Il
Manifesto di Srnicek e Williams è un
piccolo ed ambizioso testo del 2013, enfatico e notevolmente assertivo che ha
avuto una notevole fortuna ed enormi fraintendimenti. Come del resto tipico del
genere è particolarmente poco argomentativo, in pratica convince solo chi lo è
già (e può essere convinto solo qualcuno per cui il problema è essere “stimolato
intellettualmente”, come vedremo alla fine, non chi abbia più prosaiche e
volgari esigenze). In quanto esercizio intellettuale ed estetico manca, direi
completamente, di una idea politica sottostante. Qualcosa che consenta di
raccogliere le forze e di avviare la trasformazione. In particolare, non contiene
un’idea di transizione che commisuri mezzi ad obiettivi per portare al futuro
desiderato.
Ma
indica una direzione, che resterà più chiara nei libri successivi[1].
Si
comincia con un’affermazione di cui non è immediatamente chiara la base di
realtà: “All’inizio del ventunesimo secolo, la civiltà globale si trova ad
affrontare un nuovo tipo di cataclismi. Le apocalissi in arrivo
ridicolizzano le norme e le strutture organizzative della politica
forgiate con la nascita e l’ascesa dello Stato-nazione, l’ascesa del
capitalismo e le guerre senza precedenti del secolo scorso”.
Non
è poco come incipit. Intanto il soggetto che non esiste e neppure può esistere:
la civiltà globale.
Teniamolo
a mente perché è l’essenziale, si tratta di un singolare, “una” civiltà[2].
Poi
la minaccia, enfatica, si tratta di “cataclismi”, niente di meno che numerose “apocalissi”.
Ma, attenzione, “nuove”.
Questo
è l’implicito argomento: se sono nuove, allora il vecchio non le potrà
affermare. L’argomento poggia, cioè, su una cosmologia modernista[3]. Il “nuovo” è sempre meglio
del “vecchio”.
E
cosa è vecchio? Ovviamente norme e strutture dello stato nazione, ma
precisamente della “politica”. Anche qui c’è il moderno, ed anche qui c’è la
traccia per comprendere perché c’è “una” civiltà. E’ la non-politica. Vedremo
che, in effetti è semplicemente l’economia (ma, certo, “accelerata”).
Si
prosegue. Quali sono i cataclismi? Ma è ovvio, si tratta del “collasso del
sistema climatico del pianeta” che, niente di meno, “mette a rischio la
stessa sopravvivenza umana a livello globale”. Ovvero, immagino, fino all’ultimo
uomo sulla terra. Un’assurdità sul piano tecnico, in quanto il sistema
climatico non può “collassare” (non si capisce cosa significhi collassare per
un sistema climatico) ma, al massimo, “cambiare”. Nessuno mai parla di “collasso
climatico”, ma di “cambiamento climatico”. E questo può certo essere
gravissimo, rendere poco abitabili aree enormi, costringere i relativi popoli a
spostarsi, ma al converso renderebbe idonee aree che oggi non lo sono. Costerebbe
moltissimo, ma uomini ce ne saranno ancora, miliardi[4].
Alla
frase successiva l’apocalisse dell’estinzione del genere umano viene
derubricata inavvertitamente a “destabilizzate”. Perché ci sono problemi “non
meno destabilizzanti”, anche se minori (singolare mancanza di esattezza): “l’irreversibile
esaurimento delle risorse, in particolare quelle idriche ed energetiche”,
che lascia intravedere “carestie di massa, il crollo dei paradigmi economici e
nuove guerre calde e fredde”. Anche qui, la leggerezza incombe: come si fa ad
esaurire “le risorse”? Che cosa è una “risorsa”? In sé è solo una cosa che
serve a qualche uso, che è presa da una tecnica, quindi è correlata all’uso ed
alla tecnica. Può esaurirsi qualcosa che cambia sempre[5]? Cosa significa esaurire l’acqua
quando è la sostanza più comune sulla terra? Che cosa significa esaurire l’energia
se il sole ogni giorno ce ne fornisce diecimila di volte il nostro uso?
Significa che con le tecniche attuali possiamo prevedere un punto di
crisi? Si, indubbiamente. Ma che ne è della possibilità di cambiarle?
Subito
dopo si passa ad argomento del tutto diverso e completamente sconnesso
dal piano sul quale si era mossa la prima pagina. Ora attaccano l’austerità, e,
infine, la minaccia dell’automazione che minaccerebbe le classi medie nel
capitalismo.
Da
ultima arriva la verità.
Quel
che si sente attaccato, quel che si sente minacciato, è il “lavoro intellettuale”
delle classi medie.
E
a questa minaccia come si risponde? Attaccando il neoliberismo, ovviamente.
