Come
noto l’art.3 della nostra Costituzione repubblicana, relatore l’on. Lelio
Basso, recita:
“Tutti
i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza
distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche,
di condizioni personali e sociali.
E` compito della Repubblica rimuovere gli
ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e
l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana
e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica,
economica e sociale del Paese”.
Si
tratta di un articolo straordinario.
Che
ancóra il pari diritto di tutti a compiti positivi in capo alla Repubblica per
attuarli. Probabilmente l’articolo meno applicato dell’intera Carta ed il
principale presidio alla democrazia nel nostro paese.
Per
comprenderne meglio il senso vale, però, la pena di risalire al dibattito costituzione[1]. Siamo al 11 settembre 1946,
la prima formulazione sottoposta alla discussione in Commissione fu:
«Gli
uomini, a prescindere dalla diversità di attitudini, di sesso, di razza, di
classe, di opinione politica e di religione, sono eguali di fronte alla legge ed
hanno diritto ad eguale trattamento sociale.
«È
compito della società e dello Stato eliminare gli ostacoli di ordine
economico-sociale che, limitando la libertà e l'uguaglianza di fatto degli
individui, impediscono il raggiungimento della piena dignità della persona
umana ed il completo sviluppo fisico, economico e spirituale di essa».
Ci
sono delle differenze:
1. all’avvio
sono indicati come soggetti dei diritti “gli uomini”, mentre nella formulazione
finale è “i cittadini”.
2. La
“pari dignità sociale”, che è l’oggetto del diritto scolpito dalla norma, nella
formulazione iniziale era un “trattamento sociale”.
3. Il
compito di erogare questo diritto è, da una parte della “Repubblica”, dall’altro
della “società e dello stato”.
4. Soprattutto,
gli ostacoli da rimuovere nel testo finale impediscono “il pieno sviluppo
della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori
all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”, mentre in
quello inizialmente proposto impedivano “il raggiungimento della piena dignità
ed il completo sviluppo fisico, economico e spirituale in essa”. Manca la precisazione
fondamentale circa l’obbligo della Repubblica di garantire “l’effettiva
partecipazione” di “tutti lavoratori” all’organizzazione del paese.
Vediamo
dunque come si passa, e perché, da una versione all’altra.
Intanto
sarà il liberale Roberto Lucifero a proporre, nella Commissione dei 75[2], di sostituire il
cosmopolita “gli uomini” (che rinviava alla Costituzione americana, con il suo
incipit indimenticabile) con “i cittadini”. Quindi il “qualunquista”[3] Ottavio Mastrojanni a
chiedere per primo conto della dizione “hanno diritto all’eguale trattamento
sociale”, accompagnato dal liberale Lucifero, per il quale basta l’eguaglianza
di fronte alla legge (ovvero quella formale).
Immediatamente
Palmiro Togliatti, del Pci, replicò che si tratta di voler porre “la tendenza della
nuova Costituzione ad incanalare lo sviluppo della nostra società verso una
maggiore eguaglianza”. E, aggiunse il relatore, Lelio Basso, Partito Socialista
Italiano di Unità Proletaria, “che
non basta l'eguaglianza puramente formale, come quella caratteristica della
vecchia legislazione, per dire che si sta costruendo uno Stato democratico, ma
che invece l'essenza dello Stato democratico consista nella misura maggiore
o minore del contenuto che sarà dato a questo concreto principio sociale.
Naturalmente i primi articoli della Costituzione non possono essere delle norme
concrete di politica applicazione, ma delle direttive indicate al legislatore
come un solco in cui egli debba camminare, come affermazione della finalità
cui la democrazia tende e cioè verso l'eguaglianza sociale”.
Ribadirono
il punto di opposizione, tra un diritto formale esigibile, ed un diritto
sostanziale di difficile attuazione e quindi foriero di promesse non
mantenibili, o comunque troppo vaghe, l’on. Caristia, Dc, e ancora Mastrojanni.
Mentre affermò il suo consenso l’on. Aldo Moro, Dc, sottolineando correttamente
il tono dinamico del secondo diritto.
Al
principio della discussione si scontrano quindi, ed immediatamente, le due
grandi famiglie ideologiche del novecento, quella liberale e quella socialista.
Questo scontro, che allora vide aspramente sconfitta la componente liberale,
per la convergenza della sensibilità socialista e di quella democratica
cristiana e, soprattutto, per l’immediata vicinanza dell’esperienza del fascismo,
si riproduce da allora costantemente nella vista del paese. È il principale
motivo per prestarvi la dovuta attenzione.
Andiamo
con ordine.
Interverrà
quindi Giuseppe Dossetti, della Dc, proponendo di aggiungere, dopo “razza”
anche “e di nazionalità” tra gli elementi da non discriminare, ovvero quelli
che lasciano invariata l’eguaglianza formale. Su questo punto, apparentemente
secondario, l’on. Cevolotto, Democrazia del Lavoro, dissentirà subito in quanto
a suo parere la cosa implicherebbe che per lo Stato italiano siano eguali a
priori tutti gli “uomini” di qualsiasi nazionalità.
In
questa giornata il testo divenne quindi: «Gli uomini, a prescindere dalla diversità di attitudini, di
sesso, di razza, di nazionalità, di classe, di opinione politica e di
religione, sono uguali di fronte alla legge ed hanno diritto ad uguale
trattamento sociale».
E,
dopo varie resistenze di ultima istanza, «È compito perciò della società e dello Stato eliminare gli
ostacoli di ordine economico-sociale che, limitando di fatto la libertà e
l'uguaglianza degli individui, impediscono il raggiungimento della piena
dignità della persona umana e il completo sviluppo fisico, economico, culturale
e spirituale di essa».
Il
progetto costituzione passò allora dalla Commissione all’Assemblea Costituente.
Siamo al 4 marzo 1947. L’on Lucifero tornò subito alla carica, riaffermando la
vaghezza della formulazione, la quale nella sua ampiezza gli appariva di “pericolo
enorme”.
Vale
la pena riportare il suo intervento, perfetta espressione dello spirito
liberale: il punto è la “rimozione degli ostacoli”.
