in primo luogo del “modello asiatico”. Modello
che sarebbe sconfitto dalla maggiore efficienza e quindi dal minore prezzo
delle sue merci[33].
Ma
il centro della critica che Marx svolge all’economia politica di Smith è che i
cambiamenti tecnici ed organizzativi che interessano la società non sono
originati essenzialmente dalla concorrenza che induce la nascita di nuovi
settori specializzati e stimola la divisione del lavoro, ma dall’incessante
conflitto tra il lavoro ed il capitale per la divisione del surplus. Ne
segue che i capitalisti scaricano la pressione della concorrenza sui lavoratori
(come scrive già Engels nel 1844[34] mettendo in concorrenza i
lavoratori anziché concorrere con gli altri capitalisti) attraverso la continua
innovazione e quindi, al suo tempo, ampliando dimensione e concentrazione delle
unità produttive. L’aumento della dimensione delle unità produttive e della
divisione tecnica del lavoro sono quindi le condizioni essenziali della crescita
della classe dei capitalisti e della stagnazione di quella dei lavoratori
spossessati dei mezzi di produzione. Cioè, come si può dire, “i mutamenti
tecnici ed organizzativi non sono neutri ma hanno un segno di classe”.
Naturalmente gli effetti anche per Marx, come per Smith, sono deleteri per le
qualità morali ed intellettuali dei lavoratori.
Altre
differenze sono nella nozione di tendenza alla crisi, presente nell’uno
e assente nell’altro (che, casomai vede una tendenza alla stabilizzazione,
ovvero alla stagnazione di alto livello); per Marx la crescita della
concorrenza e la riduzione del tasso di profitto non sono dirette ad uno stato
stazionario, ma piuttosto ad una “distruzione creatrice” che in Arrighi ha tre
possibili dimensioni: aumento delle dimensioni dei capitali e riorganizzazione
del sistema di aziende; creazione di un sovrappiù di popolazione e di un nuovo
schema di divisione del lavoro internazionale; comparsa di nuovi epicentri di
accumulazione capitalistica. Nel suo insieme il capitalismo ha quindi una
spinta immanente a infrangere i suoi limiti, superando le fasi di
sovraccumulazione con l’allargamento.
Questa
posizione di Marx è fatta propria da Giovanni Arrighi ma
solo a livello globale, invece secondo lui a livello dello sviluppo nazionale,
o dell’intera Europa, non è adeguato a dare conto della insorgenza del
capitalismo stesso, o della rivoluzione industriale. In questo punto si allinea
alle tesi dell’ultimo Gunder Frank o di Hosea Jaffe[35], “le differenze tra i
processi di sviluppo dell’economia di mercato in Europa e nell’Oriente asiatico
non sono riconducibili alla presenza o all’assenza di specifiche istituzioni
politiche o economico-commerciali, ma piuttosto alla loro combinazione in due
differenti strutture di potere”. In altre parole non si trattava di avere più o
meno “capitalisti”, ma del potere di imporre il proprio interesse di classe a
scapito dell’interesse nazionale.
Come
scriveva lo stesso Braudel:
“Si può parlare di trionfo del
capitalismo solo quando esso si identifica con lo stato, quando si fa stato.
Nella sua prima grande fase, quella delle città-stato italiane come Venezia,
Genova e Firenze, il potere era saldamente nelle mani di una élite di ricchi. Nell’Olanda
del diciassettesimo secolo, l’aristocrazia che esprimeva i Reggenti, governava
a beneficio, e spesso sotto la direttiva dei mercanti, imprenditori e
banchieri. Analogamente, la Gloriosa rivoluzione del 1688 in Inghilterra segnò
l’accesso al potere degli imprenditori sull’esempio olandese”[36]
Questo
fenomeno va connesso con la tendenza a reagire alla caduta del tasso di
profitto con l’espansione finanziaria e con la competizione interstatale per
attrarre questi flussi finanziari.
Seconda
parte
Abbiamo
dunque fondamentalmente definito la prospettiva teorica dalla quale è
inquadrato il declino dell’egemone americano e la crescita dello sfidante
cinese. In primo luogo appare la pertinenza di una frattura entro la stessa
tradizione marxista, cui l’autore per buona parte della sua esistenza si è
riferito. Frattura che può essere letta con gli occhiali di Losurdo come
conflitto di paradigmi tra il “marxismo occidentale”[37] e “orientale”,
rispettivamente risalenti a Marx, Engels e seguaci, ed a Lenin, Castro, Ho Chi
Min, Guevara, e via dicendo. La decisione dell’autore in proposito è di
accettare la definizione di “marxismo neosmithiano” proposta criticamente da
Robert Brenner nel 1977 (contro l’ultima versione del secondo genere di
marxismo espressa nella “teoria della dipendenza”), ma di ribadirne invece la
validità come chiave di lettura dei fatti.
Richiamandosi
ad elementi della lettura del grande filosofo scozzese, si tratta per Arrighi
di comprendere quindi che cosa volle proporre effettivamente, al di là della
semplicistica vulgata della “mano invisibile”, Adam Smith nel 1776 e
misurare la fecondità delle sue intuizioni, mettendole in relazione con le
ragioni del successo cinese. Questo sarà il compito della Seconda e Terza Parte
del lungo testo. Utilizzandole si può rovesciare la percezione, che coinvolse
in fondo anche Marx, di una sorta di naturalità del sentiero di sviluppo
occidentale, mettendone in luce anche più di come comunque fece il grande
tedesco la violenta natura. Riconoscere quindi la fondazione del capitalismo
nell’estrazione di valore dalle periferie coloniali (per ma verità sia esterne sia
interne[38])
e la capacità di alimentare e nutrirsi degli squilibri e delle dissimmetrie che
esso stesso coltiva[39].
Riepiloghiamo,
ci sono due tradizioni, e secondo quanto ritiene anche Harvey non facilmente
armonizzate, nel marxismo:
-
quella che risale allo stesso Marx[40], e anche più alla
sistemazione tardo ottocentesco condotta da Engels e dai suoi successori
(Kautsky[41]
in particolare), e vede una linea di sviluppo endogeno, interno, del
capitalismo nel continuo rivoluzionamento delle forze produttive che conducono pro
motu proprio ad una maggiore efficienza e razionalità. Quel che si chiama
normalmente “progresso”[42].
-
la seconda, alla quale biograficamente ed
emotivamente aderisce l’autore, che vede nel capitalismo un dispositivo di
oppressione soprattutto delle periferie deboli del mondo, dei suoi popoli, e di
estrazione delle loro risorse. Non c’è quindi progresso, ma “accumulazione per
espropriazione” (Harvey), e, soprattutto, c’è una valutazione per molti
versi opposta della resistenza alla modernizzazione, al “progresso”, quando non
è prodotto dallo sviluppo autonomo e coerente con la propria natura e
tradizione.
Abbiamo
dunque:
-
“Sviluppo del sottosviluppo”
(Gunder Frank) verso creazione di un mondo “piatto” e progressista.
-
“Disconnessione” verso “integrazione”.
-
“Commonwealth” verso “Impero”.
La
tesi, spostandosi sul piano storico, come adesso vedremo è che nello sviluppo
orientale c’è stato a lungo un “mercato senza capitalismo”[43], capace di produrre molta
più ricchezza della controparte occidentale, ma anche di intrappolare, in
qualche modo, la società in una sorta di equilibrio che ha limitato
l’innovazione (anche tecnica) o la sua diffusione e utilizzo. Non è sempre
stato così, ma lo è stato nel momento decisivo, quello dell’incontro con
l’occidente.
Sulle
tracce della turbolenza globale
Nella
Parte Seconda del libro, per comprendere come tale meccanismo si
dispieghi e come d’uso in tutti i libri della “trilogia”[44], viene prodotta un’ampia
ed estremamente interessante ricostruzione della successione storica delle
crisi, a partire dalla lunga depressione dell’800, vivente Marx e che ha il suo
termine negli ultimi anni dell’ottocento, quando con la morte di Engels si aprì
nel socialismo tedesco, che svolgeva un ruolo di guida di quello europeo, la
controversia Bernstein-Kautsky[45] e il revisionismo. Quasi
improvvisamente una lunga fase di aspra competizione intercapitalistica, che
aveva prodotto prezzi calanti e frequenti crisi locali, con brevissimi
intermezzi, termina e i prezzi ricominciano a salire. Si impone allora un clima
euforico nel mondo degli affari che passerà con il nome di Belle Époque.
Un’epoca nella quale, tuttavia, le ineguaglianze crescono vertiginosamente e i
benefici si ripartiscono a vantaggio di pochi. Sul piano internazionale
riguardarono soprattutto l’Inghilterra e su quello di classe soprattutto quelle
renditiere. La lunga crisi era stata una fase di scarsi profitti, ma di
crescente benessere dei lavoratori, mentre la “Belle Époque” è stata, al
contrario, una fase di profitti, ma non per i lavoratori. Crisi e
benessere dipendono sempre dai punti di vista.
Anche
il lungo boom degli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso, che sfocia al
termine in una crisi dei profitti, deriva da una forma di “sviluppo ineguale”
tra aree economiche. Ovvero di differenti stati di crescita nel senso proposto
da Brenner[46];
un senso ben applicabile a Germania e Giappone. Paesi ritardatari che infine
riescono a raggiungere i paesi guida nella corsa alla frontiera capitalistica.
Bisogna anche ricordare che in tutto il trentennio che segue alla fine della
seconda guerra, e agli Accordi di Bretton Woods la crescita era stata impetuosa
nei paesi guida dell’occidente, ma debole nei paesi “sottosviluppati”. Le cause
erano state molteplici, come sempre capita, tra queste la lotta tra i due
blocchi, che tendeva ad esasperare le ragioni di sfruttamento dei satelliti
periferici, e accentuava, appunto, la “dipendenza” e lo stretto controllo
politico dei flussi di capitale. Quell’assetto crebbe, raggiunse i suoi limiti,
e andò infine in crisi (una crisi che fu contemporaneamente geopolitica,
sociale, economica). La svolta si produsse nel 1965-73 e fu resa in ultima
analisi necessaria da una sempre più aspra lotta commerciale, dall’irruzione
nelle economie guida di prodotti e merci a basso costo e dalla riduzione del
rendimento degli investimenti anche del 40% negli Usa. A questo attacco, a
partire dai primi anni settanta gli Stati Uniti reagirono con una drastica
svalutazione del dollaro e con la distruzione del regime di Bretton Woods. Una
distruzione anticipata da molti segnali e forse prevista.
A
questa maggiore competizione Germania e Giappone reagirono cercando di
conservare la competitività contraendo la domanda interna. Seguì una fase
confusa, caratterizzata da manovre dette di “stop and go”, da parte
dell’Inghilterra e in qualche misura anche di tutte le principali economie del
mondo (per evitare il progressivo indebolimento delle ragioni di scambio e
l’instabilità monetaria anche l’ultimo Johnson ed il primo Nixon cercarono di
provare una stretta creditizia, ma la sconfitta alle elezioni del 1970,
convinse quest’ultimo a riaprire lo stimolo[47]). Ma in quel contesto le
politiche espansive a metà dei settanta determinavano tassi di interesse in
caduta e fuga dei capitali verso i tassi più alti di Germania e Giappone, e,
conseguentemente la tendenza dei deficit della bilancia commerciale ad andare
fuori controllo. Dopo un’altra svalutazione del 7,9% allo Smithsonian Agreement
del 1971, nel 1973 tutti si arresero. Complessivamente tra il 1969 ed il 1873
il dollaro si svalutò verso il marco del 50%, cosa che consentì per un poco di
recuperare la competitività delle merci perduta, ma trasferì gli impulsi di
crisi in Europa.
Al
termine di questo primo periodo di aggiustamento lo sviluppo ineguale nel senso
dell’inseguimento tra grandi potenze industriali fu parzialmente ridotto, ma
quello tra queste ed i paesi “in sviluppo” rimase simile. Ciò determinò una
tendenza endemica all’eccesso di capacità produttiva a livello mondiale che
ridusse per tutti i tassi di profitto. Quindi lo schema interpretativo proposto
(che Arrighi riprende, accettandolo, da Brenner) è di “sovracapacità e
sovraproduzione” (tendenziale). Questa condizione di stagnazione in effetti
rimase persistente dal 1973 al 1993, per venti anni, durante i quali si
completò la trasformazione del sistema economico internazionale. Una dinamica
che fu attraversata da tre momenti principali:
1- la
rivoluzione monetarista degli anni ottanta, che produsse
come effetto principale l’inversione della svalutazione del dollaro e dei
flussi di capitale che tornarono, impetuosi, verso l’economia guida (devastando
i germi di crescita che si erano nel frattempo aperti nel mondo “in via di sviluppo”).
In questo contesto si ebbe la resa della Francia di Mitterrand, dopo il biennio
di politiche keynesiane[48].
2- il
“Plaza Accord” del 1985, che svalutò il dollaro verso lo Jen, ponendo
bruscamente fine alla crescita Giapponese, che stava seriamente preoccupando le
élite americane;
3- il
“Reverse Plaza Accord”, del 1995, che, al contrario, lo rivalutò. Questo
secondo accordo intervenne a salvare il settore manifatturiero giapponese,
spingendo verso l’alto il valore del dollaro e rendendo in conseguenza, in un
contesto nel quale il settore manifatturiero americano era in ripresa e quindi
i valori azionari erano buoni, la borsa americana estremamente attraente per
gli investitori stranieri.
Quel
che seguì è, come sottolinea Brenner nel 2002[49], una “messa in libertà di
un torrente di liquidità proveniente dal Giappone e dall’Oriente asiatico e in
generale dall’estero che si riversò sui mercati finanziari americani,
provocando una brusca riduzione dei tassi di interesse che spianò la via a una
forte crescita dell’indebitamento della grandi società che prendevano a
prestito per comprare azioni di borsa”. Peraltro, a dimostrazione del carattere
di forte progettualità geopolitica (il contesto primario è sempre il dominio
del capitale occidentale, ed anglosassone in particolare) le autorità monetarie
giapponesi facilitarono molto il processo continuando politiche di espansione
monetaria e mitigando le limitazioni per gli investimenti all’estero. Partì
così la bolla di fine secolo.
Il
rovescio della medaglia fu che le grandi aziende, che furono il motore
principale della fase, entrarono ovunque in un periodo di forte indebitamento.
