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venerdì 1 novembre 2019

Alex Williams, Nick Srnicek, “Manifesto accellerazionista”





Il Manifesto di Srnicek e Williams è un piccolo ed ambizioso testo del 2013, enfatico e notevolmente assertivo che ha avuto una notevole fortuna ed enormi fraintendimenti. Come del resto tipico del genere è particolarmente poco argomentativo, in pratica convince solo chi lo è già (e può essere convinto solo qualcuno per cui il problema è essere “stimolato intellettualmente”, come vedremo alla fine, non chi abbia più prosaiche e volgari esigenze). In quanto esercizio intellettuale ed estetico manca, direi completamente, di una idea politica sottostante. Qualcosa che consenta di raccogliere le forze e di avviare la trasformazione. In particolare, non contiene un’idea di transizione che commisuri mezzi ad obiettivi per portare al futuro desiderato.
Ma indica una direzione, che resterà più chiara nei libri successivi[1].

Si comincia con un’affermazione di cui non è immediatamente chiara la base di realtà: “All’inizio del ventunesimo secolo, la civiltà globale si trova ad affrontare un nuovo tipo di cataclismi. Le apocalissi in arrivo ridicolizzano le norme e le strutture organizzative della politica forgiate con la nascita e l’ascesa dello Stato-nazione, l’ascesa del capitalismo e le guerre senza precedenti del secolo scorso”.
Non è poco come incipit. Intanto il soggetto che non esiste e neppure può esistere: la civiltà globale.



Teniamolo a mente perché è l’essenziale, si tratta di un singolare, “una” civiltà[2].

Poi la minaccia, enfatica, si tratta di “cataclismi”, niente di meno che numerose “apocalissi”. Ma, attenzione, “nuove”.
Questo è l’implicito argomento: se sono nuove, allora il vecchio non le potrà affermare. L’argomento poggia, cioè, su una cosmologia modernista[3]. Il “nuovo” è sempre meglio del “vecchio”.
E cosa è vecchio? Ovviamente norme e strutture dello stato nazione, ma precisamente della “politica”. Anche qui c’è il moderno, ed anche qui c’è la traccia per comprendere perché c’è “una” civiltà. E’ la non-politica. Vedremo che, in effetti è semplicemente l’economia (ma, certo, “accelerata”).

Si prosegue. Quali sono i cataclismi? Ma è ovvio, si tratta del “collasso del sistema climatico del pianeta” che, niente di meno, “mette a rischio la stessa sopravvivenza umana a livello globale”. Ovvero, immagino, fino all’ultimo uomo sulla terra. Un’assurdità sul piano tecnico, in quanto il sistema climatico non può “collassare” (non si capisce cosa significhi collassare per un sistema climatico) ma, al massimo, “cambiare”. Nessuno mai parla di “collasso climatico”, ma di “cambiamento climatico”. E questo può certo essere gravissimo, rendere poco abitabili aree enormi, costringere i relativi popoli a spostarsi, ma al converso renderebbe idonee aree che oggi non lo sono. Costerebbe moltissimo, ma uomini ce ne saranno ancora, miliardi[4].
Alla frase successiva l’apocalisse dell’estinzione del genere umano viene derubricata inavvertitamente a “destabilizzate”. Perché ci sono problemi “non meno destabilizzanti”, anche se minori (singolare mancanza di esattezza): “l’irreversibile esaurimento delle risorse, in particolare quelle idriche ed energetiche”, che lascia intravedere “carestie di massa, il crollo dei paradigmi economici e nuove guerre calde e fredde”. Anche qui, la leggerezza incombe: come si fa ad esaurire “le risorse”? Che cosa è una “risorsa”? In sé è solo una cosa che serve a qualche uso, che è presa da una tecnica, quindi è correlata all’uso ed alla tecnica. Può esaurirsi qualcosa che cambia sempre[5]? Cosa significa esaurire l’acqua quando è la sostanza più comune sulla terra? Che cosa significa esaurire l’energia se il sole ogni giorno ce ne fornisce diecimila di volte il nostro uso? Significa che con le tecniche attuali possiamo prevedere un punto di crisi? Si, indubbiamente. Ma che ne è della possibilità di cambiarle?
Subito dopo si passa ad argomento del tutto diverso e completamente sconnesso dal piano sul quale si era mossa la prima pagina. Ora attaccano l’austerità, e, infine, la minaccia dell’automazione che minaccerebbe le classi medie nel capitalismo.

Da ultima arriva la verità.

Quel che si sente attaccato, quel che si sente minacciato, è il “lavoro intellettuale” delle classi medie.
E a questa minaccia come si risponde? Attaccando il neoliberismo, ovviamente.