“…Perché
io vorrei sapere cosa succederebbe se un giorno dovessero applicarla, ad
esempio, i due poli costituiti da me e dall'onorevole Togliatti. Io non so, ma
probabilmente io rimuoverei l'onorevole Togliatti e l'onorevole Togliatti
rimuoverebbe me, perché tutte e due siamo un ostacolo, secondo la nostra
concezione, a che una determinata ideologia si compia. Ora, quale deve essere
la funzione della Costituzione? La funzione della Costituzione deve essere di
far sì che se io arrivassi ad avere la maggioranza, non potessi rimuovere
l'onorevole Togliatti e che se l'onorevole Togliatti arrivasse ad avere la
maggioranza non potesse rimuovere me; ed ognuno di noi possa continuare
liberamente a sostenere il proprio pensiero. Giacché con il tempo
l'interpretazione diventa estensiva e questi articoli che possono far sorridere
un giurista o un costituzionalista perché privi di contenuto, ad un certo
momento il loro contenuto lo trovano; e visto che non ne hanno uno proprio,
assumono quel contenuto che in quel determinato momento gli vuole dare chi è
più forte. La Costituzione è fatta per le minoranze e non per le maggioranze,
per tutelare i pochi e non i molti. I molti non hanno bisogno di Costituzione;
hanno la forza”.
Risponderà,
in modo molto eloquente, il giorno dopo l’on. Renzo Laconi, del Pci, lo riporto
per esteso:
“La Repubblica, giustamente diceva
ieri l'onorevole Calamandrei, è una forma definitiva di regime. La decisione
sulla forma repubblicana è sottratta alla nostra competenza di costituenti,
perché il popolo stesso si è espresso su questo punto e ha dichiarato la sua
volontà.
A noi, altro spetta. A
noi spetta fare in modo che questo regime sia un regime democratico
conseguente, sia un regime, cioè, progressivo, orientato verso forme nuove,
deciso ad elevare il popolo dalle sue miserie, un regime pacifico che si
inserisca nella comunità dei popoli liberi con volontà di pace e di
collaborazione. E per poter essere quello che noi vogliamo, questo regime
deve essere fondato su due principî fondamentali: sulla sovranità popolare e
sulla posizione preminente del lavoro.
Deve essere un regime
orientato: non l'ho affermato a caso, onorevole Lucifero. Ieri lei diceva che
dobbiamo creare un regime afascista. Io credo che questo non sia l'orientamento
che il popolo italiano ci indica. Per chi pensa che il regime fascista sia
stato soltanto una specie di crisi di crescenza, una malattia infantile o
giovanile del popolo italiano, per questi il fascismo potrà essere qualche cosa
di facilmente dimenticabile.
Per chi nel fascismo
vede l'espressione di una contraddizione finale di tutto un regime, che ha
almeno un secolo di storia in Italia, per chi nel fascismo ha visto e vede la
rovina del nostro Paese, io credo non si possa parlare di Costituzione
afascista, si deve parlare di Costituzione antifascista. In questo senso,
tenendo conto di queste istanze, noi dobbiamo quindi giudicare il progetto che
ci è offerto.
Risponde esso alla
volontà del popolo? Traduce queste esigenze storiche ed in quale misura le
traduce?
Queste sono le domande
cui dobbiamo dare una risposta, e io credo che, in questo senso, noi
possiamo salutare con soddisfazione l'affermazione solenne dei diritti civili e
politici del cittadino, che troviamo in testa a questo progetto:
l'affermazione della libertà personale, della inviolabilità del domicilio,
della inviolabilità di corrispondenza, della libertà di riunione e di
associazione, della libertà di stampa, di azione in giudizio. Libertà tutte che
importa riaffermare soltanto in quanto sono state negate, soltanto in quanto
noi siamo chiamati a fare una Costituzione dopo il fascismo, dopo la tirannide,
soltanto in quanto noi ci troviamo a dovere polemizzare con tutto un regime e
con tutto un sistema. In questo senso l'affermazione di queste libertà ha oggi
un valore ed un significato.
Ma io credo che a
nulla servirebbe questa condanna del passato. Questa affermazione di diritti e
di libertà credo si ridurrebbe a qualcosa di dottrinario e di vuoto se noi non
ci proponessimo, attraverso la Costituzione, di distruggere le condizioni
attraverso le quali il fascismo si è affermato ed ha potuto negare le liberta
dei cittadini; se
noi non ci proponessimo di consolidare nel nostro Paese uno schieramento di
forze che sia interessato alla democrazia, se noi non ci proponessimo, cioè, da
un lato di abbattere i nemici della democrazia, di restringere il potere dei
gruppi privilegiati che vogliono sacrificare e distruggere le nostre libertà, e
dall'altro di rafforzare il blocco popolare, di dare al popolo la strada aperta
verso l'avvenire. Se non facessimo questo, io penso che inutilmente le tavole
della Costituzione potrebbero riaffermare le libertà dei cittadini ed i
principî fondamentali della democrazia. Noi siamo chiamati quindi ad un compito
nuovo, che consiste nell'introdurre principî e diritti nuovi nella Costituzione
italiana, e nel prevedere le forme e i metodi attraverso i quali il legislatore
di domani potrà dare pratica attuazione a questi principî, potrà concretare
questi diritti.
In questo senso,
all'articolo 7 della Costituzione va affermato che è ufficio della
Repubblica «rimuovere gli ostacoli d'ordine economico e sociale che limitano di
fatto la libertà e la eguaglianza degli individui e impediscono il completo
sviluppo della persona umana». In questo senso è affermato, cioè, che lo
Stato non deve limitarsi ad un riconoscimento formale delle libertà e dei
diritti del cittadino, ma deve intervenire nella vita sociale, economica e
politica per rendere effettivo il godimento di questi diritti. Così lo
Stato interverrà a tutelare la famiglia, ad assicurarle le condizioni minime di
esistenza; così lo Stato interverrà ad assicurare ad ogni cittadino, che abbia
capacità e merito, l'insegnamento scolastico.
[...]
Ma certo, onorevoli
colleghi, la garanzia suprema, la garanzia decisiva che questi principî, queste
direttive verranno attuati, che questi diritti verranno tradotti in realtà, non
sta in quei pochi elementi di economia nuova che vengono immessi nel corpo
della Costituzione; ma sta in qualche altra cosa. La garanzia suprema e
decisiva che il nostro Paese si orienterà realmente sulla strada di un
rinnovamento sociale sta nella democraticità assoluta dell'ordinamento dello
Stato, sta nella partecipazione effettiva di tutti i lavoratori — come è
detto nel primo articolo — alla vita sociale, economica, politica del Paese;
sta nel fatto che tutto l'ordinamento dallo Stato poggi sul principio della
sovranità popolare.”
Il
punto qui in discussione è dunque la sovranità popolare e l’attiva distruzione
delle condizioni sociali in primo luogo, e giuridiche, che favorirono il crollo
nel fascismo. Questo significa, e per questo è attuale, tenere fermo ed
affermare il compito, in capo alla Repubblica, di rimuovere gli ostacoli d’ordine
economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e, la
partecipazione dei lavoratori alla vita sociale, economica e politica.