Una condizione che per essere risolta in modo definitivo rendeva necessario
passare per una fase di deflazione dei debiti (privati) che non si fece allora,
non si è fatta alla data del libro, non si è fatta ancora.
Secondo
Brenner le teorie che invece vedono nella forza del movimento operaio
nella contingenza degli anni sessanta e settanta, il fattore decisivo nel
comprimere i profitti e minacciare le basi del meccanismo dell’accumulazione
capitalista individuano un fattore ma gli attribuiscono una forza eccessiva. In
effetti il fattore decisivo non fu la pressione “verticale” entro il sistema
produttivo, ma quella “orizzontale” della competizione tra capitalisti e tra
sistemi. Arrighi accetta solo fino ad un certo punto questa ipotesi e attira
l’attenzione “sull’intera foresta di quella crescente marea multinazionale di
conflitti sui salari e le condizioni di lavoro culminata fra il 1968 e il
1973”, la quale spinge verso l’alto i salari reali più dell’incremento della
produttività. Questa esplosione ebbe effetto sulla contrazione del saggio di profitto,
come ovvio, ma ebbe anche un effetto marcato e di lunga durata sull’andamento
della competizione intercapitalistica. In questa crisi, al contrario di quella
del 1870-90, ci fu anche un effetto inflazionistico rilevante (mentre in quella
fu deflazionistico) e la rottura monetaria (mentre in quella dominò il gold
standard). Il motivo fondamentale per gli Usa sarebbe che i costi politici di
una politica deflazionista (che è quella standard nell’assetto capitalistico)
erano troppo alti, data la situazione di alta conflittualità interna e relativa
alla guerra del Vietnam. A Nixon serviva invece una qualche espansione per
frenare la rabbia popolare. Peraltro la forza contrattuale dei lavoratori, come
una delle cause per l’abbandono del gold standard è ancora più evidente in
Francia, dove De Gaulle lasciò andare le politiche per evitare che la protesta
studentesca del 1968 si saldasse con quella dei lavoratori. Insomma, per come
la mette il nostro:
“Come suggerisce l’esperienza degli Stati Uniti e della
Francia, la capacità di pressione del movimento operaio durante la transizione
dal boom alla relativa stagnazione della fine degli anni sessanta e dei primi
anni settanta non era un semplice riflesso della competizione
intercapitalistica come era stato il caso durante l’inizio della svolta
recessiva alla fine del diciannovesimo secolo. Al contrario essa fu
sufficientemente forte da esercitare un’azione significativa non solo sulla
stretta dei profitti che caratterizzò la transizione, ma anche nell’indirizzare
la svolta recessiva lungo un percorso inflazionistico piuttosto che
deflazionistico. Certo, sui profitti agiva contemporaneamente anche la
concorrenza tra le aziende e certo dall’indirizzo inflazionistico dato dalla
recessione i lavoratori non trassero particolari vantaggi né per loro né per la
loro capacità di pressione” (p.147).
Alla
fine la tesi fondamentale di Arrighi è che, semplicemente, l’inflazione
funzionava meglio della deflazione per usurare la capacità di lotta dei
lavoratori che caddero sotto i colpi della controrivoluzione di Reagan e
Thatcher. Un ruolo, tuttavia altrettanto importante in questo passaggio lo
giocarono le relazioni nord-sud del mondo e quindi l’impatto della decolonizzazione.
Questa fu influenzata dal clima della guerra fredda e dalla crisi egemonica
americana susseguente alla guerra persa in Vietnam. Il fattore che fu determinante
non fu quindi la pressione dei lavoratori, o il conflitto concorrenziale, ma
“gli effetti diretti e soprattutto indiretti dell’escalation del Vietnam sulla
bilancia dei pagamenti negli Stati Uniti” (p. 153). La variabile di sistema fu
la lotta per la supremazia e per contrastare nazionalismo e comunismo nel terzo
mondo.
È
questo il contesto nel quale la svalutazione del 1969-73 del dollaro finì per
far cadere il peso della crisi dei profitti, causata da questo complesso di
fattori, su Germania[50] e Giappone, provocando
una redistribuzione degli oneri come sottoprodotto di misure per recuperare
margini. Questo assetto di politiche giunse al suo massimo al termine degli
anni settanta.
A
questo punto accelerò la svolta finanziaria e per evitare il “macello dei
capitali” che avrebbe curato la tendenza alla sovrapproduzione però al prezzo
della perdita di egemonia di troppi (sia ceti e aziende sia nazioni) il
capitalismo si ritirò nel suo “quartier generale” (Braudel), ovvero, appunto, nei
mercati finanziari.
La
svolta monetarista ha questo senso, si tratta di una inversione: “gli
Stati Uniti sono passati dal ruolo di principale sorgente mondiale di liquidità
e di investimenti diretti all’estero che avevano coperto durante gli anni
cinquanta e sessanta, a quello di principale nazione debitrice e di pozzo di
liquidità che non hanno più abbandonato ormai dagli anni ottanta” (p.165).
È
dai mercati finanziari che in ultima istanza gli Stati Uniti ottennero quel che
non avevano ottenuto né con le armi né con l’industria, ovvero la sconfitta
dell’Unione Sovietica e, insieme, il disciplinamento del sud del mondo. Svolse
un ruolo la corsa degli armamenti, il crescente indebitamento di tutti i paesi
satelliti dell’Urss (che crolleranno in pochi anni), la crisi messicana del
1982, la recessione e liquidazione ideologica e politica dello Stato
Assistenziale come parte di un vasto progetto di ricostituzione “dell’esercito
di riserva industriale” e quindi dei margini della produzione (p.168).
Ma
se questo fu lo scheletro della svolta, l’interpretazione di Arrighi, come nei
suoi precedenti libri, passa per la nozione di crisi di egemonia[51]
degli Stati Uniti, che aveva visto un suo momento alto nel New Deal
Rooseveltiano e nella sua ipotesi di estensione al mondo, tramite le Nazioni
Unite; poi nel consolidamento negli anni del keynesismo militare e nella
politica di contenimento della sfida sovietica sulla base di più poli
industriali dominanti (Germania, Giappone in primis), che dovevano restare
sempre dominanti[52]
e quindi l’appoggio strategico alla Comunità Economica Europea come necessario
contrappeso al socialismo sia esternamente sia internamente. Ne segue una
diagnosi, “lo sviluppo ineguale [nel senso di Brenner] all’ombra dell’egemonia
prodotta dagli Stati Uniti non fu dunque un processo spontaneo prodotto
dall’azione ‘dal basso’ dei capitalisti impegnati nell’accumulazione ma un
processo incoraggiato dall’alto” (p.173). Un processo, dunque, non solo
“capitalistico” (nel senso di Marx e di Brenner), ma anche “politico”, o
meglio, naturalmente “geopolitico”.
Gli
obiettivi che si poneva l’egemone americano erano infatti politici, nel mettere
in piedi il sistema di potere del dopoguerra, e fallirono non tanto nel lasciar
emergere Germania e Giappone come nuovi competitori, quanto nel riuscire a
garantire benessere e pace sociale (gli anni sessanta e settanta sono anni di
asprissimi conflitti sociali nelle “periferie interne”) e dominio sul resto del
mondo emergente.
Sarà
la “controrivoluzione monetarista”, insieme al dilagare dell’economia
finanziaria che ne è causa ed effetto, a ottenere infine i due risultati. Si
trattò di un punto di svolta complesso, nel quale ebbe un ruolo “l’eurodollaro”[53] ed una massa di capitali
mobili che quadruplicò tra il 1967 ed il 1970. Dominarono due fenomeni
paralleli: l’esplosione salariale, con conseguente erosione relativa dei
profitti, e la massa di capitali parcheggiati. Si trattò di una enorme massa di
manovra ed un fiume in continua crescita che finì per fare concorrenza alle
istituzioni monetarie e statunitensi.
Ci
furono per Arrighi in sostanza tre tendenze che si rafforzarono a
vicenda:
1- La
rottura del sistema di parità fisse,
2- Una
posizione più aggressiva dei paesi del terzo mondo,
3- La
mancanza di domanda di impieghi.
Questo
processo ebbe un successo enorme, l’intera struttura della società si rivoltò,
la direzione e qualità dei consumi passò da una trazione da parte dei consumi
di massa ad una trazione condotta dai consumi “distintivi”. L’egemonia della
classe sociale “affluente”, che esibisce i propri consumi facendone elemento
del prestigio, della legittimità a dirigere, e della stessa propria qualità
morale, si impose sulla precedente semi-egemonia “popolare”. Il processo trovò
i suoi cantori e trovò i suoi critici, ma fu praticamente irresistibile.
Si
trattava di una nuova Belle Epoque fondata su un meccanismo che, in
basso, era sostenuto da una continua anticipazione di futuro, una costante
espansione finanziaria e quindi delle strutture del debito e che, secondo
Arrighi, nel lungo periodo avrebbero potuto portare ad un “nuovo crollo
sistemico” (è in realtà molto più vicino, dato che il libro esce nel 2007). Si
affermò, insomma, un modello nel quale domina la riduzione della concorrenza
attraverso l’estensione delle relazioni clienti-fornitore ‘captive’, basate
sull’associazione di monopoli e monopsoni, e l’interconnessione internazionale
per sfuggire, o per arbitrare, ai regimi di regolazione. È il modello Wall Mart
degli anni novanta, sulla base del quale, generalizzandolo, si imporrà nel
nuovo millennio il modello della “gig economy”[54] e di “Amazon”.
Ma
se l’egemonia americana, pur con questa enorme ripresa di centralità (ovvero
incremento del dominio) è per Arrighi comunque in disfacimento, la fase
imperiale si affermò invece come puro e brutale dominio solo dal 2001. A seguito
dell’opportuno attentato delle Torri Gemelle (occasione presa al volo) Bush
lanciò infatti un nuovo programma imperiale ripetendo la mossa fortunata di
Roosevelt (che usò l’attacco di Pearl Harbor per fare la guerra di cui aveva
bisogno per risolvere la crisi del New Deal) e di Truman (quando costruì la
“guerra fredda” per poter proseguire le politiche espansive al livello
necessario senza che i capitali si opponessero[55]). Considerando la
persistenza del trauma della sconfitta del Vietnam, però, lo fece attraverso la
“dottrina Powell”: colpire subito con una enorme sproporzione e disimpegnarsi.
In Afganistan e soprattutto in Iraq la prima parte andò bene, ma la seconda fu
uno spettacolare fallimento. Gli Stati Uniti si ritrovarono ancora una volta in
un pantano, e con una continua emorragia di capitali.
Alla
fine fu un fallimento ancora più grave, anche perché il resto del mondo rifiutò
la guerra americana e si rifiutò di sostenerne i costi.
In
conseguenza anche l’idea di un ordine mondiale riformato per mano militare,
anziché con il “dolce commercio” come voleva Clinton nel suo entusiasmo
democratico per la globalizzazione, fallì.
Restava
quindi il dilemma di come finanziare la guerra:
1- Attraverso
un aumento delle tasse,
2- Aumentando
l’indebitamento con l’estero,
3- Rendendo
la guerra autosufficiente,
4- Sfruttando
il ruolo del dollaro.
In
effetti furono tentati tutti, ma alla fine fu soprattutto il dollaro a
svalutarsi, del 35% (come accadde peraltro dopo la guerra del Vietnam).
Naturalmente si tratta di una politica rischiosa perché funziona solo fino a
che la fiducia reggeva. Precisamente una politica che danneggiava tutti i
detentori di dollari fuori casa e, in particolare, le riserve valutarie sovrane[56] in dollaro, ovvero il
ruolo dello stesso come “valuta di riserva”.
Ma
c’è soprattutto un altro lato della cosa: fino a che gli Usa restarono
invischiati nella guerra del golfo crebbe anche la dipendenza dalle
importazioni e dal credito estero a buon mercato. In queste condizioni non si
poteva infatti cercare di ostacolare la crescita del nuovo paese che stava
emergendo a sfidare il ruolo centrale americano: la Cina. Infatti in queste
condizioni lo squilibrio della bilancia commerciale non poteva essere combattuto
con i dazi, in quanto avrebbero potuto far aumentare l’inflazione a causa della
necessaria sostituzione delle importazioni a basso prezzo cinesi con altre
comunque più care. Ma allora, fino a che non si scioglie questo nodo, l’aumento
dell’influenza cinese, che estende i suoi rapporti con paesi decisivi come
l’Iran ed il Venezuela, o con parte dell’Africa, resta difficilmente
contenibile.
Nel
seguito del libro Arrighi guarderà molto più da vicino questa crescita.
Terza
Parte
Abbiamo
fino ad ora descritto il modo in cui l’autore dà conto dell’intervallo tra la
“crisi spia” degli anni sessanta, connessa con il doppio deficit statunitense,
l’esaurimento del predominio industriale e il termine con successo
dell’inseguimento dei paesi sconfitti della seconda guerra ed aiutati a
rialzarsi in chiave antisovietica nei confronti degli Usa, l’evento scatenante
epocale della sconfitta in Vietnam.
Come
abbiamo visto l’approccio del libro è molto largo e profondo, nel tentare di
spiegare i lunghi percorsi della transizione in corso, e gli assetti di forza
che di volta in volta si susseguono in essa, pone in questione l’idea che il
capitalismo sia una sorta di destino del mondo, una tappa di un processo
necessario di autosuperamento dell’umanità, che di qui, e necessariamente di
qui, potrà infine giungere alla condizione pacificata del socialismo.
Chiaramente questa critica viene svolta e diventa pertinente in considerazione
della questione che è al centro del libro: può lo sviluppo imponente cinese
costituire la base di un nuovo ciclo egemonico che sia significativamente
diverso dal capitalismo anglosassone al quale succede (in caso succeda)?
Non è, in altre parole, il modello cinese in effetti una pura e semplice mimesi
del capitalismo occidentale senza neppure l’apparenza di libertà liberale?
Ovvero, non è il peggio dei due sistemi?