Ma da quale punto di vista? Qui è la questione. Gli autori spendono un brevissimo passaggio per enunciare quel che gli appare come una verità autoevidente: non ci sono le condizioni per la socialdemocrazia, manca il lavoro di massa, l’industria fordista, e le idee. Anche i movimenti “bolivariani” non ne hanno. Tutto si riduce dunque, per gli autori, ad “una versione del localismo neoprimitivista, come se per opporsi alla violenza astratta del capitale globalizzato bastasse la fragile ed effimera ‘autenticità’ della comunità priva di mediazioni”.

Siamo d’accordo, non basta.

Ed allora? Qui entra, ancora inavvertito, la diade che cattura la mente moderna degli autori, uomini pienamente illuministi, direi settecenteschi: “in assenza di una visione sociale, politica, organizzativa ed economica radicalmente nuova, …”
Insomma, bisogna “recuperare il futuro in quanto tale”.     

Certo, gli autori sanno molto bene, inutile cercare di ingannarli, che è il neoliberismo ad essere “accellerazionista”, che lo è il “capitalismo”. Ma egualmente si deve andare nella direzione data, solo di più. Con un colpo di prestigio piuttosto vuoto affermano, infatti, che il capitalismo corre veloce, ma non accelera. Non è “anche navigazione, processo sperimentale di scoperta nell’ambito di uno spazio universale di possibilità”.
Qualcuno ha capito che cosa significa? Io no.
Vedo solo che ci sono belle parole, potenti:
§  Navigazione,
§  Sperimentale,
§  Scoperta,
§  Spazio,
§  Universale,
§  Possibilità.
Chi non le vorrebbe?

E poi, il neoliberismo “riterritorializza”, “inaridisce la capacità cognitiva d’invenzione”[6]. È un espediente per allontanare la crisi del valore degli anni settanta[7].

Ed allora bisogna andare a Marx, il pensatore moderno, quello che capiva il capitalismo come il più avanzato (ancora) sistema economico mai esistito. Il più avanzato, certo, dato che la storia procedeva dialetticamente e quasi per definizione ciò che c’è dopo è la sintesi più avanzata delle forme precedenti. Srnicek ha ragione, in Marx questo c’è.
Ed è abbastanza vero che per questo Marx “i suoi progressi non andavano annullati ma, semmai accelerati, sospinti oltre i limiti della forma valore capitalista”. Si può leggere ad esempio la sua posizione sul libero mercato, esemplare di questa mossa[8]. E magari si può citare anche il Lenin del 1918, che discuteva con i social-rivoluzionari di sinistra, mentre i cannoni tuonavano ad occidente.

Quindi la tesi è presto fatta:
“Come Marx aveva ben compreso, l’agente della vera accelerazione non può essere individuato nel capitalismo. E, allo stesso tempo, concepire la politica di sinistra come antitetica all’accelerazione tecnosociale è, almeno in parte, molto fuorviante. Al contrario, se la sinistra vuole avere un futuro deve sposare senza riserve la sua repressa tendenza accelerazionista” (p.17).

Quindi non deve stare con la “gente”, il locale, l’azione diretta, ma deve stare con l’astrazione, la complessità, la globalità e la tecnologia.
Insomma. Il futuro della sinistra è con le élite tecnoutopiste alle quali a tutta evidenza appartengono gli autori. Il popolo meglio lasciarlo indietro con il suo retrogrado bisogno di protezione, sicurezza[9].

Non bisogna, però, ritornare al fordismo. Non tornare alla gerarchia delle colonie e degli imperi (sarebbe interessante capire quando ne hanno visto la fine). Non alle gerarchie sociali interne.
Ma bisogna “liberare le forza produttive latenti” (certo, questo è Marx, indubbiamente). Ma per farlo non bisogna distruggere la piattaforma del neoliberismo, piuttosto reindirizzarla. Che vorrà dire? Aspettiamo.
C’è un costrutto, intanto da annotare: “tecnosociale”.

E c’è da annotare che si sta parlando strettamente di un lavoro intellettuale. Bisogna che si “elabori una mappa cognitiva del sistema esistente e si crei per via speculativa una immagine del futuro sistema economico”.
Ecco, qui non c’è Marx. Si tratterebbe non di una prassi ma di una teoria, di un alambicarsi nelle bettole del futuro.
Marx era più umile.

Ma come si fa anche questo? Certo non rifiutando il sapere tecnico (e chi pone mai questo problema?). Si fa sviluppando una egemonia sociotecnica sul piano delle idee e delle piattaforme. E poi con un certo grado di segretezza, di direzione, di verticalismo. Una “Mont Pelerin Society” accelerazionista. Che crei una nuova ideologia. E una riforma dei mezzi di comunicazione. Infine l’aggregazione delle lotte parziali.