L’articolo
3 è stato concepito, e per questo approvato con larga convergenza di forze,
come presidio essenziale al ritorno del fascismo. Ovvero delle condizioni sociali
che lo rendono possibile.
Aggiungerà,
il 6 marzo, Lelio Basso un intervento straordinario:
“L'operaio che vive oggi nella
grande fabbrica, l'operaio che vive oggi nella disciplina della divisione del
lavoro, l'operaio che fa continuamente la stessa vite, lo stesso dado, la
stessa molla, sa che la sua vite, sa che il suo dado, sa che la sua molla non
hanno alcun senso, presi in se stessi; ma che fanno parte del lavoro
collettivo. L'operaio sa che il suo lavoro, la sua opera, la sua stessa vita,
assumono un valore nell'armonia dello sforzo collettivo. L'operaio sa che la
macchina che esce dalla sua officina non è una somma di pezzi freddi e uguali,
ma è l'armonia dell'opera complessiva, sa che la macchina non è una semplice
somma di viti o di dadi, ma che le viti e i dadi hanno un senso in quanto sono
parti della macchina.
Ed è da questa
esperienza che nasce la nostra esperienza; oggi la società non si può considerare una somma di
individui, perché l'individuo vuoto non ha senso se non in quanto membro
della società. Nessuno vive isolato, ma ciascun uomo acquista senso e
valore dal rapporto con gli altri uomini; l'uomo non è, in definitiva, che un
centro di rapporti sociali e dalla pienezza e dalla complessità dei nostri
rapporti esso può soltanto trovar senso e valore”.
Questo
breve abbozzo dell’antropologia socialista, non a caso connesso con l’esperienza
derivante da l’organizzazione di massa del lavoro, informa il principale punto
di divergenza con la visione liberale, come immediatamente Basso sottolinea:
“E allora anche le nostre concezioni
politiche e giuridiche assumono un significato diverso. Non si tratta più di
contrapporre l'individuo allo Stato, intesi quasi come entità astratte e
lontane l'una dall'altra. Si tratta di realizzare invece la vita collettiva
dalla effettiva partecipazione di tutti i mezzi.
Ecco allora il senso
dell'espressione dell'articolo primo del nostro progetto, che è per questa
parte opera mia, e che l'onorevole Calamandrei citava l'altro giorno, là dove
si dice che la «Repubblica italiana ha per fondamento il lavoro e la partecipazione
effettiva di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e
sociale del Paese»; appunto, perché oggi non concepiamo più l'uomo come
individuo contrapposto allo Stato, ma, al contrario, concepiamo l'individuo
solo come membro della società, in quanto centro di rapporti sociali, in quanto
partecipe della vita associata. La Repubblica, espressione della vita
collettiva, trae il suo senso e il suo significato solo dalla partecipazione
effettiva di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e
sociale.
Ed ecco anche il senso
del lavoro, inteso come fondamento della Repubblica; altra espressione che è
stata criticata. Perché noi non facciamo, e non vogliamo fare, una
Repubblica di individui, ma vogliamo fare non una Repubblica di individui
astratti, una Repubblica di cittadini che abbiano solo una unità giuridica,
vogliamo fare la Repubblica, lo Stato in cui ciascuno partecipi attivamente per
la propria opera, per la propria partecipazione effettiva, alla vita di tutti.
E questa partecipazione, questa attività, questa funzione collettiva, fatta
nell'interesse della collettività, è appunto il lavoro; e in questo, penso, il
lavoro è il fondamento e la base della Repubblica italiana”.
La
distanza di questa altissima formulazione dalla versione liberale che allora,
come ora, vi si contrappone e che concepisce nell’individuo un centro vuoto ed
indipendente di astratte “libertà”, implicitamente pensate secondo il modello
del possesso, non potrebbe essere più ampia ed anche più consapevole. E’, in
sostanza Lelio Basso che la successiva riscrittura della Costituzione da parte
neoliberale, e forzata dai Trattati europei, vuole insistentemente eliminare
dalla nostra storia.
Continua
l’esponente socialista:
“Ed
ecco perché noi pensiamo che sia errata la concezione a cui parecchi colleghi
si sono sovente inspirati nella redazione degli articoli, e che si trova nel
progetto della nostra Costituzione che la democrazia si difende, e si difende
la libertà, e si difendono i diritti del cittadino, limitando i diritti dello
Stato, limitando l'attività o le funzioni dello Stato. Concezione che si
inspira sempre a quella che noi riteniamo una contrapposizione superata fra
individuo e Stato. Noi pensiamo che la democrazia si difende, che la libertà
si difende non diminuendo i poteri dello Stato, non cercando di impedire o di
ostacolare l'attività dei poteri dello Stato, ma al contrario, facendo
partecipare tutti i cittadini alla vita dello Stato, inserendo tutti i
cittadini nella vita dello Stato; tutti, fino all'ultimo pastore
dell'Abruzzo, fino all'ultimo minatore della Sardegna, fino all'ultimo
contadino della Sicilia, fino all'ultimo montanaro delle Alpi, tutti, fino
all'ultima donna di casa nei dispersi casolari della Calabria, della
Basilicata. Solo se noi otterremo che tutti effettivamente siano messi in
grado di partecipare alla gestione economica e politica della vita collettiva,
noi realizzeremo veramente una democrazia”.
Per
Basso, è chiaro, la democrazia “si realizza”, è un processo dinamico e costantemente
in crescita, mentre per i liberali che vi si contrappongono è un dispositivo
giuridico, non a caso per loro non è “antifascista”, ma “afascista”.
E
finisce per precisare:
“Su questa via della effettiva
partecipazione di tutti, qualche altra cosa si ritrova nella Costituzione: per
esempio, un maggiore riconoscimento, direi un riconoscimento integrale, della
eguaglianza della donna, e questo principio è affermato anche laddove si
ammette la partecipazione della donna nell'ordine giudiziario. Ma, nel
complesso, non direi che questo sia stato lo spirito che si è tenuto presente
in tutta la Costituzione. Non era certamente presente quando si è redatto
l'articolo 30, dove si dice che la Repubblica provvede con le sue leggi alla tutela
del lavoro. È una espressione un po' paternalistica, questa; comunque, se io
sono riuscito a rendere bene il senso della nostra concezione, è chiaro che quello
che noi desideriamo è che il lavoro sia finalmente soggetto e non oggetto della
storia; che i lavoratori siano finalmente i veri protagonisti della vita
politica; è chiaro che non si tratta di una Repubblica che dall'alto tutela
il lavoro, ma piuttosto di un lavoro che ha conquistata la propria maggiorità e
che permea di se stesso gli istituti della nuova Repubblica italiana”.