Arrighi
risponde di no. Ma nel farlo è costretto a chiedersi per
quale ragione anche nella cultura marxista, ovvero nelle tante e diverse
culture marxiste, in genere il capitalismo sia considerato contemporaneamente
inevitabile e progressivo. Produce quindi un’interpretazione del modello di
regolazione cinese, come ora vedremo, e della sua storia (le due cose non
possono essere separate) che, come abbiamo letto, muove da un’interessante
interpretazione del capolavoro di Adam Smith e ne recupera la proposta
interpretativa ancorata su un modello di sviluppo “naturale” di tipo cinese, al
quale si contrappone un modello “artificiale” di tipo occidentale. Il giudizio
è quindi rovesciato. Come specificano inoltre gli autori con i quali si
confronta, qui c’è una vera e propria frattura entro la stessa tradizione
marxista. Una frattura che Brenner individua nella “scuola della dipendenza”[57] (definita “neosmithiana”
(appunto), e Losurdo nella coppia “marxismo occidentale/orientale”[58], e che come ovvio
contrappone il corpo principale (per noi) della tradizione che risale a Marx,
dalla reinterpretazione che, sulla spinta delle necessità storiche e della
situazione, ne forniscono i rivoluzionari effettivi nel terzo mondo (Lenin,
Castro, Guevara, Ho Chi Min, Mao, …) pur nelle loro enormi differenze.
Rimettere
in questione, anzi rovesciare, la naturalità del sentiero di sviluppo
capitalistico-occidentale implica valorizzare in modo più accentuato elementi
di critica che erano e sono pur presenti nell’intera tradizione
marxista: la dipendenza dell’accumulazione capitalistica non tanto dalla
creazione di valore, quanto dalla sua estrazione da periferie “coloniali” (si
badi bene, sia esterne sia interne). Quindi la capacità di alimentare e
nutrirsi ad un tempo delle dissimmetrie e degli squilibri che esso stesso coltiva[59].
Nella
ultima parte del libro, al fine di ancorare in un solido argomento
fattuale questa intuizione, Arrighi si sforza di mostrare che nel suo sviluppo
storico, e come vide lo stesso Smith, nello sviluppo orientale ed in
particolare cinese è stato creato e si è mantenuto a lungo stabile un “mercato
senza capitalismo” che è stato capace di produrre molta più ricchezza della
controparte occidentale. Lo svantaggio è che, per una serie di ragioni storiche
proprie dell’area, questo modello ha -anche per il suo successo e la sua
stabilità- in qualche modo intrappolato la società cinese in un equilibrio (di
alto livello) che ha limitato e inibito l’innovazione (anche dove veniva
prodotta) o, almeno, la sua diffusione ed utilizzo.
Questo
equilibrio stabile si è dato in almeno due lunghe fasi, prima delle quali ci
sono stati secoli di grande dinamismo ed innovazione (che, secondo alcuni,
erano sul punto di far nascere un capitalismo cinese), e sfortunatamente
l’ultima (la fase terminale della dinastia Qing) è coincisa con l’arrivo in
forze del capitalismo occidentale.
La
logica territoriale nella storia del capitalismo
Dopo
aver compiuto una lunga carrellata sulla concatenazione delle crisi che hanno
portato alle condizioni della transizione di potenza che è il vero tema del
libro, Arrighi scrive un capitolo nel quale è ripresa la posizione di David
Harvey[60] sull’imperialismo “di
tipo capitalistico” come fusione di una logica che cerca il potere attraverso
il controllo di un territorio, ovvero accumulando spazio in qualche
modo, e una controllando il capitale economico che si muove tra gli spazi.
La prima è la “logica territoriale del potere”, la seconda la “logica
capitalistica del potere”. Entrambe sono in una relazione dialettica. Molte
azioni apparentemente sproporzionate come l’enorme quantità di risorse
impiegate nel sud-est asiatico in Vietnam, e l’intero contenimento dell’Unione
Sovietica rispose a questa doppia esigenza, controllare gli spazi perché
restino aperti all’accumulazione ed all’estensione degli scambi.
Recuperando
la nozione di Lefebvre[61] di “produzione dello
spazio” Arrighi mette in evidenza che la riorganizzazione spaziale è
normalmente un processo che accompagna i momenti di crisi della accumulazione
illimitata di capitale. Per cui molto spesso per risolverle deve intervenire lo
Stato creando nuovo spazio, infrastrutture, reti.
La
questione cruciale è dunque il rapporto tra relazioni spaziali e forze
produttive, inclusa la produzione di sicurezza. La relazione con il keynesismo
militare, la produzione delle guerre, il controllo della liquidità.
“Riassumendo,
la rivalità tra stati per il controllo delle risorse mondiali è stata una
componente fondamentale della competizione intercapitalistica che ha spinto
verso l’accumulazione senza fine di potenza e di ricchezza lungo la traiettoria
europea di sviluppo. La corsa agli armamenti è stata infatti la fonte primaria
dell’infinita serie di innovazioni che hanno portato alla continua formazione,
nei commerci e nella produzione, di nuove configurazioni spaziali di dimensioni
e differenziazione crescenti e alla distruzione di quelle preesistenti. A fare
del percorso europeo un percorso specificamente capitalistico era il fatto che
il controllo sulle risorse finanziarie mondiali conferiva agli europei un
vantaggio decisivo nella competizione per tutte le altre risorse. Sebbene
l’industrialismo abbia costituito sin dall’inizio una componente importante di
tale percorso, la Rivoluzione industriale come tale fu più una variabile
‘intermedia’ che una variabile ‘indipendente’: fu il risultato di
un’interazione, durata due o tre secoli, di capitalismo finanziario,
militarismo e imperialismo sfociata in quel periodo in un formidabile potenziamento
della miscela. Per di più, non appena l’industrializzazione si fu rivelata come
l’elemento chiave della potenza militare, il circolo virtuoso di aumento della
ricchezza e della potenza che fino ad allora aveva caratterizzato il percorso
europeo cominciò a mostrare di essere vicino ai suoi limiti. In Europa la lotta
per la conquista dello spazio considerato vitale per la creazione e il
mantenimento di complessi militari-industriali competitivi andò fuori controllo
creando dei varchi per le rivolte ‘anti-occidentali’ della prima metà del
secolo che improvvisamente fecero lievitare i costi deprimendo
contemporaneamente i benefici dell’espansione territoriale oltremare.
Contemporaneamente questa competizione determinò una migrazione dell’epicentro
del potere dall’Europa dell’ovest verso Est e verso Ovest, in direzione della Russia
e degli Stati uniti, cioè dei due stati di dimensioni continentali che erano
già riusciti ad acquisire tutto lo spazio territoriale necessario a creare e
mantenere complessi militari-industriali competitivi.” (p.303).
A
questo assetto, nel quale si era chiusa la seconda guerra seguirono lunghi anni
di “duopolio” e di “l’equilibrio del terrore”. Ma negli anni ottanta gli Stati
Uniti, alzando progressivamente la posta della competizione, alla fine
riuscirono a mettere in bancarotta i loro rivali. Dunque a sconfiggerli.
Il
retroterra storico della nuova era asiatica
È
a questo punto che, dopo un avvio in sordina nelle prime riforme di Deng
Xiaoping, dagli anni ottanta ad oggi la Cina sembra essere impegnata in una
“pacifica ascesa” apparentemente irresistibile e all’inizio ben sostenuta dagli
stessi Usa, che all’inizio con tale spostamento spaccano il campo socialista e
pongono sotto pressione da sud il rivale storico. Ma dopo la caduta del
comunismo sovietico, tra il 1989 ed il 1991, questa crescita continua ed
accelera e con il tempo diventa una chiara minaccia per la conservazione del
primato americano sul mondo. Primato dal quale dipende in parte la stessa
ricchezza ed il tenore di vita statunitense[62].
Allo
stato nel quale il libro viene scritto, il primo decennio del nuovo millennio,
ci sono ormai tre linee di pensiero strategico entro il sistema istituzionale
americano per avere a che fare con la Cina:
1- Venire
a patti.
2- Contenerla
con un circuito flessibile di base, accordi, alleanze. Quindi fare accordi e
compromessi.
3- Uscire
dal quadro strategico e cercare di fare “il terzo che gode”, lasciando che sul
treno si ammazzino.
La
seconda strategia, proposta da Kaplan, ha in effetti funzionato molto bene nel
circondare, contenere ed infine battere l’Urss, ma, ricorda Arrighi, la Cina
non è affatto come l’Urss. Questa propone una dottrina dell’helping joeqi
che prevede di “emergere velocemente in modo pacifico” (p.326).
La
prima e la terza sono altrettanto complesse da implementare, e spesso anche
solo da comprendere.
Si
tratta, chiaramente, di “una grande muraglia di incognite”, nella quale è
chiaro solo che nell’attuale assetto della mondializzazione le multinazionali
occidentali prendono tutti i vantaggi e gli Stati Uniti, in quanto ente
collettivo molto meno.
Nella
Quarta Parte, intitolata ad una “era asiatica” che viene in qualche modo
data per certa, viene messo in evidenza il punto cruciale, molto discusso in
quegli anni, per il quale gli Stati Uniti soffrono di una cruciale dipendenza
dagli acquisti cinesi in dollari (indispensabili per conservare il predominio
monetario) e d’altra parte di merci a buon mercato (per sostenere il loro
declinante stile di vita per la massa di una popolazione che non dispone di un
reddito commisurato alle sue aspettative). Il secondo fattore rende
estremamente problematico reagire efficacemente alla mancanza di competitività
delle merci prodotte in patria in stabilimenti americani (anche se buona parte
delle merci importate è, in effetti, prodotta sempre da aziende americane o su
licenza, ma, appunto in Cina o nei paesi del sud-est asiatico) con dazi o altre
forme di protezione.
In
quello che è un nodo successivamente affrontato da Trump, viene indicato il
circolo vizioso socio-politico che deriva da questo schema depressivo: merci
importate vs meno lavoro solo temporaneamente rinviato dalla finanza[63]. Un circolo che fa, come
reazione, emergere la “rivoluzione conservatrice” (come la chiama Thomas Frank[64]) ovvero di “bianchi,
operai e classe media, che reagiscono alla perdita di prestigio sociale e di
reddito rafforzando la propria identificazione con valori religiosi, forze
armate e partito repubblicano più che con i propri interessi di classe, le
proprie organizzazioni sindacali e il partito democratico” [65] (p.342).
Questo
grumo di sentimenti politici viene inizialmente tradotto in mandato politico da
George Bush (2001-9), che è colui al quale pensa Arrighi, ma poi in qualche
modo trasformato nel “we can” di Barack Obama (2009-17) e finalmente
preso di petto e portato in piena luce, insieme al problema della “Rust belt” (quindi
del midwest e del sud con il loro profondo rancore), dalla sorprendente
campagna di Trump[66]. In essa i temi
dell’egemonia americana, attraverso i fondamentali produttivi, sono posti come
centrali e quindi lo sono quelli del confronto con gli ex inseguitori, con
Giappone, Germania (e, per estensione, Unione Europea) e soprattutto Cina. Ma
anche Messico e Canada (con la revoca dell’accordo-chiave di Clinton, il padre
della globalizzazione neoliberale, e la successiva ridiscussione su basi più
convenienti per il reshoring[67] delle industrie americane).
Del
resto l’incoerenza della politica di Bush, ma per certi versi anche quella di
Obama, era che al contempo cercava l’appoggio della “rust belt” e del
capitalismo monopolistico fortemente finanziarizzato e internazionalizzato che
la generava. Per come la mette Arrighi, “si tratta insomma di una mancanza di
coerenza che esprime la necessità dell’amministrazione Bush di coniugare la
volontà del capitale americano di trarre profitto dall’espansione cinese con i
sentimenti nazionalistici e militaristi della propria base elettorale”.
Dal
punto di vista del progetto di potenza anglosassone, dunque, bisogna cambiare
passo nel confronto con la Cina e passare a focalizzare il contenimento intorno
a lei. Ma della Cina, in ultima analisi, i decisori americani non sanno nulla.
E quindi non riescono a prefigurare le conseguenze della sua ascesa. A partire
dalla leggenda che vede nascere lo Stato Nazionale in Europa, quando molti
stati del sud-est asiatico hanno secoli di precedenza (il Giappone, la Corea,
la Cina stessa, il Vietnam, il Laos, la Thailandia e la Cambogia). Oppure dalla
questione dei traffici marittimi privati: anche questo fattore decisivo non è
prerogativa esclusiva dell’Europa infatti durante la dinastia Song (960-1276)
ci fu una grande fioritura di traffici non inferiore a quella coeva occidentale.
La
Cina, insomma, non viene dopo. Non è una appendice
dell’occidente e da questo interamente determinata.
Ci
sono grandi differenze:
1- La
dinamica del sistema europeo era caratterizzata dalla competizione militare fra
le singole entità nazionali e da una tendenza all’espansione geografica del
sistema di dominio. L’evento di pace più lungo (1815-1914) è stato infatti
senza precedenti e peraltro caratterizzato da una intensa attività di lotte di
espansione competitive. Invece il sistema asiatico si distingueva per la
sostanziale assenza di scontri militari di rilievo (anche nella “pace” europea
ci furono numerose guerre minori per procura o frizionali, da alcune di queste
nacque lo stato italiano). In Asia ci furono, al contrario, trecento anni di
pace ininterrotta tra due eventi bellici, entrambi provocati dal Giappone (il
più militarista tra gli stati orientali), le due invasioni della Corea nel
1592-98 e nel 1894-95, che finirono in entrambi i casi per coinvolgere i cinesi.
2- L’assenza
di ogni tendenza alla costruzione di imperi oltremare e della corsa agli
armamenti.
E’
possibile che tra le due differenze ci siano relazioni di interna necessità
(l’impero oltremare viene sviluppato per la pressione competitiva, anche se nel
caso europeo è mosso dall’imprenditoria privata, tuttavia protetta e coperta
dalla nazione di riferimento), ma restano estremamente rilevanti.
Per
lo più, oltre tutto, le guerre orientali non sono avvenute tra stati nazionali,
ma alla frontiera. In particolare negli ultimi anni dei Ming e nei primi
centocinquanta anni della dinastia Qing. la grande strategia dell’impero cinese
fu sempre di cercare di trasformare una frontiera difficile (quella con le
tribù seminomadi mongole) in una periferia pacificata abilitata a fungere da
cuscinetto. A riprova di ciò bisogna ricordare che non appena questo obiettivo
sembrò ottenuto (intorno al 1760) cessò immediatamente l’espansione territoriale
(p.354).
Ma
c’è anche un’altra fondamentale differenza per Arrighi, e questa potrebbe
fungere da spiegazione, insieme alla minore competizione, per spiegare
l’assenza di una spinta coloniale (ovviamente un’altra è il carattere molto più
“pieno” delle aree limitrofe all’estremo oriente): la dinamica delle risorse.