Ma
da quale punto di vista? Qui è la questione. Gli autori spendono un brevissimo
passaggio per enunciare quel che gli appare come una verità autoevidente: non ci
sono le condizioni per la socialdemocrazia, manca il lavoro di massa, l’industria
fordista, e le idee. Anche i movimenti “bolivariani” non ne hanno. Tutto si
riduce dunque, per gli autori, ad “una versione del localismo neoprimitivista,
come se per opporsi alla violenza astratta del capitale globalizzato bastasse
la fragile ed effimera ‘autenticità’ della comunità priva di mediazioni”.
Siamo
d’accordo, non basta.
Ed
allora? Qui entra, ancora inavvertito, la diade che cattura la mente moderna degli
autori, uomini pienamente illuministi, direi settecenteschi: “in assenza di una
visione sociale, politica, organizzativa ed economica radicalmente nuova,
…”
Insomma,
bisogna “recuperare il futuro in quanto tale”.
Certo,
gli autori sanno molto bene, inutile cercare di ingannarli, che è il
neoliberismo ad essere “accellerazionista”, che lo è il “capitalismo”. Ma egualmente
si deve andare nella direzione data, solo di più. Con un colpo di
prestigio piuttosto vuoto affermano, infatti, che il capitalismo corre veloce, ma
non accelera. Non è “anche navigazione, processo sperimentale di
scoperta nell’ambito di uno spazio universale di possibilità”.
Qualcuno
ha capito che cosa significa? Io no.
Vedo
solo che ci sono belle parole, potenti:
§ Navigazione,
§ Sperimentale,
§ Scoperta,
§ Spazio,
§ Universale,
§ Possibilità.
Chi
non le vorrebbe?
E
poi, il neoliberismo “riterritorializza”, “inaridisce la capacità cognitiva d’invenzione”[6]. È un espediente per
allontanare la crisi del valore degli anni settanta[7].
Ed
allora bisogna andare a Marx, il pensatore moderno,
quello che capiva il capitalismo come il più avanzato (ancora) sistema
economico mai esistito. Il più avanzato, certo, dato che la storia procedeva
dialetticamente e quasi per definizione ciò che c’è dopo è la sintesi più
avanzata delle forme precedenti. Srnicek ha ragione, in Marx questo c’è.
Ed
è abbastanza vero che per questo Marx “i suoi progressi non andavano
annullati ma, semmai accelerati, sospinti oltre i limiti della forma valore
capitalista”. Si può leggere ad esempio la sua posizione sul libero mercato,
esemplare di questa mossa[8]. E magari si può citare
anche il Lenin del 1918, che discuteva con i social-rivoluzionari di sinistra,
mentre i cannoni tuonavano ad occidente.
Quindi
la tesi è presto fatta:
“Come
Marx aveva ben compreso, l’agente della vera accelerazione non può essere
individuato nel capitalismo. E, allo stesso tempo, concepire la politica di
sinistra come antitetica all’accelerazione tecnosociale è, almeno in parte,
molto fuorviante. Al contrario, se la sinistra vuole avere un futuro deve sposare
senza riserve la sua repressa tendenza accelerazionista” (p.17).
Quindi
non deve stare con la “gente”, il locale, l’azione diretta, ma deve stare
con l’astrazione, la complessità, la globalità e la tecnologia.
Insomma.
Il futuro della sinistra è con le élite tecnoutopiste alle quali a tutta evidenza
appartengono gli autori. Il popolo meglio lasciarlo indietro con il suo
retrogrado bisogno di protezione, sicurezza[9].
Non
bisogna, però, ritornare al fordismo. Non tornare alla gerarchia delle colonie
e degli imperi (sarebbe interessante capire quando ne hanno visto la fine). Non
alle gerarchie sociali interne.
Ma
bisogna “liberare le forza produttive latenti” (certo, questo è Marx,
indubbiamente). Ma per farlo non bisogna distruggere la piattaforma del
neoliberismo, piuttosto reindirizzarla. Che vorrà dire? Aspettiamo.
C’è
un costrutto, intanto da annotare: “tecnosociale”.
E
c’è da annotare che si sta parlando strettamente di un lavoro intellettuale. Bisogna
che si “elabori una mappa cognitiva del sistema esistente e si crei per via
speculativa una immagine del futuro sistema economico”.
Ecco,
qui non c’è Marx. Si tratterebbe non di una prassi ma di
una teoria, di un alambicarsi nelle bettole del futuro.
Marx
era più umile.
Ma
come si fa anche questo? Certo non rifiutando il sapere tecnico (e chi pone mai
questo problema?). Si fa sviluppando una egemonia sociotecnica sul piano
delle idee e delle piattaforme. E poi con un certo grado di segretezza, di
direzione, di verticalismo. Una “Mont Pelerin Society” accelerazionista. Che crei
una nuova ideologia. E una riforma dei mezzi di comunicazione. Infine l’aggregazione
delle lotte parziali.