…
“Ciò che caratterizza
il nostro testo è appunto il dilatarsi della nozione di responsabilità da
quella unicamente verso se stessi, che è il fondamento dei diritti di libertà,
a quella più vasta di responsabilità verso i propri simili, che è il fondamento
dei diritti sociali.
I rapporti da uomo a
uomo si estendono oggi dall'ambito individuale, alla sfera più vasta
dell'ambito sociale; il che non è soltanto giusto dal punto di vista etico, ma
anche vero dal punto di vista storico. Oggi si prende atto che l'individuo si
avvantaggia del lavoro di tutti e dà a tutti il suo contributo. Questo
contributo è appunto il lavoro umano. Il rapporto concreto di solidarietà che
nel mondo moderno lega gli uomini non può essere che il lavoro. Se questo rapporto,
per ragioni che sono note agli studiosi di economia, può assumere un carattere
antagonista, non è men vero che abbiamo diritto di ritenere che verrà un giorno
in cui questo rapporto di lavoro sarà la base di una società più giusta”.
E,
infine, con formula fulminante:
“Può darsi che la critica dal punto
di vista giuridico di questo aspetto del problema sia giusta, ma io penso che
ogni lavoratore, leggendo questo documento, può capire che cosa si vuol dire. Che
cosa vuol dire infatti questo articolo primo della Costituzione? Vuol dire che
essa mette l'accento su tutto ciò che è lavoro umano, che essa mette l'accento
sul fatto che la società umana è fondata non più sul diritto di proprietà e di
ricchezza, ma sulla attività produttiva di questa ricchezza.
È il rovesciamento, insomma,
delle vecchie concezioni, per cui si passa dal fatto della ricchezza sociale a
considerare l'atto che produce questa ricchezza. E questo dà luogo a sviluppi
molto importanti. Il fatto della proprietà in sé può essere anche un fatto di
carattere egoistico, ma l'atto del lavoro è veramente un atto per sua natura
altruistico e determina un rapporto collettivo che dà un risalto anche al
carattere sociale dei diritti. In altri termini, mentre la proprietà può
isolare, il lavoro unisce, ed è da questa nozione dell'attività produttiva e
del lavoro — nozione che deve essere associata al diritto al lavoro — che
sgorgano tutti gli altri diritti sociali”.
Questa
posizione incontrò la dura opposizione del Partito dell’Uomo Qualunque, che tenne
una posizione strettamente liberale, ed in qualche grado qualche distinguo anche
dell’on. La Pira, Dc (che era estensore dell’art 1), che in un intervento[4] del 11 marzo tese a
distinguere, in risposta a Pietro Nenni, Psiup, il piano del politico da quello
dell’economico, e quindi del lavoro.
Il
13 marzo comunque, l’on. Francesco de Vita, Repubblicano, intervenne
sostanzialmente a favore dell’articolo, anche se lo radicò nell’insegnamento
mazziniano, e l’on. Aldo Moro richiamò l’art. 1, prima formulazione La Pira (che
allo stato recitava: “La Repubblica italiana ha per fondamento il lavoro e
la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori all'organizzazione politica,
economica e sociale del Paese”) che riassunse in questo modo “il senso
della disposizione: un impegno cioè del nuovo Stato italiano di proporsi e di
risolvere nel modo migliore possibile questo grande problema, di immettere
sempre più pienamente nell'organizzazione sociale, economica e politica del
Paese quelle classi lavoratrici, le quali, per un complesso di ragioni, furono
più a lungo estromesse dalla vita dello Stato e dall'organizzazione economica e
sociale”, non si trattava, cioè, di dire, come qualche liberale temeva, che i “non
lavoratori” (es. i rentier, i possidenti, per estensione i ricchi) fossero
esclusi, perché per questi comunque vigono i pieni diritti giuridici e formali. Si
trattava essenzialmente “di un problema di carattere strettamente politico”.
Naturalmente
non mancarono mai accesi dibattiti, come quello del 14 marzo, tra l’on Guido
Russo Perez, del “Uomo qualunque” e le sinistre che accusò di aver introdotto
elementi della Costituzione russa e di introdurre surrettiziamente elementi che
avrebbero potuto portare allo stato socialista e propose quindi, ancora una volta,
di cassare l’intera seconda parte. Nel proporre l’attacco sembrò addirittura
lamentare la cattura a Dongo di Mussolini e accusare un paese diventato “sordo
e grigio” (riferimento al discorso di Mussolini al Parlamento Italiano).
Come
continuarono sempre a non mancare tentativi da parte liberale di annullare gli
articoli in oggetto. Il 15 marzo ci provò Orazio Condorelli[5], il 18 marzo Francesco
Saverio Nitti, Unione Democratica Nazionale, tentò di togliere “effettiva”, ancora,
il 20 marzo Mario Rodinò, dell’Uomo Qualunque, tornò all’attacco della
formulazione intera alla seconda parte dell’articolo[6].
Vale
la pena segnalare, anche se in parte laterale, l’appassionato, straordinario,
intervento[7] dell’on. Teresa Mattei,
Pci, che ribadì il senso delle lotte per l’emancipazione delle donne ed il loro
ruolo nel testo costituzionale in connessione con l’oggetto della discussione.
Il
22 marzo andò in votazione un emendamento a firma Basso ed altri che proponeva
di inserire all’art 1 il seguente testo: «L'Italia è una Repubblica democratica che ha per fondamento il
lavoro e la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori all'organizzazione
politica, economica e sociale». Si espressero contro Fanfani, Grassi, e si
astenne l’autonomista Valiani. Lelio Basso argomentò in replica che il
principio in oggetto, collocato all’art 1, anziché al 3 (ex 7), acquista il
rango e l’importanza che merita. Come dice:
“Credo che la trasposizione dall'articolo 1 all'articolo 7, anche
se questo dovesse diventare successivamente 3, sia una diminuzione del
significato di questo concetto di partecipazione effettiva dei lavoratori, in
cui noi ravvisiamo veramente il solo concetto nuovo che sia affermato come il
fondamento della Repubblica democratica italiana.
Ciò che contraddistingue
una nuova democrazia, che non sia semplicemente formale, ma che intenda
realmente fare appello a tutte le forze del lavoro, pensiamo che sia appunto
questa affermazione d'una partecipazione effettiva e non soltanto nominale, di
fatto e non soltanto di diritto, alla organizzazione politica, sociale ed
economica del Paese.
Pensiamo che inserire
questa dichiarazione nell'articolo 1 abbia veramente un significato
fondamentale, nel senso che si afferma che, se questa partecipazione non si
realizza e nella misura in cui non si realizza, non si realizza neppure la
democrazia; ossia l'articolo 1 resta un puro flatus vocis.