Mentre in Europa si estraggono, con qualsiasi mezzo, risorse dalle periferie
conquistate, in Cina, al contrario, nelle periferie si investe per conquistarne
l’amicizia e/o la subalternità[68].
Ne
consegue, da questo insieme di fattori, che mentre lo sviluppo europeo è
fortemente estroverso quello estremorientale è più introverso. Inoltre il peso
degli scambi commerciali sulle lunghe distanze resta sempre molto più rilevante
per il sistema europeo, che in termini di sistema-mondo era periferico[69], che nel sistema
orientale, nel quale gli scambi a breve raggio, interstatali o infrastatali,
sono preminenti. È in questa dissimmetria che affonda il basso rendimento
immediato delle famose spedizioni di Zheng He nell’Oceano Indiano nel
quindicesimo secolo.
Questa
dissimetria a svantaggio europeo è fatta saltare dalla scoperta, non
accidentale ma sistemica (ovvero espressione della ricerca di sbocchi e della
competizione tra le corone europee), dell’America e soprattutto dalla costosa
spinta alla sua colonizzazione. Questa ha finito per offrire agli stati europei
sia nuovi mezzi per la penetrazione nei mercati asiatici sia una nuova fonte di
ricchezza e potere.
In
sostanza si può riassumere la cosa in questo modo: “l’estroversione della lotta
per il potere in Europa era una caratteristica fondamentale della specifica
combinazione di capitalismo, militarismo e ambizione territoriale che è stata
la forza propulsiva della globalizzazione del sistema statale europeo” (p.357).
Consegue
da questa lettura la necessità di riconoscere che il mercato interno non è
una invenzione occidentale, per tutto il diciottesimo secolo il più grande
mercato nazionale è in Cina. Si tratta di una istituzione dalla lunga
gestazione che viene consolidata dalle politiche della dinastia Qing, ma che
parte dalla necessità durante la dinastia Song del Sud (1127-1276) di
finanziare le spese militari e le ricostruzioni derivanti dalle guerre con i
mongoli a nord e di ovviare alla perdita di controllo della essenziale “via
della seta” incoraggiando altre attività tassabili come i traffici marittimi
privati. A questo fine finanziarono la ricerca cantieristica e navale e resero
le giunche cinesi le più avanzate del periodo, con innovazioni come la bussola,
la pruna affilata su fondo piatto, etc… gli spostamenti di popolazione al sud
portò la densità nelle regioni risicole più alta che in Europa e il sovrappiù
agricolo consentì una elevata diversificazione di attività. Sotto la dinastia
Yuan (1277-1368) questo processo di consolidò, portando a estese reti
commerciali tra i mari del sud-est e l’oceano indiano[70]. In sostanza per Arrighi
“nell’Asia orientale ai tempi dei Song e degli Yuan erano già presenti quelle
che si sarebbero dimostrate tendenze tipiche del percorso di sviluppo europeo”.
Ma
queste tendenze non sfociarono nella competizione tra stati per la costruzione
di imperi territoriali e commerciali oltremare. Anzi, sotto la dinastia Ming ci
fu una svolta introversa, furono poste sotto controllo le rotte esterne e
favorito il commercio interno, e fu spostata la capitale da Nanchino a Pechino,
spostando di fatto a nord le strutture commerciali e di mercato che si erano
sviluppate nel sud. Furono anche costruite vie d’acqua interne per portare le
risorse agricole del sud al nord che si specializzò nelle produzioni di cotone
grezzo, mentre nello Yangtzi avveniva la lavorazione in tessuti.
I
Ming, insomma, favorirono una più pronunciata divisione del lavoro e relativo
commercio interno e centralizzarono il controllo fiscale, ponendo restrizioni
al commercio marittimo come all’emigrazione nel sud-est asiatico. E’ questo il
contesto nel quale le spedizioni d Zheng He, quando la turbolenza della
frontiera nord diventa impellente vennero interrotte.
Il
dilemma è acuto, come scrive Janet Abu-Lughod: “sul punto di dominare una
considerevole porzione del globo e in possesso di un vantaggio tecnologico non
solo attinente alle produzioni pacifiche, ma anche alla potenza militare e
navale […] perché mai la Cina ha fatto retromarcia e ritirato la flotta,
lasciando così un enorme vuoto di potere che i mercanti mussulmani, privi
com’erano dell’appoggio militare di una flotta di stato, si trovarono
assolutamente impreparati a colmare, ma che i loro ‘colleghi’ europei si
sarebbero dimostrati ansiosi e perfettamente in grado di occupare solo
settant’anni dopo” (cit.p.360).
La
risposta di Arrighi è semplice:
“Gli
stati europei hanno combattuto guerre senza fine allo scopo di stabilire un
controllo esclusivo sulle rotte che univano l’Ovest all’Est, perché il
controllo del commercio con l’Oriente rappresentava una risorsa critica per la
ricerca di ricchezza e potere da loro praticata. Invece per i governanti cinesi
il controllo delle rotte commerciali di lunga distanza era assai meno
importante che non il consolidamento di relazioni pacifiche con gli stati
confinanti e l’integrazione di tutto il loro popoloso dominio in un’unica
economia nazionale a base agricola. Quindi per i Ming era del tutto razionale
non disperdere risorse nel tentativo di controllare rotte commerciali fra Est e
Ovest, per concentrarsi invece nello sviluppo del mercato interno, dando così
l’avvio a quello che Smith definirà come modello esemplare del suo percorso
‘naturale’ verso la ricchezza”.
Qui
viene anche una delle differenze più sorprendenti della diversa mentalità, e
situazione materiale, dell’estremo oriente, rispetto al caso europeo: persino
il commercio tributario (che, appunto, le missioni di Zheng He avrebbero
espanso) aveva un saldo negativo. Da oltre mille anni, dai tempi delle dinastie
Qin, i rapporti tributari fra il centro e gli stati vassalli, al contrario del
modello occidentale (ma, per quel che ne sappiamo anche persiano), non erano
dalla periferia al centro via tributo o tassa. Gli stati vassalli, salvo che
nella dinastia Yuan, portavano doni simbolici, ad attestare la loro fedeltà,
ricevendo in cambio doni di valore maggiore. La relazione era quindi in qualche
modo di clientela/protezione. il “regno di mezzo”, che era più ricco per la sua
estensione e mercato interno, acquistava la fedeltà e controllava i flussi di
merci attraverso la creazione di una fascia di paesi vassalli tenuti in
condizione di reciproca convenienza[71]. Questa unione di
“ricchezza e liberalità” che procura “amici e servi”, come disse Thomas Hobbes,
funzionava se il paese era ricco e se era abbastanza forte da disincentivare
(anche pagandoli) i vicini a provare ad appropriarsene.
La
transizione violenta tra Ming e Qing fu causata dal venire meno di tutte queste
condizioni. Quindi dalla riduzione del “tributo inverso” e dalle crescenti
difficoltà fiscali. Per un poco si trovò un equilibrio basato sull’argento
europeo e l’esazione di tasse ai traffici relativi, ma nel 1644 una
generalizzata rivolta affermò la dinastia successiva. La dinastia rivoluzionaria
partì con il bando al commercio privato e una violenta politica della “terra
bruciata” che trasformò il sud-est della Cina in “una terra di nessuno che
teneva separati i due universi economici”. Dopo venti anni fu rimosso il bando
ma inserite comunque drastiche limitazioni alle navi e la proibizione delle
armi da fuoco. Nel 1717 fu di nuovo proibito andare all’estero e nel 1757
definito un unico porto autorizzato. Ma contemporaneamente fu esteso il mercato
interno con le terre di frontiera nord e ridotte le tasse, insieme a
redistribuzione delle terre e bonifiche. Seguì una politica di riduzione delle
ineguaglianze interne e grandi opere per dare lavoro, oltre che la
ristrutturazione dei granai pubblici (che compravano il grano nei periodi di
abbondanza e lo mettevano a disposizione a prezzo politico in quelli di
carenza). Pace, prosperità, crescita demografica e quel modello che Smith vide
al suo tempo.
Tutto
molto efficace e razionale, ma con un grosso punto debole che i contemporanei non
potevano vedere: gli europei.
La
Cina era infatti entrata in quella che Arrighi chiama “una trappola di
equilibrio di alto livello”, l’insieme degli incentivi presenti nella
situazione non incoraggiava l’innovazione e lo sviluppo tecnico e tendeva ad essere
statica. Non è sempre stato così, anzi tra il 800 e 1300 c’era stata una grande
crescita tecnica che poi rallentò. Alcuni, come Christopher Chase-Dunn e Thomas
Hall[72], ne hanno tratto la
convinzione che il capitalismo era sul punto di materializzarsi nella Cina dei
Song (del sud), ovvero prima dello spostamento a nord ad opera dei Ming. Certo,
dopo di allora ci fu un altro scalino di crescita tra la fine dei Ming e i
Qing, appunto per effetto delle massicce politiche pubbliche e riforme rivolte a
rendere più equilibrata l’economia, ma portò, se pure ad un equilibrio più
“alto”, in realtà ad una maggiore distanza dal capitalismo.
Bisogna
intendere i termini per come qui si usano:
“il
carattere capitalistico di uno sviluppo su basi di mercato non è determinato
dalla presenza di istituzioni e disposizioni capitalistiche, ma dalla relazione
tra potere dello stato e capitale. Si possono aggiungere capitalisti a volontà
a una economia di marcato, ma se lo stato non è subordinato al loro interesse
di classe, quell’economia di mercato mantiene il suo carattere non
capitalistico” (p.368).
Soprattutto
sotto la dinastia “rivoluzionaria” dei Qing, ma anche sotto i precedenti Ming,
anche se i banchieri e uomini di affari della provincia dello Shanxi e oltremare
assomigliavano agli stessi tipi umani europei del sedicesimo secolo, nel
complesso prevaleva l’ostilità dello stato per chi era diventato “anormalmente
ricco” (come si esprime Braudel); cosa che significa che “lì non poteva esserci
capitalismo, fatta eccezione per alcuni gruppi ben definiti che erano sostenuti
dallo stato e, in definitiva, alla mercé dello stato”[73].
Come
sottolinea anche un autore cinese:
“gran parte della ricchezza commerciale
europea è stata divorata da governi sempre a corto di mezzi e ansiosi di
espandere le loro entrate fiscali per far fronte all’aumento senza fine dei
costi della guerra […] Sia i mercanti sia i governanti europei traevano
vantaggio da questa loro complessa relazione, i primi intascando profitti
favolosi e i secondi procurandosi il denaro di cui avevano assoluta necessità.
La Cina del tardo impero non ha sviluppato questo tipo di mutua dipendenza dai
grandi mercanti. In assenza di difficoltà finanziarie di dimensioni
paragonabili a quelle europee, i funzionari governativi cinesi fra il
sedicesimo e il diciottesimo secolo erano meno stimolati a immaginare forme di
finanza creativa e a contrarre grandi debiti coi mercanti, mentre restava loro
sostanzialmente estraneo il concetto di debito pubblico, così come quello di
debito privato”[74].
Ci
furono peraltro grandi organizzazioni affaristiche capaci di controllare grandi
reti di intermediari commerciali ed appaltatori, ma rimasero sempre un gruppo
subordinato, che per lo più proliferava negli spazi interstiziali. L’esempio
più importante è quello della famiglia Zheng che mise in piedi un vero e
proprio impero commerciale di dimensioni simili all’Olanda del tempo,
eliminando anche la concorrenza portoghese, usando navi da guerra competitive e
armi da fuoco. Riuscirono anche a liberarsi degli esattori Ming, ma ne
provocarono la reazione, si rifugiarono infine a Taiwan ma furono sconfitti
militarmente dai Qing nel 1683. Questo provocò il disarmo dei commercianti
cinesi e la “terra bruciata”.
Quando
alla fine giunsero gli europei, e dopo guerre che costarono oltre venti milioni
di morti[75],
tutto il sistema cinese fu incorporato in posizione subordinata nel sistema
europeo, ormai divenuto mondiale. Si ebbe una enorme contrazione della sua
quota della produzione mondiale. all’Asia orientale mancava una cosa
essenziale, la sinergia tra militarismo, industrialismo e capitalismo che
invece è tipica del cammino europeo.
Ma
ciò, ovvero la subordinazione, non fu:
“in misura
determinante il frutto di una maggiore competitività dell’impresa economica
europea rispetto a quella asiatica e, in particolare a quella cinese.
Contrariamente all’affermazione di Marx e Engels che le merci a buon mercato
sarebbero state ‘l’artiglieria pesante’ con cui la borghesia europea avrebbe
abbattuto ‘tutte le muraglie cinesi’, i produttori e i mercanti inglesi
incontrarono molte difficoltà a battere la concorrenza delle loro controparti
cinesi anche dopo che le muraglie dei regolamenti statali che avviluppavano
l0economia nazionale della Cina erano state abbattute dalle cannoniere
britanniche. Sebbene dopo il 1830 alcuni settori e regioni dell’economia cinese
venissero pesantemente danneggiati dalle importazioni di prodotti tessili
inglesi, nei mercati rurali le stoffe di cotone provenienti dall’Inghilterra
non furono mai in grado di competere col più robusto panno cinese. Inoltre, man
mano che le importazioni dall’estero rendevano obsoleta la filatura manuale del
cotone, l’introduzione anche in Cina di filati più a buon mercato prodotti a
macchina conferì all’industria tessile locale una nuova spinta propulsiva che
non solo le consentiva di mantenere le proprie posizioni, ma anche di crescere.
Le aziende occidentali che aprirono stabilimenti in Cina non riuscirono mai a
penetrare commercialmente in modo efficace nelle sconfinate regioni interne, e
dovettero sempre dipendere dalla mediazione dei grossisti cinesi sia per le
forniture di materia prima sia per la vendita dei loro prodotti. Gli imprenditori
e i prodotti occidentali ebbero effettivamente successo solo in alcuni settori
industriali, come le ferrovie e le miniere, ma nel resto dell’attività
economica il mercato cinese non doveva procurare che frustrazioni agli uomini
d’affari stranieri” (p.373).