Creare,
cioè, una “nuova piattaforma tecnosociale postcapitalista”. Che determini
“una nuova politica proteica, di massima padronanza della società e del suo
ambiente”, per affrontare i problemi globali e sconfiggere il capitale[10]. Una nuova forma di azione
“improvvisativa, capace di realizzare un disegno attraverso una prassi in grado
di operare in situazioni che si rilevano solo in corso d’opera, con una
politica di maestria geosociale e di accorta razionalità” (p.31).
Un
futuro che “rafforzi gli affetti e sia, al tempo stesso, intellettualmente
stimolante” (appunto). Qualcosa che dia lo spazio ad un “cambiamento
onnicomprensivo”.
Come
si diceva in un vecchio film: non hanno idea di cosa dicono, ma ne sono così entusiasti.
[1] - Ovvero in “Inventare il futuro”, nel quale immaginano un
mondo “libero dal lavoro” ed ecologicamente sostenibile. All’opposto della “folk
politics” (locale meglio di globale) bisogna andare avanti e creare le
condizioni perché l’assoluta automazione di tutte le attività, nella piena
interconnessione, determini l’assoluta indipendenza di ciascuno. Oppure, Nick Srnicek
“Capitalismo digitale”, 2017, nel quale è analizzata l’economia delle
piattaforme.
[2]
- La costante polemica dell’autore
per il “piccolo” e per il “localismo”, ovvero per gli schemi che cercano identità
in favore di schemi universalisti, tradito molto bene nella definizione di “civiltà”
come singolarità, si connette con il tradizione “progressismo” della sinistra,
condiviso sin dall’inizio con il liberalesimo borghese (e da questo esercitato
come arma egemonica nei confronti dell’antico regime), e con l’adesione alla
continua destabilizzazione del sociale adoperata dal capitalismo, o per dirla
meglio propria del capitalismo, per liberare come risorse valorizzabili i
potenziali di lavoro e materiali incorporati in esso. Questa nozione di
progresso è ambivalente, da una parte nomina un enorme accrescimento della
somma dei beni e servizi, ovvero delle ‘merci’ marxianamente intese, dall’altra
riesce in tale effetto in quanto avviene un appropriamento individuale di
prodotti sociali (essi stessi).
[3]- Si veda per una critica, ad
esempio, Jean-Claude Michéa, “I
misteri della sinistra”.
[4]- Non sottovaluto il problema, ma questi
termini catastrofisti sono funzionali a farsi andare bene qualsiasi cosa,
quando, invece, è questione di capire che cosa di fa, per cosa.
[5] - Ad esempio per secoli è stata una
risorsa cruciale la legna, mentre era al massimo una curiosità l’olio della terra,
poi lo è diventato il carbon coke, per il progresso della tecnica di scavo
nelle miniere e le accresciute necessità energetiche della prima rivoluzione
industriale, quindi si è fatta strada la ‘risorsa petrolio’. Nessuna delle
risorse precedenti si è esaurita, ma la pressione su di esse è diminuita in quanto
una nuova risorsa si è aggiunta. Ci sono limiti a questo processo? Forse, ma ci
sono immani quantità di metalli che oggi non si estraggono perché non conviene
farlo allo stato della tecnica, ci sono riserve energetiche non rinnovabili
enormi che sono nella stessa categoria (ad esempio i 160 miliardi di barili
stimati alle sabbie canadesi, fino a 120 metri di profondità) e, soprattutto,
il sole emana all’anno 1x1012 GWh di energia (in assoluta
maggioranza sul mare) a fronte di fabbisogni energetici totali mondiali di 10.000
volte minori. Basti pensare che con le attuali tecnologie (e quindi rendimenti)
tutta l’energia necessaria al pianeta si potrebbe ottenere dal sole
direttamente utilizzando per impianti fotovoltaici lo 0,2% della superficie
adibita ad uso agricolo (escludendo aree urbanizzate e montuose).
[6] - Qui probabilmente il riferimento
è a Mark Fisher, “Realismo capitalista”, del 2007
[7] - Cosa che è almeno in parte vera.
[8] - Friedrich Engels “Dazio
protettivo e libero scambio”, 1888.
[10] - Attenzione. Qui bisogna togliere
dal campo un possibile equivoco, gli autori non compiono la mossa che sembrò
fare Marx alla conferenza per il libero scambio prima citata: non si tratta di
spingere il capitalismo perché accumuli contraddizioni che lo facciano crollare
prima. Non è marinettismo. Ma di sbloccare ciò che il capitalismo stesso frena.
Insomma, è una forma di utopia fondata su basi materiali che nel manifesto non
nominano, forse per paura dell’odiato keynesismo: basic income e stato sociale
protettivo. Ma senza lavoro. Ognuno dovrebbe ricevere dalla società interamente
automatizzata (con totale proprietà pubblica dei mezzi di produzione? Non è chiaro,
perché si rischierebbe l’altrettanto odiato socialismo reale) tutto quel che
gli consentirebbe di vivere “libero dal lavoro”.
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