Questo è il significato
del nostro emendamento all'articolo 1.
Trasferito all'articolo
3, riteniamo che questo concetto perda la sua efficacia; epperciò insistiamo
nel votarlo in sede di articolo 1.”
Il
successivo 24 marzo il duello continuò.
L’on.
Condorelli ritentò di mutilare l’art.3 proponendo come emendamento: “È
compito della Repubblica integrare l'attività degli individui, diretta a
superare gli ostacoli d'ordine economico e sociale che limitano la libertà e
l'eguaglianza e impediscono il completo sviluppo della persona umana”.
Mentre
l’on Epicarno Corbino, Unione Democratica Nazionale, propose: «È compito
dello Stato rendere possibile il completo sviluppo della persona umana e la
partecipazione di tutti i cittadini all'organizzazione economica e sociale
della Nazione».
A
questi emendamenti l’on. Fanfani espresse, per la Dc, parere contrario,
dichiarando che la mera uguaglianza dei diritti si era storicamente rivelata
insufficiente e bisognava quindi andare oltre: “… Tuttavia partiamo dalla
constatazione della realtà, perché mentre con la rivoluzione dell'89 è stata
affermata l'eguaglianza giuridica dei cittadini membri di uno stesso Stato, lo
studio della vita sociale in quest'ultimo secolo ci dimostra che questa
semplice dichiarazione non è stata sufficiente a realizzare tale eguaglianza, e
fa parte della nostra dottrina sociale una serie di rilievi e di constatazioni
circa gli ostacoli che hanno impedito di fatto la realizzazione dei principî
proclamati nell'89. In vista di queste considerazioni, noi, pur apprezzando
l'intendimento dei nostri colleghi, manteniamo fermi il nostro voto e il nostro
apprezzamento”.
Dunque, nella giornata del 24 marzo 1947, al
termine della serrata discussione, furono approvati al fine gli emendamenti, “Laconi,
Moro ed altri”:
«È compito della Repubblica rimuovere gli
ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e
l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il completo sviluppo della persona
umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione
politica, economica e sociale dell'Italia».
E quindi l’art 3 divenne:
«I cittadini, senza distinzione di sesso, di
razza, di lingua, di condizioni sociali, di religione e di opinioni politiche,
hanno pari dignità sociale e sono eguali di fronte alla legge.
«È compito della Repubblica rimuovere gli
ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e
l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il completo sviluppo della persona
umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione
politica, economica e sociale dell'Italia».
La
partita era chiusa.
Ora,
e da tempo, stanno cercando di riaprirla. La memoria del fascismo e delle sue
cause sociali è tramontata (anche e soprattutto quando se ne parla a sproposito).
Chi
non conosce la sua storia rischia di riviverla.
[3] - Il Fronte dell’Uomo Qualunque
aveva eletto alcuni Costituenti ed espresse sempre una posizione di tipo
liberale e fortemente anti-socialista.
[4] - “Finalmente, un ultimo
cenno su quanto diceva ieri l'onorevole Nenni: faremo uno stato di lavoratori?
Ma bisogna precisare. Pensiamo che se proprio la dimenticata nelle Costituzioni
precedenti è stata la società economica e quindi la tutela dei lavoratori,
questo volto produttivo e costruttivo dell'uomo, non può evidentemente non
esser messo in rilievo in una Costituzione nuova: sarà questo un aspetto nuovo
che assieme a quelli citati servirà a differenziare il tipo nuovo di
Costituzione rispetto a quello di tipo individualista.
Io pensavo proprio, in questi ultimi
giorni, leggendo un libro di un noto autore che fa in proposito delle preziose
osservazioni, che se voi vi immaginate lo Stato come poc'anzi ve lo ho
delineato — cioè come una società politica distinta da quella economica — voi
non potete confondere i due titoli — politico ed economico — che qualificano l'uomo.
Io, come uomo, come persona, indipendentemente dalla mia funzione produttiva,
sono membro di questa collettività politica, perché sono portatore di una
concezione della vita che trascende l'ordine economico e che faccio valere
architettonicamente nella politica. Quindi questo volto dell'uomo membro della
collettività politica bisogna metterlo in netto rilievo, distinguendolo da
quello dell'uomo lavoratore: il quale, quando esplica questa funzione speciale
e produttiva nelle sue varie forme, partecipa — deve, anzi, partecipare —
democraticamente e quindi attivamente a tutte le comunità economiche attraverso
le quali si organizza, dal basso all'alto, la società economica. Ma le due cose
vanno nettamente differenziate in base a questo principio della personalità
umana che è fatta a scala. C'è nella scala umana il gradino del lavoratore: ma
sopra c'è il gradino dell'uomo politico e al di sopra della economia e della
politica, c'è il grado supremo dell'uomo in colloquio diretto e immediato con
Dio. Quindi la nostra Costituzione deve avere questo volto del lavoratore, ma
con questa precisazione che è di estrema importanza giuridica e sociale.”
[5] - “Io penso che non ci sia
aderenza nella vostra dottrina alla libertà, ma che ci sia aderenza nel vostro
sentimento.
Ora, se conservassimo questa espressione,
potremmo cadere in errori gravissimi. Perché voi dite: «Ma noi con questa
espressione vogliamo raggiungere soltanto questo effetto: che i lavoratori
siano immessi nella cittadella dello Stato, ma non che ne siano esclusi gli
altri».
Ma guardate come può essere interpretata
questa parola «lavoratori». Io vi porto l'esempio di un economista, non
dell'avvenire, ma di oggi, uno dei più celebrati economisti di oggi — Pareto —
che distingue le classi sociali in rapporto alle occupazioni, e fa una
distinzione quadruplice: parla di occupazioni dirette a produrre beni economici
o servizi; poi di occupazioni che producono indirettamente dei beni economici —
e sarebbero appunto le occupazioni ausiliarie; probabilmente gli avvocati,
nella migliore delle accezioni, potrebbero appartenere a questa categoria
subliminale di lavoratori — poi c'è una terza categoria: gli oziosi; e infine
una quarta, che sarebbe costituita da coloro che attraverso un'attività legale
o illegale si impadroniscono dei beni altrui. Le prime due classi sono
probabilmente di lavoratori; dico probabilmente, perché per la seconda si
potrebbe discutere; ma gli oziosi non sono certamente dei lavoratori; e nessuno
si sentirebbe di mettere fra i lavoratori coloro che con mezzi legali o illegali
si appropriano dei beni altrui.