Sorsero
settori redditizi, il più rilevante divenne l’esportazione di lavoratori, i
coolie, e la gestione delle rimesse. Ciò fece le fortune di Singapore, Hong
Kong, Penang e Macao e di molti capitalisti cinesi all’estero, fino al collasso
della dinastia nel 1911. Ma già dalla guerra del 1841, cosiddetta “dell’oppio”,
la Cina nel suo complesso non era più il centro del sistema orientale.
A
questo punto il Giappone, modernizzandosi a tappe forzate, tentò di prenderne
il posto. La guerra che seguì nel 1894 accelerò ulteriormente il disfacimento
ed il caos politico. Seguirono i signori della guerra, un’altra invasione
giapponese, la guerra civile tra comunisti e nazionalisti.
Subentrò
allora l’egemonia americana.
Origini
e dinamica della ascesa cinese
A
questo punto resta da cercare di spiegare le ragioni dell’ascesa cinese dal
pozzo del declino in cui era caduta. In grande misura questa è in relazione con
l’attrazione di capitali e di know how occidentale, ma non dipende tanto dalla
manodopera abbondante ed a buon mercato, quanto dalla disponibilità di
forza-lavoro di alta qualità in termini di salute, istruzione e margini di
autonomia, insieme alla rapida espansione delle condizioni della domanda e
dell’offerta generata dalla mobilitazione produttiva di queste risorse nel
paese. Ma questa attrazione riesce per la mediazione ancora una volta dei
capitalisti cinesi, per lo più della diaspora, ovvero di Taiwan e Hong Kong. In
pratica è come se si fosse stabilita un’alleanza tra il Partito Comunista al
potere e gli imprenditori d’oltremare, che consentono ai capitali occidentali
di saltare sul carro.
Ma
la Cina non si allinea mai, in nessuna circostanza, al Washington Consensus,
protegge la propria sovranità e cerca sempre di mantenere la stabilità nelle
ristrutturazioni facendole procedere solo di conserva con la creazione di nuovi
posti di lavoro. Accetta gli investimenti diretti solo e nella misura in cui li
reputa funzionali ai propri interessi nazionali. Tiene alte le protezioni,
modernizza il sistema di istruzione.
In
sostanza mette più in competizione tra di loro i capitalisti che i lavoratori
(p.395).
Insomma,
tiene sempre il coltello dalla parte del manico, determinando una
condizione di perenne sovraccumulazione che genera una pressione al ribasso dei
saggi di profitto. Si tratta di una sorta di capitalismo ‘alla Smith’, che
costringe i capitalisti, per mezzo dell’inarrestabile concorrenza, a muoversi
in direzione dell’interesse nazionale.
Anche
se al prezzo di episodi di superfruttamento nell’insieme si tratta, cioè, di
una “accumulazione senza spoliazione”. Svolgono un ruolo in questa direzione le
imprese di municipalità (p.400), le conquiste dell’epoca di Mao, l’incapacità,
per ora, della classe dei capitalisti di prendere il potere.
Poteva
farsi qualcosa di diverso? Arrighi risponde di no. “Il partito
comunista non poteva fare altro che giocare al gioco della politica mondiale
con le regole che c’erano, ossia con quelle capitalistiche, come d’altra parte
sapeva benissimo lo stesso Mao. Dopo che l’incombente sconfitta in Vietnam
aveva costretto gli Stati Uniti a riammetterla nel giro dei normali scambi
commerciali e diplomatici con gli altri paesi dell’estremo oriente e con il
resto del mondo, era perfettamente logico per la Cina comunista cercare di
sfruttare le opportunità aperte da quei rapporti per rilanciare la ricchezza
nazionale e la sua potenza” (p.409).
Alcune
radici del resto sono proprio presenti nella rivoluzione anti-leninista
condotta sin dall’inizio da Mao. Anche se restava il Partito-avanguardia questo
portava avanti una “linea di massa”, non solo maestro ma anche allievo
delle masse. Ciò significava anche promuovere contadini più che operai (la
“classe rivoluzionaria” di Marx), dato che questi per lo più stavano dalla
parte del capitale con il quale erano integrati. Ciò spinse il partito rivoluzionario
verso la Cina profonda, lontano dalla costa. Ma ciò modellò anche il
particolare rapporto con le masse contadine che furono elevate ed assorbite dal
partito comunista e quello con la rivoluzione industriale, che non fu mai presa
in modo acritico (come in sostanza ha fatto il comunismo sovietico).
Alla
fine per Arrighi l’ascesa economica cinese, anche se difettosa e rischiosa, è
il “sintomo premonitore di quella maggiore equità e rispetto reciproco fra i
popoli di stirpe europea e non europea che Smith aveva delineato e auspicato
duecentotrenta anni fa”.
Per
concludere due sono le caratteristiche di un possibile, futuro, “Beijng
consensus” per Arrighi:
1- La
localizzazione, ovvero “il riconoscimento della
necessità di tarare lo sviluppo sulla base delle necessità locali”,
2- Il
multilateralismo, cioè “il riconoscimento dell’importanza
della cooperazione tra stati”.
La
speranza dell’ultimo libro che l’economista e sociologo milanese ci lascia è
questa: che l’insieme di queste due caratteristiche possa aprire lo spazio ad
una nuova Bandung[76] la quale metta fuori
gioco le istituzioni finanziarie del Nord, offrendo condizioni migliori ai vari
sud del mondo, e che ponga infine termine, anche se ci vorrà tempo,
all’egemonia Usa.
Producendo
un possibile Commonwealth futuro.
[2] - La “teoria della dipendenza”
negli anni sessanta domina il campo della critica anticapitalista di matrice
marxista e che si muterà, incorporandosi, prima nella “teoria dei sistemi
mondo” per poi dissolversi progressivamente. Il punto teorico è che le
istituzioni ed i rapporti economici (ma anche quelli sociali e culturali, o
politici) che si osservano nel mondo “centrale” e “sviluppato”, e quelli che si
osservano nelle “periferie” e “sottosviluppate”, sono il prodotto le une delle
altre in una dialettica che si sviluppa attraverso relazioni reciproche di
dipendenza e conflitto nella reciproca connessione. I paesi più forti drenano
‘surplus potenziale’ (Baran, “Il
surplus economico”, 1957) da quelli deboli e in questo modo determinano
il loro sottosviluppo. In questo modo i primi si avvicinano al loro
“potenziale”, mentre i secondi ne restano distanti. Come scriverà Andre Gunder
Frank (in “Capitalismo
e sottosviluppo in America latina”, 1967), l’accumulazione del capitale
che avviene in questa forma è quindi nella sua essenza e di necessità ineguale.
Questa struttura di accumulazione, che drena risorse verso la catena dei centri
e la porta all’esterno dei paesi (per questo) sottosviluppati, “penetra come
una catena il mondo sottosviluppato nella sua totalità, creando una struttura
di sottosviluppo ‘interna’”. È questa la ragione per la quale nessuna posizione
interclassista e nazionalista ha possibilità di avere successo nel superamento
del sottosviluppo. Il sottosviluppo non è una questione esterna, ma è una intera
struttura costitutiva delle soggettività e quindi degli assetti politici.
[3] - Andre
Gunder Frank (1929, 2005)
[4] - Samir
Amin (1931, 2018)
[5] - La “teoria dei sistemi mondo”
è l’evoluzione da una parte della “Teoria della dipendenza”, dalla quale
eredita l’idea che l’interconnessione tra i paesi procede attraverso le loro
relazioni commerciali e gli scambi di capitale, relazioni funzionali, più
marginalmente individui, ma lascia cadere la tattica della “disconnessione” e
quindi della ricerca di indipendenza e sostituzione delle importazioni (anche
di capitale), ovvero le varianti della linea Listiana. Trae ispirazione
principale al lavoro di Ferdinand Braudel andando in effetti a sostituire la
lettura di derivazione marxista connessa con la linea genealogica del pensiero
antimperialista otto-novecentesco (in particolare Lenin). Questa, secondo la
critica sviluppata rileggeva la relazione padrone/servo in un’ottica ancora
connessa con il nazionalismo metodologico, per la quale si individuava una
catena di principali/agenti funzionalmente connessi principalmente dalle
relazioni commerciali, ovvero dagli scambi. Viene opposto un approccio che negli
anni novanta si manifesta nel contesto del successo del globalismo e del
paradigma della “storia globale” (Sebastian Conrad, “Storia globale”). Lo spostamento di scala,
in qualche modo debitore sia del clima post-modernista sia dell’infatuazione
per le ‘scienze della complessità’, parte da una critica appropriata
dell’eurocentrismo ma è attraversato dal rischio di tradursi in una nuova
versione di filosofia della storia sul modello moderno-lineare invalso in
occidente sulla scorta della rivoluzione scientifica e la sistemazione newtoniana.
L’eurocentrismo cacciato dalla porta potrebbe, insomma, rientrare dalla
finestra. In questa direzione interviene la forte critica di Gunder Frank, a
partire da “Re-Orient” anche se in buona misura risulta corretta dal
libro in oggetto. Per la critica di Frank si veda “Per
una storia orizzontale della globalizzazione”, parte seconda.
[6] - Immanuel Wallerstein (1930,
2019)
[7] - Giovanni Arrighi “Il
lungo XX secolo”
[8] - Giovanni Arrighi, Beverly
Silver, “Caos
e governo del mondo”
[9] - Nel 1969 pubblica “Sviluppo
economico e sovrastrutture in Africa”.
[10] - Nel 1978, “La geometria
dell’imperialismo: i limiti del paradigma hobsoniano”, e nel 1982, “Dinamiche
della crisi mondiale”;
[11] - Arrighi,
“Semiperipheal development: the politics of southern Europe in the twentieth
century”, 1985, “Il capitalismo in un contesto ostile”.
[12] - Arrighi, “Antisystemic
movement”, 1989
[13] - Adam Smith, “La ricchezza
delle nazioni”, è stato completato nel 1776.
[14] - Adam Smith nasce a Kirkcaldy il
5 giugno 1723 e muore ad Edimburgo il 17 luglio 1790, studia filosofia sociale
e morale all’università di Glasgow e poi a Oxford, dal 1751 è professore di
logica e dall’anno successivo di filosofia morale a Glasgow. La sua prima opera
importante è “Teoria dei sentimenti morali” (1759), seguita da “Lectures
on justice, police, revenue and arms” (1763). Quindi la sistemazione del
pensiero economico giunto fino a lui (fisiocratici e mercantilisti) e la
proposta di una prospettiva di sintesi in “Indagine sulla natura e le cause
della ricchezza delle nazioni”, nel 1776.
[15] - Domenico Losurdo, “Il
marxismo occidentale”. Nel testo Losurdo indica una frattura
fondamentale (naturalmente con qualche eccezione) tra due tradizioni del
marxismo mondiale: quella occidentale e quella orientale. Poiché il marxismo in
pratica ha sempre trionfato in paesi non imperialisti, non dominanti e centrali,
e deboli oltre che periferici, si è sempre imposto il tema dell’indipendenza e
della difesa dalle brame coloniali, ovvero la sopravvivenza. In occidente,
invece, il capitalismo si è sviluppato sempre come pensiero critico e quindi il
tema centrale è diventato l’antiautoritarismo in chiave di antinazionalismo e
di attesa messianica e millenaristica di una finale dissoluzione dello stato.
Mentre in occidente prevale lo spirito
utopico, ad esempio espresso dall’auspicio blochiano della fine dell’economia
del denaro, in oriente, si pone quello dello sviluppo economico e delle forze
produttive, come indispensabile leva per poter difendere le conquiste sociali
dall’aggressione concreta delle forze organizzate del capitale occidentale. Chi
sostiene questa posizione, nel punto di passaggio è già Lenin, mentre Bloch
esprime quest’auspicio della fine dell’economia mercantile nel 1918, o Walter
Benjamin nel 1920. Il leader della rivoluzione russa sposta progressivamente il
tiro, e sulla spinta della necessità ridefinisce la priorità dalla posizione
della distruzione dello Stato (ai fini della sua ricostruzione) di “Stato e
rivoluzione”, del 1917, con la NEP del 1921, in cui lo sviluppo economico
di un paese ancora arretrato è diventato il tema cruciale. Nel 1923,
nella famosissima “Lettera al Congresso”, un Lenin ormai morente
scrive, infatti: “sarei pronto a dire che per noi il centro di gravità si
sposta sul lavoro culturale, se non fossimo impediti dai rapporti
internazionali, dall’obbligo di lottare per la nostra posizione su scala
internazionale … davanti a noi si pongono due compiti fondamentali,
che costituiscono un’epoca. Si tratta del compito di trasformare il nostro
apparato statale, che proprio non vale nulla e che abbiamo ereditato al
completo dall’epoca precedente”. E prosegue: “il nostro secondo compito
consiste nel lavoro culturale fra i contadini. E questo lavoro ha come scopo
economico appunto la cooperazione” (in questo riecheggiano i temi dell’ultimo Marx stesso). Ma, e questo è cruciale:
“questa rivoluzione culturale comporta delle difficoltà incredibili, sia di
carattere puramente culturale (poiché siamo analfabeti) che di carattere
materiale (poiché per diventare colti è necessario un certo sviluppo
dei mezzi materiali di produzione, è necessaria una certa base materiale”. Questa
della “certa base materiale” è l’ultima parola della Lettera. L’ultimo lascito.
[16] - David Harvey, “Geografia
del dominio”, Ombre Corte, 2018, p.67 [trad. parziale di “Space of
capital: towards a Critical Geography”, 2001].
[17] - Andre Gunder Frank chiama
“sviluppo del sottosviluppo” la relazione perversa tra centri e periferie per
la quale lo sviluppo dei primi dipende e incentiva il sottosviluppo dei
secondi. Questa tesi si sfumerà notevolmente nella teoria dei “sistemi-mondo” e
sarà contrastata da altri autori marxisti “occidentali”, come Robert Brenner.
[18] - Arrighi lo descrive in questo
modo, una metafora varata per descrivere spiegare quella vistosa divergenza
[tra i paesi sviluppati e quelli in ritardo]. La divergenza sosteneva, altro
non era che l’espressione di un processo di espansione capitalistica globale
capace di generare allo stesso tempo sviluppo (ricchezza) al centro (Europa
occidentale e poi America del Nord e Giappone) e sottosviluppo (povertà) nel
resto del pianeta”. p.34
[19] - Robert
Brenner, “The origin of capitalist
development: a critique of neosmithian Marxism”,
“New Left Review”, I/104, luglio 1977. Si
veda anche “Reply
to Sweezy”, NLR, I/108, marzo 1978, e Paul Sweezy, “Commento
su Bremmer”, NRL i/108, marzo 1978. Ben Fine, “On the origin of capitalist
development”, I/109, Maggio 1978, Alex Callinicos, “England’s transition to capitalism”,
I/207, 1994.