Creare, cioè, una “nuova piattaforma tecnosociale postcapitalista”. Che determini “una nuova politica proteica, di massima padronanza della società e del suo ambiente”, per affrontare i problemi globali e sconfiggere il capitale[10]. Una nuova forma di azione “improvvisativa, capace di realizzare un disegno attraverso una prassi in grado di operare in situazioni che si rilevano solo in corso d’opera, con una politica di maestria geosociale e di accorta razionalità” (p.31).

Un futuro che “rafforzi gli affetti e sia, al tempo stesso, intellettualmente stimolante” (appunto). Qualcosa che dia lo spazio ad un “cambiamento onnicomprensivo”.


Come si diceva in un vecchio film: non hanno idea di cosa dicono, ma ne sono così entusiasti.




[1] - Ovvero in “Inventare il futuro”, nel quale immaginano un mondo “libero dal lavoro” ed ecologicamente sostenibile. All’opposto della “folk politics” (locale meglio di globale) bisogna andare avanti e creare le condizioni perché l’assoluta automazione di tutte le attività, nella piena interconnessione, determini l’assoluta indipendenza di ciascuno. Oppure, Nick Srnicek “Capitalismo digitale”, 2017, nel quale è analizzata l’economia delle piattaforme.
[2] - La costante polemica dell’autore per il “piccolo” e per il “localismo”, ovvero per gli schemi che cercano identità in favore di schemi universalisti, tradito molto bene nella definizione di “civiltà” come singolarità, si connette con il tradizione “progressismo” della sinistra, condiviso sin dall’inizio con il liberalesimo borghese (e da questo esercitato come arma egemonica nei confronti dell’antico regime), e con l’adesione alla continua destabilizzazione del sociale adoperata dal capitalismo, o per dirla meglio propria del capitalismo, per liberare come risorse valorizzabili i potenziali di lavoro e materiali incorporati in esso. Questa nozione di progresso è ambivalente, da una parte nomina un enorme accrescimento della somma dei beni e servizi, ovvero delle ‘merci’ marxianamente intese, dall’altra riesce in tale effetto in quanto avviene un appropriamento individuale di prodotti sociali (essi stessi).
[3]- Si veda per una critica, ad esempio, Jean-Claude Michéa, “I misteri della sinistra”.
[4]- Non sottovaluto il problema, ma questi termini catastrofisti sono funzionali a farsi andare bene qualsiasi cosa, quando, invece, è questione di capire che cosa di fa, per cosa.
[5] - Ad esempio per secoli è stata una risorsa cruciale la legna, mentre era al massimo una curiosità l’olio della terra, poi lo è diventato il carbon coke, per il progresso della tecnica di scavo nelle miniere e le accresciute necessità energetiche della prima rivoluzione industriale, quindi si è fatta strada la ‘risorsa petrolio’. Nessuna delle risorse precedenti si è esaurita, ma la pressione su di esse è diminuita in quanto una nuova risorsa si è aggiunta. Ci sono limiti a questo processo? Forse, ma ci sono immani quantità di metalli che oggi non si estraggono perché non conviene farlo allo stato della tecnica, ci sono riserve energetiche non rinnovabili enormi che sono nella stessa categoria (ad esempio i 160 miliardi di barili stimati alle sabbie canadesi, fino a 120 metri di profondità) e, soprattutto, il sole emana all’anno 1x1012 GWh di energia (in assoluta maggioranza sul mare) a fronte di fabbisogni energetici totali mondiali di 10.000 volte minori. Basti pensare che con le attuali tecnologie (e quindi rendimenti) tutta l’energia necessaria al pianeta si potrebbe ottenere dal sole direttamente utilizzando per impianti fotovoltaici lo 0,2% della superficie adibita ad uso agricolo (escludendo aree urbanizzate e montuose).
[6] - Qui probabilmente il riferimento è a Mark Fisher, “Realismo capitalista”, del 2007
[7] - Cosa che è almeno in parte vera.
[8] - Friedrich Engels “Dazio protettivo e libero scambio”, 1888.
[10] - Attenzione. Qui bisogna togliere dal campo un possibile equivoco, gli autori non compiono la mossa che sembrò fare Marx alla conferenza per il libero scambio prima citata: non si tratta di spingere il capitalismo perché accumuli contraddizioni che lo facciano crollare prima. Non è marinettismo. Ma di sbloccare ciò che il capitalismo stesso frena. Insomma, è una forma di utopia fondata su basi materiali che nel manifesto non nominano, forse per paura dell’odiato keynesismo: basic income e stato sociale protettivo. Ma senza lavoro. Ognuno dovrebbe ricevere dalla società interamente automatizzata (con totale proprietà pubblica dei mezzi di produzione? Non è chiaro, perché si rischierebbe l’altrettanto odiato socialismo reale) tutto quel che gli consentirebbe di vivere “libero dal lavoro”.

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