Ora, lo sapete da chi è costituita la
terza classe, quella degli oziosi? Da coloro che vivono di rendita e
amministrano il loro patrimonio. Questi sono degli oziosi, in quanto traggono
dal loro patrimonio qualche cosa di più, o molto di più, di quella che potrebbe
essere la remunerazione della loro attività di amministratori. Quel di più che
traggono li fa diventare degli oziosi, cioè dei non lavoratori. Nella quarta
categoria, naturalmente, ci entrerebbero tutti i proprietari, perché, secondo
la vostra dottrina, la proprietà è un mezzo attraverso il quale si espropria il
lavoro degli altri.
Voi vedete, anche interpretando le cose
alla luce del pensiero di un grande economista moderno, a che cosa si potrebbe
arrivare. Ma poi, guardiamo anche soltanto alla prima categoria. Oggi sareste
tutti pronti a dirmi che persone che rendono certi generi di servizi, che tutti
consideriamo poco leciti e poco decenti, certamente non sono dei lavoratori.
Come i sacerdoti, i religiosi, che pregano o che esercitano un ministero di
assistenza spirituale, sono dei lavoratori, perché esercitano una funzione che
concorre allo sviluppo della società. Ma lasciate che cambino queste posizioni
mentali, che divenga comune un certo modo di pensare, che è affiorato in questa
Assemblea, in questo dibattito, e allora vedrete che i sacerdoti, i religiosi,
gli spirituali saranno messi subito al livello degli indovini, dei
fattucchieri, degli stregoni, e perciò relegati senz'altro nella quarta
categoria, di coloro che con mezzi legali o illegali si appropriano dei beni
altrui.”
[6] - “Mi sembra, quindi,
opportunissimo stabilire e ricordare chiaramente all'inizio di questa
Costituzione, in un preambolo o in una disposizione generale (allo scopo di
dare una impostazione base ed una finalità inequivocabile a tutto il testo del
progetto) che la nostra esperienza — un'esperienza che ci è costata lacrime e
sangue, la morte dei figli e la distruzione del Paese — ci insegna che è lo
Stato accentratore e totalitario il principale nemico di quella autonomia e
dignità della persona umana, che l'articolo 6 intende proteggere e custodire; è
lo Stato accentratore e totalitario che va individuato e combattuto in tutte
quelle manovre e quei metodi che gli italiani di oggi conoscono e riconoscono,
ma, che quelli di domani potrebbero ignorare.
Ed è proprio in base alla nostra passata
esperienza ed ai nostri ricordi totalitari che mi dichiaro nettamente ostile
alla dizione dell'articolo 7 delle disposizioni generali, là dove esso assegna
alla Repubblica il compito quanto mai imprecisato, elastico ed equivoco di
«rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano la libertà e
l'uguaglianza degli individui, ecc.».
Questa equivoca dizione con la scusa di
tendere ad una sempre maggiore uguaglianza sociale e di favorire lo sviluppo
della persona umana, autorizza di fatto lo Stato a compiti ed azioni di così
vasta e complessa portata, che potrebbero essere realizzati soltanto da uno
Stato non meno autoritario e non meno totalitario di quello che è alla base di
tutte le nostre sventure”
[7] - “Vorrei solo sottolineare
in questa Assemblea qualcosa di nuovo che sta accadendo nel nostro Paese. Non a
caso, fra le più solenni dichiarazioni che rientrano nei 7 articoli di queste
disposizioni generali, accanto alla formula che delinea il volto nuovo, fatto
di democrazia, di lavoro, di progresso sociale, della nostra Repubblica,
accanto alla solenne affermazione della nostra volontà di pace e di
collaborazione internazionale, accanto alla riaffermata dignità della persona
umana, trova posto, nell'articolo 7, la non meno solenne e necessaria
affermazione della completa eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla
legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di condizioni sociali,
di opinioni religiose e politiche. Questo basterebbe, onorevoli colleghi, a
dare un preminente carattere antifascista a tutta la nostra Costituzione,
perché proprio in queste fondamentali cose il fascismo ha tradito l'Italia,
togliendo all'Italia il suo carattere di Paese del lavoro e dei lavoratori,
togliendo ai lavoratori le loro libertà, conducendo una politica di guerra, una
politica di odio verso gli altri Paesi, facendo una politica che sopprimeva
ogni possibilità della persona umana di veder rispettate le proprie libertà, la
propria dignità, facendo in modo di togliere la possibilità alle categorie più
oppresse, più diseredate del nostro Paese, di affacciarsi alla vita sociale,
alla vita nazionale, e togliendo quindi anche alle donne italiane la
possibilità di contribuire fattivamente alla costituzione di una società
migliore, di una società che si avanzasse sulla strada del progresso, sulla
strada della giustizia sociale. Noi salutiamo quindi con speranza e con fiducia
la figura di donna che nasce dalla solenne affermazione costituzionale.
Nasce e viene finalmente riconosciuta
nella sua nuova dignità, nella conquistata pienezza dei suoi diritti, questa
figura di donna italiana finalmente cittadina della nostra Repubblica. Ancora
poche Costituzioni nel mondo riconoscono così esplicitamente alla donna la
raggiunta affermazione dei suoi pieni diritti. Le donne italiane lo sanno e
sono fiere di questo passo sulla via dell'emancipazione femminile e insieme
dell'intero progresso civile e sociale. È, questa conquista, il risultato di
una lunga e faticosa lotta di interi decenni. Il fascismo, togliendo libertà e
diritti agli uomini del nostro Paese, soffocò, proprio sul nascere, questa
richiesta femminile fondamentale, ma la storia e la forza intima della
democrazia ancora una volta hanno compiuto un atto di giustizia verso i
diseredati e gli oppressi. In una società che da lungo tempo ormai ha imposto
alla donna la parità dei doveri, che non le ha risparmiato nessuna durezza
nella lotta per il pane, nella lotta per la vita e per il lavoro, in una
società che ha fatto conoscere alla donna tutti quei pesi di responsabilità e
di sofferenza prima riservati normalmente solo all'uomo, che non ha risparmiato
alla donna nemmeno l'atroce prova della guerra guerreggiata nella sua casa,
contro i suoi stessi piccoli e l'ha spinta a partecipare non più inerme alla
lotta, salutiamo finalmente come un riconoscimento meritato e giusto
l'affermazione della completa parità dei nostri diritti.