[20]- Nel 1999 con “Re-Orient” Gunder Frank
improvvisamente rompe con le premesse eurocentriche della “scuola dei
sistemi-mondo” e tutti i suoi amici della “banda dei quattro” (Frank, Amin,
Arrighi, Wallerstein). Arriva a sostenere che un “sistema mondo” è
sempre esistito, almeno da seimila anni. Da allora cicli di sviluppo e crisi,
trasportati dalle linee di commercio a lungo tragitto si sono susseguiti a
livello planetario (con i necessari slittamenti). Ma anche l’accumulazione di
capitale come principio di organizzazione delle leadership egemoniche e la
dialettica centro/periferie sarebbe una caratteristica permanente. La civiltà
occidentale non ha quindi alcuna specificità, non ci sono punti dai quali
sarebbe partita, non ci sono demarcazioni, non c’è un eccezionalismo. Rispetto
alle differenze conta più la continuità.
[21] - Che ad un certo punto arresta il
circolo tra dimensione del mercato, divisione del lavoro e miglioramento
economico, a causa dell’urto con limiti geografici, o istituzionali,
insuperabili.
[22] - Titolo del libro di Kenneth
Pomeranz, “La grande divergenza”, del 2000.
[23] - Bin
Wong, “The role of the chinese state in long-distance commerce”, 1997
[24] - Andre Frank, “Re orient”,
1998. In questo libro avviene la svolta contro l’eurocentrismo delle teorie
dominanti e l’abbandono dello schema della sostituzione delle importazioni.
[25] - Mentre in Cina abbondano i
lavoratori e scarseggia in senso relativo il capitale, in Europa è l’opposto.
[26] -
Pomeranz, cit.
[27] - Cfr. Tzvetan Todorov, “La
conquista dell’America”, 1984. In particolare il tema del diverso sguardo
che gli occidentali esercitano sul mondo e sull’uomo.
[28]- Karou Sugihara,
“The european miracle and the east asian miracle towards a new global economic
history, ‘Sangyo to keizal’”, 2003
[29] - Questo è un punto che diventa
recentemente controverso, per citare un recente studio su Marx di Marcello
Musto: “Con continuità, dunque, dalle prime formulazioni della concezione
materialistica della storia, risalente agli anni ‘40, fino agli ultimi
interventi degli anni Ottanta, Marx mise in evidenza la relazione esistente tra
il ruolo fondamentale dell’incremento produttivo generato dal modo di
produzione capitalistico, e le precondizioni necessarie alla nascita della
società comunista per la quale il movimento operaio avrebbe dovuto lottare. Le
ricerche condotte negli ultimi anni della sua esistenza gli permisero, però, di
rivedere questa convinzione e di evitare di cadere nell’economicismo che
contraddistinse invece le analisi di tanti suoi seguaci” (Marcello Musto, “Karl
Marx”, 2018, p.219). La transizione attraverso la via del capitalismo
(separazione dai mezzi di produzione, proletarizzazione, industrialismo e
divisione del lavoro tra salariati e capitalisti) con la conseguenza politica
della centralità della classe generata dal capitalismo, quella operaia,
connessa intimamente con il centro della produzione (con il suo “laboratorio”)
nella trasformazione in società socialista, è messa in crisi, se pur per
abbozzi, dal confronto con il caso Russo. Per l’ultimo Marx, come per Engels,
la Russia è la probabile frontiera della trasformazione, il luogo dei più acuti
conflitti e contraddizioni, un coacervo del più retrivo feudalesimo con le
forme più spregiudicate di finanza e la nascente borghesia, ma anche ancora una
nazione vastissima e contadina. Osservandola (Marx impara addirittura verso i
sessanta anni il russo, per studiare il dibattito in corso tra “populisti” e
“marxisti”) prende in considerazione l’ipotesi che la transizione attraverso la
proletarizzazione non sia “sempre necessaria”, e che sia meramente un fenomeno
storico, non un modello astorico. Si veda anche Marcello Musto “L’ultimo
Marx”, ed il post “Karl
Marx, la comune rurale e la questione russa”.
[30] - Karl Polanyi, “La
grande trasformazione”, 1944.
[31] - La caduta del
saggio di profitto è una delle “leggi” più centrali e controverse della economia
classica. In Marx bisogna partire dal fatto che l’accumulazione dipende (come
il profitto) dalla progressiva meccanizzazione del processo produttivo, però,
ciò implica che la produttività del lavoro cresce continuamente nel
capitalismo. Con essa cresce quella che Marx chiama la “composizione organica
del capitale”. In temini di formule: P = s’ (1 - q)
Con
un saggio del plusvalore costante si determina la conseguenza che il saggio di
profitto finisce per variare in ragione inversa della composizione organica del
capitale, e quindi “se q aumenta, allora p deve diminuire”. Questa è la tendenza alla caduta del saggio
di profitto.
[32] - Si veda, ad esempio, la
prefazione di Engels, del 1888, a “Dazio
protettivo e libero scambio”, di Marx (conferenza del 1848).
[33] - Scrive nel Manifesto del
Partito Comunista: “i tenui prezzi delle sue merci sono l’artiglieria
pesante con cui essa [la borghesia] abbatte tutte le muraglie cinesi”. In
effetti però ci volle proprio l’artiglieria non metaforica.
[34] - Friedrich Engels, “La
situazione della classe operaia in Inghilterra”, 1844
[35] - Hosea Jaffe (1921, 2014) è stato
uno storico e scrittore sudafricano noto per tesi molto aspre contro
l’eurocentrismo degli studi economici e storici. Abbiamo letto, ad esempio, “Era
necessario il capitalismo?” del 2008, in esso si scaglia contro Engels
ed in parte Marx mettendo in evidenza le tesi eurocentriche e l’interpretazione
del capitalismo come fase necessaria di passaggio verso il socialismo. La sua
tesi è che il capitalismo è regressivo ed ha prodotto danni ingenti ovunque è
stato applicato in quanto si è sempre sviluppato insieme al colonialismo, che è
ad esso strutturalmente necessario. La questione è, in altre parole, se la
dissoluzione dei modi di produzione ‘comunitari’, più o meno dispotici, e
‘tributari’ (possono anche esserci entrambi contemporaneamente) sia stato un progresso.
[36] -
Ferdinand Braudel, “Afterhoughts on material civilization and capitalism”,
1977, p. 64
[37] - Domenico Losurdo, “Il
marxismo occidentale”, 2017.
[38] - Per avere un’idea di questo
punto, che naturalmente merita ben più elevato approfondimento, può essere
utile rileggere alcuni articoli dei Monthly Review, raccolti nel 1968 nel libro
di Leo Huberman e Paul Sweezy “La
controrivoluzione globale” che per lo più si confronta con il movimento
di liberazione delle minoranze nere.
[39] - Il punto teorico è analizzato in particolare nella
principale opera della scuola americana, l’ultima di Paul Baran, “Il
capitale monopolistico”, scritto nel 1967 con Paul Sweezy. In esso
viene formulato una sorta di “teorema di impossibilità” nella fase
monopolistica del capitalismo. La rivoluzione sistemica nelle società del
centro capitalistico (monopolista) maturo non avviene dove si aspetta; questo
ha, infatti, una immensa capacità di coinvolgimento ed egemonica, ma anche, e
nella stessa logica produce una capacità di mobilitazione alle
periferie, che di necessità ne devono pagare il prezzo. Lo schema della
rivoluzione al culmine dello sviluppo delle forze produttive ne viene
rovesciato: le condizioni dell’instabilità sistemica del capitalismo non si
danno al centro, ma nelle sue periferie interconnesse e vitali per la sua
sopravvivenza, nel senso specifico che senza l’estrazione di ‘surplus
potenziale’ da queste esso resta condannato alla tendenza alla stagnazione e
quindi non è in grado di riprodurre il consenso al suo interno. Questa forma di
capitalismo, diretta e controllata dalle grandi imprese per azioni monopoliste
e multinazionali, è quindi strutturalmente imperiale e
organizzato di necessità per grandi catene di sfruttamento internazionali.
Catene che determinano l’estrazione di valore e la contrapposizione tra la
massima opulenza e la massima disperazione, entro e fuori le cittadelle
assediate delle metropoli occidentali.
[40] - Ad esempio si legga questo
famoso passo: “la produzione basata sul capitale crea da una parte l’industria
universale, […] dall’altra crea un sistema di sfruttamento generale delle
qualità naturali ed umane, un sistema della utilità generale, il cui supporto è
tanto la scienza quanto tutte le qualità fisiche e spirituali, mentre nulla di
più elevato-in-sé, di giustificato di per se stesso, si presenta al fi fuori di
questo circolo della produzione sociale e dello scambio. … soltanto col
capitale la natura diventa un puro oggetto per l’uomo, una pura cosa di
utilità, e cessa di essere riconosciuta come forza per se; e la conoscenza
teoretica delle sue leggi autonome si presenta soltanto come astuzia per
subordinarla ai bisogni umani, sia come oggetto di consumo, sia come mezzo di
produzione. In virtù di questa sua tendenza il capitale spinge a superare sia
le barriere e i pregiudizi nazionali sia l’idolatria della natura e la
soddisfazione tradizionale, orgogliosamente ristretta entro determinati limiti,
dei bisogni esistenti, e la riproduzione del vecchio modo di vivere. Nei
riguardi di tutto questo il capitale opera distruttivamente, opera una
rivoluzione permanente, abbatte tutti gli ostacoli che frenano lo sviluppo
delle forze produttive, la dilatazione dei bisogni, la varietà della produzione
e lo sfruttamento e lo scambio delle forze della natura e dello spirito” (K.
Marx, “Grundisse”, p.11)
[41] - Ad esempio può essere ricordata
la discussione tra Lenin e Kautsky sulla “dittatura del proletariato”, come
necessità (la repressione della borghesia da parte degli operai in armi e le
loro organizzazioni), dato lo sviluppo insufficiente delle forze produttive,
e/o la necessità di passare per una fase ‘borghese’. Questa discussione, tra un
modello rigido di progresso storico del socialismo (difeso da Kautsky) e un modello
che, a ben vedere, sposta il focus sulla indipendenza e la lotta
antimperialista (di Lenin), animerà successivamente tutto il movimento socialista.
Ad esempio il dibattito Stalin-Trotsky e la questione della decolonizzazione
nel dopoguerra. Quindi c’è la questione della estinzione dello Stato. In “Stato
e rivoluzione”, Lenin più o meno dice che il comunismo pienamente
dispiegato, discutendo della “Critica al programma di Gotha”, comporterà
la dissoluzione dello Stato ed il controllo spontaneo delle deviazioni tramite
il controllo sociale dei lavoratori (“in armi”). Ma, nella fase intermedia,
“che sarà molto lunga”, lo Stato è necessario, insieme alla dittatura del
proletariato, per impedire che i pochi opprimano i molti. Lo Stato, come
macchina di repressione dovrà quindi funzionare, ma per i molti contro i
pochi. A questo testo, ed alla prassi conseguente nel “comunismo di guerra”
Kautsky, in “La dittatura del proletariato”, 1918, risponde intanto che il
partito bolscevico in effetti governa “contro altri partiti socialisti”, quindi
individua la divergenza nello scontro tra “il metodo democratico ed il metodo
dittatoriale”. La questione che pone il leader della socialdemocrazia tedesca
(poi avremo tragiche conseguenze nel momento in cui a gennaio 1919 scoppierà,
in risposta alle richieste pressanti sovietiche, la “rivolta spartachista”,
nella quale la parte di socialdemocrazia al governo risponderà con una feroce
repressione che costerà la vita a Rosa Luxemburg) è che “il nostro scopo
finale, compreso con esattezza, non è il socialismo, ma consiste nella
abolizione di ogni forma di sfruttamento e oppressione sia essa diretta contro
una classe, un partito, una nazione, una razza (programma di Erfurt)” (adottato
nel 1891), p.25. Anche la “forma socialista di produzione”, è quindi indicata
come mezzo e non fine, come dice “se ci si dimostrasse che in ciò sbagliamo,
che la liberazione del proletariato e dell’umanità in genere si può raggiungere
unicamente o nel modo più opportuno sulla base della proprietà privata dei
mezzi di produzione come ancora riteneva Proudhon, dovremmo rifiutare il
socialismo, senza minimamente rinunciare alla nostra meta finale, ma appunto
nell’interesse di questa”. In conseguenza non si può pensare al socialismo
senza la democrazia. “Per socialismo moderno noi intendiamo non soltanto
un’organizzazione sociale della produzione, ma anche un’organizzazione
democratica della società”. Non proseguo nell’analisi di un testo davvero
importante e che meriterebbe una lettura organica. A questo, come noto Lenin
risponde con il violentissimo “La rivoluzione proletaria ed il rinnegato
Kautsky”, nel quale riconduce il discorso del primo al liberalismo, per lui
“il ‘contrasto fondamentale’ tra ‘il metodo democratico e il metodo
dittatoriale’ è il nocciolo della questione. E’ l’essenza dell’opuscolo di
Kaustky. Ed è una confusione teorica così mostruosa, un’abiura del marxismo
così completa, che deve convenirsi aver Kautsky di molto sorpassato Bernstein”.
In sostanza accusa il tedesco di essere antistorico, e di guardare
scolasticamente a tempi ormai passati (il XIX secolo). E di “guardare la cosa
dal punto di vista di un liberale, cioè come questione di democrazia in
generale e non di democrazia borghese”. La questione è che “un marxista non
dimentica mai di porre la domanda: [democrazia] per quale classe?” (p.35) e
quindi questi “ha dimenticato la lotta di classe”. Ora, la semplice verità è
che, in Marx, per Lenin, “la dittatura è un potere che si appoggia direttamente
sulla violenza, non vincolato da alcuna legge. La dittatura rivoluzionaria del
proletariato è un potere conquistato e sostenuto dalla violenza del
proletariato contro la borghesia, un potere non vincolato da alcuna legge”. Ma
qui, per capire queste dure parole, siamo nel novembre 1918. Il nocciolo della
questione (p.40) è dunque “la violenza”.