La lotta per la conquista della parità di
questi diritti, condotta in questi anni dalle donne italiane, si differenzia
nettamente dalle lotte passate, dai movimenti a carattere femminista e a base
spiccatamente individualista. Questo in Italia, dal più al meno, tutti lo hanno
compreso. Hanno compreso come la nostra esigenza di entrare nella vita
nazionale, di entrare in ogni campo di attività che sia fattivo di bene per il
nostro Paese, non è l'esigenza di affermare la nostra personalità
contrapponendola alla personalità maschile, facendo il solito femminismo che
alcuni decenni fa aveva incominciato a muoversi nei vari Paesi d'Europa e del
mondo. Noi non vogliamo che le nostre donne si mascolinizzino, noi non vogliamo
che le donne italiane aspirino ad un'assurda identità con l'uomo; vogliamo
semplicemente che esse abbiano la possibilità di espandere tutte le loro forze,
tutte le loro energie, tutta la loro volontà di bene nella ricostruzione
democratica del nostro Paese. Per ciò riteniamo che il concetto informatore
della lotta che abbiamo condotta per raggiungere la parità dei diritti, debba
stare a base della nostra nuova Costituzione, rafforzarla, darle un
orientamento sempre più sicuro.
È nostro convincimento, che, confortato da
un attento esame storico, può divenire certezza, che nessuno sviluppo
democratico, nessun progresso sostanziale si produce nella vita di un popolo se
esso non sia accompagnato da una piena emancipazione femminile; e per
emancipazione noi non intendiamo già solamente togliere barriere al libero
sviluppo di singole personalità femminili, ma intendiamo un effettivo progresso
e una concreta liberazione per tutte le masse femminili e non solamente nel
campo giuridico, ma non meno ancora nella vita economica, sociale e politica
del Paese.
Vorremmo a questo proposito far notare che
ad un attento esame del nostro progetto di Costituzione risulta evidente che là
dove si riconoscono alle donne i loro nuovi diritti parimenti ne escono
vantaggio e sicurezza nuova all'istituto familiare, alla fondamentale funzione
della maternità e alla piena realizzazione dei diritti nel campo del lavoro.
Ed egualmente, là dove si sancisce ogni
più importante e nuova conquista sociale è sempre compresa e spesso in forma
esplicita una conquista femminile. Non vi può essere oggi infatti, a nostro
avviso, un solo passo sulla via della democrazia, che non voglia essere solo
formale ma sostanziale, non vi può essere un solo passo sulla via del progresso
civile e sociale che non possa e non debba essere compiuto dalla donna insieme
all'uomo, se si voglia veramente che la conquista affermata nella Carta
costituzionale divenga stabile realtà per la vita e per il migliore avvenire
d'Italia.
Ma una cosa ancora noi affermiamo qui: il
riconoscimento della raggiunta parità esiste per ora negli articoli della nuova
Costituzione. Questo è un buon punto di partenza per le donne italiane, ma non
certo un punto di arrivo. Guai se considerassimo questo un punto di arrivo, un
approdo. Può questo riconoscimento costituzionale esser preso a conforto e a
garanzia dalle donne italiane, le quali devono chiedere e ottenere che via via
siano completamente realizzate e pienamente accettate nella vita e nel costume
nazionale le loro conquiste.
Vorrei fare osservare, onorevoli colleghi,
che nessun regime per principio, nei tempi moderni almeno, osa pronunziarsi
contro i diritti femminili in termini costituzionali.
Ricordiamo che vi fu un momento, circa 20
anni fa, in cui persino il fascismo si trovò in forse se concedere o no alla
donna per lo meno l'elettorato attivo nel campo amministrativo. E passi in quel
momento furono compiuti (ricordiamo qui il convegno che allora avvenne a
Firenze organizzato dalle Associazioni femminili di allora) perché questa
conquista fosse raggiunta. Questo diritto, lo sappiamo bene, fu subito dopo negato
dal fascismo non solo alle donne che lo chiedevano, ma tolto anche agli uomini
che già ne avevano goduto. Questo però ci indica chiaramente come ogni sistema
politico moderno, anche il più reazionario, sia guardingo nel negare alla
donna, in quanto donna, il godimento almeno formale dei suoi pieni diritti di
cittadina.
Perciò noi affermiamo oggi che, pur
riconoscendo come una grande conquista la dichiarazione costituzionale, questa
non ci basta. Le donne italiane desiderano qualche cosa di più, qualche cosa di
più esplicito e concreto che le aiuti a muovere i primi passi verso la parità
di fatto, in ogni sfera, economica, politica e sociale, della vita nazionale.
Non dimentichiamo che secoli e secoli di
arretratezza, di oscurantismo, di superstizione, di tradizione reazionaria,
pesano sulle spalle delle lavoratrici italiane; se la Repubblica vuole che più
agevolmente e prestamente queste donne collaborino — nella pienezza delle
proprie facoltà e nel completo sviluppo delle proprie possibilità — alla costruzione
di una società nuova e più giusta, è suo compito far sì che tutti gli ostacoli
siano rimossi dal loro cammino, e che esse trovino al massimo facilitata ed
aperta almeno la via solenne del diritto, perché molto ancora avranno da
lottare per rimuovere e superare gli ostacoli creati dal costume, dalla
tradizione, dalla mentalità corrente del nostro Paese.
Per questo noi chiediamo che nessuna
ambiguità sussista, in nessun articolo e in nessuna parola della Carta
costituzionale, che sia facile appiglio a chi volesse ancora impedire e frenare
alle donne questo cammino liberatore.
È purtroppo ancora radicata nella
mentalità corrente una sottovalutazione della donna, fatta un po' di disprezzo
e un po' di compatimento, che ha ostacolato fin qui grandemente o ha
addirittura vietato l'apporto pieno delle energie e delle capacità femminili in
numerosi campi della vita nazionale.
Occorre che questo ostacolo sia superato.
L'articolo 7 ci aiuta, ma esso deve essere accompagnato da una profonda
modificazione della mentalità corrente, in ogni sfera, in ogni campo della vita
italiana.
Ad esempio — voglio portare questo esempio
perché è tipico nel nostro Paese — anche qui, nella più alta Assemblea
rappresentativa d'Italia, nell'Assemblea che dovrebbe raccogliere gli uomini
più evoluti, gli uomini che più degnamente possono rappresentare le migliori
tradizioni e il progresso d'Italia, alcuni giorni fa, noi deputate — noi che
qui rappresentiamo tutte le donne italiane, le donne che attendono dal lavoro
dell'Assemblea miglioramenti e passi in avanti per il loro Paese e per tutti i
cittadini — abbiamo ancora una volta notato un'espressione comune e per noi
dolorosa di dispregio che un onorevole Deputato, che sta negli ultimi settori
della destra, ha usato, con la solita aria di disprezzo. Egli ha detto
precisamente: «Sono di genere femminile e quindi sempre infide». (Ilarità).
È questo un malvezzo che penetra ovunque,
che vive nel nostro linguaggio ormai come un luogo comune, che collabora a
deprimere la donna, relegandola sistematicamente in una sfera di vita inferiore
e semi-animale.