[42] - Una nozione altamente complessa
e dai molti significati, che tuttavia ai fini del nostro discorso tende a
cadere sotto la critica che le rivolse Walter Benjamin nelle “Tesi sulla
storia”, (13° tesi): ““la teoria
socialdemocratica, e più ancora la prassi, era determinata da un concetto di
progresso che non si atteneva alla realtà, ma presentava un’istanza dogmatica.
Il progresso, come si delineava nel pensiero dei socialdemocratici, era,
innanzitutto un progresso dell’umanità stessa (e non solo
delle sue capacità e conoscenze). Era, in secondo luogo, un progresso
interminabile (corrispondente ad una perfettibilità infinita
dell’umanità). Ed era, in terzo luogo, essenzialmente incessante (tale
da percorrere spontaneamente una linea retta o spirale). Ciascuno di questi
predicati è controverso, e da ciascuno potrebbe prendere le mosse la critica.
Ma essa, se si vuol fare sul serio, deve risalire oltre questi predicati e
rivolgersi a qualcosa di comune a essi tutti. La concezione di un progresso del
genere umano nella storia è inseparabile da quella del processo della storia
stessa come percorrente un tempo omogeneo e vuoto. La critica dell’idea di
questo processo deve costituire la base della critica dell’idea del progresso
come tale”
Il
tempo della storia, invece, non è il tempo astratto e vuoto della valorizzazione,
ovvero il tempo in ultima analisi del capitale che, trascinando davanti a sé lo
sviluppo tecnologico in direzione della massima autovalorizzazione e
continuamente dissolvendo gli ostacoli, si produce attraverso di esso; ma è il
tempo, dice nella 14° tesi, “quello pieno di ‘attualità’”. Ovvero
è il tempo di ciò che si fa attuale (ad esempio la Roma antica
durante la rivoluzione francese per Robespierre). Si arriva a dire che (15°
tesi) “la coscienza di far saltare il continuum della storia è propria delle
classi rivoluzionarie nell’attimo della loro azione”, infatti dalla “selva
del passato”, nell’area in cui comanda la ‘classe dominante’ (diremmo in cui si
esercita la sua egemonia che la fa dominante), il balzo di tigre che attualizza
un ‘passato’, rendendolo nuovamente presente, fa sì che si possa restare
“signore delle proprie forze” (In “Angelus novus”, p.83 e seg.). Emerge
la concezione di una sorta di tempo granulare e discontinuo, in cui l’atto che
costituisce potere (e quindi valore) diventa la scelta di cosa considerare
contemporaneo, cosa attuale. Un tempo, quindi, politico.
[43] - Si tratta di una questione davvero difficile, la
tesi riportata deriva in sostanza dalla proposta di Braudel. Naturalmente non
si intende il “mercato” come la circolazione delle “merci” nel senso descritto
da Marx perché questa presuppone i rapporti di produzione del capitalismo.
Andiamo a Braudel, in particolare “La dinamica del capitalismo”, 1977,
che riassume i concetti di “Civiltà materiale”, 1979: il “capitalismo”
(ma sta parlando di quello preindustriale) vi viene individuato come sistema
economico avverso al “mercato”. Il “capitalismo” si può costruire solo con il
supporto dello Stato, il fenomeno è interpretato
come effetto di una sorta di gioco di strategia in cui diversi poteri sfruttano
le condizioni e le istituzioni del tempo per consolidare un predominio avverso
alla grande maggioranza, inclusi i nuclei e frammenti di mercato e gli
imprenditori in essi operanti. Questa lettura inquadra, insomma, il fenomeno
cui si dà nome “capitalismo” distinguendolo, ed in qualche modo opponendolo,
sia alla divisione del lavoro (lettura di Adam Smith) sia ad ethos culturali e
religiosi (Max Weber). In questo libro, la cui lettura dovremo rimandare, le
“socioeconomie” sono insomma influenzate sia da “chi possiede i mezzi di
produzione, la terra, le navi, le materie prime, i prodotti finiti e le
posizioni dominanti” (come sottolineava Marx che qui è citato), sia dallo
Stato, che è “causa e conseguenza insieme” e turba, piegando anche
involontariamente, i rapporti. diversa lettura del “capitalismo”, che
vede addensarsi a partire dal 1200 e che non è letto, secondo la tradizione che
risale a Smith, e non viene seriamente contestata neppure da Marx, come un
fenomeno connesso con la concorrenza, la divisione del lavoro e la
razionalizzazione, che è pervertito tardivamente da colonialismo e imperialismo
(in Marx e nei suoi successori), deformato dai monopoli. Come abbiamo visto il
“capitalismo” scaturisce dal commercio internazionale, di lunga percorrenza, e
dalle lunghe catene di scambi in cui il medium “denaro” può esplicare la
propria logica ed è quindi, dall’inizio, internazionale, volto a creare e
sfruttare privilegi facendo leva sulla mobilità, scaturente dal monopolio.
Parassitario di rapporti sociali locali e poteri politici nazionali (dei
nascenti Stati o delle autorità semifeudali esistenti). Esso crea e rende
possibili le “economie-mondo” (la cui lettura è una delle marche di Braudel e
della sua scuola i cui continuatori sono Wallerstein e Arrighi), imponendo strutture piramidali e canalizzando in
luoghi densi e privilegiati (le “città globali” di cui parla Saskia Sassen) i loro affari d’ordine e
sfruttando quelle diventate marginali (qui si può andare a “Espulsioni, brutalità e complessità nell’economia globale”). Il capitale si forma e si sposta, si organizza
intorno a centri in cui operano infrastrutture di servizio e reti di
competenza, prima emergono in questa veste centri come Firenze, Milano, Venezia
e Genova, poi nello scorrere dei decenni Anversa, Amsterdam e quindi Londra,
infine New York fuori del perimetro temporale della ricerca.
Per
Braudel, diamogli la parola: “la caratteristica fondamentale dell’economia
preindustriale è la coesistenza delle rigidità, inerzie e lentezze di
un’economia ancora elementare coi movimenti limitati e minoritari, benché vivi
ed incisivi, caratteristici della crescita moderna. Da un lato, contadini che
vivono nei loro villaggi e sviluppano forme autonome, quasi autarchiche di
economia, dall’altra un’economia di mercato ed un capitalismo in espansione
che, estendendosi a macchia d’olio, tracciano, a poco a poco, la
configurazione del mondo in cui viviamo. Due universi, dunque, due generi di
vita apparentemente estranei ma le cui masse rispettivamente rimandano tuttavia
l’una all’altra” (p.26).
“L’economia
di mercato” nella tradizione storiografica che, appunto, risale alla
sistemazione prodotta nell’ultimo quarto del settecento da Adam Smith, è la
presenza che assorbe il nostro campo visivo, ma per Braudel essa “non è che un
frammento di un più vasto insieme, a causa della sua stessa natura che la
riduce a giocare il ruolo di semplice area di collegamento tra produzione e
consumo: fino al XIX secolo, l’economia di mercato costituisce soltanto un
livello più o meno consolidato e resistente, talora una sottile intercapedine,
tra l’oceano della vita quotidiana che si estende sotto di essa ed i movimenti
del gioco capitalistico che, più d’una volta, la manovrano dall’alto” (p.49).
Tuttavia
questa presenza ubiqua, che connette e collega aree diverse, e nella quale
rifornimenti, prezzi, flussi, produzioni, sono messi in contatto, a volte
manipolati, influenzati, fatti oggetto delle prime “politiche economiche”,
protetti o sfidati, osservati e razionalizzati, appare ai contemporanei come il
vero elemento decisivo. L’equilibratore, fondato sul meccanismo che appare agli
occhi della “concorrenza”, che riesce di superare i dislivelli. Le carenze
dell’offerta, quelle della produzione, della domanda. “Il mercato diventa così
un dio nascosto e benevolo, la <mano invisibile> di Adam Smith, il
mercato autoregolato del XIX secolo, chiave di volta dell’economia per tutto il
periodo in cui ci si è attenuti al principio del laisser faire, laisser
passer”. Che ne pensa Braudel? Lo dice subito, “in tutto questo c’è, senza
dubbio, una parte di verità, una parte di malafede, ma anche di
illusione”. Intanto il mercato è manipolato, alterato, dal potere politico, dai
monopoli, poi questo è incompleto ed imperfetto come legame tra produzione e
consumo. Braudel tiene “a sottolineare la parola incompleto”, e
continua: “mentre credo nelle virtù e nell’importanza dell’economia di mercato,
ciò che non mi convince è la sua funzione di fattore assoluto, esclusivo”.
Questo è semplicemente “un mito”.
Oltre a questa cosa c’è? Intanto, ovviamente, le
strutture del quotidiano, della vita materiale, ma anche “il capitalismo”.
Braudel lo dice chiaramente, il termine è scelto per avere una diversa
etichetta che si distingua dall’economia di mercato. Si tratta di “forme di
attività molto differenti”. È chiaro che si tratta di un termine ambiguo e
pericoloso; lanciato (anzi, come dice prudentemente, oggetto “del suo primo
vero <lancio>” nell’opera maggiore di
Sombart nel 1902) è “praticamente ignorato da Marx” e viene connesso
normalmente alla rivoluzione industriale. Ma questa è contaminata dal passato,
si stava delineando da tempo, da molto prima del XVIII secolo. Questo, il
“capitalismo” è dunque “in linea di massima … il modo in cui è gestito, con
finalità generalmente poco altruistiche il gioco della costante immissione” del
capitale nel processo di produzione. Dove “capitale” non è solo il denaro, ma
anche i beni o le infrastrutture (le case) o la natura (ad esempio le foreste)
nel momento in cui sono sfruttati e partecipano al processo di produzione.
[44] - Ovvero i tre libri sulla
ricostruzione del ciclo del capitalismo che abbiamo citato.
[45] - Nella controversia tra Bernstein
e Kautsky, alla quale partecipò anche una giovane ma già determinata Rosa
Luxemburg si attiva la divaricazione tra posizioni riformiste-compatibiliste e
posizioni rivoluzione-crolliste. Per come la mette Luxemburg, “o la
trasformazione socialista continua ad essere una conseguenza delle contraddizioni
obiettive del sistema capitalistico, allora insieme a questo sistema si
sviluppano anche le sue contraddizioni, e un crollo, in questa o in quella
forma, a un certo momento, ne è il risultato; ma allora anche i ‘mezzi di
adattamento’ [Bernstein] sono inefficaci e la teoria del crollo è giusta.
Oppure i ‘mezzi di adattamento’ sono in realtà tali da impedire un crollo del
sistema capitalistico, rendono quindi il capitalismo in grado di esistere,
sopprimono le sue contraddizioni; ma allora il socialismo cessa di essere una
necessità storica, e sarà tutto quel che si vuole tranne che un risultato dello
sviluppo materiale della società. Questo dilemma conduce ad un altro dilemma: o
Bernstein ha ragione per quanto riguarda il corso dello sviluppo capitalistico,
e allora la trasformazione socialista della società si muta in un’utopia,
oppure il socialismo non è un’utopia e allora la teoria dei ‘mezzi di
adattamento’ non deve essere valida. That is the question, questo è il
problema”, Rosa Luxemburg, “Newe Zeit”, 1896.
[46] - Robert
Brenner, “The economics of global turbulence”,
New Left Review, I/229 maggio 1998
[47] - Fu allora, sul finire del
giorno, che Nixon disse “adesso siamo diventati tutti keynesiani”.
[48] - Si veda, “Francoise
Mitterrand e le svolte degli anni ottanta”.
[49]- Robert
Brenner, “The economics of global turbolence. The advanced capitalist economics
from long book to long downturn”, 2002
[50] - Si veda Massimo d’Angelillo, “La
Germania e la crisi europea”, la politica di Brandt, l’unica fase
keynesiana della storia tedesca (nella quale politiche di crescita vengono
portate avanti ‘dal lato della domanda’) si interrompe quando nel 1974
l’economia che era fino all’anno prima in piena occupazione (tasso di
disoccupazione 0,6%) rallenta bruscamente, cresce solo dello 0,6% (anno prima
+4,3%), e, inoltre, una opaca operazione di spie lo coinvolge in uno scandalo
che porta il cancelliere alle dimissioni a maggio 1974, gli succede Helmut
Schmidt che abbandona il keynesismo per puntare sul “modell Deutschland”,
che cerca di fare della Germania il perno dei flussi finanziari internazionali,
fondata su un marco “forte” e la compressione della domanda interna per
favorire le esportazioni.
[51] - Tra “base” (termine che viene usato per
“struttura” da Marx, nell’”Ideologia tedesca”, infatti userà struktur e basis) e la “soprastruttura”
(uberbau, tutte metafore
architettoniche come si vede, si tratta di ciò che è edificato sopra e del
fondamento), in una condizione nella quale evidentemente ci vogliono entrambe,
c’è una relazione molto più stretta di quella, pur complessa, della vulgata
marxista. Il concetto di egemonia è per espressa ammissione, ripreso da Gramsci
(che lo rileva da Lenin, ma lo estende molto) che lo impernia in una critica
della vulgata marxista del rapporto tra “struttura” e “soprastruttura” nella
loro reciproca influenza. I due concetti sono una unità, in senso dialettico.
Ma avviene in qualche modo in Gramsci, nell’intreccio di concetti che si
rimandano, un passaggio che è colto molto più da Arrighi che da Negri: la
struttura, la base, è in un rapporto con la soprastruttura che ad essa si
innerva e intreccia, quasi confondendosi, in un modo che ricorda quello tra
storia ed evento. Cioè quel rapporto, nella lettura storica che Gramsci compie
in tutta la sua opera, tra passato e presente. Affondare le radici nella
storia, che è la stessa mossa nell’interpretazione del presente che compie la
tradizione degli Annales (forse non a
caso avviata nel ’29 e a conoscenza del nostro), significa per Gramsci
liberarsi di ogni trascendenza residuale, di ogni teologia. Il concetto compare
nei primi mesi del 1930, nei Quaderni del Carcere, e precisamente
nell’ambito del discorso sul risorgimento (che abbiamo letto per ora qui)
e resta praticato fino alla fine, ogni volta con una qualificazione: politica,
culturale, linguistica, intellettuale, morale, ... l’egemonia è in qualche
modo, proverei a dire, uno strumento ed un effetto, che opera nel garantire e
realizzare la prevalenza di uno verso l’altro. Sia esso una classe, o un blocco
storico, una nazione (come del caso). Il concetto, per essere compreso, va
connesso con la sua assenza, ovvero con il puro e semplice “dominio”. Dove il
potere è nudo, privo della necessaria componente del consenso, si ha quindi
solo l’esercizio brutale del “dominio”.
Ma il vero potere non si limita alla costrizione; si estende alle menti ed ai
cuori, si fa seguire in qualche modo volontariamente, coinvolgendo insieme: la
rappresentazione di sé che si costruisce, l’immagine del mondo, e la meccanica
dei valori e obiettivi, con la loro gerarchia. Si radica inoltre nella “base”
degli interessi, e dei bisogni, cui in qualche modo (secondo il filtro delle
rappresentazioni) l’egemone risponde, facendosene almeno in parte carico. Il
vero potere è dunque egemonia. Abbiamo, ad esempio egemonia tedesca in Italia,
quando volontariamente si sceglie di seguire la logica della moneta stabile e
forte, della deflazione come orizzonte, dell’austerità suo mezzo. L’egemonia ha
sempre un suo campo e, per chi vi appartiene, un coerente insieme di desideri,
effetti di dominio (verso qualche subalterno) inseparabili da effetti
identitari, e sempre risponde almeno a parte ai suoi interessi e bisogni
secondo la loro percezione.
Dunque le potenze realmente egemoniche,
come sono state quella olandese, inglese e americana al loro meglio, quando si
sono fatte carico, anche se diversamente, di produrre e distribuire beni
pubblici e senso, o come la Russia sovietica, che esportava una egemonia
potente, hanno riorganizzato in parte per effetto della loro base di potere, ma
in parte altrettanto importante (e inseparabile) per effetto della loro
struttura di valori, rappresentazioni coerenti, tecniche e regole, intorno a sé
porzioni decisive del mondo, rendendolo “sistema”. Cioè rendendolo capace di
funzionare insieme e creare le premesse per una accumulazione che ha anche
disciplinato, in qualche modo, i capitali incorporati entro le loro strutture e
quelli mobili (che fin che dura l’egemonia sono limitati). I capitali sono,
infatti, una sorta di rapporto sociale.
[52] - La divisione della potenza
doveva vedere in sostanza tre poli industriali dominanti nel campo occidentale
(Usa, Germania e Giappone) e uno nel campo sovietico (Urss). Poi, a completare
si potrebbe citare i poli secondari e subalterni (Italia, Francia e nel campo
socialista la Germania dell’Est) e quelli declinanti (Inghilterra).
[53] - Si veda, ad esempio, questa
altra descrizione della crisi in Massimo Amato e Luca Fantacci “Fine
della finanza”.
[54] - Si veda “Gig
economy o sharing economy?” e “Amazon
e il suo monopolio”. Quando Walmart apre un nuovo punto di vendita nel
territorio le reti di commercio di prossimità, anche le più forti ed organizzate,
cedono, non riuscendo a stabilire con i fornitori la stessa relazione di potere
schiacciante. La grande catena nata pochi anni fa da un solo punto vendita
nello stato di Bill Clinton e divenuta una delle multinazionali più grandi al
mondo, di cui abbiamo molte volte parlato (ad esempio qui), basa il suo
potere nell’unione perfetta di un monopsonio (di fatto diventa, per la sua
grandezza l’unico possibile acquirente per i suoi fornitori) e di un monopolio
(con i suoi prezzi diventa l’unico a vendere su un territorio), che si fondano
letteralmente l’uno sull’altro, e nel farlo devasta insieme la rete del piccolo
commercio, desertificando le città, e il mercato del lavoro, verso il quale il
monopsonio si estende. Se si ha la sfortuna di essere un lavoratore debole in
un territorio nel quale c’è uno dei giganti di WalMart, si può scegliere tra
essere senza lavoro ed esserne schiavo. Qualcuno potrebbe
dire, a questo punto, che è il capitalismo. In effetti lo è; il capitalismo è
una forma di organizzazione sociale per sua natura predatoria. La famiglia
Walton, che lo ha fondato nel 1962, ed ora è più ricca di 100 milioni di
americani con i suoi oltre 80 miliardi di dollari di patrimonio, ha solo
applicato il modello. Man mano che il lavoro si è indebolito, a partire dalla
rivoluzione reaganiana, un modello che mobilita capacità rese sottoutilizzate
dal crollo delle agenzie che proteggevano il lavoro dallo strapotere del
capitale ed al contempo offre alle stesse popolazioni marginali riduzioni di
costo (ottenute dallo sfruttamento selvaggio della debolezza di lavoratori e
fornitori), si è fatto progressivo ed irresistibile. Più si allarga lo strato
di lavoratori impoveriti, più una catena che offre salari di stretta
sussistenza per vendere prodotti a basso prezzo (e qualità), strangolando i
fornitori e costringendoli a loro volta ad abbassare i salari, è in vantaggio.
La competizione come unico criterio legittimo, essenza dello spirito del
capitalismo, alla fine porta alla concentrazione nelle stesse mani delle due
forme interrelate di monopolio.
[55] - Si veda, Paul Baran, Paul
Sweezy, “Il
capitale monopolistico”
[56] - Al momento si stima che il 64%
delle riserve valutarie mondiali siano detenute in dollari, il 26% in euro, il
4% in sterline e il 3,3% in yen. Di quelle in dollari 3.700 miliardi sono
detenuti dalla Cina, 1.200 dal Giappone, solo 430 complessivamente
dall’eurozona e 400 dalla Russia (che ne sta vendendo il 10%), seguono Taiwan
(300), Brasile (250), India (250), Corea del Sud (200), Hong Kong (180),
Singapore (165). Insomma il sud-est asiatico nel suo complesso ne detiene 6.200
miliardi, i principali paesi del resto del mondo 1.000.
[57] - Si veda “Sviluppi
della teoria della dipendenza”.
[58] - Si veda, Domenico Losurdo, “Il
marxismo occidentale”, 2018.
[59] - Come abbiamo visto nella Parte Seconda, qui è
d’obbligo riferirsi alla principale opera della scuola americana, l’ultima di
Paul Baran, “Il
capitale monopolistico”, scritto nel 1967 con Paul Sweezy. In esso
viene formulato una sorta di “teorema di impossibilità” nella fase
monopolistica del capitalismo. La rivoluzione sistemica nelle società del
centro capitalistico (monopolista) maturo non avviene dove si aspetta; questo
ha, infatti, una immensa capacità di coinvolgimento ed egemonica, ma anche, e
nella stessa logica produce una capacità di mobilitazione alle
periferie, che di necessità ne devono pagare il prezzo. Lo schema della
rivoluzione al culmine dello sviluppo delle forze produttive ne viene
rovesciato: le condizioni dell’instabilità sistemica del capitalismo non si
danno al centro, ma nelle sue periferie interconnesse e vitali per la sua
sopravvivenza, nel senso specifico che senza l’estrazione di ‘surplus
potenziale’ da queste esso resta condannato alla tendenza alla stagnazione e
quindi non è in grado di riprodurre il consenso al suo interno. Questa forma di
capitalismo, diretta e controllata dalle grandi imprese per azioni monopoliste
e multinazionali, è quindi strutturalmente imperiale e
organizzato di necessità per grandi catene di sfruttamento
internazionali. Catene che determinano l’estrazione di valore e la
contrapposizione tra la massima opulenza e la massima disperazione, entro e
fuori le cittadelle assediate delle metropoli occidentali.
[60] - David
Harvey, “The new imperialism”, 2003
[61] - Henry Lefebvre, “Spazio
e politica”, 1974,
[62] - Questa, almeno, è la tesi
unanime della “teoria della dipendenza”, conservata nel tempo almeno da Samir Amin.
[63] - Si veda la classica analisi di
Wolfgang Streeck, “Tempo
guadagnato”, 2013.
[64] - Thomas
Frank, “What’s the matter with Kansas? How the conservative won the heart
America”, Owl Books, 2005.
[65] - Si tratta di un effetto
largamente studiato. Si veda Andrew Spannaus, “La
rivolta degli elettori”, 2017.
[66] - La campagna di Trump è per molti
versi sorprendente, si veda ad esempio: George Lakoff “Nessuno
sa perché Trump sta vincendo. La risposta delle scienze cognitive”, o
“Donald Trump, Barac Obama, “Discorsi
di insediamento”.
[67] - Il “reshoring” è un fenomeno
strettamente economico e designa il rientro in patria delle aziende che in
precedenza avevano delocalizzato la produzione. In genere si tratta di aziende
collocate nei segmenti alti del prodotto che vogliono ulteriormente valorizzare
il proprio marchio, ma influiscono fattori come il costo dei trasporti,
connessi con i prodotti energetici (e la loro volatilità), la necessità di
avere linee di produzione più moderne e flessibili, e il fatto che nei paesi di
primo esodo (incluso la Cina) i salari si avvicinano a quelli occidentali (che
per lo più, al contrario, scendono). In Italia il fenomeno riguarda soprattutto
aziende della moda e dell’elettronica-elettrotecnica.
[68] - Questa differenza dipende
probabilmente dalla ricchezza e forza relativa e dalle masse in campo tra i
paesi europei, sempre in equilibrio instabile tra di loro e soggetti a continui
giochi triangolari, e la situazione del sud-est asiatico nel quale un grande e
ricco centro si trova circondato da stati antichi, singolarmente molto meno
forti ma in grado, come una muta di cani nei confronti di un leone, di fare
seri danni se coalizzati. La strategia meno costosa potrebbe essere stata in
questo contesto di pagare e corrompere, poi le pratiche diventano tradizione, e
le tradizioni diventano cultura.
[69] - Questa è poi una delle tesi
essenziali di tutta la scuola, e di un’ampia corrente storiografica che
continua a lavorare in questa direzione. Comunque c’è una essenziale
dissimmetria di lunga durata negli scambi tra il sistema europeo e quello
orientale, e dura fin tutto l’ottocento: in sostanza le merci vanno
dall’oriente all’occidente, mentre dall’occidente all’oriente vanno per lo più
metalli preziosi. La soluzione inglese, il famoso “commercio triangolare”
basato sulla conquista dell’India, è uno dei fattori decisivi (insieme all’altro
“triangolo” atlantico) per l’egemonia inglese ed europea.
[70] - La letteratura citata in questa
parte è essenzialmente cinese, si tratta di Jung-pang Lo, “Marittime commerce
and its relation to the Sung Navy”, 1969, Po-kueng Hui, “Overseas chinese business
networks: east asian economic development in historical prospective”, 1995,
Lien-sheng Yang, “Money and credit in China. A short
history”, 1952, Luquan Guan, “Songdai guangzhou de haiwai maoyi”, 1994,
Yoshinobu Shiba, “song foreign trade: its scope and organization”, 1983, ma
anche occidentale, Francesca Bray, “The rice economies: thecnology and
development in asian societies”, 1986, Mark Elvin, “The pattern of the chinese
past”, 1973, Ravi Palat, “Historical transformation in agranian system based on
wet-rice coltivation: toward an alternative model of social change” 1995.
[71] - La fonte di questa informazione
è cinese, si tratta di Gao Weinong, “Zou xiang jistsi de Zhongguo yu ‘chaogong’
guo guanxi”, 1993
[72] - Chase-Dunn,
Hall, “Rise and demise: comparing word-system”, 1997
[73] - Ferdinand Braudel, “Civiltà
materiale, economia e capitalismo”, 1982
[74] - Bin
Wong, “China trasformed. Historical change and the limits of european
experience”, 1997, p.146
[75] - Hosea Jaffe, in “Era
necessario il capitalismo?” ricorda l’articolo che
Marx scrisse per il “New York Tribune” nel 1853 sulla “rivoluzione in
Cina ed in Europa”. In esso prevedeva che “le prossime insorgenze dei popoli
europei e il loro movimento per la libertà repubblicana e un’economia di
governo dipendono probabilmente più da ciò che avviene nel Celeste Impero –
antitesi di ciò che è l’Europa – che da qualsiasi altra spinta politica in
atto, comprese le minacce della Russia e il rischio conseguentemente plausibile
di una guerra europea”. Ma “ciò che avviene nel Celeste Impero” era in effetti
la rivoluzione Taiping (1851-1864) piegata solo dalle truppe inglesi del
generale Gordon, ed era, niente di meno che, “la più grande lotta di classe
della storia”. Basata nella città di Nanchino ebbe come bersaglio la libertà
delle donne, la terra ai contadini, l’espulsione delle potenze straniere,
l’educazione popolare e l’eguaglianza dei cittadini. E come antitesi i poteri
coloniali. Malgrado questo esempio che giudica lui stesso “formidabile”, però
Marx alla fine sembra contrario. Il dilemma sembra essere il seguente: la
rivoluzione Taiping, in caso di successo, avrebbe potuto rovesciare il modo di
produzione del dispotismo asiatico dall’interno? Senza, cioè, passare per il
modo di produzione capitalistico e per la conseguente dominazione coloniale? Il Manifesto
dei Taiping, che al loro massimo ebbero oltre due milioni di combattenti,
prevedeva una società senza classi e l’eguaglianza universale, inoltre
l’abolizione della proprietà privata sui terreni, e l’espropriazione dei beni
dei proprietari per accedere ad una proprietà comunitaria della terra, inoltre
l’abolizione del commercio privato e l’eguaglianza tra i sessi, con messa al
bando di schiavitù, oppio, tabacco, alcol, poligamia, monarchia ed espulsione
dei colonialisti stranieri. Purtroppo, quando questi furono sconfitti e
sterminati dai cannoni inglesi, in un articolo del 1862 Marx dichiarò che
“nella lotta contro il marasma conservatore non sembrano avere introdotto altro
che forme grottesche di distruzione, senza alcun germe di rigenerazione”
(p.102).
[76] - Si tratta del movimento dei
paesi coinvolti nel Patto di Bandung,
che era stato siglato nel 1955 tra 29 paesi del “sud del mondo”, non tutti
socialisti. L’elemento unificatore di questo accordo è la lotta al
colonialismo, che unisce l’Egitto di Nasser, l’India di Nehru, l’Indonesia di
Sukamo, la Cina di Zhou Enlai. Successivamente, nel 1961, e quindi poco prima
di questa conferenza, alla conferenza di Belgrado si propone la linea del “non
allineamento”, con ben 120 stati (l’attuale presidente è Maduro).
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