Onorevoli colleghi, anche qui dunque — e
questo purtroppo non è il solo esempio — fa capolino quella diffusa e negativa
mentalità. Non solo contro le espressioni del linguaggio, ma noi dobbiamo protestare
qui pur senza invadere il campo di prossime discussioni, e per dare un esempio
di quanto sia radicata questa mentalità deteriore, contro il malvezzo — e
speriamo che sia solo malvezzo — che ha portato perfino il Comitato di
coordinamento e di redazione della Commissione per la Costituzione ad includere,
nonostante che la seconda Sottocommissione non si fosse pronunciata al
riguardo, una forte limitazione per le donne nel campo della Magistratura.
L'articolo 98 suona infatti così: «I
magistrati sono nominati con decreto del Presidente della Repubblica, su
designazione del Consiglio Superiore della Magistratura, in base a concorso
seguito da tirocinio. Possono essere nominate anche le donne nei casi previsti
dall'ordinamento giudiziario».
Anche ammesso, come speriamo, che il
futuro ordinamento giudiziario sia ben migliore di quello vigente, noi non
possiamo ammettere che alle donne, in quanto tali, rimangano chiuse porte che
sono invece aperte agli uomini. (Commenti).
Sia tolto ogni senso di limitazione e sia
anzi affermato, in forma esplicita e piena, il diritto delle donne ad accedere,
in libero agone, ad ogni grado della Magistratura, come di ogni altra carriera.
Ma vi è di più — e questo dico per illuminare l'Assemblea sulla necessità di
aiutare le donne italiane nella realizzazione dei loro diritti e nella difesa
delle loro libertà —: occorre che nel nostro Paese non siano più ammesse
disposizioni pubbliche o private che limitino la libertà umana e in particolare
femminile, come la disposizione, ad esempio, che tuttora mi consta esistere e
che vieta a determinate categorie di infermiere di contrarre matrimonio, pena
la perdita del lavoro. Vi sono in Italia, fra queste particolari categorie,
innumerevoli casi di lavoratrici costrette ad una vita familiare irregolare,
numerose madri di figli illegittimi, solo perché, per non perdere il pane,
devono rinunciare a contrarre regolare matrimonio. È questa una disumana ed
immorale misura limitatrice della libertà, della dignità, della personalità
umana di lavoratrici incolpevoli e dei loro incolpevoli figli.
Per questa ragione io torno a proporre che
sia migliorata la forma del secondo comma dell'articolo 7 nel seguente modo:
«È compito della Repubblica rimuovere gli
ostacoli d'ordine economico e sociale che limitano «di fatto» — noi vogliamo
che sia aggiunto — la libertà e l'eguaglianza degli individui e impediscono il
completo sviluppo della persona umana».
Voi direte che questo è un pleonasmo. Noi
però riteniamo che occorra specificare «di fatto». Vogliamo qui ricordare
quello che avviene in altri paesi democratici. Si dice che l'Inghilterra sia un
paese democratico: ebbene, nella democratica Inghilterra le donne hanno
conquistato formalmente il riconoscimento della parità assoluta dei diritti
circa trent'anni fa, nel 1919. Ma ancora oggi in questa libera e democratica
Inghilterra, dove le donne dovrebbero godere di tutti i diritti come gli
uomini, poco si è fatto, perché ci si è limitati a sancire formalmente una
conquista, che poi nessuno ha voluto realizzare nella pratica. E là, dopo
trenta anni di vita democratica o di possibilità di vita democratica per le
donne, queste non hanno potuto accedere a tutti i posti che loro spettavano. E
noi vediamo che nella stessa Inghilterra è proibito, per esempio, di sposarsi
alle maestre, alle insegnanti di alcune categorie. Orbene, noi riteniamo che
questo esempio dell'Inghilterra possa servire per noi, che valga come
insegnamento, valga a chiarire che quelle conquiste che noi donne facciamo
nella vita nazionale — le conquiste giuridiche — non possono essere realizzate
pienamente nella vita, se non sono accompagnate da altre conquiste, da
conquiste di carattere sociale, economico, se non sono accompagnate, cioè, da
una completa legislazione in proposito.
Onorevoli colleghi, se osserviamo da
vicino questo progetto di Costituzione, malgrado il pessimismo più o meno
artificioso con cui lo si critica e deplora da parte dei gruppi che
rappresentano il passato e gli interessi della conservazione, possiamo
affermare che in esso è uno slancio verso il progresso, verso la giustizia,
verso la pratica attuazione di una società più umana, più giusta, migliore
dell'attuale.
Siamo convinti che questo slancio avrebbe
potuto essere più agile, più libero, che questa attuazione avrebbe potuto farsi
anche più rapidamente.
Ma già in questa forma molto si potrà
realizzare, ne siamo sinceramente convinte, se i grandi gruppi politici che
rappresentano le masse lavoratrici collaboreranno alla traduzione fedele nelle
leggi, nella vita e nel costume nazionale dei principî che nella Costituzione
sono affermati.
Se cioè esiste realmente da parte di
ognuno di questi gruppi la buona fede e la volontà realizzatrice, potremo con
questa Costituzione raggiungere più rapidamente una forma di società migliore,
che cancelli definitivamente le tracce, le rovine, i segni di oppressione del
fascismo, che ne distrugga nel profondo le cause.
E se vi è questa buona fede, come noi
desideriamo vi sia, allora dobbiamo realmente vedere in tutti i rappresentanti
delle lavoratrici e dei lavoratori la stessa volontà, nella forma più chiara,
più esplicita, più fattiva, di aiutare le donne italiane ad essere cittadine
coscienti.
Mazzini, e tutti i nostri grandi che hanno
pensato ed operato per l'avvento nel nostro Paese della Repubblica, ci hanno
insegnato che la pietra angolare della Repubblica, ciò che le dà vita e
significato, è la sovranità popolare.
Spetta a tutti noi, e lo afferma anche il
Presidente della Commissione per la Costituzione nella sua relazione
introduttiva, di partecipare attivamente alla gestione della cosa pubblica per
rendere effettiva e piena questa sovranità popolare. Ma, perché questo accada
veramente, occorre che accanto ai cittadini sorgano, si formino, lavorino le
cittadine; fatte mature e coscienti al pieno adempimento di tutti i loro
doveri, da quelli familiari ai civici, dal normativo ed educatore godimento dei
loro pieni diritti.
Aiutateci tutti a sciogliere veramente e
completamente tutti i legami che ancora avvincono le mani delle nostre donne e avrete
nuove braccia, liberamente operose per la ricostruzione d'Italia, per la sicura
edificazione della Repubblica italiana dei lavoratori. (Vivissimi applausi a
sinistra — Molte congratulazioni).”
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